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Irma Loredana Galgano

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La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018)

16 martedì Ott 2018

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AntonioIngroia, Imprimatur, LeTrattative, mafia, PietroOrsatti, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

Se governo, istituzioni e cittadini cedono al compromesso, se la magistratura viene ripetutamente denigrata per le inchieste e i processi contro i “sistemi criminali”, che senso hanno le celebrazioni e le commemorazioni? Ricordare i “caduti” senza raccontarne i veri motivi, senza creare una solida memoria collettiva, induce il rischio concreto di immortalarli come novelli don Chisciotte, morti per un ideale irrealizzabile, per una causa persa in partenza.

Le Trattative di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti è fuor di dubbio una lettura interessante e, anche per chi ha cercato di informarsi su quanto accaduto, risultano illuminanti molti passaggi del testo. Utili, necessari e doverosi per costruire una solida memoria storica collettiva che racconti la verità, la realtà di chi ogni giorno porta avanti la sua personale lotta alla mafia. Una guerra combattuta per tutti ma appoggiata e sostenuta, nei fatti, da pochi.

«Si muore perché si è soli» diceva Falcone. E i giudici Falcone e Borsellino, gli agenti, gli uomini e le donne delle loro scorte, sono morti perché sono stati traditi dalla parte marcia dello Stato italiano e perché sono stati ingiustamente attaccati dalla parte deviata e venduta dell’informazione italiana e perché sono stati abbandonati dai cittadini italiani. Sottolinea Ingroia nel testo come il maxiprocesso stesso, simbolo ed emblema della vera lotta giudiziaria alla mafia, non sarebbe mai andato in porto se non ci fosse stata la primavera palermitana, «frutto di un movimento di massa, cioè della progressiva mobilitazione che si determinò sull’onda delle emozioni per i delitti degli anni Ottanta». In particolare gli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa.

Senza la spinta e il sostegno del movimento antimafia di massa, Falcone e Borsellino non avrebbero potuto affrontare tutti i tentativi, «dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo e a Roma ad opera del governo nazionale», di fermare «tutto questo processo di riscatto contro la mafia». Poi, dopo le sentenze di condanna del maxiprocesso si è deciso che bisognava fermare questo cambiamento che, evidentemente, non andava bene a tanti, tantissimi italiani, fuori e dentro le istituzioni.

Leggere il racconto di Antonio Ingroia mette addosso una grande tristezza. Per tutto quello che è stato, certo. Per le stragi, assolutamente. Ma anche per le conclusioni, le considerazioni che trovano adito riguardo lo Stato italiano, la nostra Repubblica, sui cittadini e sui rappresentanti degli stessi nelle istituzioni. Sulla parte marcia di questi ma anche su quella che si ritiene sana ma che, per ventisei lunghissimi anni, ha preferito girarsi dall’altra parte. E, purtroppo, sembra bene intenzionata a farlo tuttora.

Quando ancora in vita e operativi, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati oggetto, troppo spesso, di attacchi, non solo ma anche mediatici, di minacce, non solo ma anche da parte dei malavitosi. Sono stati isolati. Eppure dopo gli attentati di quel davvero terribile 1992 nessuno, almeno pubblicamente, ne parla male, ne parla contro o allude con accezione negativa al lavoro da essi svolto in Procura. Tutto questo è stato invece riservato negli anni ai magistrati ancora operativi. Fra i tanti anche lo stesso Ingroia e Antonino Di Matteo. Perché? Domanda ovviamente retorica di cui tutti ben conosciamo la risposta.

Falcone e Borsellino stavano per raggiungere risultati che «avrebbero riscritto la storia della Repubblica». Sono stati fermati dalle bombe del Sistema criminale, mentre «la Trattativa, che prese forma in quel periodo, ci ha fermato dall’altra parte». Si trattò col potere criminale «per coprire il passato e assicurare l’impunità a chi aveva gestito quel sistema».
Chi partecipava all’accordo «si assicurava anni, forse decenni, di potere, successi e impunità». E pronti a «firmare l’accordo con una parte di Cosa nostra un pezzo dei servizi, un pezzo del mondo degli affari sporchi della massoneria» ma soprattutto «complice di tutti la politica collusa». Gli imputati del processo Trattativa rappresentano «solo una parte di questo mondo, perché è l’unica parte che siamo stati in grado di portare a processo».

Nessuna iniziativa giudiziaria dirompente contro criminalità di tipo sistemico «si può avere senza la spinta di un’opinione pubblica favorevole che la preceda e l’accompagni». Inoltre, «la Giustizia ha bisogno di una buona politica». In Italia sono mancate entrambe.

Emerge, dal testo di Ingroia, l’importanza delle leggi e del legiferare. Provvedimenti che possono davvero essere decisivi, in un senso o nell’altro. Vere cartine tornasole della linea che lo Stato italiano e il suo Governo intendono tenere nei confronti dei mafiosi, dei collusi, dei corrotti. Poi viene il lavoro degli investigatori e dei magistrati certo ma questi possono ben poco se la rete legislativa ha le maglie eccessivamente larghe.

«Quando il centrosinistra nomina Giovanni Maria Flick ministro della Giustizia del governo Prodi c’è stata la svolta». Ancora non si sapeva ma la trattativa si era chiusa, «la nuova pax tra Stato e mafia nella quale gli unici inceppi negli ingranaggi eravamo noi». E lo dice con profondo rammarico Ingroia tutto questo perché «che lo facesse il governo Berlusconi te lo potevi aspettare, che lo facesse il governo Prodi no».
Che Italia avremmo oggi se i giudici Falcone e Borsellino, unitamente ai loro colleghi del pool antimafia, avessero continuato il proprio lavoro e se i governi di destra o di sinistra che fossero non avessero mantenuto fermo l’obiettivo di fermare o almeno limitare il loro incedere?

«Non esito a definire Grasso la più grande delusione professionale della mia carriera». Tutte le indagini e le notizie di reato considerate «politicamente scomode finivano, in un modo o nell’altro, nel cestino della procura» e la classe politica, «di destra come di sinistra, gliene è sempre stata grata».

Un’indagine, la Trattativa, che «colpisce indiscriminatamente tutto l’arco costituzionale da destra a sinistra» e conduce anche «allo scontro epocale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano». L’intercettazione della telefonata fra Mancino e Napolitano diventa una «trappola» perché poi, «come è successo con il processo Andreotti che era fondato su tantissimi elementi e poi è diventato il processo del bacio, il processo Trattativa era fondato su tantissimi elementi e poi la telefonata Mancino-Napolitano ne è diventata la semplificazione». Ma non era certo quello il cuore del processo. Il contenuto dell’intercettazione, tra l’altro, poteva avere una rilevanza etico-politica ma non giudiziaria, altrimenti «non avremmo lasciato che venisse distrutta, ma avremmo insistito che venisse trascritta».

Un muro di gomma, lo definisce Marco Travaglio nella prefazione, «così impenetrabile alla verità» che lui stesso ammette di ricordare un solo precedente e che «riguarda un processo assolutamente speculare: quello a Giulio Andreotti, spacciato per assolto mentre risultò – in appello e in Cassazione – colpevole di associazione per delinquere con la mafia fino al 1980». Quindi «reato commesso ma prescritto». E prescrizione non è certamente assoluzione.

Resta a Ingroia un interrogativo: «Chi fece il doppio gioco e cercò di creare le condizioni perché Napolitano arrivasse sino in fondo e così sollevasse il conflitto di attribuzioni che fu la pietra tombale su quell’indagine, così fermata nel suo incedere verso la verità?»
E una speranza: «Che questo libro possa aiutare a fare luce sui retroscena degli ostacoli e sabotaggi di tutti i tipi che quest’indagine ha subito».
Non solo quelli svelati, «ma anche quelli che mai sono stati scoperti».

Riporta Ingroia ne Le Trattative le parole del professor Miglio tratte da un’intervista rilasciata a Il Giornale il 20 marzo 1999: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. […] C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».
Se determinate affermazioni, certi comportamenti e noti fatti, processi, condanne, non destano clamore, scalpore, indignazione, ribellione, non più di tanto almeno, o peggio trovano l’appoggio e il consenso dei cittadini, parte di essi almeno, e dei rappresentanti dello Stato nelle varie istituzioni, parte di essi almeno, allora si può affermare, purtroppo, che la “costituzionalizzazione” di cui parlava Miglio, in via ufficiosa se non in via ufficiale, è per certo già avvenuta.

Il libro Ingroia lo dedica al suo maestro Paolo Borsellino, il quale «in nome dell’intransigenza contro la mafia e ostile a ogni trattativa ha sacrificato la vita per tutti noi». Nella introduzione curata da Franco Roberti sono ricordate anche le parole di un altro coraggioso “investigatore” che ha preferito il medesimo sacrifico piuttosto che vivere nell’ipocrisia e nella finzione del non capire, del non vedere, del non sentire. L’articolo pubblicato nel 1975 scritto da Pier Paolo Pasolini e intitolato simbolicamente Il processo dove si trova anche «l’elenco morale dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia». Veri processi del genere i magistrati, pur tra mille difficoltà, sono riusciti a istruirli, «partendo dai fatti, dalle inchieste, dallo studio delle carte». Processi («Andreotti, Contrada, inchiesta Sistemi criminali, Dell’Utri, Mori-Obinu, Trattativa») non «indirizzati specificamente solo al potere democristiano».

Ingroia considera l’indagine sulla Trattativa «il massimo sforzo che la magistratura ha potuto fare in questo ventennio per trovare la verità» sulla stagione delle stragi ma anche «sullo stretto legame di queste ultime con la genesi della seconda Repubblica». Se davvero siamo entrati nella terza Repubblica allora questa sentenza può rappresentare «un punto di riferimento nello sforzo di ricostruire la storia, dal punto di vista ovviamente giudiziario-criminale, di quello che sono state la fine della prima Repubblica e il marchio che la trattativa ha impresso su tutta la seconda Repubblica».
Un nuova Repubblica, la terza, che nasce sotto l’egida di una dichiarata volontà di cambiamento. «Certamente siamo in una fase di transizione» ma non si può davvero credere di poter costruire «su fondamenta solide una nuova Repubblica che incarni davvero un processo di maturazione della nostra democrazia se non si fanno i conti col passato».

La virata, affinché sia efficace, deve essere poderosa, decisa e scevra da ogni compromesso. Un segno tangibile di questo cambiamento potrebbe essere, secondo Ingroia, la costituzione di «una commissione parlamentare d’inchiesta, ad hoc, ma d’inchiesta sul serio». Un ulteriore ottimo segnale di vero cambiamento sarebbe stato la nomina a ministro di Di Matteo, di cui si era parlato ma poi non se n’è fatto nulla. «Tuttavia c’è ancora tempo per dare altri segnali, da parte del Governo, ma anche da parte del Parlamento».

Segnali, azioni, gesti concreti che i rappresentanti nelle istituzioni devono dare e che i cittadini italiani devono pretendere a gran voce e, al contempo, dare essi stessi. Perché, parafrasando Mahatma Gandhi, tutti dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Imprimatur per la disponibilità e il materiale


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Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92”…

01 domenica Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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AaronPettinari, Imprimatur, Italia, mafia, PietroOrsatti, Quelterribile92

Ci sono errori che non si vorrebbe mai ammettere di aver commesso e verità che si vorrebbe tenere per sempre nascoste. Quella su quanto accaduto in Italia durante la Prima Repubblica e che ha direttamente condotto agli attentati del 1992, per esempio, è una di queste. Perché? La domanda è tutt’altro che retorica e la risposta affatto scontata.

Eppure uno dei modi migliori per evitare di incorrere negli stessi errori è mantenere quanto più vivi possibile la memoria storica e il racconto veritiero di quanto accaduto.

In occasione dei venticinque anni dagli attentati del ’92, Imprimatur pubblica il libro, raccolta di venticinque testimonianze, di Aaron Pettinari e Pietro Orsatti, che si apre al lettore con una citazione di José Saramago.

«Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere».

Parole che hanno un significato profondo. La memoria non si costruisce, o meglio non si dovrebbe costruire, con il semplice racconto di una cosiddetta versione ufficiale dei fatti accaduti. No, la sua costruzione dovrebbe essere un procedimento molto più complesso, invece tutto quello che non è gradito al mainstream semplicemente sembra scomparire oppure diventare una visione complottistica.

Nel suo testo sulla Shock Economy Naomi Klein parla in maniera dettagliata della privazione sensoriale, ovvero la tecnica largamente utilizzata per indurre monotonia, che causa la perdita di capacità critica e crea il vuoto mentale in maniera tale che la gran parte delle persone non tenteranno nemmeno di analizzare criticamente i fatti loro raccontati, prendendo sempre e comunque per buona la versione loro narrata. Che, intendiamoci, non è detto che sia sempre falsa o falsata. Il punto è la capacità critica che ognuno dovrebbe avere, anche difronte alla verità.

Orsatti e Pettinari hanno raccolto il racconto di venticinque testimoni appartenenti al mondo del giornalismo, dello spettacolo, della musica, del teatro… e ognuno di loro ha descritto quel terribile ’92 dal suo punto di vista. Il quadro che emerge è abbastanza preoccupante: per le inchieste arenatesi, per i ripetuti depistaggi, per tutto ciò su cui non si è voluto indagare, che non si è voluto conoscere, preferendo invece abbracciare l’illusione del cambiamento, del rinnovamento, il giornalismo italiano che ha preferito in massa cavalcare l’onda anomala del vuoto assoluto lasciando che fossero «la satira e il teatro» a occuparsi di “informazione”. I venti anni del berlusconismo che altro non sono stati che il prosieguo di quanto esattamente accadeva prima perché è inutile continuare a negare che «c’è sempre stata una forte relazione tra sesso e potere». Una sinistra fittizia che a parole continua a urlare ideali e valori ma poi, a conti fatti, non ha fatto altro che uniformarsi al fiume in piena del degrado morale ed etico.

Il contributo più illuminante è certamente quello di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Lui che in poche parole non racconta solo gli attentati e quel terribile ’92, ma l’ipocrisia di un Paese intero e della classe dirigente che lo governa.

«Venticinque anni è non puoi più dimenticare. Perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui».

«Venticinque anni e ogni anno in via d’Amelio per impedire quei funerali di Stato che la nostra famiglia rifiutò fin dal primo momento. Per impedire che degli avvoltoi arrivino in via d’Amelio portando i loro simboli di morte per accertarsi che Paolo sia veramente morto».

Perché la vera lotta alla mafia non si fa con le manifestazioni, con i cortei, con le celebrazioni… la mafia, fuori e dentro lo Stato, si combatte chiedendo Verità e Giustizia, costruendo una memoria storica collettiva basata sui fatti non sui racconti.
Ed è proprio a coloro che hanno il coraggio di lottare, che non vogliono dimenticare e non si stancano di essere “eretici” che vanno i ringraziamenti di Aaron Pettinari a margine del libro. Persone che ci sono, che operano ogni giorno, su tutto il territorio nazionale e non solo in Sicilia Calabria e Campania, persone ai margini della società e troppo spesso marginalizzate dalla stessa.

Nel libro L’inganno della mafia. Quando i criminali diventano eroi, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso analizzano a fondo il processo di legittimazione di cui sempre «hanno goduto in Italia mafia, ‘ndrangheta e camorra; una legittimazione che ne spiega il successo più di ogni altra cosa». Se le mafie durano da due secoli «ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato ad esso». Relazioni che Antonio Belnome, ex affiliato alla ‘ndrangheta, chiama «gemellaggi con lo Stato».

Non si può certo dire che il dibattito sulla mafia oggi sia un tema trascurato nella discussione pubblica, ma resta il problema di come se ne parla. Perlopiù con «l’immagine stereotipata e romanzata della mafia», descritta come una «piovra invincibile» contro cui si oppongono “eroi” che possono essere indistintamente magistrati, poliziotti, giornalisti, persone comuni ma che restano sempre dei “lupi solitari” «destinati a soccombere». In molti sostengono che lo spettacolo è altro rispetto all’educazione, all’istruzione e all’informazione, «ma non si può certo ignorare che la spettacolarizzazione del mondo criminale rischia di essere molto pericolosa». Soprattutto in quei film e serie tv dove lo Stato e la società civile sono praticamente del tutto assenti ed esistono solo le lotte intestine all’interno dei clan per decretare di volta in volta il boss più grande, feroce, ricco e potente… una visione distorta e contorta che finisce per creare negli spettatori il desiderio di emulazione addirittura. Come accade anche, ad esempio, per i videogiochi di mafia che sono sempre i più richiesti e venduti. Un problema vero che diventa gioco e spettacolo e uno Stato che letteralmente scompare.

E così, paradossalmente, le stesse persone che sono appassionate di una serie tv o di un film di mafia, si disinteressano completamente, per esempio, del processo durato sei anni sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto concretizzarsi poche settimane fa la sentenza di condanna in primo grado e, incredibilmente, la notizia sembra non aver scosso né toccato che una ristretta parte di cittadinanza italiana.

In tantissimi sui social e nella Rete hanno calorosamente mostrato la loro solidarietà a Roberto Saviano laddove si profilava l’eventualità di eliminare la scorta che lo segue da anni ormai. Saviano notissimo al grande pubblico anche perché autore di una delle serie televisive di cui sopra. È bene precisare che chi scrive non chiede e non vuole che venga tolta la scorta a Saviano, piuttosto che sia data a tutti coloro che a vario titolo combattono le mafie. L’esempio è stato riportato solo perché appare paradossale che le medesime persone che si sono così infervorate per quanto potenzialmente potrebbe accadere al giornalista sceneggiatore non hanno pressoché battuto ciglio per la sentenza di primo grado nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto condannati il 20 aprile 2018:

Bagarella Leoluca e Cinà Antonino
De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subrani Antonio
Dell’Utri Marcello
Ciancimino Massimo

Uomini dello Stato e uomini di Mafia colpevoli.

Appare inoltre paradossale che la sospensione della scorta all’ex magistrato Antonio Ingroia, già deliberata dal governo Gentiloni e attuata nel maggio 2018, non abbia ricevuto pressoché alcuna eco mediatica. Per certo la notizia non ha destato il clamore dell’ipotesi di sospensione a quella di Roberto Saviano.

È evidente che c’è una abominevole distorsione nella percezione mediatica delle informazioni da parte del pubblico. Altrimenti non si potrebbe spiegare il motivo per cui a coloro a cui sta tanto a cuore la sicurezza del giornalista Roberto Saviano perché impegnato contro la mafia non interessa affatto o interessa poco la sorte dell’ex magistrato Antonio Ingroia sempre impegnato nella lotta alle mafie come anche nel processo sulla Trattativa.

Una trattativa tra lo Stato e la mafia che spesso, troppo spesso si preferisce ignorare quando proprio non negare nell’informazione e, di conseguenza, nell’immaginario collettivo. Quasi si desiderasse non far mai rientrare nella formazione della memoria storica del Paese.

Ed ecco che ritornano le immagini dei funerali degli agenti della scorta del giudice Paolo Borsellino, allorquando dal pubblico si alzavano cori di protesta contro le autorità presenti, tra cui il neopresidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro costretto a lasciare la chiesa scortato e spintonato. “Assassini” veniva urlato e ancora “Fuori la mafia dalla Stato”.

Il fuoco amico di cui parla Salvatore Borsellino.

Eppure ci sono coloro che nel giornalismo, nella televisione, nel cinema e, sopratutto, nella magistratura hanno scelto di continuare a urlare queste parole. A loro però spesso viene riservato un trattamento tutt’altro che piacevole e facilmente diventano esibizionisti, paranoici, complottisti, megalomani. Questo quando non sono o non si riesce proprio a isolarli o ignorarli del tutto.

Nel 2014 Sabina Guzzanti gira il docu-film LaTrattativa nel quale, seguendo i fatti e le testimonianze si cerca di ricostruire quanto accaduto. Nel maggio 2018 Corsiero Editore insieme ad Antimafiaduemila pubblicano il libro di Saverio Lodato Avanti Mafia! Perché le mafie hanno vinto che raccoglie tutti gli articoli scritti dal giornalista durante i sei anni del processo sulla Trattativa. Anni caratterizzati da «un silenzio diffuso, assordante, interrotto soltanto da alcuni giornalisti», come sottolinea il pubblico ministero Nino di Matteo intervenuto alla presentazione del libro a Palermo il 12 giugno scorso.

Lo stesso inquietante silenzio e il medesimo scarso interesse da parte del pubblico, ovvero dei cittadini italiani, mostrato per il processo Aemilia. Il maxi-processo per mafia del Nord Italia dove oggi si sperimenta quanto accaduto nel Sud Italia del secolo scorso, semplicemente l’esistenza della mafia si preferisce negarla, fingere di non vederla. Eppure sono tanti anni ormai che un all’inizio gruppo di liceali ne parla, ne scrive, ne denuncia. Sono i ragazzi di Corto Circuito capitanati da Elia Minari. Inchieste raccolte anche nel libro Guardare la mafia negli occhi.

Il titolo del libro di Elia Minari è molto illuminante perché è proprio questo che bisognerebbe fare: guardare la mafia negli occhi. E non limitarsi alle immagini stereotipate che di essa sono pieni i giornali, i telegiornali, i film e le serie tv. La mafia dentro e fuori lo Stato. Quella mafia che ha deciso la morte dei giudici Falcone e Borsellino, degli uomini e delle donne delle loro scorte, di tutte le persone a Roma, Bologna, Firenze e di tutti coloro che sono caduti perché divenuti intralcio al potere o ostacolo al “gemellaggio con lo Stato”. In nome di questo orrendo sistema tante vite sono state spezzate, tanti crimini atroci commessi, tanti diritti cancellati, tanta parte di territorio devastata… e c’è stato chi per rimorso o convenienza alla fine ha ceduto, si è pentito e ha raccontato. Ma ciò che fa davvero rabbrividire è che si è trattato sempre e solo di “uomini d’onore”, di quella parte di mafia operante fuori dallo Stato. Dall’altra parte invece mai nessuno ha ceduto, ha tentennato, ha parlato, si è pentito o ha denunciato. Mai. E, riprendendo le parole di Nino di Matteo, è doveroso sottolineare che «non potrà mai dirsi archiviata la stagione delle stragi fino a quando non si sarà fatta chiarezza sulle collusioni ad alto livello».

Solo quando si riuscirà realmente a tirare “fuori la mafia dallo Stato” si potrà allora pensare di combattere quella che agisce fuori da esso. Fino a quel momento le dichiarazioni, le celebrazioni, le manifestazioni a cui parteciperà lo Stato e i suoi rappresentanti avranno sempre il sapore amaro dell’ipocrisia e della finzione. Purtroppo.


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“Io non sono innocente” di Tonino Zangardi

28 mercoledì Set 2016

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Imprimatur, Iononsonoinnocente, Lesigenzadiunirmiognivoltaconte, recensione, romanzo, ToninoZangardi

«Un libro deve frugare nelle ferite, anzi deve provocarle. Un libro deve essere un pericolo.»

Io non sono innocente (Imprimatur, 2016) di Tonino Zangardi si apre con questa citazione di Cioran. E un’idea di ciò che troverà al suo interno il lettore può iniziare a farsela.

Zangardi ha già abituato il suo pubblico a scene forti e immagini a effetto con L’esigenza di unirmi ogni volta con te (Imprimatur, 2015), romanzo che rappresenta il primo capitolo della tormentata storia d’amore tra Leonardo e Giuliana, divenuta anche un film, uscito in Italia a settembre 2015, diretto dallo stesso Zangardi e interpretato da Marco Bocci e Claudia Gerini.

Con Io non sono innocente la scena si sposta al poi, quando Leonardo e Giuliana tentano di rimettere in sesto la propria vita e pensano sia necessario farlo da soli, separati. Rimane anche in questo secondo libro la sensazione, trasmessa al lettore dall’autore, che la coppia e il resto del mondo viaggino su binari e a velocità differenti. Come se ci fosse qualcosa di predestinante nelle loro azioni che li condurrà, sempre e comunque, l’uno nelle braccia dell’altro.

«Sono venuto qui perché non c’era altro posto al mondo, sopravvivo qui per rimettere insieme il puzzle della mia esistenza con la voglia di un inizio che tarda ad arrivare.»

La scrittura di Zangardi è corale e scenografica. Il lettore ha la possibilità di rivedere più volte la scena seguendo le considerazioni dei vari protagonisti. L’autore conosce bene il proprio mestiere e scrive scene che riescono a tenere incollati gli occhi di chi legge sul testo esattamente come accade osservando lo schermo di un cinema o di un televisore.

Giuliana si sente colpevole per l’uccisione del marito, anche se lei stessa ha rischiato di morire, di diventare l’ennesima vittima di violenza domestica. Leonardo si sente responsabile per quanto accaduto e si chiede se avrebbe potuto fare qualcosa per evitarlo e non l’ha fatto. Ma leggendo Io non sono innocente, le storie di Giuliana e Leonardo, di padre Giovanni e del romeno Dacian, di Chiara e di suo padre Marcelo… viene da chiedersi chi, in realtà, sia innocente per davvero e fino in fondo.

«La Chiesa vuole evitare questi scandali. Credo che monsignor Cardarelli mi abbia aiutato per questo e non perché gli importasse di me: per quanto lo riguarda io sono già stato condannato e più lontano vado è meglio per tutti. Andiamo a espiare le nostre colpe lì. Quando capiti in Africa è come se tutto il mondo occidentale che hai lasciato dietro non esistesse più.»

Ma in Io non sono innocente non c’è solo la contrapposizione tra Occidente, Africa e America Latina, tra ricchi e poveri, tra giusto e sbagliato… c’è proprio un conflitto interno e interiore ai protagonisti tra la voglia di vivere e quella di lasciarsi andare. Un pensiero simile a quello espresso da Battisti nella celebre canzone Emozioni: “guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere se poi è tanto difficile morire”. E Giuliana e Leonardo viaggiano a fari spenti e senza controllo sia insieme che da soli attratti ineluttabilmente dall’esigenza di unirsi ogni volta.

Io non sono innocente di Tonino Zangardi è un libro intrigante, che affascina il lettore per le scene e le immagini evocate, per le storie narrate, piene di pathos e realismo, per i retroscena mentali dei protagonisti che a volte traspaiono dai loro comportamenti a volte no. Ciò invita a riflettere sul lato nascosto di ognuno di noi, sulle gioie e sui traumi che condizionano il nostro essere e di cui spesso neanche ci rendiamo conto perché, come scrive lo stesso Zangardi, “la magia della vita supera ogni immaginazione”.

(Fonte: www.imprimatureditore.it)

Si ringrazia per il materiale e la disponibilità Lara Barilli dell’Ufficio Stampa Imprimatur.

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“L’esigenza di unirmi ogni volta con te” di Tonino Zangardi (Imprimatur, 2015)

15 mercoledì Apr 2015

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Imprimatur, Lesigenzadiunirmiognivoltaconte, recensione, romanzo, thriller, ToninoZangardi

“L’esigenza di unirmi ogni volta con te” di Tonino Zangardi: un libro che si legge in poche ore

L’esigenza di unirmi ogni volta con te di Tonino Zangardi (Imprimatur, 2015) è il romanzo da cui è stato tratto il film, in lavorazione, interpretato da Claudia Gerini e Marco Bocci.

Secondo quanto sosteneva Luigi Pirandello «l’uomo non ha personalità unica, ma varia, complessa e in ininterrotta metamorfosi; è costretto perciò dalle convenzioni e norme sociali e dai suoi interessi ad assumere per gli altri un ‘forma’ fissa, determinata, rigida, legata a un aspetto e a una circostanza particolare della sua vita».

Questa ‘forma’ che l’uomo assume spesso diventa una vera e propria gabbia e così, alla stregua di un qualsiasi essere che si sente braccato,  finisce col desiderare solamente la libertà. Quando si è giovani, adolescenti, il tentativo di uscire dalla ‘gabbia’ viene etichettato come ‘ribellione’, ma quando si è adulti facilmente si tira in ballo la follia.

È esattamente da questo punto che parte il romanzo di Zangardi, dal desiderio ‘folle’ di Giuliana di liberarsi dalla ‘gabbia’ nella quale improvvisamente si sente prigioniera, dopo aver volontariamente ma inconsciamente per anni gettato ogni chiave offertale dalla vita per aprire i lucchetti del suo destino. Un gesto ‘folle’ che ne attira altri sempre più estremi in un crescendo di tensione e passione che tengono incollato il lettore alle pagine del libro.

La scelta di raccontare la vicenda da due diversi punti di vista che poi equivalgono ai due protagonisti, Giuliana e Leonardo, si rivela efficace in quanto aiuta a entrare con più incisività negli accadimenti, a condividere i sentimenti, le emozioni e, leggendo, ci si sente talmente partecipi da arrivare a criticare alcune delle scelte fatte dai personaggi immaginando così un ipotetico quanto diverso epilogo.

L’esigenza di unirmi ogni volta con te di Tonino Zangardi sembra essere stato scritto in vista della sua trasposizione cinematografica e se in generale ciò rappresenta un limite criticabile della letteratura e della narrazione nel caso specifico non lo è. La grande capacità descrittiva dell’autore, il quale riesce con brevi passaggi a ben rappresentare ‘la scena’ del narrato, aiuta chi legge a figurarsi personaggi e luoghi con una tale intensità da apparirgli in alcuni tratti reali.

È un libro che si legge in poche ore e non solo per la sua breve lunghezza che va poco oltre le 150 pagine ma per il forte coinvolgimento nella vicenda che porta il lettore a dure riflessioni su temi caldi della società attuale, da un originalissimo punto di vista.

«Mi ricordo che anni fa, quando mi mettevano di servizio allo stadio, passavo tutto il tempo della partita non a vedere quei poveri stronzi dare calci alla palla ma a osservare le facce contorte e urlanti dei tifosi: alcuni erano vere bestie che avevano riposto ogni briciola di umanità. Come se, uscendo coi loro bandieroni, avessero lasciato a casa cervello e razionalità. Ci urlavano “servi dello Stato”, senza sapere che lo Stato erano loro.»

http://oubliettemagazine.com/2015/04/15/lesigenza-di-unirmi-ogni-volta-con-te-di-tonino-zangardi-un-libro-che-si-legge-in-poche-ore/ 

 

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Il Paradiso dei folli” di Matteo Incerti (Imprimatur, 2014)

10 mercoledì Set 2014

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlParadisodeiFolli, Imprimatur, MatteoIncerti, recensione, romanzo, romanzostorico

“Il Paradiso dei folli” di Matteo Incerti: la gioventù senza fine dei partigiani

Matteo Incerti, Il paradiso dei folli

Il Paradiso dei folli. Destini e Passioni, dall’inferno di una guerra a una vita d’Arte di Matteo Incerti, edito da Imprimatur, è un libro intenso che parla della guerra, che narra aneddoti, storie, che descrive luoghi ma soprattutto che racconta l’esistenza di «persone che, finita la seconda guerra mondiale, hanno poi vissuto una loro vita, unica, diversa e complessa come tutte le esistenze di coloro che fin da giovani hanno avuto il coraggio di immaginare un futuro diverso e di mettersi in cammino per conquistarselo».Massimo Ghiacci dei Modena City Ramblers in questo passaggio della prefazione al libro sembra sintetizzarne perfettamente il contenuto e lo scopo.Il Paradiso dei folli, sequel di Bracciale di sterline, prosegue nell’intento di ricostruire i tasselli di vite spezzate, cambiate, rinnovate e le esperienze di una generazione di ragazzi, poco più che adolescenti, che per coraggio o per incoscienza si sono lanciati animo e cuore in un’esperienza talmente grande che non solo ha cambiato il loro destino ma quello del mondo intero.

«Fu lì che quel ragazzo di ventidue anni di Kansas City conobbe per la prima volta il volto più truce della guerra. Quello dove vedi morire, guardandoli negli occhi, uomini che vestono solo una divisa diversa dalla tua». Matteo Incerti pone in diversi punti l’accento sulle assurde contraddizioni dei conflitti in generale ma di questo in particolare, il secondo che ha coinvolto l’intero pianeta, dalla Francia all’Australia, passando per Inghilterra e Stati Uniti, e poi Canada, Polonia, Africa, India. Una guerra giocata sullo scacchiere della politica internazionale, fino all’ultimo lembo di terra da “liberare” da nemici che il giorno dopo potevano diventare amici e combattere al tuo fianco, e il giorno dopo ancora cambiare tutto di nuovo. Alla fine si “giocava” un “gioco” di stoffe e colori, chiamate divise, da colpire per riuscire a diventare il più forte e vincere.

Gli alleati hanno avuto la meglio, questa è storia nota; quello che viene rammentato un po’ meno è che i nostri veri eroi, i partigiani, hanno dovuto sbrigarsela da soli sia prima che poi. Dopo la fine della guerra al di là di qualche riconoscimento simbolico, di qualche intestazione, di qualche targa e svariati monumenti commemorativi, dopo aver lottato per salvare la Patria, dopo essersi nascosti per campi, medicato feriti, seppellito compagni, aiutato i bisognosi, hanno dovuto rimboccarsi le maniche e ricostruire la propria vita, daccapo e senza aiuti o supporti.

Matteo Incerti

I protagonisti de Il Paradiso dei folli a tratti sembrano vivere l’esperienza del ritrovarsi come una grande festa, ma forse è anche il sintomo del disagio latente vissuto per anni, il gioire per il poter finalmente, di nuovo, condividere emozioni e sensazioni con persone che possono comprendere perché hanno vissuto le medesime esperienze. Veterani di ogni nazionalità, Partigiani e Staffette quando si incontrano si dimenticano persino di essere ottuagenari e oltre; sembrano ringiovanire, solo insieme riescono a ritornare a quei giorni, altrimenti la gran parte di loro preferisce seppellire tutti i ricordi e tutti i cimeli in bauli da rintanare in soffitte polverose e buie. Hanno cercato di arginare dolore e paura per far spazio alla nuova vita, quella che hanno voluto costruirsi anche come un riscatto simbolico per ciò che la guerra ha tolto loro.

«Questa sera siete qui: a divertirvi, sorridere, scherzare, bere, mangiare, innamorarvi, ballare. Fatelo, è giusto così. Godetevi la vita. Ma ricordatevi quanto siete fortunati. Quasi settant’anni fa io avevo la vostra età. Insieme a centinaia di migliaia di altri giovani americani, italiani e di tante altre nazionalità sacrificammo la nostra gioventù e in molti la vita per regalarvi quello che oggi molti di voi non apprezzano. È la libertà di poter scegliere».

Leggendo Il Paradiso dei folli di Matteo Incerti si prende per l’ennesima volta coscienza di quanto sia sbagliato il mondo in cui viviamo. Non solo per le guerre in sé che, non per retorica, andrebbero vietate ma per l’incoscienza di formare giovani in modo sbagliato, guardare al futuro con gli occhi del potere invece che con quelli della vita. Tutti i sopravvissuti alla seconda guerra mondiale, come agli altri conflitti, in un mondo equo sarebbero dovuti diventare i “maestri della Storia”, quella vera, da insegnare ai nostri figli e invece sono diventati invisibili, chiusi nel proprio dolore, dimenticati per far spazio al progresso, al consumismo e all’abusivismo.

Roque “Rocky” Riojas, veterano dell’esercito degli Stati Uniti d’America di origine messicana, nota immediatamente lo scempio subito dal nostro Paese nei sessant’anni trascorsi dalla fine del combattimento: «È cambiato tutto. Quante case e quanto cemento! Era tutto un prato quando passammo di qui». Finita la guerra è iniziata la rincorsa al progresso, all’evoluzione anche se poi alla fine si è trattato egualmente di distruzione. «Una lettera dall’Italia. L’ennesima che dice che le cose non sono cambiate fino in fondo, come sognavamo tutti. In questi momenti penso… a tutti quelli che sono morti e sento che il loro sacrificio è stato quasi vano». In un mondo dove regna la giustizia ognuno di loro, tutti coloro che hanno combattuto per un ideale di libertà avrebbero dovuto avere un volto e un nome, e accanto a questi una storia. E tutti i ragazzi di tutte le scuole avrebbero dovuto conoscerla e per strada o in foto riconoscere i valorosi eroi che hanno combattuto, che sono sopravvissuti o che sono morti per donare loro un futuro diverso, un futuro migliore… Solo in questo modo non sarebbe sembrata una goccia d’acqua in un mare di fango Il Paradiso dei folli di Matteo Incerti.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-paradiso-dei-folli-di-matteo-incerti-la-gioventu-senza-fine-dei-partigiani

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