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Irma Loredana Galgano

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La voce delle donne per sconfiggere la misoginia

15 sabato Gen 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ChiaraFrugoni, Donnemedievali, IlMulino, recensione, saggio

Nella società medievale, guerriera e violenta, la presenza femminile rimane in ombra: le donne, per lo più analfabete e sottomesse, offese e abusate, a volte addirittura considerate specie a parte rispetto agli uomini, come gli animali, non hanno voce.

A meno di non essere obbligate al monastero, dove possono vivere in modo più dignitoso, imparando a leggere e scrivere.

Ma da dove viene tanta misoginia?

Se l’è chiesto anche la professoressa Chiara Frugoni che da anni si dedica allo studio della figura femminile nel medioevo, attraverso la voce delle stesse protagoniste. Una voce non filtrata, come al solito, dallo sguardo e dalla penna di un uomo che toglie la parola alle donne sostituendola con la propria, oppure le immagina e le rappresenta secondo i propri pregiudizi. 

Un passaggio questo molto importante che fa bene l’autrice a sottolineare. Per certo, nella storia ormai millenaria, sono state numerosissime le donne che, con il loro contributo, ne hanno determinato il corso. Ma le loro azioni e parole sono volutamente state celate o mutate oppure, appunto, filtrate dall’operato di uomini solerti e operosi nel fare in modo che esse restassero o ritornassero quanto prima “al loro posto”. Quante volte si è costretti a sentire espressioni come questa ancor oggi, figuriamoci in età medievale!

Un periodo storico che, dal punto di vista culturale, in molte parti del mondo, anche di quel mondo occidentale che tanto si autoproclama civile, non è mai veramente finito.

Una volta affermatosi il celibato dei preti con Gregorio VII, ogni donna è una Eva tentatrice, non compagna dell’uomo ma incarnazione del peccato da cui fuggire. Ricorda Frugoni ai suoi lettori anche il perdurante terrore della Chiesa, giunto fino ai nostri giorni, verso la donna che eserciti funzioni sacerdotali e abbia accesso al sacro. 

Anche la collettività laica intellettuale andò di pari passo: ad esempio attraverso i trattati dei pedagoghi ci si affanna a raccomandare che le donne rimangano analfabete, un modo per negare loro un posto nella società, per mantenerle sottomesse. 

Oggi, in un paese come l’Italia, per fare un esempio, le donne sono molto istruite, spesso più dei coetanei maschi eppure, all’ingresso del mondo lavorativo sembra esserci un filtro che le dimezza e ne riduce drasticamente la percentuale di presenza rispetto agli uomini, soprattutto nei livelli più alti, della sfera pubblica come di quella privata. 

Possibile mai che tutte le competenze acquisite diventino improvvisamente inutili e inutilizzabili? Possibile mai che tante studentesse meritevoli e volenterose perdano poi all’improvviso le capacità organizzative e non riescano ad organizzarsi altrettanto proficuamente nel mondo professionale?

Ovvio che il problema non vada ricercato in questo. E neanche la soluzione.

Per le cinque protagoniste del libro di Chiara Frugoni l’incontro con un uomo non fu felice. Le loro qualità, il loro talento si schiusero in una vita di donne sole. E oggi, si interroga l’autrice, il legame familiare quanto condiziona una donna nella espressione piena dei suoi desideri e delle sue possibilità? Una domanda cui, ovviamente, non prova nemmeno a dare risposta, non nel libro almeno. Spetta a ogni lettrice, a ogni donna, farlo. 

Almeno oggi, nella gran parte dei casi, un uomo e una donna decidono di sposarsi perché si amano. E se i genitori sono felici, molto probabilmente anche i figli lo saranno. 

Ma, sottolinea Frugoni, nulla di tutto questo interessa la Chiesa nell’XI e XII secolo, essendo questa impegnata a incasellare i sentimenti dei coniugi in altrettanti possibili peccati. 

Il matrimonio è presentato come un pericoloso cedimento alla tentazione. In un testo attribuito in passato a san Bernardo, questi paragona una donna sposata a una sirena, tentatrice e ammaliatrice per antonomasia. 

Tutte e tre le religioni monoteiste (ebraica, cristiana e islamica) hanno pesantemente condizionato la vita della donna e, di riflesso, l’immagine che questa si è costruita di se stessa. 

Sono passati secoli, l’organizzazione della società è notevolmente cambiata eppure spesso la donna continua a essere considerata un essere inferiore. Inspiegabilmente.

Oggi le donne che riescono a trasmettere la loro voce non filtrata sono molte di più che in passato, eppure…

Il 6 aprile 2021 il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si sono recati ad Ankara per un incontro ufficiale con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Solo che la seduta da regole protocollari, la poltroncina con le bandiere alle spalle, è stata preparata e porta solo a Michel. La notizia e, soprattutto, il video che riprende l’intera scena, sono diventati virali. Si è ipotizzato sui motivi del gesto di Erdogan. Non che conoscendoli la situazione cambi. Tuttavia a stupire di più è stata la non reazione proprio di Michel il quale, in un secondo momento, si è scusato. Ci ha riflettuto oppure è stato indotto a farlo. Non ha capito subito cosa stava accadendo. Va bene. 

Ursula von der Leyen invece lo capisce subito e, pur mostrando tutto il risentimento di questo mondo, mantiene un atteggiamento e un comportamento formali, eleganti, dignitosi e degni della carica che ricopre. Il video e le sue dichiarazioni successive sono di dominio pubblico, ognuno può vederlo e sentirle. Durante il G20 di ottobre 2021 stringerà anche pubblicamente la mano del presidente Erdogan per suggellare il bilaterale. 

A fine novembre 2021 una giornalista è stata molestata mentre lavorava. Le immagini, riprese dal cameraman che la accompagnava, sono diventate subito virali. È seguita denuncia e racconto di altre molestie, verbali e fisiche, subite quella sera da Greta Beccaglia. Il collega in studio, che poi si è scusato, sembra non abbia capito la situazione suggerendole di andare comunque avanti e che tutto fa esperienza. In un secondo momento, dopo, poi… sembra aver capito. 

Uno degli aggressori è stato identificato, interrogato, impalato sui social. Il suo avvocato ha tenuto a precisare che si tratta di un uomo che è sempre stato rispettoso delle donne e padre di una bambina. Si immagina che il suo timore fosse di essere rappresentato come un uomo non “per bene” e di essere assimilato a un delinquente, ovvero una persona che delinque, che viola la legge e commette un reato. Brutta cosa sentirsi braccati, non essere liberi di poter parlare e muoversi senza incontrare e scontrarsi con qualcuno che ti giudica (per l’aspetto, per l’abbigliamento, per il comportamento…) senza magari neanche conoscerti eppure sentirsi libero di dirti o farti qualunque cosa gli passi per la mente in quel momento. Che brutta sensazione davvero!

Gli esempi che si possono citare, purtroppo, sono innumerevoli. Sono stati scelti questi due perché subiti da due donne che hanno dimostrato, a testa alta, di avere una dignità suprema. Hanno affrontato la situazione e fatto sentire la propria voce “non filtrata” anche laddove hanno evitato apposta di parlare. Come le protagoniste medievali del libro di Frugoni, donne emerse da una folla negletta. Personalità eccezionali, capaci di rompere le barriere di un destino rigidamente segnato. Monache e regine, come Radegonda di Poitiers, scrittrici come Christine de Pizan, personaggi leggendari come la papessa Giovanna, figure potenti come Matilde di Canossa, donne comuni ma talentuose come Margherita Datini.

E tutte hanno scontato con la solitudine il coraggio e la determinazione con cui hanno ricercato la piena realizzazione di sé.

Donne medievali di Chiara Frugoni è un’opera monumentale, per contenuti, analisi e competenza. La parte narrativa è supportata da citazioni da fonti bibliografiche come da immagini di miniature, affreschi, ricami… Una narrazione che ripercorre gli stadi e le fasi della sempre troppo diffusa misoginia, a partire proprio dal “peccato originale”. Cosiddetto tale. 

Un libro che è un monumento a nutrire l’intelletto. Di fondamentale valore culturale ed educativo. 


Il libro

Chiara Frugoni, Donne medievali. Sole, indomite, avventurose, Società editrice ilMulino, Bologna, 2021.

L’autrice

Chiara Frugoni: ha insegnato Storia medievale nelle Università di Pisa, Roma e Parigi. Autrice di numerosi saggi, molti dei quali tradotti nelle principali lingue europee, oltre che in giapponese e coreano. 


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società editrice il Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


CONSIGLI DI LETTURA

“Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo” di Monica Lanfranco (Erickson, 2019)

Superare le disuguaglianze di genere è anche una responsabilità intellettuale. “Disuguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo” di Bina Agarwal (ilMulino, 2021)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La Democrazia rappresentativa europea tra crisi epocali e istituzioni da rinnovare

19 mercoledì Mag 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AntoineVauchez, CristinaFasone, IlMulino, NicolaLupo, ParlamentieDemocraziainEuropa, recensione, saggio

Sulla base dei dati forniti dal rapporto The global state of Democracy 2019 di IDEA (International Institute for Democracy and Electoral assistance) sono europei ben 39 dei 97 Stati democratici oggi riconosciuti a livello globale. Va ricordato inoltre che, con il Parlamento europeo, l’Unione può vantare di avere il primo, e sostanzialmente unico, caso di un Parlamento eletto direttamente su scala sovranazionale, ormai sganciatosi completamente dei parlamenti nazionali.

Eppure è largamente diffusa l’insoddisfazione per il funzionamento della democrazia in Europa. Una insofferenza accentuata con riguardo all’Eurozona. 

Lecito domandarsi il perché di tutto ciò. Gli autori e i curatori sono andati anche oltre, spingendosi in un’articolata analisi della dinamica istituzionale dell’Unione europea allo scopo di comprendere se e come i Parlamenti possano continuare a funzionare anche in Stati caratterizzati da autonomie forti e asimmetriche. Nonché il ruolo di concerto del Parlamento europeo, in affiancamento ai Parlamenti nazionali, come garante di un’adeguata rappresentanza politica nei processi decisionali di  un’unione europea anch’essa sempre più asimmetrica, e dell’Eurozona in particolare.

Le principali asimmetrie riscontrabili in Europa sono:

  • Il divario che si riscontra tra i 19 Stati membri dell’Eurozona, da un lato, che condividono la stessa valuta, la politica monetaria della Bce e le procedure macroeconomiche e fiscali comuni più stringenti, e gli 8 Stati membri dell’Unione, ma non dell’Eurozona, dall’altro.
  • Il divario tra i Paesi creditori, quelli cioè che offrono assistenza finanziaria da una parte, e i Paesi debitori, ossia i destinatari dei medesimi programmi finanziari dall’altra.

Il fatto che l’assistenza finanziaria sia stata fornita principalmente, al di fuori del quadro giuridico dell’Unione, dal Fondo Monetario Internazionali (Fmi), dal Fondo Europeo di Stabilità (Mes), dal quale il parlamento europeo è completamente escluso, non ha certamente favorito la formazione di procedure significative di accountability democratica.

Queste procedure sulla concessione di assistenza finanziaria sono fortemente influenzate dagli assetti adottati a livello costituzionale interno. Così i Parlamenti di 5 Stati membri (Austria, Finlandia, Estonia, Germania, Slovacchia), essendo titolari individualmente o insieme ad altri Parlamenti di poteri di veto sull’esborso di questi fondi o sulla decisione di aumentare la quota nazionale, potrebbero bloccare l’adozione di un pacchetto di salvataggio, originando quindi ripercussioni significative sul paese potenzialmente beneficiario e sull’intera Eurozona.

Un ulteriore aspetto da indagare gli autori lo evidenziano nella asimmetria tra i partecipanti alle votazioni e i destinatari dei provvedimenti sottoposti a votazione.

Per quanto riguarda l’Eurozona, un numero significativo di europarlamentari, quelli eletti negli Stati che non ne fanno parte, prende decisioni per le quali non si assume alcuna responsabilità davanti ai loro elettori, in quanto destinate a incidere esclusivamente, almeno in forma diretta, sui cittadini di altri Stati membri. 

Va inoltre considerato che l’aspirazione del parlamento europeo a rappresentare i cittadini dell’Unione non corrisponde appieno alla realtà. Si tratta tuttora di un’istituzione eletta sulla base della legislazione elettorale adottata da ciascuno Stato membro, sebbene nel rispetto di pochi in realtà principi comuni, con seggi assegnati agli Stati membri sulla base del contestato principio della proporzionalità degressiva. 

Nella condizione attuale del Parlamento europeo è particolarmente difficile controllare autorità intergoverarnative sempre più potenti, specie quando di natura simmetrica, come l’Eurogruppo e il Vertice euro che rappresentano strutturalmente solo alcuni Stati membri. 

È indubbio per gli autori che la cooperazione interparlamentare possa contribuire a colmare le lacune nelle asimmetrie informative che caratterizzano i Parlamenti, soprattutto nel contesto della governance dell’UEM (Unione economica e monetaria), in cui ogni Parlamento nazionale dispone di un’informazione ristretta e orientata agli interessi dei suoi cittadini, ma resta sprovvisto nel quadro generale su ciò che avviene a livello di Unione. 

Per contro, il Parlamento europeo probabilmente è a conoscenza del contesto generale, ma fatica a cogliere le sfumature dei diversi sistemi costituzionali e politici nazionali e non è in grado di esercitare alcun controllo significativo sugli organi intergovernativi, e soprattutto su quelli che fanno riferimento esclusivo all’Eurozona, anche se può far valere i propri indirizzi nei confronti della Commissione, la quale partecipa a questi organi. 

L’unico organo, in teoria, in grado di esercitare un efficace coordinamento interparlamentare sembrerebbe essere rappresentato dalla Conferenza dei presidenti dei Parlamenti europei, ma nei casi in cui ha tentato di svolgerlo, facendo leva sulle amministrazioni parlamentari, ha incontrato non pochi ostacoli.

La Democrazia rappresentativa, tanto nell’Unione quanto nei suoi Stati membri, ha affrontato nell’ultimo decennio sfide epocali:

  • Crisi economico-finanziaria
  • Crisi migratoria
  • Crisi dello stato di diritto
  • Pandemia da COVID-19

Le numerose crisi vissute dall’Unione hanno favorito anche la nascita, soprattutto negli ultimi anni, di riunioni interparlamentari definibili su scala regionale, ossia di Parlamenti dell’Europa meridionale, del Nord Europa o del gruppo di Visegrad. Anche riunioni interparlamentari da parte dei cosiddetti clusters of interests. Una delle iniziative più recenti in tal senso è la creazione dell’Assemblea franco-tedesca per un migliore coordinamento interparlamentare sugli affari dell’Unione europea e per approfondire l’integrazione europea.

Tuttavia alcune recentissime iniziative assunte dalle istituzioni europee, con prevalenza riguardo la pandemia, sembrano mostrare una nuova prospettiva di sviluppo dell’Unione stessa, volta proprio a riequilibrare le asimmetrie esistenti tra gli Stati, almeno da un punto di vista economico, in particolare gli autori fanno riferimento a:

  • Il pandemic emergency purchase programme con un’azione di supporto finanziario non già solo in proporzione alle quote di capitale cui contribuiscono le varie banche centrali nazionali, ma anche in relazione alle effettive necessità dei paesi dell’Eurozona.
  • Il piano per la ripresa presentato dalla Commissione europea, denominato Next Generation EU che mira a redistribuire risorse all’interno dell’Unione, alleviando gli squilibri più macroscopici riscontrabili al suo interno nella fase post-pandemica. 

Le asimmetrie non si riscontrano solo nei rapporti tra Stati ma anche all’interno di singoli Stati europei. Basti pensare alle problematiche posizioni di Scozia e Irlanda del Nord riguardo la Brexit, oppure alla questione catalana in Spagna. E qui ben si inseriscono i modelli di demoi-crazia, ampiamente esposti nel testo da Robert Schütze.

L’Unione europea è stata progettata per gettare le basi di un legame sempre più stretto tra i popoli d’Europa. 

Il termine demoi-crazia è stato coniato proprio per concettualizzare le potenzialità democratiche di un’unione di demoimultipli. La demoi-crazia non vuole un’identità politica comune e condivisa alla base di tutte le identità nazionali, ma la condivisione differenziata delle identità nazionali. 

L’idea di demoi-crazia, come governo dei popoli, fornisce la via di mezzo in un mondo in cui lo Stato-nazione perde sempre di più la sua autonomia di scegliere democraticamente per il suo “popolo” e in cui l’idea di Stato-mondiale rimane un’opzione lontana e distante. Offrendo una via di mezzo tra cosmopolitismo e nazionalismo, un limitato regionalismo democratico permette di contenere le pressioni esterne della globalizzazione, mentre rappresenta anche un compromesso interno che combina unità democratica con diversità democratica. 

Unione di Stati in cui sia l’Unione che i suoi Stati sono fondati su principi repubblicani e in cui i popoli dell’Unione governano insieme come molti in uno. In avallo al modello di federalismo repubblicano proposto da  Schütze che accentua la natura duale del governo democratico all’interno di un’Unione repubblicana di Stati. 

Ampio respiro viene dato anche all’esposizione degli sviluppi e delle battute di arresto del T-Dem, tentativo di risolvere su scala europea il famoso triangolo dell’impossibilità nell’economia mondiale tra democrazia, sovranità nazionale e globalizzazione economica, come enunciato da Dani Rodrik. Di riconnettere le democrazie nazionali alla governance economica europea e di superare l’immobilismo intergovernativo di strutture come l’Eurogruppo.

Dare vita a un nuovo compromesso politico-istituzionale che risponda al crescente scollamento tra i luoghi di esercizio della Democrazia e il livello delle decisioni politico-economiche, come anche tra le rivendicazioni della sovranità nazionale – il taking back control – e la pressione inversa esercitata dalle interdipendenze economiche e finanziarie su scala europea e internazionale. 

La speranza dei promotori del T-Dem era di poter rappresentare una “terza via” tra il sovranismo e il sovranazionalismo. Nel testo gli autori affrontano il tema non tanto per avallare in toto il progetto o smontare le critiche avanzate, piuttosto interrogarsi sulla validità o meno della proposta a tre anni dalla sua elaborazione. 

Innegabile è lo spostamento delle politiche dell’Eurozona con un ritorno all’agenda sociale (il cosiddetto lavoro di socializzazione del Semestre europeo) e la trasformazione green del Semestre europeo promesso dalla presidente della Commissione Ursula van der Leyen nell’ambito del suo progetto di Green Deal. E gli autori ravvedono in alcuni di questi cambiamenti anche soluzioni già suggerite nel T-Dem, nella fattispecie:

  • Una forma embrionale di Assemblea parlamentare transnazionale creata nell’ambito del nuovo Trattato di cooperazione e integrazione franco-tedesca firmato a gennaio 2019.
  • Lo Strumento di bilancio per la convergenza e la competitività (Budget Instruments for Convergence and Competitiveness, BICC), che è stato oggetto di intensi negoziati all’interno dell’Eurozona.

Hennette e Vauchez ritengono necessario ribadire inoltre che i capi di stato e di governo portano costantemente a livello europeo le nuove competenze chiave in campo economico, finanziario e di bilancio, senza però mai chiarire la questione della responsabilità politica di questo polo esecutivo europeo che sfugge sempre ai controlli giuridici, nonché alla politica rappresentativa dei partiti e dei Parlamenti. 

Ciò che ancora non cambia quindi è questa sorta di zona grigia in cui si sta sviluppando la governance dell’Eurozona, tra l’indipendenza di una Banca centrale con ormai molteplici ruoli, il carattere informale di un Eurogruppo, istituito come un’entità di crisi europea a tutto tondo, e la non appartenenza al quadro istituzionale comune del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), la cui importanza è evidente ora più che mai visto il ruolo guida dell’imponente piano di sostegno agli Stati membri. 

Lungi dall’essere bloccati, durante le crisi i singoli Stati hanno dimostrato di avere una certa capacità di improvvisazione e gradi di libertà talvolta imprevisti. Ciò rappresenta, per gli autori, la riprova del fatto che il marmo dei Trattati non ha la durezza e l’eternità che solitamente gli si attribuiscono per cui si ritiene plausibile e ammissibile un buon margine di modifica a tutela della Democrazia e della rappresentatività dei tanti demoi che vanno a comporre l’Unione europea. 

Bibliografia di riferimento

Cristina Fasone, Nicola Lupo, Antoine Vauchez (a cura di), Parlamenti e democrazia in Europa. Federalismi asimmetrici e integrazione differenziata, Società editrice ilMulino, Bologna, 2020

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni del Mulino per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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LEGGI ANCHE

Dove è finita la Democrazia? Problemi e pratiche di un Occidente alla deriva. “La democrazia divenuta problema” di Alessandro Corbino (Eurilink University Press, 2020)

L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Superare le disuguaglianze di genere è anche una responsabilità intellettuale

26 venerdì Mar 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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BinaAgarwal, Disugugaglianzedigenere, IlMulino, recensione, saggio

Nell’analisi della disuguaglianza di proprietà e ricchezza condotta, come sottolinea l’autrice e come facilmente si desume dalla stessa lettura, la questione dei diritti delle donne in materia di proprietà, soprattutto della terra, ha messo in discussione i presupposti standard dell’economia agricola e marxista, e ha portato a una crescente mole di studi in molti paesi negli ultimi anni. 

Allo stesso tempo, si rende necessario mettere in dubbio l’idea che le scienze sociali tradizionali debbano essere il punto di riferimento principale per giudicare i contributi dell’analisi di genere. 

Esiste infatti, per Agarwal, anche una responsabilità intellettuale nei confronti della comprensione della natura e delle cause della disuguaglianza di genere in tutte le sue forme. 

C’è la necessità di concepire criteri che siano rilevanti per l’obiettivo più ampio, ovvero plasmare gli sforzi intellettuali in modo da contribuire non solo al mondo della conoscenza con rigore scientifico, ma anche a migliorare la vita delle donne, come anche degli uomini, intorno a noi, specialmente di quelle meno fortunate. Perché, alla fin fine, è sempre su di esse che ricade il peso maggiore di violazione dei diritti, violenze e soprusi.

Le donne in famiglie povere spesso tendono a essere abbandonate dai loro coniugi in periodi particolarmente disagiati. 

Esaminando le testimonianze storiche della Grande carestia del Bengala del 1943, Bina Agarwal mette in evidenza che tale abbandono si è verificato proprio quando le donne hanno perso i loro limitati beni o le opportunità di guadagno, mentre gli uomini conservavano ancora parte dei loro beni e diritti. Di conseguenza, alle donne rimaneva poco da offrire in termini materiali, il che riduceva notevolmente il loro potere negoziale in famiglia.

È proprio sulla nozione-pilastro di potere negoziale che Agarwal costruisce la struttura portante del suo ragionamento, edificato analizzando i dati frutto di anni di studio, ricerca e indagine. 

Il modello unitario della famiglia presuppone che tutte le risorse e i redditi siano messi in comune, che i membri della famiglia condividano interessi e preferenze comuni e che un capofamiglia altruista, che rappresenta i gusti e le preferenze della famiglia, allochi le risorse per massimizzare l’utilità della famiglia. 

Questa è la teoria.

La realtà, osservata da Agarwal in Asia ma visibile in gran parte del pianeta, è molto diversa.

Esiste e persiste una notevole diseguaglianza di genere all’interno delle famiglie per quanto riguarda l’accesso a cibo, assistenza sanitaria, cure mediche, istruzione e risorse economiche. 

Tenendo in considerazione queste diseguaglianze, alcuni economisti hanno proposto modelli alternativi di famiglia e, soprattutto, modelli di negoziazione, in cui le interazioni intra-famigliari sono viste come caratterizzate da elementi sia di cooperazione che di conflitto. Il risultato che ne deriva dipende, appunto, dalla capacità di negoziazione di ciascun membro della famiglia. 

L’approccio alla negoziazione si estende anche al di là della famiglia, alle aree interconnesse del mercato, della comunità e dello Stato. E i fattori alla base del potere di negoziazione devono essere ampliati fino a includere il controllo, da parte delle donne, della proprietà privata e della comunità, così come le norme e le percezioni sociali. 

Una riforma giuridica dello Stato che rafforzi, per esempio, i diritti delle donne sulla proprietà può rafforzare il loro potere negoziale all’interno delle famiglie, migliorando il loro accesso alle risorse economiche e aumentando le loro vie d’uscita. 

Nei suoi studi Bina Agarwal ha potuto constatare che il fattore più importante incidente sul potere negoziale delle donne, ma anche sul loro status economico, sociale e politico, è il possesso di beni, soprattutto della terra, sottolineando l’idea di controllo sulla proprietà che implica non solo il suo possesso ma anche il potere di controllo su di essa. 

Da un’indagine condotta su 502 famiglie rurali e urbane selezionate in modo causale in Kerala (India) Agarwal, unitamente ad altri studiosi, ha potuto constatare come esista uno stretto legame tra il possesso di beni immobili da parte delle donne, come terra e abitazioni, e il rischio di subire violenze coniugali. 

A livello empirico, la ricerca dimostra che il possesso di una casa o di un terreno, o di entrambi, riduce significativamente il rischio di violenza coniugale per una donna. Si potrebbe quindi ipotizzare che i beni immobili offrano alla donna sicurezza economica e fisica, aumentino la loro autostima e, cosa non da poco, il loro potere negoziale. 

Succede esattamente il contrario per impiego e occupazione. Le donne con un impiego migliore dei loro mariti sembrano ingenerare in loro molta ostilità.

Oggi, la letteratura che mette a confronto la produttività relativa degli agricoltori maschi e femmine ha stabilito che le differenze di genere sono attribuibili al minore accesso delle donne alla terra, alla tecnologica e ai fattori di produzione, piuttosto che alle scarse capacità manageriali o fisiche. Eppure persistono pregiudizi di genere, reminiscenza della vecchia cultura novecentesca. 

Negli anni ’70, per esempio, gli economisti agrari, nell’aggregare gli impieghi totali di manodopera, avevano la tendenza a considerare il tempo di lavoro delle donne come la metà o i tre quarti del tempo di lavoro degli uomini. Ciò era considerato motivo sufficiente per giustificare anche la disparità nei salari. 

Utilizzando i dati forniti da uno studio condotto dall’Università agraria del Punjab, che ha testato l’uso di attrezzature per lo scavo di patate, Agarwal ha facilmente smontato le teorie appena esposte: le donne sono risultate essere diverse volte più efficienti degli uomini. 

Quando Bina Agarwal ha iniziato a condurre i suoi studi di genere, alla fine degli anni ’70, era talmente rara da essere quasi unica nel panorama internazionale. Oggi invece c’è una grande quantità di analisi su una vasta gamma di argomenti che cercano di mettere in discussione l’economia mainstream. L’intera società mainstream. E viene da sé che tanto lavoro ancora da fare c’è anche in quei paesi, come l’Italia ad esempio, che si vedono distanti dalle economie in via di sviluppo dove si presuppone, dove si sa che le disuguaglianze di genere sono solchi più profondi. Ma i dati, i numeri, le statistiche… ci dicono con estrema chiarezza che gli obiettivi da raggiungere sono anch’essi ancora molto distanti, troppo.E lo sono per le economie in via di sviluppo ma anche per le economie che invece si ritengono già parecchio sviluppate. 

La pubblicazione, in Italia, di questo compendio di articoli e studi di Bina Agarwal è senz’altro positivo, istruttivo e motivazionale. Il lavoro condotto da Agarwal in tutti questi anni è monumentale, non solo dal punto di vista quantitativo ma, soprattutto, qualitativo. Un lavoro che ha giovato alla teoria, soprattutto a quella della contrattazione, ma anche alla pratica, alla economia applicata. 

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Bibliografia di riferimento

Bina Agarwal, Disuguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo, Alberto Quadrio Curzio (a cura di), il Mulino, Bologna, 2021.

L’autrice

Bina Agarwal: È docente di Development Economics and Enviroment all’Università di Manchester; già docente di Economics e direttore dell’Institute of Economics Growth, University of Delhi. Membro dell’Accademia dei Lincei. Ha partecipato alla Commission for the Measurement of Economics Performance and Social Progress.

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Articolo disponibile anche qui

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Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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LEGGI ANCHE

“Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo” di Monica Lanfranco (Erickson, 2019)

Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Quanto incide la scuola su crescita ed economia?

08 lunedì Feb 2021

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IlMulino, Nellospecchiodellascuola, PatrizioBianchi, recensione, saggio

L’Italia è il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET. L’Italia è anche il paese che è cresciuto meno negli ultimi venti anni e si è presentato all’appuntamento con la pandemia con un tasso di crescita annuale dello 0,3 per cento su base nazionale.

Ragioni per cui, per Patrizio Bianchi, un ritorno alla normalità pre-covid non può e non deve più bastare. 

«non possiamo accontentarci di tornare alla situazione precedente, ma diviene ormai indifferibile avviare una vera fase costituente per la scuola, per aprire una nuova stagione in cui la scuola torni a essere, o meglio divenga, il motore di una crescita di un paese che da troppo tempo è bloccato.»

Sottolinea Bianchi nel testo come, mentre a livello internazionale si veniva delineando un profondo cambiamento strutturale, che ha aperto la via a una nuova economia basata sulla digitalizzazione della produzione e degli scambi, il nostro paese sprofondava nella crisi fiscale dello Stato, con un deficit e un debito il cui peso sottraeva risorse a educazione e ricerca e, quindi, a quell’innovazione necessaria per capire e affrontare la trasformazione dell’economia e della società.

È in questa fase che emerge con forza il bisogno di nuove competenze, nuove abilità, nuove capacità critiche per comprendere questi straordinari processi di riorganizzazione dell’economia e della società e, nel contempo, di nuove modalità di organizzazione dei processi educativi non solo per i ragazzi ma anche per gli stessi adulti. 

La nuova scuola quindi deve predisporre competenze e abilità rivolte a comprendere queste nuove realtà complesse e a predisporre le persone ad affrontare un cambiamento continuo. Il rischio, ribadisce chiaramente Bianchi, è che la pandemia diventi la coperta sotto la quale nascondere tutti i problemi accumulati nel tempo, problemi e inefficienze che hanno ostacolato la possibilità di cogliere i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie. 

L’Unione europea aveva considerato come obiettivo fondamentale per una «società della conoscenza» la presenza di almeno il 40 per cento di giovani fra i 30 e i 34 anni laureato. Nel 2019, in Italia, la quota di giovani laureati non cresce e rimane bloccata al 27,6 per cento, ovvero sotto di quasi 13 punti percentuali rispetto all’obiettivo fissato. L’Unione europea ha già superato questo traguardo mentre l’Italia resta indietro ed è avanti solo alla Romania. 

Valori molto bassi e assolutamente inaccettabili si riscontrano anche nel momento delicatissimo della transizione dalla scuola al lavoro. 

Sottolinea inoltre Patrizio Bianchi il fatto che il livello di istruzione degli emigranti odierni è molto più alto di coloro che rimangono in Italia, tanto che il tasso di emigrazione è doppio fra i laureati e i diplomati rispetto a chi non ha un titolo di studio, evidenziando come la nuova emigrazione italiana dreni soprattutto fra coloro che hanno le competenze più necessarie per lo sviluppo. 

Alto permane ancora, purtroppo, il tasso di dispersione scolastica. Anche se diminuito nel tempo, rimane – 13,3 per cento – tuttavia al di sopra del limite fissato come obiettivo dall’Unione europea (10 per cento entro il 2020). Va inoltre sottolineato che questo è il tasso di dispersione esplicito, ovvero quello visibile e numerabile. Bisogna considerare anche la dispersione implicita, ovvero coloro i quali, pur conseguendo un titolo o un diploma, egualmente non possiedono le competenze adeguate. 

Il 19 giugno 2020 la Commissione europea pubblica il Digital Economy and Society Index (DESI) ovvero l’indice composto che misura le capacità e le competenze di cui dispone un paese in ambito digitale.

Se nella connettività l’Italia si colloca appena sotto la media europea, è proprio nella disponibilità di competenze e capitale umano adeguato che risulta definitivamente ultima fra i paesi europei. 

E quindi, per Bianchi, non è casuale che il nostro paese, con i più bassi tassi d’istruzione d’Europa, sia anche il paese che negli ultimi venti anni, ovvero gli anni dell’economia della conoscenza, è quello cresciuto meno di tutti. 

Fonte: Commissione europea – www.ec.europa.eu

Mentre in Germania si affrontavano crisi e rilancio dell’economia investendo in educazione, in Italia si effettuavano tagli proprio all’istruzione, oltre che a sanità e welfare. Ed è in questi tagli che si colloca, per l’autore, la radice del ritardo italiano. 

La riduzione della spesa per l’educazione proprio nel momento del rilancio e del passaggio alla digitalizzazione, ha inciso sullo sviluppo delle tecnologie e soprattutto sulle competenze.

Non si tratta quindi, sottolinea Bianchi, di ritrovare la quotidianità della scuola dopo la sospensione dovuta alla pandemia, ma di ridisegnare una scuola che sia fattore di sviluppo per l’intero paese. 

Una nuova scuola i cui ambiti di competenza possono essere sintetizzati con l’acronimo CAMPUS (Computer/Coding, Arte, Musica, Polis, Sport), a sottolineare come la nuova scuola debba essere un  campo in cui allenarsi insieme a una vita in cui l’obiettivo fondamentale sia costruire comunità solidali e coese. 

L’idea alla base dei Patti educativi di comunità, indicati nel Rapporto conclusivo come la via maestra da seguire, è quella di aprire alla scuola reali spazi di arricchimento formativo e rendere la comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attivazione alla legge sull’autonomia. Cruciale diventa anche il rapporto con l’università e i centri di ricerca, che devono avere la possibilità di costruire relazioni più strette con la scuola. 

Migliorare le conoscenze e le competenze nelle materie scientifico-tecnologiche, cioè STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). 

Smetterla di inseguire l’alternanza scuola/lavoro ma andare verso forme di integrazione in cui reciprocamente le imprese, le scuole, gli enti di ricerca si rendano fra loro complementari. 

Sono già numerose le iniziative indicate come «scuola-fuori-dalla-scuola» ma, affinché il cambiamento abbia senso, bisogna ci sia una loro diffusione capillare. 

È necessaria anche una rivalutazione della figura dell’insegnate e della sua centralità nell’educazione e formazione degli alunni come un loro adulto di riferimento. 

Così è riemerso anche il tema da tempo rinviato dell’adeguamento del numero dei docenti e del personale tecnico. Anche una volta però, sottolinea amaramente Patrizio Bianchi, una materia, che avrebbe dovuto essere il centro di una programmazione di lungo periodo, è stata affrontata in termini emergenziali. 

Molte delle proposte avanzate dal Comitato sono state poi adottate dall’amministrazione in diversi decreti successivi. Tuttavia, l’aver scelto di attivare di volta in volta i diversi provvedimenti ha fatto venir meno la visione complessiva. 

È questo quindi il momento di scegliere se attuare un vero cambiamento oppure lasciare che questa diventi l’ennesima occasione perduta. 

La pubblicazione del libro di Patrizio Bianchi con ilMulino a ottobre 2020, a tre mesi dalla consegna del Rapporto finale della Commissione da lui coordinata, libro nel quale elenca le medesime criticità e propone le stesse soluzioni indicate nel suddetto rapporto, e soprattutto il modo in cui li espone, lascia sottintendere al lettore che il treno del cambiamento, ahinoi, potrebbe essere già passato e che, ancora una volta, l’Italia si è fatta trovare impreparata, o distratta.

Bibliografia di riferimento

Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, ilMulino, Bologna, 2020

L’autore

Patrizio Bianchi: Professore di Economia all’Università di Ferrara, rettore e docente per la Cattedra UNESCO in Educazione, crescita e uguaglianza, assessore alla regione Emilia-Romagna a Scuola, educazione, università, ricerca, formazione e lavoro. Coordinatore del Comitato per il rilancio della scuola dopo la COVID-19.

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni del Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018)

“Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)

25 venerdì Set 2020

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FrancoGarelli, Gentedipocafede, IlMulino, recensione, saggio

Cosa è cambiato nella religiosità e, soprattutto, nella spiritualità degli italiani del nuovo millennio? Quanto contano oggi i valori di fede ed etica? Il multiculturalismo ha inciso anche sugli aspetti più intimi della spiritualità?
Questi e tanti altri interrogativi trovano una valida ed esaustiva risposta nel saggio pubblicato dalla Società Editrice ilMulino Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio. Un testo nel quale il professor Franco Garelli raccoglie e analizza i risultati di un’ampia indagine, quantitativa e qualitativa, su religiosità e spiritualità oggi in Italia. Uno studio accurato che riporta al lettore un dettagliato resoconto e una approfondita analisi della società italiana, indagata attraverso la spiritualità e la religiosità ma elaborata nel suo vivere “civile” e quotidiano.

«Viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità:

la religione non fa eccezione.»

Franco Garelli è stato ordinario di Sociologia dei processi culturali e di Sociologia delle religioni all’Università di Torino ed è membro dell’International Society for the Sociology of Religion. Ha svolto l’indagine con il supporto dell’Apsor (Associazione piemontese di sociologia delle religioni), dell’Ipsos, dell’Università di Torino, della Cei.
Uno studio che si rivela fin da subito interessante per il lettore. Per la capacità di aver abbracciato, inglobato e indagato tutti, o quasi, i temi di fede, spiritualità, etica e bioetica i quali, spesso, sono al centro del dibattito pubblico ma solo perché riferiti o conseguenza di eclatanti fatti di cronaca. Nel libro di Garelli invece, sono sviscerati con occhio critico sì ma obiettivo e, dalla attenta lettura dei dati e delle riflessioni riportate, il lettore riesce davvero a prendere coscienza di dove stanno andando Italia e italiani in questo Terzo Millennio ormai rodato.

Da alcuni anni a questa parte, l’Italia religiosa è in grande movimento: per la crescita dell’ateismo e dell’agnosticismo tra i giovani, per l’aumento di fedi diverse da quelle della tradizione, per la ricorrente domanda di forme nuove o alternative di spiritualità.
A farne le spese sembra essere “quel cattolicesimo che per molto tempo ha rappresentato la cultura comune della nazione, ma che appare in difficoltà a raccordarsi con la coscienza moderna, nonostante la presenza a Roma di papa Francesco”.
In Italia non sta avvenendo quello che alcuni definiscono rottura silenziosa della tradizione religiosa, cosa che starebbe accadendo in altri paesi del Centro-Nord Europa, tuttavia “su tutto il discorso c’è un warning generazionale, che getta una luce sinistra sulle sorti del cristianesimo, ma fors’anche sul futuro della religione”.
Gli indici di religiosità presentano un andamento a scalare direttamente proporzionale al diminuire dell’età.

Inoltre, tutti oggi – credenti e non credenti – interpretano e vivono la loro condizione in modo più libero e aperto rispetto al passato. “È il lato soggettivo della vita umana che prende il sopravvento anche sulle questioni religiose e informa il modo in cui le persone si definiscono e percepiscono in questa sfera della vita”.

Oltre ad essere più incerto, il credente di oggi sembra anche più solitario. Affronta in solitudine le vicende della vita, ma anche le sfide che l’epoca attuale pone alla fede religiosa.
Sfide che derivano, ad esempio, dal contatto con quanti professano altre fedi o credono laicamente. Oppure dalla difficoltà di orientarsi in una sfera etica e bioetica in continua evoluzione. Oppure ancora dal vivere in un mondo globale, “ricco di inquietudini e paure, di disuguaglianze e di squilibri, di spettacoli del dolore”.

Garelli ricorda ai lettori che, fin dagli anni della contestazione – ’68 e dintorni – , alcuni studiosi evocano l’idea che nella chiesa “sia in atto uno scisma sommerso”, per la distanza di molti cattolici dalla dottrina ufficiale nella sfera dei comportamenti sessuali e famigliari. Ora l’autore si domanda se si stia delineando uno scisma analogo attinente la dottrina sociale della chiesa.

Al di là del differente giudizio sul pluralismo religioso, che si snoda tra coloro che quasi auspicano un allineamento al “mondo globale” e chi, invece, si dichiara preoccupato per l’aumento di “simboli religiosi che modificano il paesaggio abituale e sfidano le certezze consolidate”, si osserva negli italiani una preoccupazione diffusa: “la difficoltà di far convivere nella stessa società gruppi che esprimono credenze e culture diverse, portatori di domande – religiose e sociali – non facilmente componibili in un quadro unitario”.
Le riserve maggiori sono rivolte all’islam e quello con i musulmani “resta un rapporto scomodo”, perché sovente connesso al discusso fenomeno dell’immigrazione nonché per le tensioni che accompagnano la presenza dell’islam in tutto l’Occidente.
Diverso approccio invece si denota nei confronti del cristianesimo ortodosso e delle fedi orientali, verso le quali si ritiene svilupparsi un interesse culturale e spirituale che tende ad arricchire la nazione.

Pur non mettendo in discussione l’idea di una “verità religiosa”, si attenua, rispetto al passato, la convinzione che vi sia una verità assoluta, custodita da una sola confessione religiosa, mentre tutte le altre sarebbero portatrici di mezze verità o di verità parziali o false, in un contesto in cui molti ritengono che tutte le religioni esprimano delle verità importanti per la condizione umana, e che ognuna di esse offra un percorso di avvicinamento a quella “verità ultima che tutti ci sovrasta”.

In poco più di due decenni, il gruppo dei non credenti è aumentato di circa un terzo, a fronte di una riduzione di circa l’8% dei credenti. I più coinvolti nel fenomeno dell’ateismo sono i giovani. Inoltre, la non credenza aumenta anche in maniera inversamente proporzionale al livello di scolarizzazione, passando da un 13% per le persone con licenza elementare o prive di titolo, a un 35% per i laureati.
I maggiori ostacoli al credere derivano, per atei e agnostici, dalla presenza del male nel mondo e dal dissidio tra scienza e fede, ragione e religione.

Una parte dei “senza religione” sembra farsi carico di una particolare missione: “contrastare la pretesa della chiesa di rappresentare i sentimenti più autentici della popolazione”, ovvero uscire dall’equivoco di identificare l’Italia tout court con l’Italia cattolica e rivendicare pari dignità di considerazione sia per le idee dei credenti sia per quelle dei non credenti.
E ciò, specificatamente, sulle questioni calde oggi al centro del dibattito pubblico: i temi di vita, famiglia, bioetica, gender, diritti degli omosessuali, laicità dello stato…

Oltre il 70% degli italiani condanna, almeno come dichiarazione di principio: evasione, sfruttamento della manodopera, lavoro nero, favoritismi, assenteismo, infrazioni e via discorrendo. Una percentuale che però scende notevolmente tra i 18-34enni, tra i quali vi è una più elevata percentuale di accettazione di tali comportamenti che dovrebbero essere anomali. E stupisce un ulteriore gruppo sociale per cui risulta egualmente difficile l’accettazione e il rispetto delle regole base della convivenza civile: i divorziati e separati.
In situazioni di forte disagio, sia esso generazionale o personale, sembra quindi svilupparsi una maggiore sfiducia istituzionale e marginalizzazione che porta a una disaffezione rispetto alle regole e a minori aspettative e speranze per il futuro, nonché alla rarefazione della volontà di impegnarsi per la realizzazione di progetti e per il raggiungimento di obiettivi.

Negli ultimi decenni si è sensibilmente ridotto lo stigma nazionale nei confronti della pratica dell’omosessualità e si è anche attenuato il giudizio negativo sul consumo delle droghe leggere.
Ieri come oggi, invece, è rimasto pressoché invariato il numero di italiani (circa un quinto) che negano la liceità dell’aborto.
Largo consenso riscuotono le pratiche della riproduzione assistita, sia omologa che eterologa, mentre dividono ancora l’utero in affitto, la maternità oltre l’età feconda, gli esperimenti su embrioni umani a fini terapeutici e gli interventi sulle cellule umane per determinare alcune caratteristiche (statura, colore degli occhi…) su cui si registra il dissenso dei due terzi degli italiani.

Garelli sottolinea che non tutti gli aderenti alle principali fedi si comportano e la pensano allo stesso modo ma ciò è ancora più vero all’interno dell’appartenenza cattolica, differenze di “stile religioso” che delineano diversi e plurimi modi di interpretare l’identità cristiana o cattolica.
Inoltre, va ricordato, che da società a monopolio cattolico l’Italia si sta trasformando in una società permeata dalla varietà di fedi.
Il pluralismo culturale e religioso, non dovuto meramente al fenomeno migratorio, sembra porre ai credenti di ogni fede “una sfida più sottile e destabilizzante di quella della secolarizzazione”. Una sfida che introduce nella mente degli individui l’idea che vi sono diversi modi di credere – e di rispondere ai quesiti dell’esistenza -, che ogni società e cultura ha le sue forme del sacro, che è difficile ritenere vi sia un’unica fede depositaria della “verità”.

Il confronto con la diversità religiosa rende dunque più incerto e precario il credere di molti, mette in discussione la fede abituale, erode l’assunto (comune a molte religioni) che vi sia una forma superiore di conoscenza, che esista una “verità cognitiva e normativa assoluta”.
Circa metà della popolazione italiana si riconosce nell’idea – assai enfatizzata nell’attuale clima politico – che la presenza di fedi e culture diverse da quelle della tradizione costituisca una minaccia per l’identità culturale, a dire il vero già un po’ incerta, della nazione. L’altra metà invece ritiene sia o possa rappresentare una fonte di arricchimento culturale.
Pressoché universale è la condanna dell’estremismo religioso, che in tanti riconducono direttamente alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Altri, invece, si soffermano a pensarlo come esistente o possibile per qualsiasi fede religiosa, riportando l’attenzione, per esempio, “ai guasti provocati dalle crociate”.

Concludendo si può affermare con Garelli che questa è un’epoca che, anche nel campo religioso, è più segnata da flussi che da blocchi, caratterizzata da una ricerca di senso ondivaga, che si spinge sovente oltre i confini e fatica a riconoscersi nelle definizioni convenzionali.
Incerto e solitario, il credente di oggi sembra affidarsi a “un Dio più sperato che creduto”.
La poca fede, la fede debole può anche rappresentare, secondo Garelli, un tratto che accomuna i credenti di ogni confessione religiosa, che “esprime la perenne difficoltà della condizione umana a rapportarsi con un grande messaggio religioso”. Un tratto comune che, forse, potrebbe anche arrivare a diventare un tratto caratteristico e caratterizzante delle nuove forme, ora embrionali, di società multietniche, multiculturali e plurireligiose.

Bibliografia di riferimento

Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, ilMulino, Bologna, 2020


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Credit per la prima immagine www.pixabay.com


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“Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale” di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo (ilMulino, 2020)

10 venerdì Lug 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FabrizioBarca, IlMulino, PatriziaLuongo, recensione, saggio, Unfuturopiugiusto

Divario e ostacoli sembrano essere i termini caratterizzanti l’attuale società italiana e occidentale in generale. Un sistema nel quale il capitalismo è tutt’altro che in crisi, magari osteggiato ma di sicuro non in retrocessione, e l’ingiustizia sociale e ambientale segnano alla fin fine lo stato generale delle cose.

In questo contesto nasce il progetto di Forum Disuguaglianze Diversità, di cui Fabrizio Barca è coordinatore, centrato su 15 proposte che sono anche il tema portante del libro Un futuro più giusto edito dalla Società Editrice ilMulino e curato dallo stesso Barca con Patrizia Luongo, ricercatrice del Forum.

Da dove ha origine queste sentimento diffuso di rabbia che sembra spandersi a dismisura avvolgendo intere popolazioni e paesi? Dalle ingiustizie sociali ed economiche. Dallo sfruttamento lavorativo e professionale. Dalle disparità di genere e di razza. Dalle difficoltà che sono costretti ad affrontare quotidianamente un numero sempre crescente di cittadini… Tutto questo, oltre alle negatività oggettive, si trascina dietro anche il serio rischio che la rabbia si trasformi in odio. Rancore e odio verso gli altri, soprattutto deboli e stranieri, cui agevolmente viene addossata la responsabilità per delle colpe che risiedono altrove, a monte e non certo a valle. Qui si cumulano solo i danni e le conseguenze negative degli errori e delle dimenticanze.

Cosa serve allora? Un cambiamento. Un’inversione di tendenza. Un drastico cambio di rotta.

Sono in molti a chiederlo. Anche i promotori del progetto di Forum Disuguaglianze Diversità lo fanno e in maniera molto decisa, ferrea. Con un piglio che appare irremovibile. Con 15 proposte che riguardano nel dettaglio:

  • Conoscenza e Bene comune.
  • Imprese pubbliche europee.
  • Imprese pubbliche italiane.
  • Università e Giustizia sociale.
  • Finanziamento delle imprese.
  • Piccole e medie imprese.
  • Dati personali e algoritmi.
  • Strategie per aree marginalizzate.
  • Servizi e appalti pubblici.
  • Giustizia ambientale.
  • Amministrazioni pubbliche rinnovate.
  • Dignità del lavoro.
  • Consigli di lavoro e cittadinanza.
  • Lavoratori e lavoratrici proprietari/e.
  • Eredità universale.

Studiando nel dettaglio i vari punti appare ancora più chiaro ciò che è ormai da tempo sotto gli occhi di tutti: piuttosto che progressi, le società occidentali, e l’Italia forse più di tutte, hanno fatto troppi passi indietro. Prima importante conseguenza di ciò è la discesa sociale di giovani istruiti e colti, formati e in grado di svolgere professioni altamente qualificate ma mal ricompensati, sfruttati e costretti a un tenore e stile di vita che li riporta indietro anche rispetto, in molti casi, alle proprie famiglie di origine.

Quale futuro si prospetta per delle società che non investono o investono poco sui giovani e, ancor meno, sui giovani molto formati?

Domanda che in molti si pongono, anche nell’ambito del dibattito pubblico e politico, ma a cui nessuno sembra voler dare veramente una risposta. Ciò potrebbe significare una irreversibile presa di coscienza, più che di conoscenza, della reale situazione che rischia di diventare sistemica.

È evidente che certe dinamiche sono sbagliate e basta, nonostante si cerchi su più fronti di farle passare per cosa appetibile e moderna, attraverso un linguaggio poco forbito e ricco di anglicismi. Ed ecco allora che i fattorini diventano rider, i precari diventano part-time, chi è costretto a più lavori per raggiungere un reddito accettabile è multitasking… ma, alla fin fine, si tratta solo e semplicemente di sfruttamento, divario e ostacoli. Una situazione che rischia davvero di implodere. E non solo in Italia.

Ad accentuarne e aggravarne gli effetti si è aggiunta di recente la pandemia di Covid-19 che ha mostrato, inesorabilmente, quanto sia precario e in bilico l’intero sistema.

Cosa fare allora?

Il libro curato da Barca e Luongo viene da questi inteso come una base di partenza su cui costruire un progetto quanto più largamente diffuso e condiviso, con le tante associazioni di cittadinanza attiva con cui il Forum è già in contatto ma anche con enti, università e con chiunque sia ben preparato e motivato ad affrontare i temi del dibattito, propenso a un cambiamento che sia tangibile e concreto e universale.

Evitano, per esempio, gli autori di analizzare l’annosa questione meridionale nei medesimi termini di cui si sente da sempre e inglobandola invece in un discorso più generale di distanza, sociale ed economica, tra centri e periferie, zone centrali e zone marginalizzate. In virtù anche del fatto che ormai la cosiddetta “questione meridionale” ha travalicato i suoi confini storici estendendosi su tutto il territorio nazionale, in tutte le periferie e aree interne.

L’imperativo categorico dell’opera di Barca e di Luongo, ma in realtà dell’intero Forum, è la messa a terra di tutte le proposte, ovvero la loro trasformazione in azioni concrete. Impresa titanica senz’altro ma, laddove si parla di iniziative volte a contrastare lo sfruttamento, le disuguaglianze, la disoccupazione… non si può fare altro che auspicarne l’attuazione nella massima sinergia e condivisione possibile.


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“Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale” di Maurizio Catino (ilMulino, 2020)

01 mercoledì Apr 2020

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IlMulino, Leorganizzazionimafiose, MaurizioCatino, recensione, saggio

Quando si apprende che l’argomento di un libro, di un articolo, di un servizio giornalistico, riguarda la mafia, intesa come istituzione e, di conseguenza, il lavoro ha per oggetto la sua analisi in generale bisogna ammettere che si rischia di cadere nel luogo comune affermando, o solo pensando: ma basta con le parole! Cos’altro c’è ancora da dire che non sia stato detto? Servono fatti non parole!

Tutti sono caduti in simili considerazioni, chi prima e chi dopo. Poco male, se non ci si ferma alla copertina o, in questo caso, al titolo.

Le organizzazione mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale è un corposo saggio che riesce nel quasi incredibile intento di mostrare al lettore le organizzazioni mafiose in maniera del tutto nuova. Partendo da un punto di vista mai del tutto analizzato fino in fondo perché, in genere, si ha quasi timore di affiancare a queste strutture illegali terminologie e analisi finora riservate a organizzazioni intese lecite, in tutto e per tutto.

Ed è esattamente questo che ha fatto Maurizio Catino: studiare le mafie per quello che, a tutti gli effetti, sono. Delle organizzazioni. Perché esse presentano quasi tutte le caratteristiche da sempre impiegate per individuare leorganizzazioni:

  • Una progettazione intenzionale dell’organizzazione.
  • Una divisione del lavoro dotata di ruoli differenziati e in qualche modo definiti.
  • Il coordinamento tra persone e attività.
  • Carriere e sistemi di premi e punizioni.
  • Ruoli e codici di condotta.
  • Una netta distinzione tra membri e non membri.

Ricorda inoltre l’autore che è proprio considerandole come organizzazioni che si può arrivare a comprenderne la resilienza e longevità, nonché la continua diffusione e proliferazione anche in territori nuovi e lontani dal centro comunemente inteso come luogo di origine.

Per capire al meglio il loro essere, oltre al loro funzionamento, è necessario “studiare congiuntamente tre aspetti”:

  • Il primo riguarda la dimensione organizzativa interna, le strutture, i ruoli, i “servizi” offerti, i meccanismi operativi, i codici e le regole.
  • Il secondo aspetto attiene all’ambiente esterno nel quale l’organizzazione criminale opera. Un ambiente composto da soggetti individuali e organizzati che entrano in relazione con l’organizzazione criminale. Sono questi “soggetti esterni all’organizzazione mafiosa che modellano e conformano l’azione delle mafie, non il contrario”. Ciò accade soprattutto nelle aree di nuovo insediamento.
  • Il terzo aspetto fa riferimento al grado di percezione del fenomeno criminale da parte del contesto esterno, al livello di tolleranza dell’ambiente, al ruolo delle agenzie di contrasto. L’azione di queste ultime infatti costituisce uno tra “i fattori di innovazione, cambiamento e adattamento dell’organizzazione mafiosa”.

Per riuscire a comprendere in che modo le mafie funzionano, il loro comportamento criminale, come fanno affari e come utilizzano la violenza è necessario, sottolinea l’autore, innanzitutto capire il modo in cui le mafie sono organizzate. Esaminando i diversi tipi di organizzazione mafiosa si può vedere con chiarezza che non tutte le forme di organizzazione sono uguali.

Nel testo, Catino dimostra come i diversi modi di organizzazione nelle mafie influenzano il comportamento, i conflitti e l’impiego della violenza.

Nonostante operino “in ambienti estremamente ostili”, violino la legge, commettano crimini e “siano soggette a intense persecuzioni da parte delle agenzie chiamate a far rispettare la legge”, le mafie sono tra le organizzazioni più resilienti mai conosciute. E, per capirne le motivazioni, Catino suggerisce di associare la loro elevata capacità adattiva e longevità ai loro comportamenti scaturiti proprio in quanto sono organizzazioni formali.

Le mafie non sono solo organizzazioni criminali, sono anche organizzazioni economiche che basano la loro forza sostanzialmente sulla vendita di “protezione e servizi extralegali” a qualcuno che li compra. Ma, soprattutto, “sono profondamente inserite nell’economia, nella politica e nella società”.

L’idea portante del libro di Catino è la convinzione che, riuscire a comprendere al meglio la fisiologia, la logica organizzativa e i dilemmi affrontati dalle mafie, costituisca un importante strumento per aumentare l’efficacia delle azioni di contrasto, per orientare le scelte politiche e per accrescere la resilienza della società civile, la sua resistenza a queste organizzazioni.

Proprio per questa convinzione l’autore ha dedicato l’ultimo e corposo capitolo allo studio approfondito delle tre mafie italiane – Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta – , “prestando particolare attenzione alle dinamiche di espansione nel Nord Italia e ai legami con i cosiddetti colletti bianchi”.

Risulta essere infatti ancora diffusa la convinzione che le organizzazioni mafiose siano peculiarità della cultura meridionale italiana. Teoria avallata anche da “molti studiosi, specialmente in Italia”.

Non troverebbe spiegazione alcuna dunque l’esistenza di tali organizzazioni in paesi culturalmente molto diversi come il Giappone (la Yakuza), la Cina (la Triade), la Russia (Mafia russa) e gli Stati Uniti (Cosa Nostra americana). In considerazione anche del fatto che alcune di queste organizzazioni, come la Yakuza e La Triade, hanno avuto origine anche molto tempo prima di quelle italiane.

Il fatto interessante, fa notare Catino, è che, nonostante abbiano avuto origine in contesti storici e in luoghi molto distanti tra loro, le varie mafie sono caratterizzate da elementi organizzativi comuni. E ciò è dovuto, per l’autore, non a un processo di reciproca conoscenza e scambio, bensì alla presenza di problemi comuni con cui le diverse organizzazioni si sono dovute confrontare nel tempo. Non bisogna parlare di isomorfismo quindi ma di comuni risposte evolutive e adattive a problemi ed esigenze comuni alle varie organizzazioni. Perché, lungi dall’essere organizzazioni onnipotenti come spesso vengono dipinte, le mafie “soffrono di molteplici problemi e sono obbligate a fare i conti con una serie di complessi dilemmi organizzativi di non facile risoluzione”.

Il saggio di Maurizio Catino risulta essere davvero, come nelle intenzioni dello stesso autore, un nuovo modo di indagare un fenomeno che in Italia come altrove è tutt’altro che marginale. Un metodo d’indagine, quello portato avanti da Catino, che si prefigge di mantenere costantemente neutrale il punto di vista dell’investigatore, evitando di cadere in luoghi comuni, pregiudizi o ipocrisie. Rigore tecnico e obiettività sembrano essere le parole chiave che meglio descrivono il metodo d’indagine che Catino ha utilizzato per analizzare le organizzazioni mafiose

Bibliografia di riferimento

Maurizio Catino, Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale, Società Editrice ilMulino, Bologna, 2020.

Traduzione dalla lingua inglese di Jacopo Foggi.



Articolo originale qui


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Casa Bene Comune. Dall’housing collaborativo all’housing di comunità. A che punto siamo?

16 domenica Feb 2020

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ChristianIaione, ElenaDeNictolis, IlMulino, LabGov.City, Lacasapertutti, MonicaBernardi, recensione, saggio

Le città sono cambiate, non sono più delle realtà compiute, statiche, con spazi ben definiti e sistemi organizzativi gerarchici. Oggi le città sono sempre più un insieme intricato e mutevole di reti connesse e di soggetti che prendono decisioni interdipendenti necessarie a mantenere in equilibrio un sistema a crescente complessità e customizzazione.

Le attuali dinamiche sociali, culturali ed economiche, conseguenza anche della polarizzazione ed erosione del ceto medio, impattano sulla domanda, sempre crescente, di edilizia sociale nelle aree metropolitane.

I dati degli ultimi cinque anni indicano che circa 1.7milioni di nuclei famigliari sono in uno stato di forte disagio economico e spesso, di conseguenza, abitativo.

Il sistema di edilizia residenziale pubblica, che rappresenta in Italia la quasi totalità di offerta abitativa sociale, si trova nella condizione di esaurimento di una fase storica. Con la regionalizzazione e la chiusura della tassa di scopo che finanziava il settore (Gescal), le condizioni mantenute dal 1998 non rispondono più alle esigenze attuali. Spetta quindi al decisore pubblico ridefinire una visione e un assetto di tale settore.

È uscito a novembre 2019 con ilMulino il volume curato da Christian Iaione, Monica Bernardi ed Elena De Nictolis La casa per tutti. Modelli di gestione innovativa e sostenibile per l’adequate housing che raccoglie i risultati del lavoro di indagine svolto dall’unità di ricerca di Luiss LabGov.City, coordinata dal prof. Christian Iaione, nell’ambito del progetto Casa Bene Comune. Dall’housing collaborativo all’housing di comunità.

La ricerca, realizzata con il sostegno di Federcasa, ha avuto come oggetto un’analisi giuridica ed empirica svolta a livello nazionale e internazionale al fine di identificare modelli di gestione innovativi e sostenibili nel settore dell’housing pubblico e sociale.

Il libro mette in luce la tensione verso spazi urbani più equi, accoglienti e sicuri, ma anche democratici e collaborativi, capaci di alimentare stili di vita e modelli funzionali che contribuiscono a “implementare la qualità della vita”. Obiettivo che dovrebbe essere irrinunciabile per chi governa la città e le sue trasformazioni.

Oggi le nuove strategie e visioni sull’edilizia devono necessariamente tenere conto dei cambiamenti strutturali della società, cambiamenti che passano per forza di cose dalle “rigenerazioni delle periferie”, vere e proprie frontiere dove si gioca la sfida per una città più vivibile, giusta e democratica. Ragionamento che vale per l’edilizia in generale e ancor di più per quella sociale.

Una rigenerazione che va al di là dell’aspetto meramente infrastrutturale, necessario comunque all’aumento del numero di alloggi per rispondere alla domanda reale, e che mette al centro “temi di riprogettazione e co-progettazione degli spazi e modelli di governance” (condivisione nell’uso, collaborazione nella gestione, policentrismo nella proprietà). Una strada che vede i cittadini non più soltanto come dei fruitori passivi di un bene ma agenti attivi del cambiamento.

Negli ultimi decenni è emersa in tutta Europa una vasta gamma di forme di edilizia residenziale promosse e gestite dai residenti in cui, accanto agli alloggi privati, spazi e servizi comuni sono condivisi tra i residenti e con il quartiere. Queste “forme alternative” di edilizia residenziale sono caratterizzate da una maggiore attenzione a valori sociali, quali sostenibilità ambientale, inclusione e coesione sociale, rigenerazione urbana.

Possono rientrare in tale categoria una grande varietà di forme e iniziative: cohousing, habitat participatif, cooperative di residenti, comunità residenziali ecologiche (eco-villaggi), iniziative di recupero di immobili sfitti o abbandonati (self-help housing), community asset ownership, Community Land Trust (CLT).

Ancora oggi in Italia l’edilizia sovvenzionata, ovvero la locazione di alloggi pubblici che comporta oneri a totale carico dello Stato, sembrerebbe l’unico strumento attraverso il quale si garantisce, o si dovrebbe riuscire a garantire, la protezione delle fasce più deboli della popolazione.

Il Piano Casa e il Piano nazionale edilizia abitativa prevedono la possibilità di utilizzare fondi immobiliari chiusi come strumento per finanziare la realizzazione di alloggi sociali. Ad oggi, sono circa 30 gli investimenti deliberati e i fondi immobiliari locali creati su supporto del FIA (Fondo Investimenti per l’Abitare).

Prendendo in considerazione le varie forme possibili, procedurali e di finanziamento, nel testo sono stati analizzati oltre 73 sperimentazioni abitative presenti o da avviare a breve nel territorio italiano.

Nella maggior parte dei casi, i destinatari degli interventi sono soggetti della cosiddetta fascia grigia. Il target giovani è quello maggiormente intercettato. Meno di frequente i progetti sono rivolti a soggetti che vivono situazioni di maggiore fragilità, o comunque le quote loro riservate sono molto ridotte sul totale degli alloggi disponibili.

Persiste un forte divario numerico tra i progetti avviati nel Centro e nel Nord del Paese e quelli posti in essere al Sud.

In materia di rigenerazione urbana, la rimessa in circolo di immobili pubblici in disuso o privati ceduti in concessione non è la norma. Alcune progettualità prevedono la costruzione ex novo dell’immobile.

L’analisi dei casi-studio ha confermato “l’esistenza dei cinque principi di disegno istituzionale elaborati nell’approccio analitico della Co-Città”:

  • la co-governance (condivisione, collaborazione, policentrismo)
  • il ruolo di promotore e successivamente di facilitatore giocato dall’autorità pubblica
  • la creazione e/o la connessione con forme di economia e impresa prodotte per effetto della co-governance, economie a loro volta caratterizzate da un approccio collaborativo e soprattutto da obiettivi di sostenibilità come l’economia circolare o l’economia sociale o solidale
  • la giustizia tecnologica (avanzamenti tecnologici e transizione digitale nel settore dell’housing)
  • lo sperimentalismo, verso nuovi processi decisionali o gestionali pubblici adatti o adattabili al “cambiamento costante e impetuoso che la transizione ecologica e digitale richiede”

Le aziende di gestione dell’edilizia residenziale pubblica (dagli Istituti autonomi per le case popolari, alle aziende, fino alle Spa) amministrano in Italia un patrimonio di 836mila alloggi popolari.

Dall’analisi condotta risulta evidente la necessità, per questi attori, di ritrovare una nuova centralità nella “complessa e articolata architettura delle politiche pubbliche che si occupano di disagio abitativo”. Ritenendo problematica anche in questo settore l’eccessiva privatizzazione di enti pubblici e la dismissione di beni e funzioni pubbliche protrattasi negli anni in base al “postulato indimostrato” che il privato, qualunque tipologia di privato, è di per sé più efficiente e idoneo a rispondere a un bisogno della collettività.

La presenza del soggetto pubblico (azienda di edilizia popolare o ente locale) nella funzione di promozione, supporto, facilitazione, moderazione, monitoraggio, in veste di piattaforma abilitante gli attori coinvolti nei progetti di housing, appare invece elemento chiave per garantire un maggior grado di successo e sostenibilità delle diverse forme di condivisione, collaborazione e policentrismo nell’abitare.

A conclusione dell’indagine traspare come sia tutto ancora da verificare l’andamento nei prossimi anni, in quale misura e a quali condizioni sarà possibile o meno garantire scalabilità e replicabilità, nonché sostenibilità sociale ed economico-finanziaria ai modelli di co-governance nel settore dell’abitare.

Risulta anche necessario coinvolgere gli investitori pazienti o di lungo termine, come le casse previdenziali e i fondi pensione, per rinforzare le infrastrutture di housing sociale esistenti e andare oltre il sistema dei fondi immobiliari, attraverso un modello che garantisca la redditività degli investimenti ma anche la sostenibilità sociale e climatica, minimizzando così rischi normalmente correlati a questo tipo di progetti.

Bibliografia di riferimento

La casa per tutti. Modelli di gestione innovativa e sostenibile per l’adequate housing, a cura di Christian Iaione, Monica Bernardi, Elena De Nictolis, Società Editrice ilMulino, Bologna, 2019



Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale


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Recensione a “La società non esiste. La fine della classe media occidentale” di Christophe Guilluy (Luiss University Press, 2019) 

Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Perrone Editore, 2017) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

All’alba di un nuovo mondo: l’Occidente, il sé e l’altro

17 giovedì Ott 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Allalbadiunnuovomondo, AngeloPanebianco, IlMulino, recensione, saggio, SergioBelardinelli

Analisi del testo All’alba di un nuovo mondo di Angelo Panebianco e Sergio Belardinelli (ilMulino, 2019)

Da alcuni anni ormai è tornata a circolare in Europa, come anche negli Stati Uniti d’America, la “cupa profezia” sull’incipiente tramonto dell’Occidente. L’ottimismo liberaldemocratico e l’euforia di vittoria, che seguirono la fine della Guerra Fredda, hanno lasciato ampio spazio al timore di un futuro minaccioso.

Secondo Yascha Mounk, scrittore, accademico e relatore esperto sulla crisi della democrazia liberale e sulle cause di origine e diffusione dei populismi, ritiene oggi possibile immaginare che le democrazie liberali siano in procinto di lasciare il posto a democrazie illiberali. Ovvero governi delle maggioranze che si accompagnano all’affievolimento, se non alla soppressione, dei diritti individuali di libertà.

Per Angelo Panebianco, è ovvio ormai che la società aperta occidentale, “con i suoi gioielli” (la rule of law, il governo limitato, i diritti individuali di libertà, la democrazia, il mercato, la scienza), sia o appaia a rischio.

Nel suo saggio L’Europa sospesa tra Occidente e Oriente, riporta la visione di “molti osservatori” secondo i quali la prova più evidente del venir meno della volontà di tanti europei di scommettere sul futuro è l’invecchiamento demografico che interessa vari Paesi europeo-occidentali. Sottolinea Panebianco come lo smettere di fare figli determina, sul piano macrosociale, cambiamenti di vasta portata. Ma è anche il segnale di una visione collettiva pessimistica del futuro. Ènecessario inoltre pensare alle difficoltà che mostrano le società occidentali in rapporto alla questione dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati.

“Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea (in Europa) o latinoamericana (negli Stati Uniti) segnalano quella che diversi osservatori attenti alle idee circolanti, agli orientamenti culturali prevalenti, interpretano come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali, ne sta corrodendo il tessuto sociale.”

Crisi che potrebbe inoltre aver favorito l’insorgenza e la diffusione dei movimenti populisti, sviluppatisi praticamente in ogni Paese occidentale. Formazioni politiche che hanno in comune nazionalismo, ostilità alle tradizionali ancore internazionali – atlantismo, europeismo – delle democrazie liberali, predilezione per politiche di chiusura delle frontiere sia per le persone (politiche anti-immigrati) sia, in alcuni casi, per le merci (protezionismo economico).

Per Panebianco, l’insorgenza populista arriva al termine di un lungo processo di erosione dei vecchi equilibri. Un lento ma incisivo fenomeno di indebolimento degli intermediari politici che, nell’analisi del filosofo francese Bernard Manin, ha caratterizzato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove “democrazie del pubblico”. I vecchi legami fra elettori e partiti sono stati sostituiti da rapporti diretti, non mediati, fra leader e pubblici generando una situazione che renderebbe le democrazie molto più instabili di un tempo, condizionate dalla volubilità delle opinioni pubbliche e dalla conseguente, elevata volatilità delle arene elettorali.

Diverse sono le scuole di pensiero che si contendono la spiegazione di tali epocali cambiamenti. La più diffusa, e fors’anche la più condivisa dagli occidentali, attribuisce la responsabilità a tre cause concomitanti:

  • La lunga crisi economica mondiale cominciata negli anni 2007-2008.

  • La pressione esercitata sugli equilibri politici delle democrazie occidentali dall’incremento dei flussi migratori registrato negli ultimi anni.

  • L’aumento, nel caso dell’Europa, dell’insicurezza collettiva a causa degli attentati e della minaccia continua di cui è responsabile il terrorismo jihadista.

Una diversa scuola di pensiero vede invece in ciò che sta accadendo la conseguenza, forse irreversibile, di processi di lungo periodo. Ed è riscontrabile proprio in questo la maggior differenza tra le due linee di pensiero.

Per la prima scuola saremmo di fronte a una fase transitoria assolutamente reversibile nel momento stesso in cui si registrerà una ripresa della crescita economica (con conseguente riassorbimento della disoccupazione), un migliore controllo da parte dei governi e dell’Unione Europea dei flussi migratori in entrata e, infine, una decisa strategia di contrasto al terrorismo.

Per la seconda scuola invece siamo in presenza di un cambiamento “strutturale, di riduzione della forbice, di perdita del primato occidentale”.

Visione quest’ultima condivisa anche da Kishore Mahbubani, preside e docente della Lee Kuan Yew School of Public Policy presso la National University di Singapore già membro del corpo diplomatico di Singapore, il quale afferma che è dagli inizi del XXI secolo che la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. Il Resto del Mondo ha compreso come poteva replicare il successo occidentale nella crescita economica, nella sanità, nell’istruzione… Ora, si domanda Mahbubani, come è stato possibile che l’Occidente non se ne sia accorto?

Nella fine della Guerra Fredda l’Occidente tutto ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando, secondo Mahbubani. Innanzitutto perché la “vittoria” non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica. Inoltre, l’Occidente tutto si è lasciato “distrarre” dagli eventi dell’11 settembre del 2001. Nessuno, in tutto il mondo occidentale, ha messo in luce che “l’evento più gravido di conseguenze storiche del 2001 non era l’11 settembre. Era l’entrata della Cina nel WTO (World Trade Organization)”.

“L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe per forza di cose avuto come risultato una massiccia ‘distruzione creativa’ e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.”

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di “salari reali in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale”.

Angelo Panebianco, nel suo saggio, riporta per esteso la visione di diversi osservatori per i quali si è ormai entrati nella fase di passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le due potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India, forse anche Brasile, Indonesia, Sud Africa.

Un multipolarismo nascente che, per Panebianco, si innesta su un mondo attraversato da diversità culturali e da scontri di civiltà, e di cui nessuna ancora conosce le dinamiche di sviluppo e funzionamento. Nessuno sa se da esso deriverebbero stabilità e ordine oppure, all’opposto, instabilità/precarietà e disordine.

Come si muoverà e quale ruolo avrà l’Unione Europea in questo nuovo scacchiere internazionale?

La questione delle migrazioni, unitamente alla crisi dei debiti sovrani, ha alimentato un diffuso quanto inedito sentimento di ostilità verso l’UE entro settori sempre in crescita dell’elettorato, aprendo sempre più spazi a movimenti di protesta che combinano antieuropeismo e volontà di chiusura delle frontiere all’immigrazione extra europea.

In realtà, sottolinea Panebianco, l’antieuropeismo montante è più un effetto che una causa. La quale andrebbe ricercata piuttosto nei “vizi all’origine” della costruzione europea.

“Fu l’America lo sponsor esterno che favorì l’integrazione europea (in funzione antisovietica). Fu l’America che garantendo militarmente la sicurezza europea consentì alle istituzioni comunitarie di ‘specializzarsi’, di dedicare ogni sforzo al perfezionamento del mercato europeo, alla crescita e al finanziamento di misure di protezione sociale.”

In buona sostanza, l’accordo era: “il warfare agli Stati Uniti e il welfare all’Unione Europea”. Ciò ha reso impossibile sviluppare un’autonoma politica europea della sicurezza.

Il secondo vizio d’origine, per Panebianco, consisteva nella tradizionale vaghezza della meta finale, dello scopo del processo di integrazione.

“Quando con la moneta unica l’integrazione europea fece un salto di qualità, il problema della necessità di far seguire all’unificazione monetaria una qualche forma di unificazione politica o, per lo meno, qualche deciso passo istituzionale in quella direzione, entrò nell’agenda politica. Ma non appena si cominciò seriamente a parlare di ‘unificazione politica’ le magagne (fino a quel momento nascoste sotto il tappeto dalle élite europee) vennero fuori.”

Come si può fare un’unificazione politica quando non è possibile stabilire con sicurezza dove vadano collocati i confini? A Est e a Sud dove sono i confini dell’Europa? Si chiede Panebianco, per il quale laddove è ancora difficile stabilire con esattezza chi è dentro e chi è fuori, non è neanche lontanamente immaginabile costruire una comune identità politica.

“L’Europa diventa sempre più fragile, sempre più debole. Ciò costituisce un’imperdibile occasione per predatori affamati e con zanne e artigli affilati.”

Emblematica questa narrazione figurativa utilizzata da Panebianco, il quale rappresenta i potenziali predatori di una sempre più fragile e debole Europa come bestie affamate dotate di zanne e artigli affilati. Un passaggio che rimanda alla Letteratura di viaggio o meglio, tornando ancora più indietro nel tempo, alle narrazioni epiche e/o cavalleresche, laddove i nemici da combattere e sconfiggere, complice la paura, assumevano nella mente dell’autore prima, nelle pagine scritte e nell’immaginario collettivo poi connotati sempre più primitivi, animaleschi, mostruosi, diabolici o satanici.

Panebianco rievoca l’immagine di questi figuri parlando della conquista economica della Cina di Xi Jin Ping, che sta attuando il suo progetto di “neoimperialismo economico (con inevitabili risvolti politici)”.

Neoimperialismo che rimanda inevitabilmente a quello non “neo”, subito dalla Cina e da tanti altri paesi asiatici e africani, allorquando furono essi stessi a doversi misurare con predatori affamati armati non solo di zanne e artigli affilati ma di munizioni, fucili, baionette e cannoni.

Angelo Panebianco teme il neoimperialismo economico e, soprattutto, i suoi inevitabili risvolti politici. La sua tesi è che se viene meno il primato occidentale – ovvero il potere finora esercitato dal “blocco” statunitense-europeo, più il Giappone -, non c’è altro ordine internazionale possibile. Prevarrebbe il caos per l’assenza di un enforcer dell’ordine, una potenza o un blocco di potenze con la capacità economica, le risorse coercitive e la volontà politica di creare le condizioni di un ordine internazionale. Solo il mondo occidentale ha, per l’autore, le risorse, culturali prima ancora che politiche, economiche e militari, per creare per lo meno un embrionale, imperfetto quanto si vuole, ordine internazionale liberale, ossia in linea di principio accettabile dalla maggior parte dei viventi.

Le potenze autoritarie, nella visione di Panebianco, possono aumentare, se le condizioni lo consentono, le proprie chance di influenzare altri Paesi ma difficilmente possono anche dare vita a un ordine internazionale stabile. Coloro che vivono sotto il giogo delle potenze autoritarie sono pronti, appena ne hanno la possibilità, a ribellarsi.

“L’ordine autoritario genera continui e diffusi focolai di resistenza, genera disordine. Crea esso stesso le condizioni per la propria sconfitta.”

Palese quindi che solo un ordine liberale sia in grado di garantire stabilità, prosperità e crescita, economica ma anche sociale e culturale. Meno ovvio invece appare chi sarà alla “guida” del nuovo “ordine internazionale legittimo” visto che lo stesso Panebianco ammette che, laddove l’Occidente non ponga rimedio ai tanti problemi interni, non è poi così scontata la sua leadership.

L’Occidente dovrebbe prima:

  • Rilanciare (ma evidentemente anche ristrutturare) i rapporti interatlantici.
  • Migliorare l’integrazione europea.
  • Trovare il modo di ricostituire – mediante innovazioni istituzionali ancora da inventare – un equilibrio oggi spezzato fra la competenza dei pochi e il diritto dei più di far sentire la propria voce negli affari pubblici.

In buona sostanza, l’Occidente dovrebbe andare nella direzione opposta a quella verso cui sta andando, ovvero seguire il medesimo percorso che starebbero invece seguendo i suoi emulatori, secondo l’analisi di Kishore Mahbubani.

“Per millenni, le società asiatiche sono state profondamente feudali. La ribellione contro ogni genere di mentalità feudale che ha preso impulso a partire dalla seconda metà del XX secolo è stata enormemente liberatoria per tutte le società asiatiche. Milioni di persone hanno smesso di essere spettatori passivi e si sono trasformati in agenti attivi del cambiamento, evidente nelle società che hanno accettato forme democratiche di governo (India, Giappone, Corea del Sud, Sri Lanka), ma anche in società non democratiche (Cina, Birmania, Bangladesh, Pakistan, Filippine), che lentamente e costantemente stanno progredendo. E diversi paesi africani e latino-americani guardano ai successi asiatici. Cinquanta anni fa, pochi governi asiatici credevano che una buona governance razionale potesse trasformare le loro società. Oggi questa è la convinzione prevalente. Siamo vicini al paradosso. Gli asiatici hanno appreso dall’Occidente le virtù della governance razionale, eppure mentre i livelli di fiducia asiatici stanno risalendo molti occidentali stanno perdendo la fiducia nei propri governi.”

Il testo di Panebianco possiede e trasmette una visione del mondo molto occidentalocentrica, ignorando del tutto o quasi l’assunto portato avanti, per esempio, da Iain Chambers, docente di Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo all’Università l’Orientale di Napoli, per il quale “l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sia diventato il mondo”.

Differente impostazione presenta invece il secondo saggio che va a comporre il libro edito da ilMulino. La Chiesa cattolica e l’Europa di Sergio Belardinelli tratta degli aspetti spirituali della contemporanea civiltà europea.

Che cosa succede nel momento in cui in Europa, il continente che per secoli è stato il cuore della fede cristiana, la gran maggioranza degli abitanti sembra non essere più interessata a questa fede?

E che cosa succede nel momento in cui la Chiesa cattolica sembra interessarsi sempre meno dell’Europa, rivolgendosi invece ad altri mondi, come l’America Latina, l’Africa o l’Asia?

Come le istituzioni politiche europee hanno perduto la fiducia dei cittadini europei, allo stesso modo, secondo Belardinelli, si direbbe che la Chiesa cattolica ha perduto la loro fede. Il loro problema non risiederebbe tanto nella evidente autoreferenzialità, quanto piuttosto nel fatto che esse operano su loro stesse e verso l’esterno come se fossero mere organizzazioni e soltanto in vista della loro autoconservazione. Naturale allora che, per certi versi, Stato e Chiesa si riducano a macchine burocratico-amministrative, “sempre più incapaci, l’uno, di generare senso civico, senso di fiducia e di appartenenza a una comunità, e, l’altra, di generare quella fede, quelle forme di vita ecclesiali, diciamo pure, quel senso di trascendenza di cui potrebbero avvantaggiarsi tutti gli altri sistemi sociali”.

La fede cristiana sta diventando impotente, non soltanto nei confronti della politica, ma di qualsiasi altro ambito della vita sociale. In buona sostanza, Belardinelli sottolinea come politica, scienza, arte, architettura… non sanno più che farsene della fede.

Gli autori affermano che, guardandosi intorno, si realizza presto di stare assistendo all’alba di un nuovo mondo, che essi vorrebbero comunque governato dal “realismo liberale” occidentale pur dovendo ammettere di non conoscere quali ne saranno i contorni e i caratteri. Nessuno in realtà lo può ancora sapere in quanto “molto dipende dal realismo con il quale la nostra e le generazioni che seguiranno sapranno affrontare le sfide che incombono”.


Bibliografia di riferimento

A. Panebianco, S. Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, ilMulino, Bologna, 2019

(collana Voci, pp, 132, parte prima: L’Europa sospesa tra Occidente e Oriente, Angelo Panebianco; parte seconda: La Chiesa cattolica e l’Europa, Sergio Belardinelli)


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilMulino Editore per la disponibilità e il materiale



LEGGI ANCHE

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (ilMulino, 2019) 

“La parabola d’Europa. I trent’anni dopo la caduta del Muro tra conquiste e difficoltà” di Marco Piantini (Donzelli, 2019) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (Il Mulino, 2019)

17 sabato Ago 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AndreaGraziosi, Ilfuturocontro, IlMulino, recensione, saggio

 

Andrea Graziosi, docente di Storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli, pubblica a febbraio 2019 con Il Mulino il saggio Il futuro contro. Democrazia, libertà, mondo giusto con l’obiettivo di far riflettere e discutere della situazione in cui versa quello che viene da tutti indicato come Occidente, e l’Italia all’interno di esso.
Il mutamento radicale in atto in tutto il mondo ha letteralmente fatto sbandare l’Occidente, quindi anche Europa e Italia, palesando la sua pressoché totale incapacità di trovare risposte, alternative e nuovi principi fondativi per riadattare alle nuove condizioni quelli esistenti.
Uno degli errori più comuni, commesso anche in Italia, sono le politiche e i tentativi di riportare economia e società allo status quo precedente la grande crisi, far ripartire la crescita e ritornare alla mitica età dell’oro del secolo scorso. Nulla di più sbagliato. Per Graziosi quanto accaduto in quello che ormai deve essere considerato, perché lo è a tutti gli effetti, il passato è riconducibile a tutta una serie di congiunture favorevoli e condizioni straordinarie che hanno reso possibile un’elargizione di privilegi e benefici ad ampie fette non solo di classi dirigenti e politiche ma anche di privati cittadini. Una situazione che raramente si ripresenterà.

Da ciò nasce anche l’atteggiamento molto ostile nei confronti delle élite tradizionali incapaci ormai di continuare a garantire la incessante e costante crescita del tenore di vita e l’ampliamento di quelli che vengono indicati come “diritti”, ma che in realtà, come ricorda più volte Graziosi, sono privilegi consentiti proprio dalle condizioni straordinarie che hanno permesso la crescita continua e il benessere diffuso, ottenuto in verità quasi sempre a credito, ovvero bruciando anno dopo anno risorse maggiori di quelle realmente possedute. Ovvio quindi che la riduzione drastica di quest’ultime ha generato una altrettanto cospicua riduzione dei “diritti”, ovvero dei privilegi. E la rabbia diffusa tra le popolazioni occidentali, Europa e Italia incluse in toto, sarebbe dovuta al non voler pagare un conto molto salato per “consumazioni” che altri avrebbero ordinato per noi.
Nell’analisi di Graziosi, il razionamento di scarse risorse e i conflitti da questo generati, la paura della diversità e dell’immigrazione, nonché il calo dell’ottimismo, che prendono il posto delle antiche lotte su come meglio distribuire una ricchezza che sembrava infinita in società sempre in crescita e che sembravano tendere verso l’omogeneità, potrebbero spingere la democrazia verso un conflitto tra spinte demagogiche – nel senso classico del termine – e tendenze elitarie – nutrite anche dalla meritocrazia della società della conoscenza – che ne metterebbe in difficoltà strutturale la natura aperta e liberale, fino ad oggi conosciuta e amata.

Per ammissione dello stesso autore, Il futuro contro non può essere considerato un saggio storico o di geopolitica in senso stretto, piuttosto una raccolta di considerazioni, enunciate a titolo personale, volte a dare forza e vesti nuove a ideali in cui egli ha sempre creduto e continua a credere, un liberalismo progressista capace di mettere al primo posto libertà e apertura, ma cosciente che bisogna fare i conti con identità, esclusioni, sofferenze e diversità senza per questo imboccare «strade sbagliate come il socialismo, il nazionalismo o uno dei loro tanti ibridi».

I ceti colti e benestanti progressisti, che partecipano dei frutti della conoscenza e della globalizzazione, avrebbero contribuito, secondo Graziosi, alla sostituzione della “vecchia dicotomia” – che era comunque più forte nelle retoriche che nella realtà – tra una destra nazionalista e sostenitrice del mercato e una sinistra statalista ma comunque “nazionale” – «e spesso anch’essa nazionalista». Tale dicotomia sarebbe stata sostituita da quella che vede contrapposti i favorevoli e gli ostili a un cambiamento accelerato dall’apertura e dalla globalizzazione. La sinistra avrebbe così fatto propri dei principi liberali (merito, mercato, competizione, ecc.), mentre la destra avrebbe via via abbandonato il sostegno all’economia liberale, riavvicinandosi alle posizioni della tradizionale destra nazionalista e antimercato. La sostituzione della dicotomia originaria avrebbe inoltre contribuito a spostare la linea di confine tra destra e sinistra dall’economia alla cultura. Le questioni economiche avrebbero così perso sempre più di importanza come indicatori diretti degli orientamenti elettorali, e sostituiti da fattori come il multiculturalismo, legato anche all’immigrazione, all’ambiente, alla razza e ai comportamenti di genere. Ciò probabilmente contribuisce a spiegare il risentimento che il progressismo colto e benestante si è attirato, rendendosi odioso anche perché soddisfatto di sé e privo di sensi di colpa visto che la sua posizione sociale è, al contrario delle vecchie élite, “meritata”. Soddisfatto dei risultati raggiunti e orgoglioso delle proprie convinzioni, esso sembra vivere in quella che è stata definita “bolla culturale, valoriale e di benessere”, concentrandosi sui problemi che emergono all’interno di essa e applicando all’esterno la moltiplicazione infinita «dello schema intellettuale nuovi soggetti-nuovi diritti».

Il libro di Graziosi analizza nel dettaglio gli aspetti focali del progressismo liberale, i punti di forza come anche quelli di debolezza, gli sviluppi positivi e negativi, le degenerazioni e le crisi tentando di far luce soprattutto su quelle peculiarità che egli considera i capisaldi di un sistema economico e sociale che non può e non deve essere sostituito, ma certamente modificato, adattandolo ai mutamenti avvenuti come anche a quelli in atto in tutto il mondo, non soltanto nella sua parte occidentale. I concetti di evoluzione e libertà sono per l’autore imprescindibili e insuperabili. A cambiare di sicuro dovrà essere la politica, italiana ma soprattutto europea, che dovrà acquisire maggiori ruolo e qualità.
Per costruire la nuova narrazione del progressismo liberale, «capace di leggere il mondo nuovo in cui viviamo», sarà necessario seguire la ragione come anche la passione. Il fine è capire e far capire che l’unica via per superare in modo intelligente difficoltà innegabili è disegnare un futuro credibile, basato su progresso e apertura.
L’opposto di quanto sta purtroppo accadendo in Italia e in tanti altri stati europei alle prese con estremismi e populismi che invocano invece il ritorno a una sorta di incredibile quanto pericoloso e deleterio purismo razziale e culturale.

Graziosi esplora a fondo i «laboratori politici» di Movimento Cinque Stelle e Lega nazionale di Salvini.
Pur presentando caratteristiche davvero rimarchevoli, come l’uso innovativo di una piattaforma digitale, il M5S lascerebbe trasparire molteplici fragilità nel discorso politico portato avanti, dovute a confusione e poca capacità amministrativa oltre che politica. Il successo che continua a riscuotere lo si deve, per Graziosi, alla peculiarità del tempo odierno, un’era dominata dalle percezioni, nella quale l’affermazione di un nuovo discorso può comunque soddisfare a lungo bisogni psicologici di novità e rottura anche se nulla poi cambia davvero.
La Lega, che è un fenomeno molto meno innovativo, rischia di fare maggiore presa sugli elettori proprio in virtù dell’esperienza già maturata. Quella proiettata da Salvini è una declinazione del «mondo giusto irriflesso e autoconsolatorio» analizzato da Graziosi nel testo, un mondo in cui tutti hanno ciò che si meritano, gli italiani prima di tutto, perché siamo in Italia. Un mondo che vede i criminali puniti e i cittadini onesti liberi di difendersi, gli anziani gioire dei diritti riacquisiti e i giovani, ancora una volta, lasciati al proprio destino.
Sarebbe però opportuno chiedersi, come sottolinea anche Graziosi, che Italia ne verrà fuori. Chi rappresenta oggi la probabile o possibile alternativa politica. Dov’è la sinistra con i suoi militanti che non mancano occasione per rivendicare i tentativi di Enrico Berlinguer e la sua “questione morale”, quando poi la realtà è che il grande vuoto intellettuale e ideale in essa creatosi ha generato continue fratture interne e l’unico vero collante apparso efficace negli ultimi decenni è stato l’anti-berlusconismo. Hanno forse intenzione di perseguire questa strada così lungamente battuta creando un “nuovo” anti-salvinismo?

Se per garantire il miglior futuro realisticamente possibile occorre fare delle riforme impopolari nell’immediato, bisogna avere un discorso in grado di spiegare con chiarezza i motivi e i risultati di quelle riforme. Per Graziosi, sincero sostenitore del progressismo liberale, le soluzioni devono essere in linea con l’immagine generale dell’Italia che ci si propone di ricostruire. Un’Italia inserita in primo luogo nell’Unione europea e poi nel mondo, aperta alla prima e ragionevolmente aperta al secondo, circondata di opportunità e non da nemici. Come sarebbe invece nella visione dell’autore il paese se trionfasse la politica di Salvini.
Solo nell’Europa unita, infatti, i talenti, le inclinazioni e le energie dei suoi abitanti hanno lo spazio necessario per dispiegarsi e possono trovare gli strumenti di azione dei pubblici poteri adeguati a far fronte alle difficoltà e alla crisi, nonché la forza per parlare al mondo delle grandi potenze.

Graziosi ha scritto Il futuro contro scegliendo volutamente un registro narrativo semplice e lineare, una scrittura che sembra indirizzata a tutti. Si è basato su conoscenze e competenze certo, ma anche sull’esperienza e sulla condivisione di importanti momenti e decisioni, politiche o economiche, attuali e passati. Momenti e passaggi importanti che poi, direttamente o indirettamente, hanno determinato il corso degli eventi, contribuendo a plasmare quelle che sono l’Italia e l’Europa di oggi. Scelte e azioni da tenere bene a mente, che insegnano molto, soprattutto laddove sono risultate sbagliate.
Un libro, Il futuro contro, che non ha la pretesa di essere un manuale e forse neanche un saggio, nel senso stretto del termine, ma pregno di considerazioni e analisi che meritano di essere lette perché foriere di nuove osservazioni e riflessioni nel lettore, stimolandone molto lo spirito critico, e questo è senz’altro molto positivo. Una lettura per certo consigliata.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni de IlMulino per la disponibilità e il materiale


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