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Irma Loredana Galgano

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“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)

25 venerdì Set 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FrancoGarelli, Gentedipocafede, IlMulino, recensione, saggio

Cosa è cambiato nella religiosità e, soprattutto, nella spiritualità degli italiani del nuovo millennio? Quanto contano oggi i valori di fede ed etica? Il multiculturalismo ha inciso anche sugli aspetti più intimi della spiritualità?
Questi e tanti altri interrogativi trovano una valida ed esaustiva risposta nel saggio pubblicato dalla Società Editrice ilMulino Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio. Un testo nel quale il professor Franco Garelli raccoglie e analizza i risultati di un’ampia indagine, quantitativa e qualitativa, su religiosità e spiritualità oggi in Italia. Uno studio accurato che riporta al lettore un dettagliato resoconto e una approfondita analisi della società italiana, indagata attraverso la spiritualità e la religiosità ma elaborata nel suo vivere “civile” e quotidiano.

«Viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità:

la religione non fa eccezione.»

Franco Garelli è stato ordinario di Sociologia dei processi culturali e di Sociologia delle religioni all’Università di Torino ed è membro dell’International Society for the Sociology of Religion. Ha svolto l’indagine con il supporto dell’Apsor (Associazione piemontese di sociologia delle religioni), dell’Ipsos, dell’Università di Torino, della Cei.
Uno studio che si rivela fin da subito interessante per il lettore. Per la capacità di aver abbracciato, inglobato e indagato tutti, o quasi, i temi di fede, spiritualità, etica e bioetica i quali, spesso, sono al centro del dibattito pubblico ma solo perché riferiti o conseguenza di eclatanti fatti di cronaca. Nel libro di Garelli invece, sono sviscerati con occhio critico sì ma obiettivo e, dalla attenta lettura dei dati e delle riflessioni riportate, il lettore riesce davvero a prendere coscienza di dove stanno andando Italia e italiani in questo Terzo Millennio ormai rodato.

Da alcuni anni a questa parte, l’Italia religiosa è in grande movimento: per la crescita dell’ateismo e dell’agnosticismo tra i giovani, per l’aumento di fedi diverse da quelle della tradizione, per la ricorrente domanda di forme nuove o alternative di spiritualità.
A farne le spese sembra essere “quel cattolicesimo che per molto tempo ha rappresentato la cultura comune della nazione, ma che appare in difficoltà a raccordarsi con la coscienza moderna, nonostante la presenza a Roma di papa Francesco”.
In Italia non sta avvenendo quello che alcuni definiscono rottura silenziosa della tradizione religiosa, cosa che starebbe accadendo in altri paesi del Centro-Nord Europa, tuttavia “su tutto il discorso c’è un warning generazionale, che getta una luce sinistra sulle sorti del cristianesimo, ma fors’anche sul futuro della religione”.
Gli indici di religiosità presentano un andamento a scalare direttamente proporzionale al diminuire dell’età.

Inoltre, tutti oggi – credenti e non credenti – interpretano e vivono la loro condizione in modo più libero e aperto rispetto al passato. “È il lato soggettivo della vita umana che prende il sopravvento anche sulle questioni religiose e informa il modo in cui le persone si definiscono e percepiscono in questa sfera della vita”.

Oltre ad essere più incerto, il credente di oggi sembra anche più solitario. Affronta in solitudine le vicende della vita, ma anche le sfide che l’epoca attuale pone alla fede religiosa.
Sfide che derivano, ad esempio, dal contatto con quanti professano altre fedi o credono laicamente. Oppure dalla difficoltà di orientarsi in una sfera etica e bioetica in continua evoluzione. Oppure ancora dal vivere in un mondo globale, “ricco di inquietudini e paure, di disuguaglianze e di squilibri, di spettacoli del dolore”.

Garelli ricorda ai lettori che, fin dagli anni della contestazione – ’68 e dintorni – , alcuni studiosi evocano l’idea che nella chiesa “sia in atto uno scisma sommerso”, per la distanza di molti cattolici dalla dottrina ufficiale nella sfera dei comportamenti sessuali e famigliari. Ora l’autore si domanda se si stia delineando uno scisma analogo attinente la dottrina sociale della chiesa.

Al di là del differente giudizio sul pluralismo religioso, che si snoda tra coloro che quasi auspicano un allineamento al “mondo globale” e chi, invece, si dichiara preoccupato per l’aumento di “simboli religiosi che modificano il paesaggio abituale e sfidano le certezze consolidate”, si osserva negli italiani una preoccupazione diffusa: “la difficoltà di far convivere nella stessa società gruppi che esprimono credenze e culture diverse, portatori di domande – religiose e sociali – non facilmente componibili in un quadro unitario”.
Le riserve maggiori sono rivolte all’islam e quello con i musulmani “resta un rapporto scomodo”, perché sovente connesso al discusso fenomeno dell’immigrazione nonché per le tensioni che accompagnano la presenza dell’islam in tutto l’Occidente.
Diverso approccio invece si denota nei confronti del cristianesimo ortodosso e delle fedi orientali, verso le quali si ritiene svilupparsi un interesse culturale e spirituale che tende ad arricchire la nazione.

Pur non mettendo in discussione l’idea di una “verità religiosa”, si attenua, rispetto al passato, la convinzione che vi sia una verità assoluta, custodita da una sola confessione religiosa, mentre tutte le altre sarebbero portatrici di mezze verità o di verità parziali o false, in un contesto in cui molti ritengono che tutte le religioni esprimano delle verità importanti per la condizione umana, e che ognuna di esse offra un percorso di avvicinamento a quella “verità ultima che tutti ci sovrasta”.

In poco più di due decenni, il gruppo dei non credenti è aumentato di circa un terzo, a fronte di una riduzione di circa l’8% dei credenti. I più coinvolti nel fenomeno dell’ateismo sono i giovani. Inoltre, la non credenza aumenta anche in maniera inversamente proporzionale al livello di scolarizzazione, passando da un 13% per le persone con licenza elementare o prive di titolo, a un 35% per i laureati.
I maggiori ostacoli al credere derivano, per atei e agnostici, dalla presenza del male nel mondo e dal dissidio tra scienza e fede, ragione e religione.

Una parte dei “senza religione” sembra farsi carico di una particolare missione: “contrastare la pretesa della chiesa di rappresentare i sentimenti più autentici della popolazione”, ovvero uscire dall’equivoco di identificare l’Italia tout court con l’Italia cattolica e rivendicare pari dignità di considerazione sia per le idee dei credenti sia per quelle dei non credenti.
E ciò, specificatamente, sulle questioni calde oggi al centro del dibattito pubblico: i temi di vita, famiglia, bioetica, gender, diritti degli omosessuali, laicità dello stato…

Oltre il 70% degli italiani condanna, almeno come dichiarazione di principio: evasione, sfruttamento della manodopera, lavoro nero, favoritismi, assenteismo, infrazioni e via discorrendo. Una percentuale che però scende notevolmente tra i 18-34enni, tra i quali vi è una più elevata percentuale di accettazione di tali comportamenti che dovrebbero essere anomali. E stupisce un ulteriore gruppo sociale per cui risulta egualmente difficile l’accettazione e il rispetto delle regole base della convivenza civile: i divorziati e separati.
In situazioni di forte disagio, sia esso generazionale o personale, sembra quindi svilupparsi una maggiore sfiducia istituzionale e marginalizzazione che porta a una disaffezione rispetto alle regole e a minori aspettative e speranze per il futuro, nonché alla rarefazione della volontà di impegnarsi per la realizzazione di progetti e per il raggiungimento di obiettivi.

Negli ultimi decenni si è sensibilmente ridotto lo stigma nazionale nei confronti della pratica dell’omosessualità e si è anche attenuato il giudizio negativo sul consumo delle droghe leggere.
Ieri come oggi, invece, è rimasto pressoché invariato il numero di italiani (circa un quinto) che negano la liceità dell’aborto.
Largo consenso riscuotono le pratiche della riproduzione assistita, sia omologa che eterologa, mentre dividono ancora l’utero in affitto, la maternità oltre l’età feconda, gli esperimenti su embrioni umani a fini terapeutici e gli interventi sulle cellule umane per determinare alcune caratteristiche (statura, colore degli occhi…) su cui si registra il dissenso dei due terzi degli italiani.

Garelli sottolinea che non tutti gli aderenti alle principali fedi si comportano e la pensano allo stesso modo ma ciò è ancora più vero all’interno dell’appartenenza cattolica, differenze di “stile religioso” che delineano diversi e plurimi modi di interpretare l’identità cristiana o cattolica.
Inoltre, va ricordato, che da società a monopolio cattolico l’Italia si sta trasformando in una società permeata dalla varietà di fedi.
Il pluralismo culturale e religioso, non dovuto meramente al fenomeno migratorio, sembra porre ai credenti di ogni fede “una sfida più sottile e destabilizzante di quella della secolarizzazione”. Una sfida che introduce nella mente degli individui l’idea che vi sono diversi modi di credere – e di rispondere ai quesiti dell’esistenza -, che ogni società e cultura ha le sue forme del sacro, che è difficile ritenere vi sia un’unica fede depositaria della “verità”.

Il confronto con la diversità religiosa rende dunque più incerto e precario il credere di molti, mette in discussione la fede abituale, erode l’assunto (comune a molte religioni) che vi sia una forma superiore di conoscenza, che esista una “verità cognitiva e normativa assoluta”.
Circa metà della popolazione italiana si riconosce nell’idea – assai enfatizzata nell’attuale clima politico – che la presenza di fedi e culture diverse da quelle della tradizione costituisca una minaccia per l’identità culturale, a dire il vero già un po’ incerta, della nazione. L’altra metà invece ritiene sia o possa rappresentare una fonte di arricchimento culturale.
Pressoché universale è la condanna dell’estremismo religioso, che in tanti riconducono direttamente alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Altri, invece, si soffermano a pensarlo come esistente o possibile per qualsiasi fede religiosa, riportando l’attenzione, per esempio, “ai guasti provocati dalle crociate”.

Concludendo si può affermare con Garelli che questa è un’epoca che, anche nel campo religioso, è più segnata da flussi che da blocchi, caratterizzata da una ricerca di senso ondivaga, che si spinge sovente oltre i confini e fatica a riconoscersi nelle definizioni convenzionali.
Incerto e solitario, il credente di oggi sembra affidarsi a “un Dio più sperato che creduto”.
La poca fede, la fede debole può anche rappresentare, secondo Garelli, un tratto che accomuna i credenti di ogni confessione religiosa, che “esprime la perenne difficoltà della condizione umana a rapportarsi con un grande messaggio religioso”. Un tratto comune che, forse, potrebbe anche arrivare a diventare un tratto caratteristico e caratterizzante delle nuove forme, ora embrionali, di società multietniche, multiculturali e plurireligiose.

Bibliografia di riferimento

Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, ilMulino, Bologna, 2020


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Credit per la prima immagine www.pixabay.com


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“Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale” di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo (ilMulino, 2020)

10 venerdì Lug 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FabrizioBarca, IlMulino, PatriziaLuongo, recensione, saggio, Unfuturopiugiusto

Divario e ostacoli sembrano essere i termini caratterizzanti l’attuale società italiana e occidentale in generale. Un sistema nel quale il capitalismo è tutt’altro che in crisi, magari osteggiato ma di sicuro non in retrocessione, e l’ingiustizia sociale e ambientale segnano alla fin fine lo stato generale delle cose.

In questo contesto nasce il progetto di Forum Disuguaglianze Diversità, di cui Fabrizio Barca è coordinatore, centrato su 15 proposte che sono anche il tema portante del libro Un futuro più giusto edito dalla Società Editrice ilMulino e curato dallo stesso Barca con Patrizia Luongo, ricercatrice del Forum.

Da dove ha origine queste sentimento diffuso di rabbia che sembra spandersi a dismisura avvolgendo intere popolazioni e paesi? Dalle ingiustizie sociali ed economiche. Dallo sfruttamento lavorativo e professionale. Dalle disparità di genere e di razza. Dalle difficoltà che sono costretti ad affrontare quotidianamente un numero sempre crescente di cittadini… Tutto questo, oltre alle negatività oggettive, si trascina dietro anche il serio rischio che la rabbia si trasformi in odio. Rancore e odio verso gli altri, soprattutto deboli e stranieri, cui agevolmente viene addossata la responsabilità per delle colpe che risiedono altrove, a monte e non certo a valle. Qui si cumulano solo i danni e le conseguenze negative degli errori e delle dimenticanze.

Cosa serve allora? Un cambiamento. Un’inversione di tendenza. Un drastico cambio di rotta.

Sono in molti a chiederlo. Anche i promotori del progetto di Forum Disuguaglianze Diversità lo fanno e in maniera molto decisa, ferrea. Con un piglio che appare irremovibile. Con 15 proposte che riguardano nel dettaglio:

  • Conoscenza e Bene comune.
  • Imprese pubbliche europee.
  • Imprese pubbliche italiane.
  • Università e Giustizia sociale.
  • Finanziamento delle imprese.
  • Piccole e medie imprese.
  • Dati personali e algoritmi.
  • Strategie per aree marginalizzate.
  • Servizi e appalti pubblici.
  • Giustizia ambientale.
  • Amministrazioni pubbliche rinnovate.
  • Dignità del lavoro.
  • Consigli di lavoro e cittadinanza.
  • Lavoratori e lavoratrici proprietari/e.
  • Eredità universale.

Studiando nel dettaglio i vari punti appare ancora più chiaro ciò che è ormai da tempo sotto gli occhi di tutti: piuttosto che progressi, le società occidentali, e l’Italia forse più di tutte, hanno fatto troppi passi indietro. Prima importante conseguenza di ciò è la discesa sociale di giovani istruiti e colti, formati e in grado di svolgere professioni altamente qualificate ma mal ricompensati, sfruttati e costretti a un tenore e stile di vita che li riporta indietro anche rispetto, in molti casi, alle proprie famiglie di origine.

Quale futuro si prospetta per delle società che non investono o investono poco sui giovani e, ancor meno, sui giovani molto formati?

Domanda che in molti si pongono, anche nell’ambito del dibattito pubblico e politico, ma a cui nessuno sembra voler dare veramente una risposta. Ciò potrebbe significare una irreversibile presa di coscienza, più che di conoscenza, della reale situazione che rischia di diventare sistemica.

È evidente che certe dinamiche sono sbagliate e basta, nonostante si cerchi su più fronti di farle passare per cosa appetibile e moderna, attraverso un linguaggio poco forbito e ricco di anglicismi. Ed ecco allora che i fattorini diventano rider, i precari diventano part-time, chi è costretto a più lavori per raggiungere un reddito accettabile è multitasking… ma, alla fin fine, si tratta solo e semplicemente di sfruttamento, divario e ostacoli. Una situazione che rischia davvero di implodere. E non solo in Italia.

Ad accentuarne e aggravarne gli effetti si è aggiunta di recente la pandemia di Covid-19 che ha mostrato, inesorabilmente, quanto sia precario e in bilico l’intero sistema.

Cosa fare allora?

Il libro curato da Barca e Luongo viene da questi inteso come una base di partenza su cui costruire un progetto quanto più largamente diffuso e condiviso, con le tante associazioni di cittadinanza attiva con cui il Forum è già in contatto ma anche con enti, università e con chiunque sia ben preparato e motivato ad affrontare i temi del dibattito, propenso a un cambiamento che sia tangibile e concreto e universale.

Evitano, per esempio, gli autori di analizzare l’annosa questione meridionale nei medesimi termini di cui si sente da sempre e inglobandola invece in un discorso più generale di distanza, sociale ed economica, tra centri e periferie, zone centrali e zone marginalizzate. In virtù anche del fatto che ormai la cosiddetta “questione meridionale” ha travalicato i suoi confini storici estendendosi su tutto il territorio nazionale, in tutte le periferie e aree interne.

L’imperativo categorico dell’opera di Barca e di Luongo, ma in realtà dell’intero Forum, è la messa a terra di tutte le proposte, ovvero la loro trasformazione in azioni concrete. Impresa titanica senz’altro ma, laddove si parla di iniziative volte a contrastare lo sfruttamento, le disuguaglianze, la disoccupazione… non si può fare altro che auspicarne l’attuazione nella massima sinergia e condivisione possibile.


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“Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale” di Maurizio Catino (ilMulino, 2020)

01 mercoledì Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlMulino, Leorganizzazionimafiose, MaurizioCatino, recensione, saggio

Quando si apprende che l’argomento di un libro, di un articolo, di un servizio giornalistico, riguarda la mafia, intesa come istituzione e, di conseguenza, il lavoro ha per oggetto la sua analisi in generale bisogna ammettere che si rischia di cadere nel luogo comune affermando, o solo pensando: ma basta con le parole! Cos’altro c’è ancora da dire che non sia stato detto? Servono fatti non parole!

Tutti sono caduti in simili considerazioni, chi prima e chi dopo. Poco male, se non ci si ferma alla copertina o, in questo caso, al titolo.

Le organizzazione mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale è un corposo saggio che riesce nel quasi incredibile intento di mostrare al lettore le organizzazioni mafiose in maniera del tutto nuova. Partendo da un punto di vista mai del tutto analizzato fino in fondo perché, in genere, si ha quasi timore di affiancare a queste strutture illegali terminologie e analisi finora riservate a organizzazioni intese lecite, in tutto e per tutto.

Ed è esattamente questo che ha fatto Maurizio Catino: studiare le mafie per quello che, a tutti gli effetti, sono. Delle organizzazioni. Perché esse presentano quasi tutte le caratteristiche da sempre impiegate per individuare leorganizzazioni:

  • Una progettazione intenzionale dell’organizzazione.
  • Una divisione del lavoro dotata di ruoli differenziati e in qualche modo definiti.
  • Il coordinamento tra persone e attività.
  • Carriere e sistemi di premi e punizioni.
  • Ruoli e codici di condotta.
  • Una netta distinzione tra membri e non membri.

Ricorda inoltre l’autore che è proprio considerandole come organizzazioni che si può arrivare a comprenderne la resilienza e longevità, nonché la continua diffusione e proliferazione anche in territori nuovi e lontani dal centro comunemente inteso come luogo di origine.

Per capire al meglio il loro essere, oltre al loro funzionamento, è necessario “studiare congiuntamente tre aspetti”:

  • Il primo riguarda la dimensione organizzativa interna, le strutture, i ruoli, i “servizi” offerti, i meccanismi operativi, i codici e le regole.
  • Il secondo aspetto attiene all’ambiente esterno nel quale l’organizzazione criminale opera. Un ambiente composto da soggetti individuali e organizzati che entrano in relazione con l’organizzazione criminale. Sono questi “soggetti esterni all’organizzazione mafiosa che modellano e conformano l’azione delle mafie, non il contrario”. Ciò accade soprattutto nelle aree di nuovo insediamento.
  • Il terzo aspetto fa riferimento al grado di percezione del fenomeno criminale da parte del contesto esterno, al livello di tolleranza dell’ambiente, al ruolo delle agenzie di contrasto. L’azione di queste ultime infatti costituisce uno tra “i fattori di innovazione, cambiamento e adattamento dell’organizzazione mafiosa”.

Per riuscire a comprendere in che modo le mafie funzionano, il loro comportamento criminale, come fanno affari e come utilizzano la violenza è necessario, sottolinea l’autore, innanzitutto capire il modo in cui le mafie sono organizzate. Esaminando i diversi tipi di organizzazione mafiosa si può vedere con chiarezza che non tutte le forme di organizzazione sono uguali.

Nel testo, Catino dimostra come i diversi modi di organizzazione nelle mafie influenzano il comportamento, i conflitti e l’impiego della violenza.

Nonostante operino “in ambienti estremamente ostili”, violino la legge, commettano crimini e “siano soggette a intense persecuzioni da parte delle agenzie chiamate a far rispettare la legge”, le mafie sono tra le organizzazioni più resilienti mai conosciute. E, per capirne le motivazioni, Catino suggerisce di associare la loro elevata capacità adattiva e longevità ai loro comportamenti scaturiti proprio in quanto sono organizzazioni formali.

Le mafie non sono solo organizzazioni criminali, sono anche organizzazioni economiche che basano la loro forza sostanzialmente sulla vendita di “protezione e servizi extralegali” a qualcuno che li compra. Ma, soprattutto, “sono profondamente inserite nell’economia, nella politica e nella società”.

L’idea portante del libro di Catino è la convinzione che, riuscire a comprendere al meglio la fisiologia, la logica organizzativa e i dilemmi affrontati dalle mafie, costituisca un importante strumento per aumentare l’efficacia delle azioni di contrasto, per orientare le scelte politiche e per accrescere la resilienza della società civile, la sua resistenza a queste organizzazioni.

Proprio per questa convinzione l’autore ha dedicato l’ultimo e corposo capitolo allo studio approfondito delle tre mafie italiane – Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta – , “prestando particolare attenzione alle dinamiche di espansione nel Nord Italia e ai legami con i cosiddetti colletti bianchi”.

Risulta essere infatti ancora diffusa la convinzione che le organizzazioni mafiose siano peculiarità della cultura meridionale italiana. Teoria avallata anche da “molti studiosi, specialmente in Italia”.

Non troverebbe spiegazione alcuna dunque l’esistenza di tali organizzazioni in paesi culturalmente molto diversi come il Giappone (la Yakuza), la Cina (la Triade), la Russia (Mafia russa) e gli Stati Uniti (Cosa Nostra americana). In considerazione anche del fatto che alcune di queste organizzazioni, come la Yakuza e La Triade, hanno avuto origine anche molto tempo prima di quelle italiane.

Il fatto interessante, fa notare Catino, è che, nonostante abbiano avuto origine in contesti storici e in luoghi molto distanti tra loro, le varie mafie sono caratterizzate da elementi organizzativi comuni. E ciò è dovuto, per l’autore, non a un processo di reciproca conoscenza e scambio, bensì alla presenza di problemi comuni con cui le diverse organizzazioni si sono dovute confrontare nel tempo. Non bisogna parlare di isomorfismo quindi ma di comuni risposte evolutive e adattive a problemi ed esigenze comuni alle varie organizzazioni. Perché, lungi dall’essere organizzazioni onnipotenti come spesso vengono dipinte, le mafie “soffrono di molteplici problemi e sono obbligate a fare i conti con una serie di complessi dilemmi organizzativi di non facile risoluzione”.

Il saggio di Maurizio Catino risulta essere davvero, come nelle intenzioni dello stesso autore, un nuovo modo di indagare un fenomeno che in Italia come altrove è tutt’altro che marginale. Un metodo d’indagine, quello portato avanti da Catino, che si prefigge di mantenere costantemente neutrale il punto di vista dell’investigatore, evitando di cadere in luoghi comuni, pregiudizi o ipocrisie. Rigore tecnico e obiettività sembrano essere le parole chiave che meglio descrivono il metodo d’indagine che Catino ha utilizzato per analizzare le organizzazioni mafiose

Bibliografia di riferimento

Maurizio Catino, Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale, Società Editrice ilMulino, Bologna, 2020.

Traduzione dalla lingua inglese di Jacopo Foggi.



Articolo originale qui


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Stragismo e depistaggi della mafia nera nei primi settantadue anni della Repubblica italiana. “La mafia nera” di Vincenzo Ceruso (Newton Compton, 2018) 

La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018) 

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 


 

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Casa Bene Comune. Dall’housing collaborativo all’housing di comunità. A che punto siamo?

16 domenica Feb 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ChristianIaione, ElenaDeNictolis, IlMulino, LabGov.City, Lacasapertutti, MonicaBernardi, recensione, saggio

Le città sono cambiate, non sono più delle realtà compiute, statiche, con spazi ben definiti e sistemi organizzativi gerarchici. Oggi le città sono sempre più un insieme intricato e mutevole di reti connesse e di soggetti che prendono decisioni interdipendenti necessarie a mantenere in equilibrio un sistema a crescente complessità e customizzazione.

Le attuali dinamiche sociali, culturali ed economiche, conseguenza anche della polarizzazione ed erosione del ceto medio, impattano sulla domanda, sempre crescente, di edilizia sociale nelle aree metropolitane.

I dati degli ultimi cinque anni indicano che circa 1.7milioni di nuclei famigliari sono in uno stato di forte disagio economico e spesso, di conseguenza, abitativo.

Il sistema di edilizia residenziale pubblica, che rappresenta in Italia la quasi totalità di offerta abitativa sociale, si trova nella condizione di esaurimento di una fase storica. Con la regionalizzazione e la chiusura della tassa di scopo che finanziava il settore (Gescal), le condizioni mantenute dal 1998 non rispondono più alle esigenze attuali. Spetta quindi al decisore pubblico ridefinire una visione e un assetto di tale settore.

È uscito a novembre 2019 con ilMulino il volume curato da Christian Iaione, Monica Bernardi ed Elena De Nictolis La casa per tutti. Modelli di gestione innovativa e sostenibile per l’adequate housing che raccoglie i risultati del lavoro di indagine svolto dall’unità di ricerca di Luiss LabGov.City, coordinata dal prof. Christian Iaione, nell’ambito del progetto Casa Bene Comune. Dall’housing collaborativo all’housing di comunità.

La ricerca, realizzata con il sostegno di Federcasa, ha avuto come oggetto un’analisi giuridica ed empirica svolta a livello nazionale e internazionale al fine di identificare modelli di gestione innovativi e sostenibili nel settore dell’housing pubblico e sociale.

Il libro mette in luce la tensione verso spazi urbani più equi, accoglienti e sicuri, ma anche democratici e collaborativi, capaci di alimentare stili di vita e modelli funzionali che contribuiscono a “implementare la qualità della vita”. Obiettivo che dovrebbe essere irrinunciabile per chi governa la città e le sue trasformazioni.

Oggi le nuove strategie e visioni sull’edilizia devono necessariamente tenere conto dei cambiamenti strutturali della società, cambiamenti che passano per forza di cose dalle “rigenerazioni delle periferie”, vere e proprie frontiere dove si gioca la sfida per una città più vivibile, giusta e democratica. Ragionamento che vale per l’edilizia in generale e ancor di più per quella sociale.

Una rigenerazione che va al di là dell’aspetto meramente infrastrutturale, necessario comunque all’aumento del numero di alloggi per rispondere alla domanda reale, e che mette al centro “temi di riprogettazione e co-progettazione degli spazi e modelli di governance” (condivisione nell’uso, collaborazione nella gestione, policentrismo nella proprietà). Una strada che vede i cittadini non più soltanto come dei fruitori passivi di un bene ma agenti attivi del cambiamento.

Negli ultimi decenni è emersa in tutta Europa una vasta gamma di forme di edilizia residenziale promosse e gestite dai residenti in cui, accanto agli alloggi privati, spazi e servizi comuni sono condivisi tra i residenti e con il quartiere. Queste “forme alternative” di edilizia residenziale sono caratterizzate da una maggiore attenzione a valori sociali, quali sostenibilità ambientale, inclusione e coesione sociale, rigenerazione urbana.

Possono rientrare in tale categoria una grande varietà di forme e iniziative: cohousing, habitat participatif, cooperative di residenti, comunità residenziali ecologiche (eco-villaggi), iniziative di recupero di immobili sfitti o abbandonati (self-help housing), community asset ownership, Community Land Trust (CLT).

Ancora oggi in Italia l’edilizia sovvenzionata, ovvero la locazione di alloggi pubblici che comporta oneri a totale carico dello Stato, sembrerebbe l’unico strumento attraverso il quale si garantisce, o si dovrebbe riuscire a garantire, la protezione delle fasce più deboli della popolazione.

Il Piano Casa e il Piano nazionale edilizia abitativa prevedono la possibilità di utilizzare fondi immobiliari chiusi come strumento per finanziare la realizzazione di alloggi sociali. Ad oggi, sono circa 30 gli investimenti deliberati e i fondi immobiliari locali creati su supporto del FIA (Fondo Investimenti per l’Abitare).

Prendendo in considerazione le varie forme possibili, procedurali e di finanziamento, nel testo sono stati analizzati oltre 73 sperimentazioni abitative presenti o da avviare a breve nel territorio italiano.

Nella maggior parte dei casi, i destinatari degli interventi sono soggetti della cosiddetta fascia grigia. Il target giovani è quello maggiormente intercettato. Meno di frequente i progetti sono rivolti a soggetti che vivono situazioni di maggiore fragilità, o comunque le quote loro riservate sono molto ridotte sul totale degli alloggi disponibili.

Persiste un forte divario numerico tra i progetti avviati nel Centro e nel Nord del Paese e quelli posti in essere al Sud.

In materia di rigenerazione urbana, la rimessa in circolo di immobili pubblici in disuso o privati ceduti in concessione non è la norma. Alcune progettualità prevedono la costruzione ex novo dell’immobile.

L’analisi dei casi-studio ha confermato “l’esistenza dei cinque principi di disegno istituzionale elaborati nell’approccio analitico della Co-Città”:

  • la co-governance (condivisione, collaborazione, policentrismo)
  • il ruolo di promotore e successivamente di facilitatore giocato dall’autorità pubblica
  • la creazione e/o la connessione con forme di economia e impresa prodotte per effetto della co-governance, economie a loro volta caratterizzate da un approccio collaborativo e soprattutto da obiettivi di sostenibilità come l’economia circolare o l’economia sociale o solidale
  • la giustizia tecnologica (avanzamenti tecnologici e transizione digitale nel settore dell’housing)
  • lo sperimentalismo, verso nuovi processi decisionali o gestionali pubblici adatti o adattabili al “cambiamento costante e impetuoso che la transizione ecologica e digitale richiede”

Le aziende di gestione dell’edilizia residenziale pubblica (dagli Istituti autonomi per le case popolari, alle aziende, fino alle Spa) amministrano in Italia un patrimonio di 836mila alloggi popolari.

Dall’analisi condotta risulta evidente la necessità, per questi attori, di ritrovare una nuova centralità nella “complessa e articolata architettura delle politiche pubbliche che si occupano di disagio abitativo”. Ritenendo problematica anche in questo settore l’eccessiva privatizzazione di enti pubblici e la dismissione di beni e funzioni pubbliche protrattasi negli anni in base al “postulato indimostrato” che il privato, qualunque tipologia di privato, è di per sé più efficiente e idoneo a rispondere a un bisogno della collettività.

La presenza del soggetto pubblico (azienda di edilizia popolare o ente locale) nella funzione di promozione, supporto, facilitazione, moderazione, monitoraggio, in veste di piattaforma abilitante gli attori coinvolti nei progetti di housing, appare invece elemento chiave per garantire un maggior grado di successo e sostenibilità delle diverse forme di condivisione, collaborazione e policentrismo nell’abitare.

A conclusione dell’indagine traspare come sia tutto ancora da verificare l’andamento nei prossimi anni, in quale misura e a quali condizioni sarà possibile o meno garantire scalabilità e replicabilità, nonché sostenibilità sociale ed economico-finanziaria ai modelli di co-governance nel settore dell’abitare.

Risulta anche necessario coinvolgere gli investitori pazienti o di lungo termine, come le casse previdenziali e i fondi pensione, per rinforzare le infrastrutture di housing sociale esistenti e andare oltre il sistema dei fondi immobiliari, attraverso un modello che garantisca la redditività degli investimenti ma anche la sostenibilità sociale e climatica, minimizzando così rischi normalmente correlati a questo tipo di progetti.

Bibliografia di riferimento

La casa per tutti. Modelli di gestione innovativa e sostenibile per l’adequate housing, a cura di Christian Iaione, Monica Bernardi, Elena De Nictolis, Società Editrice ilMulino, Bologna, 2019



Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale


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Recensione a “La società non esiste. La fine della classe media occidentale” di Christophe Guilluy (Luiss University Press, 2019) 

Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Perrone Editore, 2017) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

All’alba di un nuovo mondo: l’Occidente, il sé e l’altro

17 giovedì Ott 2019

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Allalbadiunnuovomondo, AngeloPanebianco, IlMulino, recensione, saggio, SergioBelardinelli

Analisi del testo All’alba di un nuovo mondo di Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli (ilMulino, 2019)

Da alcuni anni ormai è tornata a circolare in Europa, come anche negli Stati Uniti d’America, la “cupa profezia” sull’incipiente tramonto dell’Occidente. L’ottimismo liberaldemocratico e l’euforia di vittoria, che seguirono la fine della Guerra Fredda, hanno lasciato ampio spazio al timore di un futuro minaccioso.

Secondo Yascha Mounk, scrittore, accademico e relatore esperto sulla crisi della democrazia liberale e sulle cause di origine e diffusione dei populismi, ritiene oggi possibile immaginare che le democrazie liberali siano in procinto di lasciare il posto a democrazie illiberali. Ovvero governi delle maggioranze che si accompagnano all’affievolimento, se non alla soppressione, dei diritti individuali di libertà.

Per Angelo Panebianco, è ovvio ormai che la società aperta occidentale, “con i suoi gioielli” (la rule of law, il governo limitato, i diritti individuali di libertà, la democrazia, il mercato, la scienza), sia o appaia a rischio.

Nel suo saggio L’Europa sospesa tra Occidente e Oriente, riporta la visione di “molti osservatori” secondo i quali la prova più evidente del venir meno della volontà di tanti europei di scommettere sul futuro è l’invecchiamento demografico che interessa vari Paesi europeo-occidentali. Sottolinea Panebianco come lo smettere di fare figli determina, sul piano macrosociale, cambiamenti di vasta portata. Ma è anche il segnale di una visione collettiva pessimistica del futuro. Ènecessario inoltre pensare alle difficoltà che mostrano le società occidentali in rapporto alla questione dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati.

“Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea (in Europa) o latinoamericana (negli Stati Uniti) segnalano quella che diversi osservatori attenti alle idee circolanti, agli orientamenti culturali prevalenti, interpretano come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali, ne sta corrodendo il tessuto sociale.”

Crisi che potrebbe inoltre aver favorito l’insorgenza e la diffusione dei movimenti populisti, sviluppatisi praticamente in ogni Paese occidentale. Formazioni politiche che hanno in comune nazionalismo, ostilità alle tradizionali ancore internazionali – atlantismo, europeismo – delle democrazie liberali, predilezione per politiche di chiusura delle frontiere sia per le persone (politiche anti-immigrati) sia, in alcuni casi, per le merci (protezionismo economico).

Per Panebianco, l’insorgenza populista arriva al termine di un lungo processo di erosione dei vecchi equilibri. Un lento ma incisivo fenomeno di indebolimento degli intermediari politici che, nell’analisi del filosofo francese Bernard Manin, ha caratterizzato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove “democrazie del pubblico”. I vecchi legami fra elettori e partiti sono stati sostituiti da rapporti diretti, non mediati, fra leader e pubblici generando una situazione che renderebbe le democrazie molto più instabili di un tempo, condizionate dalla volubilità delle opinioni pubbliche e dalla conseguente, elevata volatilità delle arene elettorali.

Diverse sono le scuole di pensiero che si contendono la spiegazione di tali epocali cambiamenti. La più diffusa, e fors’anche la più condivisa dagli occidentali, attribuisce la responsabilità a tre cause concomitanti:

  • La lunga crisi economica mondiale cominciata negli anni 2007-2008.

  • La pressione esercitata sugli equilibri politici delle democrazie occidentali dall’incremento dei flussi migratori registrato negli ultimi anni.

  • L’aumento, nel caso dell’Europa, dell’insicurezza collettiva a causa degli attentati e della minaccia continua di cui è responsabile il terrorismo jihadista.

Una diversa scuola di pensiero vede invece in ciò che sta accadendo la conseguenza, forse irreversibile, di processi di lungo periodo. Ed è riscontrabile proprio in questo la maggior differenza tra le due linee di pensiero.

Per la prima scuola saremmo di fronte a una fase transitoria assolutamente reversibile nel momento stesso in cui si registrerà una ripresa della crescita economica (con conseguente riassorbimento della disoccupazione), un migliore controllo da parte dei governi e dell’Unione Europea dei flussi migratori in entrata e, infine, una decisa strategia di contrasto al terrorismo.

Per la seconda scuola invece siamo in presenza di un cambiamento “strutturale, di riduzione della forbice, di perdita del primato occidentale”.

Visione quest’ultima condivisa anche da Kishore Mahbubani, preside e docente della Lee Kuan Yew School of Public Policy presso la National University di Singapore già membro del corpo diplomatico di Singapore, il quale afferma che è dagli inizi del XXI secolo che la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. Il Resto del Mondo ha compreso come poteva replicare il successo occidentale nella crescita economica, nella sanità, nell’istruzione… Ora, si domanda Mahbubani, come è stato possibile che l’Occidente non se ne sia accorto?

Nella fine della Guerra Fredda l’Occidente tutto ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando, secondo Mahbubani. Innanzitutto perché la “vittoria” non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica. Inoltre, l’Occidente tutto si è lasciato “distrarre” dagli eventi dell’11 settembre del 2001. Nessuno, in tutto il mondo occidentale, ha messo in luce che “l’evento più gravido di conseguenze storiche del 2001 non era l’11 settembre. Era l’entrata della Cina nel WTO (World Trade Organization)”.

“L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe per forza di cose avuto come risultato una massiccia ‘distruzione creativa’ e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.”

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di “salari reali in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale”.

Angelo Panebianco, nel suo saggio, riporta per esteso la visione di diversi osservatori per i quali si è ormai entrati nella fase di passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le due potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India, forse anche Brasile, Indonesia, Sud Africa.

Un multipolarismo nascente che, per Panebianco, si innesta su un mondo attraversato da diversità culturali e da scontri di civiltà, e di cui nessuna ancora conosce le dinamiche di sviluppo e funzionamento. Nessuno sa se da esso deriverebbero stabilità e ordine oppure, all’opposto, instabilità/precarietà e disordine.

Come si muoverà e quale ruolo avrà l’Unione Europea in questo nuovo scacchiere internazionale?

La questione delle migrazioni, unitamente alla crisi dei debiti sovrani, ha alimentato un diffuso quanto inedito sentimento di ostilità verso l’UE entro settori sempre in crescita dell’elettorato, aprendo sempre più spazi a movimenti di protesta che combinano antieuropeismo e volontà di chiusura delle frontiere all’immigrazione extra europea.

In realtà, sottolinea Panebianco, l’antieuropeismo montante è più un effetto che una causa. La quale andrebbe ricercata piuttosto nei “vizi all’origine” della costruzione europea.

“Fu l’America lo sponsor esterno che favorì l’integrazione europea (in funzione antisovietica). Fu l’America che garantendo militarmente la sicurezza europea consentì alle istituzioni comunitarie di ‘specializzarsi’, di dedicare ogni sforzo al perfezionamento del mercato europeo, alla crescita e al finanziamento di misure di protezione sociale.”

In buona sostanza, l’accordo era: “il warfare agli Stati Uniti e il welfare all’Unione Europea”. Ciò ha reso impossibile sviluppare un’autonoma politica europea della sicurezza.

Il secondo vizio d’origine, per Panebianco, consisteva nella tradizionale vaghezza della meta finale, dello scopo del processo di integrazione.

“Quando con la moneta unica l’integrazione europea fece un salto di qualità, il problema della necessità di far seguire all’unificazione monetaria una qualche forma di unificazione politica o, per lo meno, qualche deciso passo istituzionale in quella direzione, entrò nell’agenda politica. Ma non appena si cominciò seriamente a parlare di ‘unificazione politica’ le magagne (fino a quel momento nascoste sotto il tappeto dalle élite europee) vennero fuori.”

Come si può fare un’unificazione politica quando non è possibile stabilire con sicurezza dove vadano collocati i confini? A Est e a Sud dove sono i confini dell’Europa? Si chiede Panebianco, per il quale laddove è ancora difficile stabilire con esattezza chi è dentro e chi è fuori, non è neanche lontanamente immaginabile costruire una comune identità politica.

“L’Europa diventa sempre più fragile, sempre più debole. Ciò costituisce un’imperdibile occasione per predatori affamati e con zanne e artigli affilati.”

Emblematica questa narrazione figurativa utilizzata da Panebianco, il quale rappresenta i potenziali predatori di una sempre più fragile e debole Europa come bestie affamate dotate di zanne e artigli affilati. Un passaggio che rimanda alla Letteratura di viaggio o meglio, tornando ancora più indietro nel tempo, alle narrazioni epiche e/o cavalleresche, laddove i nemici da combattere e sconfiggere, complice la paura, assumevano nella mente dell’autore prima, nelle pagine scritte e nell’immaginario collettivo poi connotati sempre più primitivi, animaleschi, mostruosi, diabolici o satanici.

Panebianco rievoca l’immagine di questi figuri parlando della conquista economica della Cina di Xi Jin Ping, che sta attuando il suo progetto di “neoimperialismo economico (con inevitabili risvolti politici)”.

Neoimperialismo che rimanda inevitabilmente a quello non “neo”, subito dalla Cina e da tanti altri paesi asiatici e africani, allorquando furono essi stessi a doversi misurare con predatori affamati armati non solo di zanne e artigli affilati ma di munizioni, fucili, baionette e cannoni.

Angelo Panebianco teme il neoimperialismo economico e, soprattutto, i suoi inevitabili risvolti politici. La sua tesi è che se viene meno il primato occidentale – ovvero il potere finora esercitato dal “blocco” statunitense-europeo, più il Giappone -, non c’è altro ordine internazionale possibile. Prevarrebbe il caos per l’assenza di un enforcer dell’ordine, una potenza o un blocco di potenze con la capacità economica, le risorse coercitive e la volontà politica di creare le condizioni di un ordine internazionale. Solo il mondo occidentale ha, per l’autore, le risorse, culturali prima ancora che politiche, economiche e militari, per creare per lo meno un embrionale, imperfetto quanto si vuole, ordine internazionale liberale, ossia in linea di principio accettabile dalla maggior parte dei viventi.

Le potenze autoritarie, nella visione di Panebianco, possono aumentare, se le condizioni lo consentono, le proprie chance di influenzare altri Paesi ma difficilmente possono anche dare vita a un ordine internazionale stabile. Coloro che vivono sotto il giogo delle potenze autoritarie sono pronti, appena ne hanno la possibilità, a ribellarsi.

“L’ordine autoritario genera continui e diffusi focolai di resistenza, genera disordine. Crea esso stesso le condizioni per la propria sconfitta.”

Palese quindi che solo un ordine liberale sia in grado di garantire stabilità, prosperità e crescita, economica ma anche sociale e culturale. Meno ovvio invece appare chi sarà alla “guida” del nuovo “ordine internazionale legittimo” visto che lo stesso Panebianco ammette che, laddove l’Occidente non ponga rimedio ai tanti problemi interni, non è poi così scontata la sua leadership.

L’Occidente dovrebbe prima:

  • Rilanciare (ma evidentemente anche ristrutturare) i rapporti interatlantici.
  • Migliorare l’integrazione europea.
  • Trovare il modo di ricostituire – mediante innovazioni istituzionali ancora da inventare – un equilibrio oggi spezzato fra la competenza dei pochi e il diritto dei più di far sentire la propria voce negli affari pubblici.

In buona sostanza, l’Occidente dovrebbe andare nella direzione opposta a quella verso cui sta andando, ovvero seguire il medesimo percorso che starebbero invece seguendo i suoi emulatori, secondo l’analisi di Kishore Mahbubani.

“Per millenni, le società asiatiche sono state profondamente feudali. La ribellione contro ogni genere di mentalità feudale che ha preso impulso a partire dalla seconda metà del XX secolo è stata enormemente liberatoria per tutte le società asiatiche. Milioni di persone hanno smesso di essere spettatori passivi e si sono trasformati in agenti attivi del cambiamento, evidente nelle società che hanno accettato forme democratiche di governo (India, Giappone, Corea del Sud, Sri Lanka), ma anche in società non democratiche (Cina, Birmania, Bangladesh, Pakistan, Filippine), che lentamente e costantemente stanno progredendo. E diversi paesi africani e latino-americani guardano ai successi asiatici. Cinquanta anni fa, pochi governi asiatici credevano che una buona governance razionale potesse trasformare le loro società. Oggi questa è la convinzione prevalente. Siamo vicini al paradosso. Gli asiatici hanno appreso dall’Occidente le virtù della governance razionale, eppure mentre i livelli di fiducia asiatici stanno risalendo molti occidentali stanno perdendo la fiducia nei propri governi.”

Il testo di Panebianco possiede e trasmette una visione del mondo molto occidentalocentrica, ignorando del tutto o quasi l’assunto portato avanti, per esempio, da Iain Chambers, docente di Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo all’Università l’Orientale di Napoli, per il quale “l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sia diventato il mondo”.

Differente impostazione presenta invece il secondo saggio che va a comporre il libro edito da ilMulino. La Chiesa cattolica e l’Europa di Sergio Belardinelli tratta degli aspetti spirituali della contemporanea civiltà europea.

Che cosa succede nel momento in cui in Europa, il continente che per secoli è stato il cuore della fede cristiana, la gran maggioranza degli abitanti sembra non essere più interessata a questa fede?

E che cosa succede nel momento in cui la Chiesa cattolica sembra interessarsi sempre meno dell’Europa, rivolgendosi invece ad altri mondi, come l’America Latina, l’Africa o l’Asia?

Come le istituzioni politiche europee hanno perduto la fiducia dei cittadini europei, allo stesso modo, secondo Belardinelli, si direbbe che la Chiesa cattolica ha perduto la loro fede. Il loro problema non risiederebbe tanto nella evidente autoreferenzialità, quanto piuttosto nel fatto che esse operano su loro stesse e verso l’esterno come se fossero mere organizzazioni e soltanto in vista della loro autoconservazione. Naturale allora che, per certi versi, Stato e Chiesa si riducano a macchine burocratico-amministrative, “sempre più incapaci, l’uno, di generare senso civico, senso di fiducia e di appartenenza a una comunità, e, l’altra, di generare quella fede, quelle forme di vita ecclesiali, diciamo pure, quel senso di trascendenza di cui potrebbero avvantaggiarsi tutti gli altri sistemi sociali”.

La fede cristiana sta diventando impotente, non soltanto nei confronti della politica, ma di qualsiasi altro ambito della vita sociale. In buona sostanza, Belardinelli sottolinea come politica, scienza, arte, architettura… non sanno più che farsene della fede.

Gli autori affermano che, guardandosi intorno, si realizza presto di stare assistendo all’alba di un nuovo mondo, che essi vorrebbero comunque governato dal “realismo liberale” occidentale pur dovendo ammettere di non conoscere quali ne saranno i contorni e i caratteri. Nessuno in realtà lo può ancora sapere in quanto “molto dipende dal realismo con il quale la nostra e le generazioni che seguiranno sapranno affrontare le sfide che incombono”.


Bibliografia di riferimento

A. Panebianco, S. Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, ilMulino, Bologna, 2019

(collana Voci, pp, 132, parte prima: L’Europa sospesa tra Occidente e Oriente, Angelo Panebianco; parte seconda: La Chiesa cattolica e l’Europa, Sergio Belardinelli)


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilMulino Editore per la disponibilità e il materiale



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L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (ilMulino, 2019) 

“La parabola d’Europa. I trent’anni dopo la caduta del Muro tra conquiste e difficoltà” di Marco Piantini (Donzelli, 2019) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (Il Mulino, 2019)

17 sabato Ago 2019

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AndreaGraziosi, Ilfuturocontro, IlMulino, recensione, saggio

 

Andrea Graziosi, docente di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, pubblica a febbraio 2019 con Il Mulino il saggio Il futuro contro. Democrazia, libertà, mondo giusto con l’obiettivo di far riflettere e discutere della situazione in cui versa quello che viene da tutti indicato come Occidente, e l’Italia all’interno di esso.
Il mutamento radicale in atto in tutto il mondo ha letteralmente fatto sbandare l’Occidente, quindi anche Europa e Italia, palesando la sua pressoché totale incapacità di trovare risposte, alternative e nuovi principi fondativi per riadattare alle nuove condizioni quelli esistenti.
Uno degli errori più comuni, commesso anche in Italia, sono le politiche e i tentativi di riportare economia e società allo status quo precedente la grande crisi, far ripartire la crescita e ritornare alla mitica età dell’oro del secolo scorso. Nulla di più sbagliato. Per Graziosi quanto accaduto in quello che ormai deve essere considerato, perché lo è a tutti gli effetti, il passato è riconducibile a tutta una serie di congiunture favorevoli e condizioni straordinarie che hanno reso possibile un’elargizione di privilegi e benefici ad ampie fette non solo di classi dirigenti e politiche ma anche di privati cittadini. Una situazione che raramente si ripresenterà.

Da ciò nasce anche l’atteggiamento molto ostile nei confronti delle élite tradizionali incapaci ormai di continuare a garantire la incessante e costante crescita del tenore di vita e l’ampliamento di quelli che vengono indicati come “diritti”, ma che in realtà, come ricorda più volte Graziosi, sono privilegi consentiti proprio dalle condizioni straordinarie che hanno permesso la crescita continua e il benessere diffuso, ottenuto in verità quasi sempre a credito, ovvero bruciando anno dopo anno risorse maggiori di quelle realmente possedute. Ovvio quindi che la riduzione drastica di quest’ultime ha generato una altrettanto cospicua riduzione dei “diritti”, ovvero dei privilegi. E la rabbia diffusa tra le popolazioni occidentali, Europa e Italia incluse in toto, sarebbe dovuta al non voler pagare un conto molto salato per “consumazioni” che altri avrebbero ordinato per noi.
Nell’analisi di Graziosi, il razionamento di scarse risorse e i conflitti da questo generati, la paura della diversità e dell’immigrazione, nonché il calo dell’ottimismo, che prendono il posto delle antiche lotte su come meglio distribuire una ricchezza che sembrava infinita in società sempre in crescita e che sembravano tendere verso l’omogeneità, potrebbero spingere la democrazia verso un conflitto tra spinte demagogiche – nel senso classico del termine – e tendenze elitarie – nutrite anche dalla meritocrazia della società della conoscenza – che ne metterebbe in difficoltà strutturale la natura aperta e liberale, fino ad oggi conosciuta e amata.

Per ammissione dello stesso autore, Il futuro contro non può essere considerato un saggio storico o di geopolitica in senso stretto, piuttosto una raccolta di considerazioni, enunciate a titolo personale, volte a dare forza e vesti nuove a ideali in cui egli ha sempre creduto e continua a credere, un liberalismo progressista capace di mettere al primo posto libertà e apertura, ma cosciente che bisogna fare i conti con identità, esclusioni, sofferenze e diversità senza per questo imboccare «strade sbagliate come il socialismo, il nazionalismo o uno dei loro tanti ibridi».

I ceti colti e benestanti progressisti, che partecipano dei frutti della conoscenza e della globalizzazione, avrebbero contribuito, secondo Graziosi, alla sostituzione della “vecchia dicotomia” – che era comunque più forte nelle retoriche che nella realtà – tra una destra nazionalista e sostenitrice del mercato e una sinistra statalista ma comunque “nazionale” – «e spesso anch’essa nazionalista». Tale dicotomia sarebbe stata sostituita da quella che vede contrapposti i favorevoli e gli ostili a un cambiamento accelerato dall’apertura e dalla globalizzazione. La sinistra avrebbe così fatto propri dei principi liberali (merito, mercato, competizione, ecc.), mentre la destra avrebbe via via abbandonato il sostegno all’economia liberale, riavvicinandosi alle posizioni della tradizionale destra nazionalista e antimercato. La sostituzione della dicotomia originaria avrebbe inoltre contribuito a spostare la linea di confine tra destra e sinistra dall’economia alla cultura. Le questioni economiche avrebbero così perso sempre più di importanza come indicatori diretti degli orientamenti elettorali, e sostituiti da fattori come il multiculturalismo, legato anche all’immigrazione, all’ambiente, alla razza e ai comportamenti di genere. Ciò probabilmente contribuisce a spiegare il risentimento che il progressismo colto e benestante si è attirato, rendendosi odioso anche perché soddisfatto di sé e privo di sensi di colpa visto che la sua posizione sociale è, al contrario delle vecchie élite, “meritata”. Soddisfatto dei risultati raggiunti e orgoglioso delle proprie convinzioni, esso sembra vivere in quella che è stata definita “bolla culturale, valoriale e di benessere”, concentrandosi sui problemi che emergono all’interno di essa e applicando all’esterno la moltiplicazione infinita «dello schema intellettuale nuovi soggetti-nuovi diritti».

Il libro di Graziosi analizza nel dettaglio gli aspetti focali del progressismo liberale, i punti di forza come anche quelli di debolezza, gli sviluppi positivi e negativi, le degenerazioni e le crisi tentando di far luce soprattutto su quelle peculiarità che egli considera i capisaldi di un sistema economico e sociale che non può e non deve essere sostituito, ma certamente modificato, adattandolo ai mutamenti avvenuti come anche a quelli in atto in tutto il mondo, non soltanto nella sua parte occidentale. I concetti di evoluzione e libertà sono per l’autore imprescindibili e insuperabili. A cambiare di sicuro dovrà essere la politica, italiana ma soprattutto europea, che dovrà acquisire maggiori ruolo e qualità.
Per costruire la nuova narrazione del progressismo liberale, «capace di leggere il mondo nuovo in cui viviamo», sarà necessario seguire la ragione come anche la passione. Il fine è capire e far capire che l’unica via per superare in modo intelligente difficoltà innegabili è disegnare un futuro credibile, basato su progresso e apertura.
L’opposto di quanto sta purtroppo accadendo in Italia e in tanti altri stati europei alle prese con estremismi e populismi che invocano invece il ritorno a una sorta di incredibile quanto pericoloso e deleterio purismo razziale e culturale.

Graziosi esplora a fondo i «laboratori politici» di Movimento Cinque Stelle e Lega nazionale di Salvini.
Pur presentando caratteristiche davvero rimarchevoli, come l’uso innovativo di una piattaforma digitale, il M5S lascerebbe trasparire molteplici fragilità nel discorso politico portato avanti, dovute a confusione e poca capacità amministrativa oltre che politica. Il successo che continua a riscuotere lo si deve, per Graziosi, alla peculiarità del tempo odierno, un’era dominata dalle percezioni, nella quale l’affermazione di un nuovo discorso può comunque soddisfare a lungo bisogni psicologici di novità e rottura anche se nulla poi cambia davvero.
La Lega, che è un fenomeno molto meno innovativo, rischia di fare maggiore presa sugli elettori proprio in virtù dell’esperienza già maturata. Quella proiettata da Salvini è una declinazione del «mondo giusto irriflesso e autoconsolatorio» analizzato da Graziosi nel testo, un mondo in cui tutti hanno ciò che si meritano, gli italiani prima di tutto, perché siamo in Italia. Un mondo che vede i criminali puniti e i cittadini onesti liberi di difendersi, gli anziani gioire dei diritti riacquisiti e i giovani, ancora una volta, lasciati al proprio destino.
Sarebbe però opportuno chiedersi, come sottolinea anche Graziosi, che Italia ne verrà fuori. Chi rappresenta oggi la probabile o possibile alternativa politica. Dov’è la sinistra con i suoi militanti che non mancano occasione per rivendicare i tentativi di Enrico Berlinguer e la sua “questione morale”, quando poi la realtà è che il grande vuoto intellettuale e ideale in essa creatosi ha generato continue fratture interne e l’unico vero collante apparso efficace negli ultimi decenni è stato l’anti-berlusconismo. Hanno forse intenzione di perseguire questa strada così lungamente battuta creando un “nuovo” anti-salvinismo?

Se per garantire il miglior futuro realisticamente possibile occorre fare delle riforme impopolari nell’immediato, bisogna avere un discorso in grado di spiegare con chiarezza i motivi e i risultati di quelle riforme. Per Graziosi, sincero sostenitore del progressismo liberale, le soluzioni devono essere in linea con l’immagine generale dell’Italia che ci si propone di ricostruire. Un’Italia inserita in primo luogo nell’Unione europea e poi nel mondo, aperta alla prima e ragionevolmente aperta al secondo, circondata di opportunità e non da nemici. Come sarebbe invece nella visione dell’autore il paese se trionfasse la politica di Salvini.
Solo nell’Europa unita, infatti, i talenti, le inclinazioni e le energie dei suoi abitanti hanno lo spazio necessario per dispiegarsi e possono trovare gli strumenti di azione dei pubblici poteri adeguati a far fronte alle difficoltà e alla crisi, nonché la forza per parlare al mondo delle grandi potenze.

Graziosi ha scritto Il futuro contro scegliendo volutamente un registro narrativo semplice e lineare, una scrittura che sembra indirizzata a tutti. Si è basato su conoscenze e competenze certo, ma anche sull’esperienza e sulla condivisione di importanti momenti e decisioni, politiche o economiche, attuali e passati. Momenti e passaggi importanti che poi, direttamente o indirettamente, hanno determinato il corso degli eventi, contribuendo a plasmare quelle che sono l’Italia e l’Europa di oggi. Scelte e azioni da tenere bene a mente, che insegnano molto, soprattutto laddove sono risultate sbagliate.
Un libro, Il futuro contro, che non ha la pretesa di essere un manuale e forse neanche un saggio, nel senso stretto del termine, ma pregno di considerazioni e analisi che meritano di essere lette perché foriere di nuove osservazioni e riflessioni nel lettore, stimolandone molto lo spirito critico, e questo è senz’altro molto positivo. Una lettura per certo consigliata.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni de IlMulino per la disponibilità e il materiale


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“La parabola d’Europa. I trent’anni dopo la caduta del Muro tra conquiste e difficoltà” di Marco Piantini (Donzelli, 2019) 

L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018) 

Che futuro ha una società che non investe sulle nuove generazioni? “La parola ai giovani” di Umberto Galimberti (Feltrinelli Editore, 2018) 

Gli elettori devono assumersi la propria responsabilità civile e civica per riuscire a risolvere i problemi delle loro famiglie e del loro Paese. “La conoscenza e i suoi nemici” di Tom Nichols (Luiss University Press, 2018) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Democrazie senza scelta e partiti anti-establishment. La rivolta degli elettori nell’indagine di Morlino e Raniolo

19 martedì Feb 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comelacrisieconomicacambialademocrazia, economia, Europa, FrancescoRaniolo, IlMulino, LeonardoMorlino, recensione, saggio

Le analisi storiche delle crisi del passato suggeriscono che queste siano state, alla fin fine, «un’opportunità di cambiamento e di reinvenzione o rigenerazione della democrazia». Cosa è accaduto e sta accadendo come conseguenza della crisi economica iniziata nel 2007 e che gli autori definiscono Grande Recessione? L’indagine svolta da Leonardo Morlino e Francesco Raniolo, che poi è diventata il libro Come la crisi economica cambia la democrazia edito da ilMulino, è volta principalmente a studiare la «crisi nella democrazia», nelle sue procedure e risultati, così come nei suoi contenuti, ovvero «nel mix di libertà ed eguaglianza che riesce a garantire».

Oggetto di studio sono stati i paesi del Sud Europa, quelli che con accezione negativa venivano indicati con l’acronimo Piigs, oggi diventato GIIPS: Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. I medesimi ad aver risentito maggiormente degli effetti negativi della stessa crisi, come delle misure preposte per superarla, anche rispetto i paesi dell’Est, come per esempio Polonia e Repubblica Ceca, che hanno subito minori contraccolpi. Di sicuro, nella gestione della crisi «l’Unione Europea ha agito da concausa nell’accentuazione dei suoi effetti e nella sua durata». Una costellazione di situazioni che «ha messo in tensione il sistema di governance (dell’UE)», ma anche la coesione tra gli stati membri e, in un certo senso, «la stessa autocoscienza europea». In sintesi, l’Unione Europea ha rischiato «e rischia tutto’ora una vera e propria implosione».

La crisi ma, soprattutto, le misure imposte per superarla hanno agevolato la formazione e il successo elettorale di «nuovi imprenditori politici e formazioni», nonché il discredito di quelli al governo. La crisi economica, sottolineano Morlino e Raniolo, ha ingigantito tendenze latenti che erano già presenti nei sistemi partitici e nei modelli di relazione tra cittadini e istituzioni. Il declino dei partiti può anche essere letto come «declino della legittimità dello stesso canale di rappresentanza elettorale-territoriale», con la conseguenza che cittadini ed élite «cercano altre strade per trasmettere le loro domande».
La maggiore partecipazione sviluppatasi negli anni successivi alla crisi è venuta caratterizzandosi per il maggior peso delle posizioni politiche anti-establishment, dell’opposizione alle politiche anti-austerità e per atteggiamenti contrari all’Unione Europea. In poche parole, la partecipazione «è diventata sempre più radicale e di protesta».

Nuovi «attori partitici rilevanti» che hanno minacciato in tre casi su quattro direttamente il controllo del governo e, in un caso, conquistandolo effettivamente.
I partiti e movimenti indicati come di protesta oggetto dell’indagine sono:
Syriza: coalizione della Sinistra Radicale in Grecia.
Movimento Cinque Stelle in Italia.
Podemos in Spagna.
Livre, Partido da Terra e Partido Democrático Republicano in Portogallo.
Chrysi Avgi (Alba Dorata) in Grecia.
Lega in Italia.
Ciudadanos in Spagna.
Il caso particolare del Portogallo dimostra come gli elettori avrebbero anche potuto scegliere di adottare «atteggiamenti di alienazione o semplicemente indifferenza e apatia».

Questi partiti si definiscono e sono percepiti dall’opinione pubblica come partiti di protesta. Tutti, tranne uno, hanno avuto successo di recente, ma solo alcuni sono partiti genuinamente nuovi. Tutti, infine, vengono considerati populisti o neo-populisti. Nel complesso «è come se gli elettori del Sud Europa fossero diventati più sensibili alla delusione». Nelle quattro democrazie analizzate, «ma in realtà non solo in queste», si è assistito alla crescita inusitata di un’offerta politica capace di canalizzare la protesta e il risentimento degli elettori. «Tali trasformazioni non necessariamente devono essere considerate come un rischio per la democrazia», anzi potrebbero essere considerati segnali del fatto che «i regimi democratici hanno un’elevata flessibilità e resilienza alle sfide esterne».

Non tutti i partiti nuovi sono genuinamente tali, quelli che lo sono rappresentano degli «outsider che non sono il prodotto delle tattiche e delle dinamiche parlamentari» e perciò «costituiscono una minaccia per i partiti tradizionali». Seguendo questa logica si può facilmente comprendere come un elemento chiave di questi nuovi partiti sia «di presentarsi quali partiti anti-establishment» e, in un certo senso, come «partiti anti-partito». Da questo punto di vista «il modello paradigmatico di un partito genuinamente nuovo è probabilmente rappresentato dal M5S in Italia e da Podemos in Spagna».
Per quanto riguarda la rappresentatività sociologica, la classe politica del M5S è caratterizzata dalla giovane età. I giovani deputati (uomini e donne), compresi quelli di Podemos, sono «altamente istruiti».

Quello che traspare da questi dati è l’attivazione di «un cleavage generazionale prima latente nella politica delle democrazie europee» e che sta alla base della «rivolta degli elettori che ormai sembra caratterizzare le elezioni delle democrazie occidentali». Tale linea di divisione si sovrappone e si intreccia «con il cleavage esclusi-garantiti o vincitori-perdenti della globalizzazione».
La politica di protesta «è strutturalmente esposta alla delusione degli elettori» e ciò spiega la volatilità delle fortune elettorali e «la necessità del radicalismo come strategia competitiva e comunicativa». Non si tratta solo di «ipocrisia politica» o di cinismo dei leader. Innanzi tutto, «l’istituzionalizzazione organizzativa introduce nuovi vincoli interni ed esterni ai quali il partito deve adattare anche i propri obiettivi».

Come aveva già opportunamente evidenziato Stein Rokkan, all’interno di ogni democrazia operano due canali di influenza: «il canale elettorale-territoriale e il canale corporativo-funzionale». Il primo è caratteristico della «politica partigiana», nel secondo invece prevalgono «i gruppi di interesse e gli attori economici». Le quattro democrazie oggetto dell’indagine di Morlino e Raniolo si sono generalmente caratterizzate per «una ipertrofia del canale elettorale-territoriale», aspetto questo centrale «specialmente nel caso italiano», e mostrano una relativa debolezza del canale funzionale. Tale asimmetria tra i due canali è stata «favorita dall’assenza di un ruolo regolativo dello Stato e dalla sua permeabilità agli interessi settoriali». Non a caso si è parlato, proprio in relazione all’Europa del Sud, di Stato informale (Sotiropolus 2004), di deriva distributiva (Ferrera 2012), di neo-caciquismo (Sapelli 1996) e, in termini più neutri, di gatekeeping partitico (Morlino 1998).

Gli autori sottolineano come vada sempre ricordato che «la democrazia non è solo la forma di governo di uno Stato, ma anche un meccanismo di regolazione o di governance di una certa struttura socio-economica che in Occidente è una qualche variante dell’economia di mercato o del sistema capitalistico». La questione diventa «il ruolo che in tali sistemi economici e sociali hanno avuto e hanno lo Stato e le istituzioni della rappresentanza politica». La varietà di relazioni Stato/economia che contraddistingue i casi analizzati funge da «variabile interveniente», nel senso che «definisce un set di condizioni (per lo più istituzionali) che rende i paesi del Sud Europa più vulnerabili agli shock esterni», aggravando al contempo gli effetti della recessione e rendendo «meno efficace il management della crisi». Il tutto con le dovute variabili e differenze tra i vari Paesi.

Nei movimenti di protesta temi materialisti (sicurezza economica, inflazione, disoccupazione) e post-materialisti (partecipazione, democrazia diretta, auto-realizzazione, beni comuni) hanno finito per sovrapporsi e mescolarsi. Tale ibridazione potrebbe costituire, nell’opinione degli autori, il punto di contatto tra diversi movimenti che nell’ultimo decennio hanno fatto parlare di un grande «ciclo di protesta transnazionale» che ha investito l’Europa, gli Stati Uniti, il Cile e il Brasile, il Nord Africa e anche Hong Kong. Una sorta di «crisi di legittimità delle democrazie avanzate».
Nel caso dei paesi oggetto d’indagine molto hanno inciso le politiche governative come anche e soprattutto quelle del governo centrale. Il processo di europeizzazione ha determinato «due effetti perversivi».
Ha alimentato un nuovo conflitto che ha inciso sulle relazioni tra i paesi appartenenti all’area euro e al di fuori di essa, tra paesi forti e paesi deboli all’interno dell’area euro, tra paesi forti nella medesima area. Quando si prendono in considerazione le politiche di austerità, «la realtà è stata quella di democrazie senza scelta», con le principali riforme fiscali, di bilancio, della pubblica amministrazione e del lavoro decise da attori esterni e implementate da attori interni.
«Il vero meccanismo innescato dalla crisi è la catalizzazione», mentre la componente di «agenzia della democrazia» si è adattata alla nuova situazione di delegittimazione, con tutto il carico di azioni, trasformazioni e conseguenze che ne sono derivate.

La ricerca sul campo condotta da Leonardo Morlino e Francesco Raniolo nei quattro paesi oggetto d’indagine (Italia, Grecia, Spagna e Portogallo) è stata finanziata dal Ministero dell’Università e della Ricerca scientifica (Protocollo n° 2010 WKTTJP).

Bibliografia di riferimento

Leonardo Morlino, Francesco Raniolo, Come la crisi economica cambia la democrazia. Tra insoddisfazione e protesta, ilMulino, 2018. Traduzione di Valeria Tarditi dall’edizione inglese originale The Impact of the Economic Crisis on South European Democracies, edito in Gran Bretagna da Palgrave Macmillan e in Svizzera da Springer International Publishing AG.

Biografia degli autori

Leonardo Morlino è professore ordinario di Scienza politica e direttore del Centro di Studi sulle Democrazie e Democratizzazioni alla LUISS di Roma.

Francesco Raniolo è professore ordinario di Scienza politica e direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università della Calabria.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilMulino per la disponibilità e il materiale


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“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018) 

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Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018)

31 giovedì Mag 2018

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IlMulino, MauroBarberis, Noncesicurezzasenzaliberta, paura, recensione, saggio, terrore, Terrorismo

Il saggio del professor Barberis si apre con una citazione di Edward Snowden che in parte anticipa il fulcro centrale del discorso portato avanti dal filosofo e per il resto rende perfettamente l’idea di cosa il lettore deve aspettarsi inoltrandosi tra le righe del libro Non c’è sicurezza senza libertà, edito quest’anno da ilMulino: «Il terrorismo è solo un pretesto».

In Putinofobia (Piemme, 2016), Giulietto Chiesa afferma che, mentre il terrore rosso operante nell’ex Impero Sovietico fosse un nemico vero dell’Occidente, il terrore verde, ovvero quello di matrice islamista, sia in realtà una mera invenzione dello stesso Occidente. Non è l’unico saggista ad affermare una cosa del genere ma bisogna stare bene attenti al significato di queste parole.

Lo stesso Barberis, che in Non c’è sicurezza senza libertà più volte si avvicina alla linea tracciata anche da Chiesa, risulta essere ben lontano dall’affermare che il terrorismo islamista non esiste, letteralmente parlando. È ovvio che gli jihadisti esistono, come pure i foreign fighter. Naturale che gli attacchi terroristici nelle città dell’Occidente ci sono stati, come pure le vittime… quello su cui Barberis, Chiesa, Luizard e altri studiosi invitano a riflettere sono le dinamiche che hanno dato origine a detta forma di terrorismo e le conseguenze, durature seppur non immediate e dirette, di questi attacchi al cuore e ai simboli della civiltà occidentale.

Pierre-Jean Luizard, storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique a Parigi, in La trappola Daesh (Rosenberg&Sellier, 2016) afferma che l’unica strada indicata come percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica sia la sconfitta militare del Califfato. È una storia già nota, quella che raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basti ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001, alle guerre e alle invasioni che ne sono derivate, alla uccisione di Osama bin Laden e all’affermazione dell’avvenuta sconfitta di Al-Qã’ida.

Il terrorismo islamista si è presentato più forte e organizzato di prima ed è tornato prepotentemente e più volte a bussare alle porte degli stati occidentali, mietendo vittime e democrazia. Esatto, perché è proprio da questo punto che parte la dettagliata analisi del fenomeno portata avanti da Mauro Barberis. Sentirsi o essere al sicuro non significa necessariamente sentirsi o essere liberi. Spesso i valori di sicurezza e libertà, «lungi dell’essere solidali, confliggono». E allora non si può non chiedersi, insieme all’autore, a quanta libertà personale abbia dovuto rinunciare ogni occidentale in seguito non solo e non tanto alle minacce terroristiche quanto alle misure restrittive e limitative intraprese dai vari governi, Stati Uniti in primis.

Conta poco che un 11 settembre sia oggi, con tutti i controlli aerei posti in essere, irripetibile. Autorità e apparati conservano i poteri e le risorse loro attribuiti per prevenire la replica. Da eventi come l’11 settembre, o da noi in Italia i terremoti, si sta «sviluppando una sorta di capitalismo della catastrofe» che ruota intorno al concetto di “sicurezza sociale” che non è mai stata un ostacolo allo sviluppo del mercato «come crede la gran parte dei neoliberisti contemporanei, ma una sua condizione necessaria».

Più volte citato dallo stesso Barberis, Michel Foucault sosteneva che la seconda conseguenza del liberismo, e dell’arte liberale di governare, è la formidabile estensione delle procedure di controllo, di costrizione e di contrappeso delle libertà. L’allerta seguita agli attacchi terroristici in territorio occidentale ha innalzato notevolmente l’asticella dei controlli e delle limitazioni della privacy di ognuno. Ma quanto in realtà queste misure possono o incidono sul reale rischio di nuovi attentati? Barberis afferma che la quasi totalità delle misure antiterrorismo è inadeguata, non necessaria e sproporzionata. Perché viene posta in essere comunque?

I limiti militari e tattici del nuovo terrorismo sono stati più volte dimostrati sul campo di battaglia. La vera forza dei terroristi risiede nell’eco mediatica che le loro “gesta” riscontrano sui media e nella Rete. Se le loro azioni, al pari delle minacce e dei video propagandistici, non ricevessero l’attenzione mediatica che invece trovano in tutto il mondo ormai il loro “potere” e la conseguente efficacia ne sarebbero inevitabilmente compromessi. Mauro Barberis sottolinea come ciò sia vero anche per le misure e le reazioni antiterroristiche dei governi, i quali sembrano affidarsi sempre più spesso alla tattica della politica-spettacolo, dove tutto viene “spettacolarizzato” al fine di ottenere il consenso del pubblico, ovvero dei cittadini. Tattiche che possono risultare affini, almeno per quel che concerne l’esagerazione o, se si preferisce, l’estremizzazione.

Battere così tanto sul concetto di sicurezza può anche sembrare un modo per stimolare e, al contempo, far leva sulla paura. Una persona che ha paura è decisamente molto più remissiva. In nome della sicurezza di tutti si può anche arrivare ad accettare passivamente limitazioni della propria libertà personale purché ciò sia utile a sconfiggere il pericoloso nemico che motiva i provvedimenti di urgenza intrapresi dai vari stati. Provvedimenti che poi si trasformano da eccezione a regola.

Riscontrabile, ad esempio, nella tendenza degli esecutivi ad appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto. Quanti decreti vengono approvati? Qual è la loro reale emergenza? A legiferare non è preposto il Parlamento?

Quesiti doverosi su argomenti complessi è vero ma molto attuali. Situazioni e decisioni da cui derivano le sorti di interi popoli e nazioni. Tematiche di cui, a volte, spaventa il sentirne parlare o leggere perché, più o meno consciamente, si teme la scoperta di un ordine inverso delle cose, delle azioni e, soprattutto, delle motivazioni che hanno preceduto e determinato le scelte, di governi e terroristi. Eppure, alla fine, risulta sempre positivo lo studio e l’approfondimento di questi temi.

Non c’è sicurezza senza libertà di Mauro Barberis si presenta al lettore come una sistematica analisi di concetti, nozioni, dati, diritti e violazione degli stessi che ruota intorno a due termini affatto scontati: sicurezza e libertà. Un libro che appare moderato anche nelle tesi “estreme” più volte espresse, le quali vanno assimilate e maturate prima di essere frettolosamente giudicate o mal-interpretate.

Una interpretazione che deve essere portata avanti con una grande onestà intellettuale, la medesima che Barberis chiede abbiano sempre i “produttori” culturali, prima ancora dei politici e dei governanti. Avallando così l’ipotesi e la speranza che un’informazione e una educazione “libere” possano essere le migliori apripista per i cambiamenti di cui il mondo ha bisogno. Cambiamenti che potranno e dovranno per forza venire dalla cultura, in particolare dai libri, vero punto di forza nel giudizio dell’autore, il quale attribuisce loro una potenza talmente intensa da essere, a volte, una vera e propria catarsi.

Una lettura forse impegnativa Non c’è sicurezza senza libertà di Barberis, soprattutto nell’excursus storico-politico e nell’analisi dettagliata di dati e provvedimenti governativi, ma di sicuro interessante e, per molti versi, illuminate. Assolutamente consigliata.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore quarta di copertina


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 

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Quanto ha inciso l’essere ‘imbecille’ nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016)

18 martedì Apr 2017

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filosofia, IlMulino, Limbecillitaeunacosaseria, MaurizioFerraris, recensione, saggio

Ancor più della follia ogni essere umano cerca di tenere lontano da sé l’imbecillità, additandola come appartenente all’altro, al diverso da lui che imbecille non è. O meglio, che tale non si ritiene. Qual è invece la reale situazione osservata con un occhio più critico e obiettivo?

Esce a dicembre 2016 con la Società editrice Il Mulino di Bologna il rapsodico libretto, come lo definisce lo stesso autore, L’imbecillità è una cosa seria di Maurizio Ferraris. Un saggio che, seppur breve e di formato tascabile, stimola nel lettore lo spirito critico, invitandolo alla riflessione, alla discussione, magari anche solo con se stesso, e questo va sempre considerato in maniera positiva essendo il contrario dell’appiattimento, dell’omologazione, della presunzione… oppure, riassumendo in una sola parola, dell’imbecillità. Un libro che non manca comunque di strappare qualche sorriso e diverse smorfie d’ilarità in chi lo legge.

L’autore invita il suo lettore a riflettere sul fatto che «non c’è grandezza umana che non sia travagliata dalla imbecillità» in quanto «le più grandi illuminazioni vengono proprio da lì», essendo l’uomo «la via di mezzo tra un imbecille e il suo contrario». Dove questo contrario, si badi bene, «non è ancora comparso sulla scena del mondo».

L’imbecille è «incapace di incarnare l’uomo al naturale» ovvero privo di «ausili tecnici, giuridici o sociali», siano questi «foglie di fico o loden, clave, ruote, accendini o telefonini». Ciò rende manifesta la duplice inadeguatezza degli imbecilli:

  • Insufficienza Naturale (che impone lo sviluppo della tecnica e della società).

  • Insufficienza Culturale (inadeguatezza dell’umanità rispetto alle sue creazioni, particolarmente evidente nel web).

Leggi anche – Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

Ferraris più volte sottolinea come progresso tecnico e modernità non ci rendono affatto più imbecilli, semplicemente potenziano «vertiginosamente le occasioni in cui possiamo farci conoscere per quello che siamo». Nell’era di internet la gente si documenta sempre più, un fenomeno questo che può essere considerato «frutto dell’illuminismo, della capacità delle persone di pensare con la loro testa». Che poi questo pensare autonomo possa «non piacere, magari risultando arrogante, aggressivo o semplicemente imbecille è un fatto». L’imbecillità iper-documentata, come la definisce l’autore, rende impossibile continuare a farsi delle illusioni sul genere umano, «illusioni che sono alla base di programmi di palingenesi sociale miseramente falliti, perché muovevano dall’assunto che l’umanità fosse meglio di quella che è».

Per l’autore «dalla follia si può cavare qualcosa, ma dall’imbecillità non pare si possa cavar niente, se non l’umiliazione dell’umana vanagloria». Una gloria-vana che non risparmia alcuno. Élite e massa, antichi e contemporanei ne sono egualmente coinvolti al punto che è proprio il tentativo di fuggire all’imbecillità «l’origine, sia pure fallibile e rischiosa, della intelligenza, della civiltà, di tutto ciò che di buono può aver fatto l’animo umano». Tra imbecillità e genio corre infatti solo una sottile linea rossa, «una linea che però, nella nostra coscienza infelice così come nella nostra ilare incoscienza, non è mai oltrepassata al momento giusto».

Nel saggio L’imbecillità è una cosa seria Maurizio Ferraris ha adoperato le sue conoscenze filosofiche e storiche nonché il suo occhio critico sulla contemporaneità per avvalorare l’assunto del discorso portato avanti con autorevole semplicità e chiarezza, perché non si dovrebbe mai dimenticare che «l’imbecillità infatti è una cosa seria, e non è una cosa per pochi né, soprattutto, per altri» e non «appena ce ne accorgiamo i conti tornano, nell’economia, nella società e nella filosofia della storia».

Maurizio Ferraris: insegna Filosofia teoretica all’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di ontologia). Ha scritto oltre cinquanta libri.

Source: Si ringrazia Ida Meneghello dell’Ufficio Stampa Il Mulino Bologna per la disponibilità e il materiale

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“Come scrivono gli adolescenti. Un’indagine sulla scrittura scolastica e sulla didattica della scrittura” di Boscolo e Zuin (IlMulino, 2015)

17 lunedì Ago 2015

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Comescrivonogliadolescenti, ElviraZuin, IlMulino, PietroBoscolo, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

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A marzo di quest’anno la Società Editrice Il mulino pubblica Come scrivono gli adolescenti di Pietro Boscolo e Elvira Zuin, con prefazione di Italo Fiorin. Un testo che racchiude e al contempo delucida la ricerca Scritture di scuola, «realizzata da IPRASE con la supervisione scientifica del professor Pietro Boscolo» e indirizzata sia agli studenti sia agli insegnanti.
L’indagine svolta da Boscolo e Zuin si è concentrata su 39 istituti del Trentino e ha coinvolto 1500 studenti di 15 anni e 450 insegnanti di italiano, ma nel testo si può leggere anche un’approfondita cronistoria e analisi delle varie ricerche in materia eseguite in Italia e all’estero negli ultimi cinquanta anni.
«Le comparazioni consentite dalle indagini mettono in evidenza come il sistema di istruzione del nostro Paese non solo non sia omogeneo, ma presenti delle differenze al suo interno che non è eccessivo definire scandalose e che non dovrebbero essere più tollerate», sottolinea Italo Fiorin nella prefazione, rimarcando la distanza che separa il nostro sistema scolastico d’istruzione da quello finlandese, quest’ultimo da sempre ai primi posti nelle classifiche internazionali: «la risposta è nel suo eccellente sistema di selezione degli insegnanti, nella qualità della loro formazione, nello spirito di innovazione sostenuto dalla ricerca».
“Eccellente sistema di selezione degli insegnanti, qualità della loro formazione, spirito di innovazione sostenuto dalla ricerca”: non stupisce la distanza abissale che separa la scuola italiana da quella finlandese. Ancora nell’indagine svolta da Boscolo e Zuin a essere messi al microscopio sono i ragazzi, giovanissimi, del primo e secondo anno del 2° ciclo d’istruzione, ‘invitati’ a svolgere una prova scritta e a rispondere a un questionario.
L’intento dichiarato dagli autori è quello di voler coinvolgere sia gli alunni che gli insegnanti, ma per quest’ultimi è stato previsto il solo questionario.
Appare utile monitorare la preparazione degli alunni del nostro sistema d’istruzione pubblico ma, soprattutto ove ciò evidenzi lacune e mancanze protratte, non sarebbe il caso di cominciare a ‘testare’ anche la preparazione di chi ha il compito di formare e istruire?
Il 59% dei docenti coinvolti nella ricerca Scritture di scuola ha dichiarato di essersi auto-formato sulla scrittura e sulla didattica della scrittura. Se ne deduce quindi che pur essendo l’80% convinto dell’importanza dello «insegnare a scrivere» si presume che le tecniche apprese per farlo siano eterogenee e tali di conseguenza saranno i metodi applicati. Inoltre il 36% degli insegnanti ha dichiarato di aver appreso le tecniche con «esperienze dello scrivere» al di fuori della scuola. Chi ha valutato questi metodi?
Il libro Come scrivono gli adolescenti di Boscolo e Zuin si suddivide in quattro parti; nella prima si leggono due saggi introduttivi sulle ricerche in ambito internazionale e nazionale sulla scrittura seguiti dalla presentazione di Scritture a scuola e degli strumenti utilizzati, la seconda parte è dedicata agli esiti della “sezione insegnante” mentre la terza all’analisi dei risultati degli elaborati prodotti dagli alunni. Chiudono il testo le considerazioni conclusive.
Per Fiorin il quadro generale del sistema nazionale italiano di formazione e ricerca non brilla certo per eccellenza ma «il Trentino è un’eccezione, molto più vicino al modello finlandese in tanti suoi tratti».
A dirlo non è solo lui ma i risultati dell’indagine OCSE-PISA che hanno evidenziato la competitività della scuola trentina non solo rispetto al resto dell’Italia ma a livello internazionale.
Ed è alla luce di questi dati che gli esiti della ricerca Scritture a scuola divengono più allarmanti.
Al di là dei vari errori di punteggiatura e ortografia riscontrati negli elaborati, incuriosiscono e stupiscono quelli rilevati e inseriti nelle categorie concordanze e lessico e singoli termini usati impropriamente.
Gli errori di concordanze raggiungono una percentuale del 20,48% mentre quelli sul lessico superano la metà (54,10%). E per quanto riguarda la seconda categoria ci è parso più eloquente riportare alcuni esempi di errori riscontrati: «La terra è in fase di aumento della temperatura sia per cause naturali, sia per la manodopera dell’uomo; Gli osservatori climatici hanno approvato che l’anno 2007 è stato l’anno più caldo registrato dal 1860; Inoltre nel 2007 è stato scritto un documento che parla degli adattamenti da prendere nei confronti dei cambiamenti climatici; La terra infatti sta attraversando una fase di alzamento della temperatura».
Rappresentano una piccola parte ma questi errori lasciano comunque basiti trattandosi, tra l’altro, di termini di uso comune riferiti ad argomenti di stretta attualità.
Boscolo e Zuin affermano che «i primi anni della scuola secondaria di secondo grado rappresentano un momento importante nello sviluppo delle abilità di lettura e scrittura», tuttavia nel nostro sistema d’istruzione finisce che la lettura assume una funzione prevalentemente “efferente”, volta a ricavare informazioni e concetti, mentre la scrittura viene considerata una “materia” a sé stante, formalmente inserita nella materia “Italiano”. Eppure pressoché all’unisono gli insegnanti coinvolti hanno dichiarato che lettura e scrittura sono propedeutiche e che per imparare a scrivere il primo esercizio da fare è leggere. Posizione tra l’altro che non sembra errato presumere essere largamente condivisa anche fuori la scuola.
Allora perché nel nostro sistema di istruzione la lettura continua a essere considerata un esercizio finalizzato all’apprendimento e spesso alla memorizzazione delle nozioni orali?
Stando all’ufficio studi AIE che si basa su dati ISTAT nel 2014 il 51,1% dei ragazzi tra i 15 e i 17 anni ha letto «almeno un libro non scolastico nei 12 mesi precedenti». Se consideriamo che la media italiana si aggira sul 41,4% si può affermare che la lettura piace a molti ragazzi di quella fascia di età. Lettura di testi non scolastici però. Inoltre osservando i siti di scrittura e/o di fanfiction si può notare quanto piaccia ai giovani scrivere oltre che leggere.
Perché allora nel test effettuato dagli autori si è notata una certa ‘resistenza’ da parte dei ragazzi evidente ancor di più nelle risposte frettolose e abbozzate del questionario? Potrebbe essere riconducibile al fatto, come ipotizzato dagli stessi Boscolo e Zuin, che gli alunni hanno visto nell’elaborato e nel questionario l’ennesima prova valutativa, oppure il discorso va fatto in maniera più ampia. Quali sono gli argomenti di cui piace leggere e scrivere ai ragazzi di quindici anni? Perché gli adolescenti che sentono il perenne bisogno di comunicare tra di loro, chattare, messaggiare, scambiare opinioni e segreti nella scuola si chiudono a riccio e fingono di non interessassi a nulla?
In base a quanto si legge nella prima Raccomandazione dell’UE, riferita alla comunicazione nella madrelingua, gli studenti, al termine dell’obbligo scolastico, devono aver acquisito la «capacità di esprimere e interpretare concetti, pensieri, sentimenti, fatti e opinioni in forma sia orale che scritta, […] l’abilità di distinguere e di utilizzare diversi tipi di testi, di cercare, raccogliere ed elaborare informazioni». In buona sostanza, qualora decidano di non proseguire gli studi al termine dei cicli obbligatori, devono essere dei cittadini pronti a vivere in società. I quindici-sedicenni italiani lo sono? Stando ai risultati della ricerca condotta da IPRASE in Trentino no.
L’82% dei docenti coinvolti in Scritture a scuola esprime la convinzione che «sia non solo utile ma doveroso promuovere una partecipazione intenzionale e consapevole da parte degli studenti al processo di apprendimento della scrittura». Prospettiva condivisibile ma ancora limitata nel concreto alle attività scolastiche straordinarie che in genere vengono strutturate come ‘lavori di gruppo’ e che quindi proprio nella loro organizzazione strutturale potrebbero trovare le motivazioni che ne vanificano gli effetti. Un dato molto interessante della ricerca infatti dimostra come «lo scrivere in gruppo, collettivamente, sia in realtà apprezzato solo da una minoranza degli studenti e delle studentesse».
Boscolo e Zuin hanno notato «uno scarto tra ciò che gli insegnanti scelgono di realizzare, che di norma è coerente con ciò che pensano, e ciò che ritengono sia veramente funzionale all’insegnamento della scrittura». Incongruenze, distanze tra la convinzione e l’efficacia dell’attività, «con la convinzione che permane nonostante l’attività che ne deriva non sia ritenuta efficace».
Albert Einstein sosteneva che è «follia fare sempre la stessa cosa e aspettarsi un risultato diverso», ma gli insegnanti del Trentino coinvolti nella ricerca di Boscolo e Zuin non sono il fisico e filosofo tedesco e preferiscono a quanto pare seguire una differente filosofia.
I docenti lamentano scarsità di tempo, frammentarietà, disfunzionalità dei dipartimenti disciplinari, «spesso impegnati in adempimenti burocratici anziché in attività di studio e ricerca comune», frattura tra il 1° e il 2° ciclo d’istruzione, nonché la «difficoltà a collaborare con i colleghi». Ma per Boscolo e Zuin «il fattore veramente decisivo rimane la formazione iniziale e in servizio».
Uno dei tre obiettivi che gli autori si erano prefissati con la ricerca Scritture a scuola era quello di aprire un dibattito intorno al tema trattato, soprattutto interno al sistema d’istruzione scolastico. È certamente auspicabile un confronto che preveda la partecipazione attiva di tutti gli attori: dirigenti, docenti, alunni, genitori.
Uno scopo non previsto invece della ricerca e che ha meravigliato gli stessi autori è stato il «contribuire all’elaborazione di indicazioni, esempi, strumenti didattici e valutativi», a cui fanno accenno Boscolo e Zuin nella parte conclusiva di Come scrivono gli adolescenti.

Come scrivono gli adolescenti

 

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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