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Irma Loredana Galgano

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“Rituali si resistenza. Teds, Mods, Skinheads e Rastafariani. Subculture giovanili nella Gran Bretagna del dopoguerra” di Stuart Hall e Tony Jefferson, curatore Luca Benvenga (Novalogos, 2017)

25 domenica Feb 2018

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insicurezza, Novalogos, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, Ritualidiresistenza, saggio, StuartHall, TonyJefferson

Uscito in prima edizione a ottobre 2017 con la casa editrice Novalogos, curato da Luca Benvenga e tradotto dall’originale in lingua inglese da Luigi Cocciolo e Angela Giorgino, Rituali di resistenza (titolo originale: Resistance Through Rituals: Youth Subcultures in Post-War Britain) si presenta come una lettura surreale. Risulta infatti molto difficile per il lettore metabolizzare l’idea che uno studio sociale così articolato, compiuto dal centro di studi culturali (Centre for Contemporary Cultural Studies) che Stuart Hall ha personalmente diretto dal 1968 al 1979, sia giunto in Italia solo nell’anno 2017. Addirittura in un Millennio differente da quello in cui ha avuto luogo.

Va chiarito subito comunque che, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, ovvero che si tratti ormai di una ricerca “datata” e per questo meno valida e attendibile, lo studio rimane interamente valido e interessante. Oltretutto, come ricordato anche nella prefazione curata da Davide Borrelli, «fare sociologia guardando al contributo degli Studi culturali significa, quindi, guadagnare una chance in più per mettersi al riparo contro l’ovvietà e l’immediatezza del senso comune», perché non sempre il buon senso produce «senso “buono”, cioè fornisce un resoconto adeguato dei regimi di verità, delle relazioni di potere, delle pratiche sociali, delle strutture di sensibilità, e delle forme di soggettività che caratterizzano un certo contesto culturale».

Un lavoro importante quello portato avanti da Hall e Jefferson, un «esercizio sistematico di “decodifica oppositiva” rispetto alle pratiche e ai codici delle forme culturali dominanti», uno studio orientato alla «esplorazione delle nuove aggregazioni di giovani che hanno squarciato la società inglese» negli anni successivi l’ultimo conflitto bellico. Sub-culture giovanili che vivevano un mondo diverso da quello attuale ma anche da quello precedente i conflitti bellici mondiali, gruppi di aggregazione che volevano mostrare il loro essere. L’ascesa dei “giovani” come nuovo soggetto nella Gran Bretagna del dopoguerra è una delle «manifestazioni più impressionanti, e tangibili, di mutamento sociale in quel periodo».

La “cultura dominante” rappresenta se stessa come «l’unica forma di cultura» e, in quanto tale, cerca di definire e contenere «entro il suo raggio inclusivo tutte le altre» che nascono come sub-culture spesso di opposizione e contrasto ma è necessario ricordare che sempre di essa, in un certo qual modo, ne sono espressione. Le sub-culture devono «esplicitare una forma e una struttura eterogenea rispetto alla cultura “madre” per esserne riconoscibili» ma, di contro, in quanto sottoinsiemi, è indispensabile la presenza di «caratteri essenziali che le ricolleghino e innestino nella cultura più ampia».

I membri di una sub-cultura possono «camminare, pensare, agire e apparire diversamente rispetto ai genitori e al resto dei coetanei», ma essi appartengono a quelle stesse famiglie, frequentano le stesse scuole, svolgono più o meno gli stessi lavori, e abitano le stesse «squallide strade». Cultura dominante e sub-culture sopraggiunte con la nuova condizione di benessere, di «crescente interesse attribuito al mercato, al mercato e all’incremento dell’industria del tempo libero» che aveva nei giovani i principali destinatari. Molto prevedibile quindi che la «predisposizione dei giovani al consumo» non fosse altro che «l’inizio di una sostanziale base economica di una cultura giovanile unica, indipendente e autoprodotta».

Alcuni aspetti della nuova cultura giovanile erano visti come «caratterizzanti degli effetti peggiori della nuova cultura di massa», ovvero la «tendenza a ridurre l’impulso ad agire e la resistenza della classe operaia». Mentre gli studi culturali di Stuart Hall e Tony Jefferson «focalizzarono stili, simboli e vita quotidiana», ovvero tutte quelle «visioni soggettive dei giovani proletari (e non)», nella «nuova sinistra italiana invece tutto questo fu ignorato e apertamente attaccato dalle impostazioni “oggettivistiche” dell’operaismo».

Le sub-culture britanniche hanno influenzato gran parte del mondo, specie nell’area occidentale, eppure «è singolare notare l’isolamento in cui si muovono queste ricerche». L’indifferenza verso una politica culturale espansiva ha «favorito la radicalità dei movimenti, il loro relativo successo e la catastrofe finale».

Un saggio fuor di dubbio interessante, quello di Stuart Hall e Tony Jefferson sui Rituali di resistenza che sono al contempo presagio e conseguenza dei cambiamenti. Uno studio che merita senz’altro di essere conosciuto e diffuso, per le analisi intrinseche come per quelle ad esso correlate. Una lettura che a tratti può apparire impegnativa ma che, alla fine, risulta soddisfacente nella sua totalità e istruttiva nella sua complessità.

Stuart Hall: (1932-2014), sociologo e teorico della cultura, cofondatore della New Left Review nel 1960. Direttore del Centre for Contemporary Cultural Studies dal 1968 al 1979, è stato docente di sociologia alla Open University.

Tony Jefferson: criminologo, collaboratore del Centre for Contemporary Cultural Studies dal 1972 al 1979, direttore del Dipartimento di Criminologia e professore emerito alla Keele University.

Luca Benvenga: sociologo, si occupa di linguaggi corporali e comunicazionali delle culture giovanili metropolitane, sulle quali ha scritto articoli in riviste e monografie.


Articolo originale qui


Source: Fonte vignetta raffigurante alcuni idealtipi subculturali e immagine: www.sociologicamente.it


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La Globalizzazione come produttore di periferie. “IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale” di Annamaria Rufino (Mimesis, 2017)

12 sabato Ago 2017

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AnnamariaRufino, Comunicazione, Globalizzazione, INSECURITY, insicurezza, MichelMaffesoli, MIM, Mimesis, paura, recensione, violenza, webmondo

Esce con Mimesis, del marchio editoriale MIM, nella collana Eterotopie, il saggio sulla comunicazione nel tempo della globalizzazione IN-SECURITY di Annamaria Rufino, con la prefazione a firma del professore emerito della Sorbona Michel Maffesoli, tradotta dal francese da Ciro Pizzo.

Un testo breve e conciso ma, al contempo, interessante, chiaro e con un gran bello scopo: precisare alcuni aspetti essenziali della globalizzazione, che è un «produttore di periferie» per effetto della «crisi del sistema relazionale e della fine della dimensione spazio-tempo» e, soprattutto, della comunicazione al tempo della medio-globalità.

Il «totalitarismo dolce delle democrazie occidentali» si contrappone al «totalitarismo duro», come quello «del nazismo e dello stalinismo», ma è comunque necessario, doveroso discorrere dei buchi neri creati da questa “dolcezza”, degli errori e delle assenze di iniziative… in una parola, come sottolinea l’autrice nel testo, dei «vuoti» nel sistema che generano «insicurezza, paura, violenza». Vuoti, mancanze che non riguardano solo i cittadini, le persone, bensì le Istituzioni la cui responsabilità maggiore sembra risiedere nell’incapacità di fare in modo che «la conoscenza, il sapere sappiano adattarsi alla “complessità” attuale». Il “webmondo” prevede «nessuna partecipazione dell’utente» e può, a tutti gli effetti, essere considerato una «ideologia totale» che ha «destrutturato la capacità interpretativa del mondo, trasformando la società globale in una super-massa».

Per Maffesoli, l’intuizione fondamentale del libro della Rufino sta nel tentativo dell’autrice di cercare il modo per «integrare nella maniera più a buon mercato l’insicurezza, come canalizzare libido ed energia, personali e collettive». Un po’ svolgendo la funzione sociale che da sempre hanno avuto le «Feste dei folli, le inversioni sociali, i carnevali», ovvero quella di «ritualizzare l’insicurezza» mediante queste «configurazioni antropologiche che hanno saputo far metabolizzare l’istinto aggressivo, che è proprio dell’animo umano». Inutile negarlo o regalarlo ai margini, alle “periferie”. Etichettarlo come afferente a gruppi etnici e sociali specifici. Il risultato è questo “vuoto” conseguenza diretta di «quest’energia fondamentale “slancio vitale (Bergson) o anche “libido” (Jung)» che, non potendo essere repressa, viene manifestata sotto forma di in-sicurezza, paura, smarrimento, violenza fisica e verbale che ha trovato terreno fertile anche nella Rete e nei social network e che ha origine da seri «problemi di coesione sociale, ordine, sicurezza, identità».

Come un’illusione ottica, «la globalizzazione e, direi, la comunicazione globale» non produce “conoscenza” o sapere ma “narrazioni”, «labili narrazioni come quelle giornalistiche, di ogni fonte, che dominano i fatti e sono fagocitanti rispetto a tutte le conoscenze e a tutti i saperi». Una vera e propria «ideologia destrutturante» in quanto la narrazione giornalistica è, in buona sostanza, un «produttore di fatti di cui non è possibile o è quantomeno difficile verificare la fondatezza, della notizia e della sua interpretazione». Ragion per cui «la percezione del dato sfuma in immagini e parole cui si fatica a dare un volto e un senso» e la comunicazione allora «rimane mera informazione». A lungo andare le narrazioni giornalistiche creano «un vuoto interpretativo e cognitivo». Inoltre questo tipo di comunicazione acquisisce sempre maggiore spazio. Quello «lasciato vuoto dalle istituzioni».

Annamaria Rufino più volte ripete ne IN-SECURITY la necessità di «un’azione coordinata e consapevole» da parte delle istituzioni in maniera tale da «correggere un sistema arido di comunicazione e di interpretazione», oltre che di «consapevolezza dei sistemi sicuritari», in quanto l’insicurezza percepita in modo diffuso e incontrollabile «si è trasformata paradossalmente nell’indicatore principale utilizzato per misurare i difetti d’ingranaggio tra sistema istituzionale e sociale» di un modello, quello occidentale, che «si è dissolto proprio nel momento in cui ha raggiunto la sua massima estensione».

Uno strumento valido di aiuto potrebbe essere, secondo la Rufino, «riabilitare alla sicurezza attraverso una comunicazione responsabile», individuando i «punti cruciali del complesso meccanismo dell’insicurezza» così da disattivare «il diffuso atteggiamento difensivo che si trasforma in violenza e aggressione, attive e passive, verbali e fisiche». La sfida a questo punto, che l’autrice pone ai suoi lettori in forma di domanda, è la concreta possibilità di una comunicazione sostenibile che contrasti le derive totalizzanti del non-luogo medio-globale.

Un libro interessante IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale di Annamaria Rufino, in grado di stimolare il lettore verso un dibattito solo in apparenza aperto e diffuso. Una riflessione valida e concreta sul problema della in-sicurezza e della paura, della comunicazione e dell’informazione nell’era dichiarata della loro massima diffusione.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia dell’autrice www.mimesisedizioni.it

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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