• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi tag: intervista

L’amicizia è amore assoluto? “Calle del vento” di Monica Bianchetti (Linea Edizioni, 2018)

11 lunedì Mar 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

Calledelvento, intervista, LineaEdizioni, MonicaBianchetti, romanzo

La scrittura che diventa un viaggio introspettivo “dovuto”. Per certi versi necessario. Un cammino per ritrovare se stessi e i propri affetti e sentimenti. Emozioni che sembravano perdute. Per limare quella rabbia che non è frustrazione, bensì dolore. Sentimenti e amicizia sono i punti focali della scrittura di Monica Bianchetti e il tema principale del suo nuovo romanzo, Calle del vento, edito da Linea Edizioni.
Una scrittura che è un percorso il quale, esattamente come la vita, può sorprenderti o deluderti ma mai smetterà di insegnarti affinché si possa imparare o continuare a sognare, amare o, “semplicemente”, vivere.

*****

Un timido raggio di sole fa vibrare l’acqua dei canali e Venezia si sveglia.
Giulia cerca la sua migliore amica, scomparsa misteriosamente tra le calli della città più bella del mondo. Dove è finita Pea?
La storia di un’amicizia dove le anime si toccano oltre lo spazio e il tempo.
“Penso a chi si ritroverà tra le mani queste pagine. Cosa capirà di noi? Scrivere parole è come scrivere note. Alla fine si compone un’armonia di suoni ed emozioni forse per dare un senso a questa nostra vita, spesso arrangiata, imprevista e imprevedibile. (…)
Che storia è questa? La storia di un’amicizia che s’arrotola felice, nei giorni che furono e che saranno.
Amicizia, la nostra, che corteggia affetto e sogna sogni, noi, che la vita ce la siamo sempre inventata.
Amico è una parola grande. Troppo facile abusarne.
A un amico non serve spiegare. Capisce lo sguardo. Afferra l’anima. Non fanno danni certi silenzi.
Ma abbiamo veramente tutti l’anima che crediamo di avere? E abbiamo tutti un amico da amare e proteggere o rimpiangere?
Non vi è felicità per me dove tu non sei”.

*****

Ne abbiamo parlato con l’autrice in un’intervista.

Calle del vento è, principalmente ma non solo, una storia di amicizia. Cosa rappresenta l’amicizia per te?

Lo volevo fortemente questo libro sull’amicizia.
Quel legame profondo che spesso ci ha accompagnati sin da piccoli, un’amica che ti dice quelle cose che nemmeno tu avresti il coraggio di dire a te stesso, un’amica che indovina quando deve chiamare o giungere. Amica che ti sta attorno e dentro e che, quando manca, passando da una stanza all’altra vai cercandola.
Un libro che ho fortemente sentito. Quell’esigenza di scrivere per ricordare la mia amica che, anche se fisicamente non è più, la sento qua, tra le righe, in un raggio di sole che squarcia le nubi, in un profumo di tutto quello che c’è stato dietro di noi, la leggerezza dell’infanzia e un abbraccio che mi chiude. L’amicizia, quella vera, è esclusiva, ti aiuta a crescere, non ti abbandona. Il vero amico non se ne va, casomai ci si può prendere una pausa, possono esserci dei momenti in cui ci si separa, ma alla fine ci si ritrova sempre. Alla fine è amore, un amore che va oltre, che non ha interessi, secondi fini, non crea malintesi, né aspettative. L’amico ti accetta esattamente per come sei.
“Tu riponevi le tue speranze in me e io in te, senza bisogno di alcun sacrificio, un sentimento disinteressato. Non è questo forse il vero senso profondo dell’amicizia? Il contenuto più autentico, una sorta di altruismo che dall’altro non esige nulla e non si aspetta nulla. L’amicizia è gratuita, è un rapporto che crea amore; proprio per questo non conosce il linguaggio del prezzo.”

Il libro è dedicato a Frida di cui, tu affermi, aver ereditato i desideri. Come si possono ereditare i desideri degli altri?

“Vita dolce, vita amara, susseguirsi di ore e giorni, nascite, eventi, dipartite, musica e risate, pianto e paura, questa è la signora vita che ci gira intorno e noi ci stiamo proprio in mezzo, qui, a cercare di campare.”
Finché a un certo punto la “signora vita” decide di prendersi qualcosa o qualcuno.
La mia amica oggi non c’è più. Io ho ereditato i suoi desideri perché il desiderio è attesa e apre spazi infiniti. Tutti noi prima o poi perdiamo qualcosa: le chiavi di casa, un treno, un’occasione, il senno. Io ho perso lei e da oggi in poi gli anni saranno difficili da sopportare, ma se i suoi desideri diventeranno i miei sogni, sogni che in qualche modo cercherò di realizzare, allora lei sarà ancora con me. Ma forse il suo unico grande desiderio era semplicemente quello di poter continuare ancora a vivere.

Ad ogni tuo nuovo libro sembra che la scrittura diventi per te un qualcosa di sempre più profondo, intimo. Nel testo si leggono frasi che sembrano provenire dalla parte più nascosta delle viscere… o del cuore. Dove ti sta portando questo percorso che è anche molto introspettivo?

È un percorso dovuto più che voluto. Un viaggio nei sentimenti più profondi, nell’io più nascosto. Non basta più narrare. Come creare una stanza dove i pensieri ti vengono incontro. La lettura di un libro è molto soggettiva. Io sto diventando una lettrice molto esigente. Non mi accontento più di leggere e basta. Mi serve una storia che mi coinvolga in prima persona, che mi scavi dentro, nella quale potermi identificare o confrontare. Forse la mia scrittura avverte la necessità di questa mia crescita interiore e sto diventando anche una scrittrice esigente. L’anima inizia ad avere un’importanza peculiare, perché solo l’anima può riconoscere certi sentimenti. Si può tranquillamente fingere di avere un cuore, ma non si finge di avere un’anima.

L’amicizia certo, ma il tema fondante del libro sembrano essere i legami, nonché i sentimenti che da questi derivano. Sono i legami a generare il nostro vissuto o, piuttosto, il contrario?

Entrambe le cose in modo differente, in situazioni diverse e in momenti inaspettati. I legami faranno sempre parte della nostra vita e spesso percorrono strade invisibili. Forse è proprio la paura della solitudine che genera legami.
Ci sono dei legami che rimarranno eterni, anche se apparentemente lontani. Un po’ come il sole e la luna: lontanissimi, ma essa si vede solo perché viene illuminata dal sole.

Senza spoilerare troppo la storia che si snoda seguendo un mistero che ne rappresenta anche un filo conduttore, volevo soffermarmi, quasi paradossalmente parlando di un libro, sul silenzio e sulle cose mai dette. Un aspetto peculiare delle protagoniste. Può una parola taciuta determinare l’intero corso di una vita?

“Amico è una parola grande. Troppo facile abusarne. A un amico non serve spiegare. Capisce lo sguardo. Afferra l’anima. Non fanno danni certi silenzi.”

È da sempre che vado alla ricerca del silenzio assoluto. L’unico posto al mondo nel quale ho potuto sperimentare un silenzio quasi totale è stato nel deserto del Sinai. Ma lì ho capito che anche in quello che crediamo silenzio, rimane nel timpano una vibrazione che genera ronzii e sibili; gli scienziati dicono che sia il fruscio dell’attività cerebrale.
Per cui il silenzio, in cui spesso ci identifichiamo, sovente è solo assenza di parole.
La parole di un libro sono parole silenti. Passano direttamente in te, dagli occhi, alla testa e, se siamo fortunati, al cuore e tutto senza passare prima dalle orecchie.
In Calle del vento ci sono pochi dialoghi, è quasi un monologo di memorie. È proprio nel silenzio che nascono domande e a volte si trovano risposte.
Ma alla fine la vita è rumore che prorompe, come Calle del vento, dove il sentimento dell’amicizia vincerà su tutto, anche sul tempo.


Monica Bianchetti è nata a Vicenza dove tutt’ora vive.
Ha pubblicato nel 2005 il romanzo La bambina di Venezia ed è seconda classificata al premio Adolfo Giuriato di Vicenza con il racconto La bicicletta.
Nel 2006 ha pubblicato il romanzo Il cielo sopra l’albero e sempre nel 2006 è finalista (tra i primi dieci su oltre 1700) al II° Festival delle lettere di Milano con il racconto Il mare in una lacrima. Nel 2007 ha pubblicato la raccolta di racconti Le curve delle parole e nello stesso anno è finalista al concorso di poesia Un fiore di parola con la poesia Ragazza di Lisbona. Nel 2008 esce con il suo libro Il sapore della neve.
Ha collaborato inoltre con l’autore Alberto Di Gilio al libro Asiago 1915-18. La porta della pianura e Altopiani 1915-18. I guardiani di pietra.
Nel 2016 esce il suo romanzo Il cuore appeso (Linea Edizioni).


Articolo originale qui


Source: si ringrazia l’autrice Monica Bianchetti per la disponibilità e il materiale


LEGGI ANCHE

“Il destino non è volontà”, intervista a Monica Bianchetti per “Il cuore appeso” (Linea Edizioni, 2016) 

I rischi della vita in “Incerti posti” di Marco Montemarano (Morellini, 2017) 

Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&G, 2016) 

Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza” (Bompiani, 2017) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

20 mercoledì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

GuerinieAssociati, intervista, Ioavvocatodistrada, MassimilianoArena, romanzo, saggio

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Massimiliano Arena si augura che «i giovani di oggi facciano un po’ meno master, meno corsi di perfezionamento e di aggiornamento, e si buttino un po’ di più sulle strade del mondo, a fare esperienze di vita. A sentire odori, anche nauseabondi. Sporcarsi mani e piedi», perché lui crede nella propria professione. Lui vede nell’avvocato “l’angelo custode” del cliente, un suo alleato. Eppure, nell’immaginario collettivo e anche nella gran parte della realtà in cui anch’egli vive e lavora, il legale è, troppo spesso, uno scaccia-guai avido di denaro che non disdegna di difendere anche corrotti, assassini e malavitosi pur di vedersi accreditata la lauta parcella.

Ma chi sono davvero gli avvocati e, soprattutto, chi è Massimiliano Arena e cosa fa con lo sportello Avvocati di strada? Ne abbiamo parlato in un’intervista in occasione dell’uscita del suo libro, Io, avvocato di strada edito da Baldini+Castoldi.

Prima di entrare nel vivo del suo libro, se mi permette, vorrei chiedere la sua opinione riguardo la dichiarazione di Giuseppe Conte: «Sarò l’avvocato di tutti gli italiani». E subito su social e web si sono scatenati adducendo come motivazione più diffusa la non necessità di avere un avvocato. Ciò è dovuto forse anche al fatto che un supporto legale viene associato quasi sempre a qualcosa di negativo. Lei come commenta la dichiarazione del Presidente del Consiglio e la reazione del “popolo della Rete”?

Credo che il premier Conte volesse fare leva sulla sua biografia personale, per dimostrare continuità tra l’impegno forense e l’impegno politico. La nostra cultura ci impone di pensare al paziente dello psicologo come a un matto e al cliente di uno studio legale come ad una persona nei guai o, peggio, malavitosa. Nella cultura anglosassone l’avvocato è una sorta di angelo custode. L’avvocato negli Usa è un alleato del quotidiano, piuttosto che una risorsa da attivare in caso di urgenza e necessità.

Al di là di tutto non mi cambia nulla la dichiarazione del Premier, tanto meno la reazione del web. Andiamo alla sostanza delle cose, al saper fare, al saper essere.

Poi, beato il popolo che non ha bisogno di eroi, di avvocati e di giudici.

Nello specifico della sua esperienza personale invece lei si è quasi subito scontrato con un mondo diverso da quello immaginato. Dilaga un atteggiamento arrivista e opportunista tra i suoi colleghi. Com’è stato l’impatto con la realtà?

Devo ammettere che la esperienza come avvocato di strada ha salvato l’amore per questo lavoro e l’attaccamento ai valori e agli ideali da cui trae origine. È ovvio che ogni mestiere, arte e professione può essere contaminata da luoghi comuni e anche quella forense è una professione non immune da questo vizio.

Io me la tengo stretta e credo che sia una professione, o forse un’arte, nobile al pari di quella medica, nella misura in cui ripristina dignità e diritto, e di conseguenza migliora la salute dell’individuo e della comunità.

So di essere stato oggetto di derisione, di scherno da parte di tanti colleghi, i più anziani, o quelli che non hanno altro impegno se non quello dell’esercizio dell’invidia. Poi mi chiedo invidia di cosa, se il nostro studio legale, quello di avvocato di strada, pur essendo il più grande in Italia, è quello che paradossalmente fattura meno, cioè nulla.

La bellezza e i paradossi ci salveranno!

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Il tempo trascorso in Bolivia, in Guinea Bissau, negli orfanotrofi, nelle comunità rurali e agricole l’hanno avvicinata alla vita vera, quella dura, spietata. E ha rappresentato l’input per una svolta nella sua di vita e nella carriera professionale. Si sente una persona migliore oggi?

Mi sento migliore rispetto a me stesso, mai rispetto agli altri. Tenere a bada l’Ego non è facile, è la sfida più grande. Anzi il mio messaggio è che se uno coi miei limiti ha fatto tutto ciò, allora è la prova provata che chiunque possa farlo, ed anche meglio.

Allo stesso tempo mi auguro che i giovani di oggi facciano un po’ meno master, meno corsi di perfezionamento e di aggiornamento, e si buttino un po’ di più sulle strade del mondo, a fare esperienze di vita. A sentire odori, anche nauseabondi. Sporcarsi mani e piedi. Riequilibrare il totale squilibrio tra il saper fare e il saper essere.

Quali sono state le difficoltà maggiori riscontrate nell’apertura dello sportello Avvocati di strada?

In primis la diffidenza degli altri avvocati. È ovvio che uno sportello di assistenza legale gratuita possa celare dietro le quinte il pericolo di procacciamento illegale della clientela. Per questa ragione io ho imposto che al mio sportello nessuno dei colleghi e delle colleghe possa ricevere il conferimento di un mandato. Noi possiamo solo dare orientamento e assistenza. Per il resto non ho visto grandissime resistenze anzi è stato un crescendo di riconoscimenti, di attestati, alla lunga anche da parte dell’ordine forense.

Si è mai ritrovato a pensare che, alla fin fine, non ne valeva la pena?

I poveri puzzano, si lamentano, raccontano bugie e ti prendono in giro. Lo fanno continuamente. Per molti di loro è un modello di vita e di comportamento. Tutto ciò mette a dura prova la resistenza di chi vuole aiutarli. Eppure, è proprio in questa resistenza che si misura l’attaccamento ai valori ideali che muovono verso la solidarietà. Il chiedersi se valga la pena è naturale. Me lo sono chiesto in Bolivia quando vedevo la gente che prendeva i pacchi dono e li andava a vendere al mercato. Me lo sono chiesto quando ho scoperto che chi chiede aiuto in realtà sta meglio di tanti altri. La missione dell’avvocato è quella di difendere tutti, noi non giudichiamo nessuno.

LEGGI ANCHE – L’arte di non avere niente. “Less is more” di Salvatore La Porta

Lei vive e lavora in una realtà, la città di Foggia, che vede un tessuto sociale minato da una diffusa prostituzione e un radicato caporalato. Uno sfruttamento presente in tantissime zone d’Italia, tra l’altro. Qual è la risposta delle istituzioni e della cittadinanza alla vostra attività professionale?

Le istituzioni ricorrono alla nostra associazione molto spesso, siamo il surrogato di uno Stato sociale traballante. Mettiamo spesso pezze a colori grazie anche alla rete del volontariato e dell’associazionismo locale, che è sdoganato da limiti di spesa pubblica. Conta solo il cuore, buttarlo oltre la ragione e darsi da fare. Nella nostra città noi e le nostre associazioni gemelle siamo molto ben voluti, la gente ci cerca, ci segnala i casi di emergenza e noi ci muoviamo dallo sportello sia in città che nelle campagne limitrofe, soprattutto nei periodi di raccolta del pomodoro dove i picchi di caporalato, di prostituzione e di schiavitù umana raggiungono livelli da gironi infernali.

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Quale ritiene essere il disagio maggiore nella società odierna?

Il disagio maggiore della società moderna è una educazione perversa all’egoismo e al conflitto. Anche la comunicazione politica oramai è viziata da egoismo, individualismo e naturale propensione al conflitto. Chiunque giunge al potere si sente in diritto di distruggere tutto il resto e si atteggia a salvatore del mondo. Questo paese, le comunità che lo popolano e che lo animano, hanno bisogno di una pace sociale. Il più grande investimento che si possa fare in questo momento in questo paese non è sulle infrastrutture, o sulla detassazione. Noi dobbiamo investire in riconciliazione, dobbiamo fare la pace e sanare i conflitti e le ferite. Così come fu fatto magnificamente dai padri costituenti nel secondo dopoguerra. Ed infatti dal secondo dopoguerra nacque una generazione di cittadini che hanno scritto la storia del nostro paese e lo hanno portato al boom economico.

Molti di noi pensano che Nelson Mandela abbia vinto il premio Nobel per la Pace perché è stato in carcere per più di 25 anni. Falso. Nelson Mandela ha legittimato il suo premio Nobel nella misura in cui una volta giunto al potere, anziché vendicarsi contro i suoi aguzzini, li ha perdonati e ha aperto in ogni provincia i così detti tribunali della riconciliazione, dove bianchi e neri si sono scambiati il perdono di anni di segregazione razziale, di uccisioni, di rapimenti e stupri. Il Sudafrica è ripartito, affondando le proprie fondamenta sul perdono e sulla riconciliazione e ciò ha fatto di quel paese un paese moderno e proiettato al futuro.

Dove non è presente il volontariato come lo sportello Avvocati di strada chi si occupa di difendere gli interessi e i diritti degli ultimi?

Io sono per propensione naturale ottimista. Trovo modo di riscontrare questo mio ottimismo girando l’Italia. Vi sono eroi anonimi, i quali, senza alcuna organizzazione, si battono per i diritti degli ultimi. Sono loro la speranza che quella grande opera di investimento sulla riconciliazione dei conflitti e sul perdono sociale possa finalmente partire e salvare le sorti delle nostre comunità.


Leggi tutte le nostre interviste a scrittori e scrittrici.

Per la prima foto, copyright: rawpixel.


Articolo originale qui


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

E se l’inferno fosse vuoto? Intervista a Giuliano Pesce

06 mercoledì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

GiulianoPesce, intervista, Linfernoèvuoto, MarcosyMarcos, romanzo

Avvicinarsi quanto più possibile al limite è, spesso, l’unico modo per compiere scelte diffcili, esistenziali. Decisioni che altrimenti non si avrebbe la giusta spinta per prenderle. E Giuliano Pesce ne L’inferno è vuoto spinge al massimo i suoi personaggi, “costringendoli” ad affrontare rocambolesche avventure che, proprio nel loro essere così esageratamente surreali, diventano punto d’appoggio per riflessioni intense sulla vita e anche sulla sua fine. Il dualismo esistenziale tra vita e morte raccontato con l’originalità che caratterizza gli scritti di Pesce e l’immancabile pungente ironia con la quale condisce il tutto e lo rende piacevole al lettore.

Gli abbiamo rivolto alcune domande sul nuovo romanzo, edito sempre da Marcos y Marcos, incuriositi anche dal confronto con il precedente.

Esce il nuovo romanzo, sempre per Marcos y Marcos, e questa volta sembra lei abbia voluto scrivere il libro al contrario. Mi spiego: in Io e Henry il lettore scopriva la scena topica solo alle ultime battute mentre adesso costituisce proprio l’incipit. Si tratta di una scelta legata alla storia oppure ci sono altre motivazioni?

Di sicuro non mi piace ripetermi. Ma non è certo una scelta progettata a tavolino. La scena di apertura, con il papa che si getta nel vuoto durante l’Angelus, mi ronzava in testa già da anni, suggerita da un amico, quasi per scherzo. Per iniziare a scrivere un romanzo, però, ho bisogno di avere in mente sia la scena iniziale che quella finale. A quel punto si tratta solo di raccontare – prima di tutto a me stesso – come si collegano quelle due immagini. È come se la storia fosse già lì da qualche parte, e io dovessi solo scriverla.

Anche ne L’inferno è vuoto il tema principale sembra essere legato all’esistenzialismo o sbaglio?

Direi che il romanzo è dominato dall’azione e dalla suspense, più che dalla filosofia. Che poi i personaggi si trovino a scontrarsi con temi come l’angoscia, il peccato, la colpa e il peso delle decisioni prese o subite, credo sia inevitabile, poiché sono calati in situazioni estreme, in cui non possono esimersi dal cercare di dare un senso alla propria esistenza. Penso per esempio al personaggio di Bara, un gangster che, nel momento del suo massimo dramma personale, si trova – suo malgrado, direi – a riflettere su come le esistenze di tutti gli uomini siano intrinsecamente collegate e apparentemente dominate da forze che ci appaiono, in fondo, del tutto incomprensibili:

«Se qualcuno è sopravvissuto a quella tempesta di fuoco, è giusto che sia così. La fortuna è più che un dio tra gli uomini. Perché tutti gli uomini sono solo il risultato della fortuna: la vita è una vincita alla lotteria degli spermatozoi. Tutti nascono unici, sorteggiati fra trecento milioni di girini bianchi. Nascono unici per ritrovarsi circondati da un mucchio di altre persone – tutte vincitrici – aggrovigliate tra loro, intrecciate come i fili dello stesso tappeto. Ma ognuno pensa per sé, tira in una direzione, vuole tracciare il proprio disegno. E allora tiri anche tu, senza sapere nemmeno quale senso abbia quell’ordito. Tu tiri, loro tirano; e all’improvviso è tutto finito. Come se non fosse mai successo.‘fanculo.»

In Io e Henry si percepiva molto del dualismo tra solitudine, fisica o mentale che sia, e condivisione, di vita ed esperienze. Reali o immaginarie che fossero. Ne L’inferno è vuoto invece tutto sembra consumarsi nella lotta infinita ed eterna tra vita e morte. Considerando anche che si parla di personaggi particolari con esistenze borderline, i protagonisti del suo romanzo sono persone che vogliono vivere o morire?

«Possibile che tutti i tuoi discorsi finiscano con la morte?» chiede Bara – uno dei personaggi del romanzo – al suo amico Beccamorto, che gli risponde: «Sembra che la vita funzioni così».

Sicuramente uno dei temi portanti del romanzo è la tensione tra la vita e la morte. I personaggi – che siano gangster, attori o uomini di Chiesa – si trovano costantemente in situazioni di pericolo. Parliamoci chiaro: una pistola puntata alla testa spingerebbe chiunque a fare un bilancio della propria esistenza, e mi intrigava molto l’idea di cogliere i personaggi in un momento di riflessione così estremo. E poi, dopotutto, chi è in grado di cogliere il dramma della fine se non un personaggio letterario? La vita di ognuno di loro – che si concluda con una morte violenta o meno – è destinata a esaurirsi sulla pagina.

Permane la sua volontà e capacità di raccontare aspetti e problemi contemporanei molto seri e attuali attraverso l’uso dell’ironia e dell’autoironia. Nonostante le avventure esilaranti che si avvicendano e si inerpicano nel giro di brevissimo tempo, riesce comunque a dare al lettore margini per riflessioni ponderate. Sono folgorazioni letterarie le sue oppure i suoi scritti rispecchiano un preciso piano di lavoro?

Ogni storia ha il suo modo di essere raccontata. L’inferno è vuoto ondeggia tra commedia e tragedia, e credo che riesca a porre il lettore nel giusto stato d’animo per affrontare le riflessioni a cui fai riferimento: ci si trova di fronte a temi universali, come sono la difficoltà di comprendere il senso della vita e della morte, ma li si osserva dal punto di vista personaggi molto particolari, che spesso stride con il senso comune. Credo che un buon romanzo debba sempre pungolare il lettore, e invitarlo a spingersi un po’ più in là, in luoghi che non pensava di poter raggiungere e che invece sono proprio lì, dietro la pagina.

Sembra esserci molto di autobiografico nel protagonista, aspirante scrittore, Fabio Acerbi e molto di lei scrittore in tutta la storia. Come si inserisce simbolicamente un papa in tutto questo?

Più che a me stesso, il personaggio di Fabio Acerbi – aspirante scrittore, alle dipendenze di un Grande Editore che dispone della sua vita come meglio crede – è ispirato ai tanti giovani che ho visto e vedo affacciarsi nel mondo del lavoro editoriale. Spesso, da fuori, si ha un’idea della Casa Editrice come luogo di cultura per eccellenza, in cui si passa la giornata a discutere di libri e di scrittura, un luogo in cui c’è ancora tanto spazio per il sogno e la fantasia. Ma non è così: le redazioni sono sempre più piccole e i ritmi di lavoro frenetici. E molti si trovano spiazzati.

Per quanto riguarda il papa, non credo che sia un simbolo attinente al mondo editoriale, che infatti occupa solo una piccola parte del romanzo. L’estremo gesto del pontefice si rifà semmai a quella tensione tra vita e morte, inferno e paradiso, salvezza e dannazione di cui abbiamo parlato prima.

Lei popola Roma di personaggi strambi e la anima di persone improbabili le cui rocambolesche vicende solo in apparenza sembrano inverosimili. Viene naturale chiedersi se davvero l’inferno è vuoto?

Non appena Fabio Acerbi mette piede a Roma, riceve una telefonata da un numero sconosciuto. «Chi sei?» chiede. «La tua guida», risponde una voce contraffatta. «Per questo lato dell’inferno».

La maggior parte dei personaggi del romanzo vive una vita immersa nella violenza, fisica o psicologica che sia. Quando si parla di gangster, prostitute e spacciatori, è facile immaginarci la loro esistenza come un oceano di dannazione. Ma, se si estende il discorso anche a personaggi più vicini a noi è impossibile non pensare al Mondo come, quantomeno, all’anticamera dell’inferno. Dappertutto ci sono persone – vecchi, donne e bambini – che vivono per la strada, o addirittura muoiono di fame e in guerre inutili, scatenate dall’avidità e dal disprezzo per la vita di altri uomini come loro, mentre la maggior parte di noi sta a guardare senza fare un bel niente.

In queste condizioni, chi può essere così arrogante da pensare di essere salvo?


Articolo originale qui 


LEGGI ANCHE 

Esiste una realtà che dipende solo da noi? “Io e Henry” di Giuliano Pesce 

La Storia come non l’avete mai letta… ma come avreste sempre voluto studiarla. “Manuale distruzione” di Roberto Corradi 

Costruire personaggi e storie intorno al proprio mondo. “Malura” di Carlo Loforti (Baldini Castoldi, 2017) 

Quando la fantasia racconta la realtà. “Appalermo Appalermo” di Carlo Loforti 


© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Stampa di Palazzo e fake news. Fermare gli “Stregoni della notizia”. Intervista a Marcello Foa

01 domenica Apr 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

Glistregonidellanotizia, GuerinieAssociati, intervista, MarcelloFoa

Guerini e Associati propone al grande pubblico il secondo atto del saggio di Marcello Foa su Gli stregoni della notizia. Il libro di «un giornalista che, dopo oltre 30 anni di carriera, resta profondamente innamorato della propria professione», di un “amore” che rimane comunque critico, consentendogli di osservare il lavoro proprio e dei colleghi con pungente spirito critico, il medesimo vorrebbe fosse presente in tutti gli operatori dell’informazione. Ma così, purtroppo, non è. I motivi sono molteplici ma alcuni più peculiari e pericolosi.

Ne abbiamo discusso nell’intervista che gentilmente ha concesso.

Dieci anni fa lei scriveva di come coloro che conoscono le tecniche per manipolare l’informazione potessero minare le democrazie. Dieci anni dopo ripropone il testo aggiornato in uno scenario che non è poi così confortante. In questo lasso di tempo a fare più passi in avanti sono state le democrazie, gli operatori dell’informazione o i manipolatori?

Ottima domanda. Direi in prima battuta i manipolatori. L’informazione e la comunicazione sono strumenti indispensabili nella gestione del potere e come strumento delle guerre asimmetriche. Le tecniche che descrissi dieci anni fa vengono usate anche oggi, nel frattempo se ne sono aggiunte altre molto sofisticate. Purtroppo i giornalisti, anziché allertarsi e mostrarsi sempre più guardinghi, hanno continuato ad essere facili prede degli spin doctor e questo ha finito per diminuire la credibilità della grande stampa e, in seguito, anche la fiducia nelle istituzioni e nei partiti. Se la nostra democrazia non è morta lo dobbiamo in larga parte al successo della cosiddetta informazione alternativa online, a cui è corrisposto la nascita di nuovi movimenti politici.

Le notizie false non sono prerogativa dei nostri tempi, eppure oggi sembra che interi governi vogliano indire addirittura una crociata contro quelle che sono state definite “armi contro la democrazia”. Sono le fake news che girano in Internet e sui social media il vero pericolo per le democrazie occidentali o si attaccano queste per distrarre le persone da altro?

Le fake news sono chiaramente un pretesto per mettere a tacere o comunque limitare l’informazione alternativa online, che, contrariamente ai miei colleghi, saluto con molto favore. Nel saggio dimostro come lo scopo reale di queste polemiche sia l’instaurazione di una sorta di censura che, in nome di una causa apparentemente giusta (“le fake news vi ingannano!”), permetta ai governi di discriminare tra buona e cattiva informazione. Ma queste sono logiche da regime autoritario. Diversi studi hanno dimostrato come l’influenza delle “fake news” sull’elettorato sia marginale ed effimera. La mia tesi è che le vere indisidie siano rappresentate dalle manipolazioni che nascono dentro le istituzioni, con effetti davvero devastanti, ma contro cui non si levano mai voci e tanto meno richieste di sanzioni.

Le va di spiegarci la differenza tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica?

Certo. La comunicazione istituzionale è per sua natura oggettiva, neutrale, spoliticizzata: viene usata dai governi non per fare propaganda ma per permettere ai cittadini di disporre di dati e notizie oggettive riguardanti l’attività dello Stato e dello stesso governo.

La comunicazione politica, invece, permette ai ministri di prendere parte al dibattito politico e di difendere le proprie opinioni. I problemi nascono quando i comunicatori più spregiudicati, ovvero gli spin doctor, le mischiano o addirittura, come capita sempre più frequentemente, aboliscono la distinzione. Quando questo accade si abusa del potere delle istituzioni e informazioni apparentemente oggettive sono in realtà falsate o manipolate alla fonte. È un fenomeno invisibile, di cui i cittadini (e quasi sempre anche gli stessi giornalisti) non sono consapevoli ma gravissimo per una democrazia.

Lei scrive che i giornalisti sanno sempre qualcosa in più del pubblico. Come utilizzano queste informazioni? Ciò li rende più ricattatori o più ricattabili?

Direi che li rende troppo vicini al potere. Mi spiego: la frequentazione dei politici e dei governi è inevitabile; come è inevitabile che si instauri una certa confidenzialità con le proprie fonti. Non puoi fare degli scoop se non hai degli informatori all’Eliseo, a Palazzo Chigi o al Pentagono. Il problema è che i giornalisti tendono a diventare troppo simpatetici con l’establishment e dunque ad assorbirne le logiche e gli interessi. Smettono di ringhiare e di abbaiare, diventano dei cani da guardia troppo docili, troppo “di casa”; si sentono gratificati dalla vicinanza con il potere e questo finisce per limitare la capacità critica e il coraggio di denunciare. Un giornalista conosce presidenti e primi ministri ma dovrebbe essere sempre temuto da costoro. Purtroppo non è sempre così e questa è una delle ragioni del conformismo della grande stampa che finisce per pensare troppo al Palazzo e con il Palazzo, distaccandosi dalla realtà e dai cittadini.

Perché è così difficile garantire un’informazione originale e corretta anche all’interno di stati democratici?

Da un lato per la ragione che le ho esposto, a cui se na aggiungono altre: i condizionamenti dettati dagli interessi degli editori, la riduzione delle risorse economiche a disposizione delle redazioni, che comporta uno scadimento qualitativo di quest’ultime . Però c’è un punto fondamentale: per esercitare fino in fondo la propria missione di coscienza critica, i giornalisti dovrebbero conoscere le tecniche usate dagli spin doctor per orientare o manipolare l’informazione, ma sebbene, come dimostro nel saggio, gli esempi siano numerosi e ricorrenti, questa consapevolezza non matura. E i giornalisti continuano a essere prede fin troppo facili degli spin doctor. Risultato: un’informazione tendenzialmente conformista.

Proviamo a calcolare il senso della corretta informazione in base ai parametri della conoscenza e a quelli dell’era digitale. Lei da decenni ormai studia e compie ricerche per raccontare scomode verità. Si può anche non condividere il suo lavoro ma non si può negare che cerchi sempre di documentarlo con fonti certe. Lei ha 28 mila persone che seguono il suo profilo social. Il sito tematico dove si afferma di perseguire la mission di smascherare le bufale mediatiche, ovvero le fake news, BUTAC è seguito, sullo stesso social network, da 125 mila persone. Diciamo che il loro non è proprio un metodo scientifico piuttosto un rifarsi alla cultura dominante. Tant’è vero che, oltre a lei, un altro giornalista che finisce spesso nel loro mirino è Giulietto Chiesa. Il punto su cui vorrei discutere con lei è il motivo per cui tanta gente preferisce credere semplicemente e tranquillamente a loro? E, se mi permette, anche conoscere la sua opinione sul perché tante persone preferiscano sia un sito a dir loro cosa sia una bufala invece di documentarsi personalmente…

Tendenzialmente i debunker sono simpatetici con le istituzioni nella presunzione che rappresentino la fonte della Verità. Il mio approccio è opposto: io individuo nella manipolazione dentro le istituzioni una delle minacce più gravi alla nostra democrazia. È normale che in genere non sia amato dai debunker, che infatti sono restii ad attaccare i governi e l’establishment economico, men che meno gli spin doctor. Direi che mi sembrano funzionali all’establishment, che infatti li elogia (vedi la Boldrini nella passata legislatura). La loro visione privilegia e difende l’ortodossia istituzionale e i loro toni sono sovente inquisitori, polemici, ostentamente denigratori. Non c’è distacco critico. D’altronde molti di loro si sono autoproclamati in questo ruolo, senza credenziali professionali o accademiche ma naturalmente il pubblico questo non lo sa. Bisogna essere molto sicuri di sè per erigersi quotidianamente a giudici (e con toni implacabili) degli altri. Quanto contano davvero? Difficile dirlo. Alcuni studi hanno dimostrato che la loro influenza è limitata.

Uno dei punti su cui lei insiste molto nel libro è l’influenza degli esperti della comunicazione usati dai politici in campagna elettorale e non solo, gli spin doctor. In questi giorni primeggia tra i titoli dei giornali il datagate che ha coinvolto Facebook e Cambridge Analytica. Era davvero così inaspettato l’utilizzo di tutti i dati raccolti e immagazzinati dai social media?

Assolutamente no. Nel saggio scrivo che i giornalisti anziché infervorarsi sulle fake news, dovrebbero occuparsi di problemi ben più seri e gravi, come le insidie rappresentate dalla capacità di Facebook di orientare le nostre emozioni i nostri stati d’animo e anche le nostre idee politiche. Lo scandalo di Cambridge Analytica è esploso adesso e sebbene le circostanze siano state in parte strumentalizzate, non mi ha affatto sorpreso. Ma ad essere pericolosa non è tanto la società britannica, quanto Zuckerberg stesso.

Lei afferma che la concorrenza di siti e blog online sia salutare al giornalismo classico ma che comunque spetti a questo portare avanti il riscatto dell’informazione. Lo farà?

Me lo auguro di cuore. Io resto convinto che una stampa autorevole e coraggiosa sia indispensabile per la nostra democrazia. Solo i grandi media sono attrezzati per condurre battaglia davvero scomode e coraggiose, che richiedono ingenti mezzi economici e le necessarie tutele giuridiche. Ma bisogna volerlo e bisogna poter contare su editori all’altezza. Che ci riesca non lo so, che debba provarci lo credo con tutte le mie forze.


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

Guerra alle fake news o retorica e propaganda? 

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa 

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geo strategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano 

La memoria troppo condivisa dei social network: i like che diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi? 

Neuroschiavi, la Manipolazione del Pensiero attraverso la Ripetizione 

Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Periferie, rave, festini e multietnicità in “Terremoto” di Chiara Barzini (Mondadori, 2017)

14 sabato Ott 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

ChiaraBarzini, intervista, Mondadori, RinnovamentoCulturaleItaliano, romanzo, Terremoto

Periferie, rave, festini e multietnicità in “Terremoto” di Chiara Barzini

Quanto si somigliano in realtà America e Italia? E quanto invece sono dissimili? Coraggio e un pizzico di incoscienza sono la giusta prospettiva per evolvere nella vita e nella crescita personale? Chiara Barzini al suo esordio letterario ha cercato di condensare in Terremoto questo e molto altro ancora.

Ne abbiamo parlato in un’intervista a ridosso dell’uscita in Italia per Mondadori della versione italiana di Things That Happened Before The Earthquake.

Things That Happened Before The Earthquake, che in Italia è diventato semplicemente Terremoto, sembra voler mettere in relazione non solo due realtà, quella italiana e quella americana, ma anche i diversi modi di viverle. Cosa si era prefissa di “raccontare” in questo suo esordio letterario?

Da sempre osservo queste due culture così diverse tra di loro e le metto a contrasto, ma l’idea principale era quella di raccontare la storia di un gruppo di outsider che provano a fare il loro meglio per essere accettati (o rifiutati). Volevo raccontare le vulnerabilità e le paure di chi vive al di fuori dalla “azione principale”.

Il registro narrativo, al pari dello stesso narrato, è forte, deciso, a tratti provocatorio. È stata una scelta voluta oppure conseguenza della trama e del suo sviluppo?

Penso che la voce di Eugenia che racconta la sua storia debba essere decisa perché in qualche modo glielo richiede l’ambiente che la circonda. È un ambiente “forte” al quale per sopravvivere bisogna rispondere in maniera forte.

Periferie, rave, festini e multietnicità in “Terremoto” di Chiara Barzini

Quanto si sente o si è sentita simile e vicina a Eugenia, la protagonista di Terremoto? E in cosa invece non potreste essere più dissimili?

Siamo simili in certe cose “scellerate”, ma Eugenia è una versione molto più sicura di sé rispetto a come ero io. È un concentrato bionico. Volevo che fosse un’antieroina e volevo accompagnarla anche attraverso le scelte più sbagliate. Perchè da adolescenti si compiono gli errori migliori ed è giusto che sia così.

Periferie difficili da abitare, rave, festini, multietnicità sociale sembrano i temi centrali del libro. In base alla sua esperienza, quanto l’Italia di oggi ha finito per somigliare all’America degli anni Novanta?

Non vedo molta somiglianza tra l’Italia di oggi e l’America degli anni Novanta. In America, in quegli anni soprattutto––purtroppo dall’11 settembre molto meno e con Trump ancora peggio–– le minoranze etniche possono evolversi sia socialmente che economicamente. Qui si tende a isolare le minoranze e a rilegarle sempre negli stessi ruoli. La legge sulla cittadinanza statunitense prevede lo ius soli, qui è assurdo che ne stiamo ancora a parlare.

Periferie, rave, festini e multietnicità in “Terremoto” di Chiara Barzini

Da giovanissima ha lasciato l’Italia per gli States con la sua famiglia. Cosa ha comportato questo cambiamento e lo rifarebbe senza rimpianti?

Sicuramente è stato un trauma in quel momento, ma non ho alcun rimpianto. Rispetto i miei genitori per essere stati così coraggiosi. Ora che sono una madre, mi accorgo di quanto sia difficile prendere rischi, soprattutto per la nostra generazione che è cresciuta con genitori più o meno sessantottini e a volte un po’ incoscienti… Ma lo spirito di avventura che hanno avuto loro in quel momento è stato prezioso per la mia crescita.

Terremoto, già uscito nella versione americana, sta riscuotendo svariati consensi. Cosa si aspetta dal mercato e, soprattutto, dal pubblico italiano?

Spero che il pubblico italiano lo legga senza pregiudizi e a cuore aperto. È stato scritto con una grande dose di onestà emotiva ed è il mio primo romanzo quindi mi sento particolarmente vulnerabile.

Periferie, rave, festini e multietnicità in “Terremoto” di Chiara Barzini

Insieme a Francesco Pacifico, ha curato anche la traduzione in italiano del libro. Com’è stato tradurre se stessa? Ha mai avuto la tentazione di riscrivere alcune parti?

La traduzione mi ha sopresa perchè ero sicura che il libro avrebbe cambiato forma in italiano invece sono felice perchè penso che ci sia tutto lo spirito della versione originale. Questo è stato molto liberatorio. Qualche parte è stata riscritta in effetti. Ho pensato fosse importante scegliere di cambiare alcuni toni ed evidenziare alcune sfumature culturali americane per il pubblico italiano in modo da spiegare anche delle cose di quel paese. Per quello americano sono andata più a fondo sui dettagli culturali italiani in modo che anche loro potessero capire.


Per la prima foto, copyright: Frank Köhntopp.

Per le foto di Chiara Barzini, copyright: Jeannette Montgomery Burron.

Articolo originale qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Insegnare scrittura creativa per sostenere il talento. I 25 anni di Lalineascritta nell’intervista ad Antonella Cilento

29 venerdì Set 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

AntonellaCilento, intervista, Lalineascritta

Insegnare scrittura creativa per sostenere il talento. I 25 anni di Lalineascritta nell'intervista ad Antonella Cilento

Nel 1993 nasceva, per volontà della sua ideatrice Antonella Cilento, la prima scuola di scrittura al Sud. Venticinque anni dopo Lalineascritta è «una fucina e un mattatoio» dove «si lavora e si crea sul pericoloso filo teso sul vulcano» ma le cui attività hanno travalicato i confini nazionali.

Abbiamo chiesto ad Antonella Cilento cosa ha significato portare avanti un simile progetto a Napoli e in Italia, dove la cultura «è alla fine la Cenerentola dei settori produttivi», nell’intervista che gentilmente ci ha concesso a ridosso dei festeggiamenti per il compleanno della “sua creatura”.

Lo scorso 20 settembre Lalineascritta ha soffiato sulle prime venticinque candeline. Cosa ha provato la sua ideatrice?

Una grande serenità, come quando fai tappa dopo una lunga navigazione: tanti scogli e molte tempeste superate, la sicurezza che ormai è davvero solo il viaggio che conta, non la meta, come ci dicevamo, senza capire veramente il senso di questa frase, da giovani. Ho la sensazione precisa di aver costruito un solido edificio, ora starà a chi lavora con me crescere e costruire con altrettanta forza.

Ho iniziato quando avevo ventitré anni, un’età in cui, senza forti pubblicazioni e in virtù dell’anagrafe, ci si potrebbe sentire insicuri: mi ha fatto emozionare una mia antichissima allieva, arrivata nei miei corsi quando ne avevo forse ventotto, oggi bravissima e apprezzata story editor della RAI, Viola Rispoli, che mi ha sussurrato all’orecchio “ero giovanissima e tu mi sembravi tanto grande ma, a pensarci adesso, anche tu eri tanto giovane”. Entrambe (Viola è stata una delle più talentuose che ho formato e i risultati si vedono) facevamo proprio quel per cui eravamo nate, le ho risposto.

Ed è questo il senso: aver inventato un metodo unico, quello che marchia tutti i corsi de Lalineascritta, puntando sul condividere con gli allievi le tappe del percorso creativo, affrontando blocchi, paure, indecisioni, rinunce, implementando le letture, soprattutto al di fuori di mode e standard editoriali, quindi curando una vera formazione della persona, in una direzione per di più interdisciplinare, poiché scrivere con profondità, con una voce autentica, significa conoscere letteratura, arte, teatro, cinema e anche il proprio corpo.

È stato bello rivedere, grazie ai contributi video e al materiale cartaceo di un tempo, gli albori delle lezioni, i libretti con i racconti dei partecipanti che erano ancora simili a delle fanzine, e poi i libri stampati dei corsi e degli allievi usciti con grandi editori.

È stato ancor più bello ricevere attestati di stima e affetto da scrittori ed editor che sono diventati anche cari amici ospitati negli anni da Lalineascritta: costruire una comunità, rivedere antichi allievi e i recenti, incontrare come ogni anno i nuovi regala un senso agli sforzi fatti, al lavoro svolto con passione.

Insegnare scrittura creativa per sostenere il talento. I 25 anni di Lalineascritta nell'intervista ad Antonella Cilento

I corsi di scrittura, i percorsi e i vari progetti portati avanti in questi anni sono stati molteplici e di ampio respiro ma lei, guardandosi indietro, ha qualche rimpianto?

Nessun rimpianto: faccio e ho fatto sempre esattamente quel che volevo e ora che uno staff di sette persone è al lavoro intorno al progetto de Lalineascritta è ancor più evidente che si possono realizzare i sogni: non ho rimpianti ma lamento deficienze strutturali. Chi vuol fare cultura in Italia deve confrontarsi con l’assenza di autentici investimenti in questo settore, che è alla fine la Cenerentola dei settori produttivi, con lobby e piccoli poteri, anche dei media, mentre in un laboratorio così come lo concepisce Lalineascritta di fatto si formano professionalità che trovano poi sbocco nel mondo dell’editoria e della cultura e, soprattutto, si formano lettori consapevoli, quindi cittadini in grado di pensare con acume, che sanno scrivere e leggere con competenza.

Dunque, ogni volta che l’interazione con politica, media e istituzioni ha mostrato il limite, e tanti purtroppo sarebbero gli esempi, mi sono rafforzata nella scelta di lavorare esclusivamente con le forze e il contributo dei partecipanti ai laboratori: sono loro a sostenere e a chiedere che il progetto prosegua, che la ricaduta su ormai migliaia e migliaia di persone di ogni età e in ogni regione d’Italia (e con i corsi in web conference dal vivo ormai anche in mezzo mondo, dall’Inghilterra al Giappone) produca ancora domande, curiosità, risponda a bisogni sostanziali e sostanziosi.

LEGGI ANCHE – Antonella Cilento: quando la scrittura diventa più di un mestiere

Lei ha definito la scrittura un’arte che si apprende giocando a scrivere. Tutti possono imparare a scrivere. Ma chi può “imparare” a essere scrittore o scrittrice?

Il talento non si impara e non si insegna, ovviamente.

La ferita che porta ciascuno sulla pagina è misteriosa e personale.

Tuttavia, si insegna e si è sempre insegnato sin dall’antichità, come questo talento si sviluppi e si sostenga: occorre conoscere le tecniche, gli strumenti, i trucchi del mestiere e occorre impiantare un’autodisciplina, un allenamento, senza i quali anche il più talentuoso fa cilecca.

L’obiettivo è che ognuno cerchi la propria voce: del resto, basta leggere alcuni degli autori che abbiamo formato e che ora vanno per la loro strada, per accorgersi che le voci sono molto distinte e che rispondono di letture e domande differenti, da Giusi Marchetta a Rossella Milone, da Massimiliano Virgilio a Michele Di Palma, a tanti altri.

Si impara a usare bene quel che in potenza è in noi, ciò che brilla ma ancora non sappiamo se potrà avere una forma. Io stessa insegno apprendendo e apprendo insegnando: il mio lavoro è nato, come quello di mia sorella Iole Cilento per le arti visive, osservando il mio percorso creativo. Cosa facciamo, in che modo lo facciamo, in che trappole cadiamo, quali strategie inventiamo per uscire dal pericolo costituito da noi stessi man mano che scriviamo un racconto, un romanzo, una drammaturgia, una sceneggiatura, realizziamo un quadro o una scenografia, ecc…

Il metodo Lalineascritta consiste proprio nell’accompagnare, indirizzare, stimolare le arti nascoste o seppellite in noi: vale per i miei tre corsi di narrativa come per il corso di ludoscrittura condotto da Marco Alfano, Parole a manovella, per il corso di drammaturgia diretto da Stefania Bruno, In scena, o per il corso di editoria (fortunatissimo) condotto da Valentina Giannuzzi e Stefania Cantelmo, per i corsi di opera lirica e uso del segno e del colore, Una notte all’opera e L’immagine parlante, condotti da Iole Cilento e per il corso di improvvisazione teatrale che riprende quest’anno grazie a Paolo Oliveri del Castillo.

In tutti, con gli strumenti professionali di ogni singola espressione, si punta prima alla scoperta di sé, quindi alla conoscenza profonda e interdisciplinare, infine alla produzione professionale. E naturalmente, molti escono semplicemente lettori più forti, spettatori più consapevoli, fruitori competenti: formare il pubblico delle arti non è meno importante, anzi è la base del nostro lavoro.

Insegnare scrittura creativa per sostenere il talento. I 25 anni di Lalineascritta nell'intervista ad Antonella Cilento

Tra le nuove iniziative de Lalineascritta ci sarà il progetto “Il piatto dell’amicizia”. Di cosa si tratta?

La collaborazione assai felice con l’Accademia d’Ungheria di Roma e il suo attuale direttore, il professor Istvàn Pùskas, produrrà nel corso dell’anno diverse occasioni di parlare del rapporto fra la nostra letteratura e quella ungherese nel contesto europeo: “Il piatto dell’amicizia” è un evento dedicato alla grandissima Magda Szàbo, l’Elsa Morante ungherese, già amata in Italia grazie alle traduzioni Einaudi ma oggi in completa riscoperta e totale esplorazione grazie al prezioso lavoro di Anfora a Milano, la casa editrice abilmente condotta da Mònika Szilàgiy, che ci consente di leggere in nuova traduzione romanzi straordinari, da Per Elisa ad Abigàil, molti dei quali ancora in uscita.

Il centenario di Szàbo sta inseguendo eventi di celebrazione in tutt’Italia e tocca quindi anche Napoli, il giorno 1 novembre, al Cinema Hart, in partnership con Lalineascritta, dove il pubblico potrà sentire brani letti, trovare i libri, dialogare anche con l’attuale traduttrice, Vera Gheno, ascoltare il contributo di scrittrici, scrittori e critici e applaudire il film tratto dall’omonimo romanzo di Szàbo, La porta, da Istvàn Szàbo, il grande regista di Mephisto.

Se tutto andrà bene, questo “piatto dell’amicizia”, espressione ungherese citata nei romanzi di Szàbo che indica il piatto disponibile per ogni viandante che bussi alla nostra porta, stabilirà una importante novità per la decima edizione di Strane Coppie, quella del 2018, dove dialogheranno come ogni anno i grandi classici della letteratura mondiale fra Napoli, Milano, Verona e, speriamo, Roma, con grandi protagonisti della letteratura ungherese, che già conosce fortuna in Italia grazie all’amore dei lettori per Sàndor Màrai, ad esempio.

Salta all’occhio anche la partecipazione di Montesano e del suo Lettori selvaggi. Sembra scontato e banale ma in effetti non lo è. Imparare a scrivere ed educare alla lettura è un imperativo de Lalineascritta?

Non c’è dubbio: vogliamo formare lettori forti, curiosi e selvaggi.

Quando ormai sei anni fa iniziammo questo percorso chiedendo di fare lezione da noi a uno scrittore davvero importante e di livello europeo come Giuseppe Montesano, che oggi è un affettuoso e autentico amico de Lalineascritta, cercavamo proprio di precisare ancor di più lo spazio dedicato alla lettura, con le inevitabili ricadute sulla scrittura.

I Magnifici Sette, scherzoso omaggio a un cinema amato, di Giuseppe Montesano sono sette lezioni magistrali a cadenza mensile che raccontano grandi autori di ogni epoca e lingua. Quest’anno si va ad esempio da Saul Bellow a Balzac, da Shakespeare a Clarice Lispector, a Paolo Villaggio.

Ed è un grande onore che queste lezioni abbiano integrato e stimolato il lavoro che da dieci anni Montesano portava avanti e che si è concretizzato in quel capolavoro che è Lettori selvaggi, fresco vincitore del Premio Viareggio.

Permettersi il lusso di scrivere oggi libri così, portolani di lettura per lettori smarriti o desiderosi di mappe inconsuete, di punti di vista interni, verticali, non ovvi, è una ricchezza straordinaria: solo il meglio per i lettori de Lalineascritta (e anche per me, che quando ascolto queste lezioni mi concedo il lusso dopo tanti anni di tornare allieva: siamo sempre allievi).

Insegnare scrittura creativa per sostenere il talento. I 25 anni di Lalineascritta nell'intervista ad Antonella Cilento

Lalineascritta può vantare di essere la prima scuola di scrittura creativa del sud Italia. Cosa ha significato aprire un laboratorio come questo a Napoli?

La prima al Sud e fra le prime quattro o cinque in Italia ai tempi: anche se oggi le attività de Lalineascritta tendono a diventare sempre più nazionali, i corsi di base si svolgono ancora tutta la settimana a Napoli e raccolgono utenza da molte regioni vicine e da alcune lontane.

Napoli è sempre un ostacolo e uno stimolo: l’umanità che scorre nei laboratori è vivace e potente, l’umanità che governa o vive nella città tende a ignorare, sacrificare, distruggere i propri figli. È una storia antica, che non inizia e non termina con noi: un grande spreco di potenzialità.

Dunque, lavorare qui chiede muscoli e intelligenza e molta, molta, molta pazienza: ma siamo sempre nella città con la più antica e ricca letteratura in lingua d’Europa. E nei racconti e nei romanzi degli allievi si vede, lo notano sempre anche gli editor ospiti e amici, come Antonio Franchini, Giulia Ichino, Laura Bosio, Manuela La Ferla e, da quest’anno, anche Alberto Rollo. Una fucina e un mattatoio: si lavora e si crea sul pericoloso filo teso sul vulcano.

Articolo originale qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il mondo in un condominio: “Questo nostro mondominio” di Vanessa Chizzini

25 lunedì Set 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

intervista, Lavertiginedelcaso, Leleganzamatta, Questonostromondominio, recensione, romanzo, VanessaChizzini, Vertiginiestravedimenti

Primo atto del secondo movimento del progetto editoriale di Vanessa Chizzini, Questo nostro mondominio si propone al lettore come una piece teatrale messa in scesa nell’angusto ma infinito spazio del cortile interno di uno stabile dall’intonaco scrostato, uno di quelli tanto cari a Mic che li identifica come «la Milano che più mi piace».

Ritornano in Questo nostro mondominio Mic, Sam e la signora Adriana già incontrati in L’eleganza matta e Vertigini e stravedimenti, ovvero nel lato A e nel lato B del primo movimento de La vertigine del caso. È trascorso un anno dal viaggio in treno che li ha portati a Venezia e ora si ritrovano tutti nel cortile del palazzo dall’intonaco scrostato dove abita Ume, amica della signora Adriana e sarta, e dove avranno modo di confrontarsi con una nuova realtà: il mondo dei condomini che animano quel cortile nel silenzio dell’immobilità, apparente, di oggetti e persone.

Tutto si svolge in breve tempo ma dall’ora di arrivo, ovvero nel primo pomeriggio, a quella in cui lasciano lo stabile, nella prima serata, molte cose sembrano cambiare, trasformarsi, e molte riflessioni affollare la mente di Mic, voce narrante dell’intera vicenda.

Quando Mic e la signora Adriana arrivano nel cortile manca Sam ma sembra mancare proprio “la vita” in quel luogo che ha l’aspetto desolato di uno stabile in disuso. All’arrivo di Sam però il cortile si è decisamente animato al punto che Mic fatica a riassumere tutto quanto è accaduto nel breve lasso di tempo intercorso. Vite intere passate, raccontate, abbozzate nei ricordi o nei rimpianti… discorsi che evocano luoghi lontani, tempi andati, amori sfuggiti, affetti perduti. Il tutto condensato in quell’angusto spazio che alla fine del libro ha mostrato la bellezza accennata da Mic all’inizio del testo in un vortice di sensazioni ed emozioni, narrate attraverso le storie dei protagonisti, che permettono anche al lettore di vedere oltre i muri scrostati, le macchie di ruggine o di umidità, le panchine malandate, le bici ammassate, le dimensioni ridotte.

Un luogo che diventa la ruota panoramica di un luna park, da cui si può ammirare il mondo da tante angolazioni, notando ad ogni nuovo giro qualcosa che prima era sfuggito. Perché è proprio vero che «quello che non si vede non è meno importante di quello che è in piena luce». E se da una parte il cortile dello stabile dall’intonaco scrostato diventa una vera e propria finestra su un intero mondo, dall’altra appare il chiaro riflesso del mondo, quello vero.

Con il lato A del secondo movimento de La vertigine del caso la Chizzini sembra aver fatto un notevole passo avanti nel suo progetto editoriale che appare, in questa occasione, molto più lineare ma al tempo stesso molto più interessante per il lettore il quale ne resta affascinato fin dalle prime battute forse proprio per il merito che va riconosciuto all’autrice di esser riuscita a narrare il mondominio nascosto dietro i muri scrostati degli stabili di quella che forse è davvero la Milano migliore, senza dubbio quella più genuina.

L’interesse sempre crescente del lettore di Questo nostro mondominio non può certo imputarsi a una semplice «vertigine del caso», come la definirebbe l’autrice, ovvero una coincidenza, piuttosto al fatto che il progetto acquisisce sempre maggiore forma non solo nella mente di Vanessa Chizzini. E se il cortile pagina dopo pagina diventa qualcosa in più di «una macchia di cemento senza un angolo di verde», La vertigine del caso appare al lettore più di un semplice stravedimento dell’autrice, diventando uno strumento che le persone, non solo i protagonisti, possono usare «per rientrare in contatto con se stessi».

Questo nostro mondominio risulta quindi una lettura gradevole, una piacevole riscoperta dello stile dell’autrice già incontrato ne L’eleganza matta e in Vertigini e stravedimenti ma, soprattutto, diventa una aspettativa maggiore rivolta al progetto editoriale di Vanessa Chizzini nel suo complesso.

Vanessa Chizzini: Nata a Udine, una laurea al Dams di Bologna, un lavoro in campo editoriale a Milano e una casa editrice specializzata in cinema e teatro. Autrice di testi teatrali, di romanzi e titolare di un brevetto per invenzione industriale ispirato alle cabine spalma-crema del progetto editoriale “La vertigine del caso”.

Source: Si ringrazia Vanessa Chizzini per la disponibilità e il materiale.

LEGGI ANCHE

La ‘anomala normalità’ de “La vertigine del caso”. Intervista a Vanessa Chizzini

Esiste una realtà che dipende solo da noi? “Io e Henry” di Giuliano Pesce

La disperazione del viver quotidiano in “Ogni spazio felice” di Alberto Schiavone (Guanda, 2017)

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff (Bompiani, 2016)

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Intervista a Lars Mytting. Il legame tra dolore e bellezza in “Sedici alberi” (DeA Planeta, 2017)

06 mercoledì Set 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

DeA, DeAgostini, intervista, LarsMytting, romanzo, Sedicialberi

Intervista a Lars Mytting. Il legame tra dolore e bellezza in “Sedici alberi”

Da pochi giorni tornato nelle librerie italiane con Sedici alberi, edito da DeA Planeta nella traduzione di Alessandro Storti, Lars Mytting continua il suo racconto della forza e della potenza degli alberi ma questa volta, a fare da sfondo alle vicende dei protagonisti, ci sono i grandi accadimenti del recente passato europeo, in primis la seconda guerra mondiale e il nazismo. Una scrittura potente quella di Mytting in grado di affascinare i lettori parlando di piante ma raccontando la vita.

Lars Mytting sarà ospite del Festival della Letteratura di Mantova e racconterà Sedici alberi dal suo punto di vista ma intanto lo abbiamo raggiunto per un’intervista sul libro e qualche curiosità sullo stile della scrittura.

Dopo il successo di Norwegian Wood ritorna nelle librerie italiane con Sedici alberi, un libro che racconta una storia diversa ma nella quale “gli alberi” rivestono egualmente un ruolo fondamentale. Cosa si è prefisso di raccontare in realtà ai suoi lettori con Sedici alberi?

Il desiderio di raccontare una storia buona, e forse bella, è sempre il principale motore per me nella fiction. Non inizio mai un romanzo con la volontà che sia un “progetto” in grado di illuminare o documentare qualcosa di politico o storico. Ma quando scrivo noto solo che questo elemento sarà grande, questo periodo della storia europea è adeguato, questo gusto del paesaggio delle foreste nordiche suona bene. Dopo un paio di anni passati a scrivere comincio a pensare che vada bene, che questa è la storia dove ci rendiamo conto che gli eventi del lontano passato, forse due generazioni fa, possono direttamente impattare su persone che vivono molti decenni dopo. E questo percorso della storia europea, specialmente le due guerre, più altre interessanti ambientazioni come le isole Shetland e campi di battaglia in Francia hanno trovato spazio nella storia. Ma prima e soprattutto mi piace che il romanzo sia uno specchio attraverso il quale il lettore vede parti della sua vita.

La complessità del protagonista, Edvard Hirifjell, ha reso la strada della verità così tortuosa oppure è stata l’intricata vicenda a determinare l’uomo che infine è diventato?

Edvard è affascinante. Si prefigge la ricerca della verità senza sapere se la verità sarà buona per lui o se sarà troppo spiacevole da sopportare. Pone un grande fardello su di sé, dicendo: “Sarò quello su cui i morti possono fare affidamento”. Dall’inizio sa che c’è un mistero di famiglia nascosto nel suo passato, e prova il grande desiderio di scoprire cos’è successo, ma man mano che le cose vanno avanti ha bisogno di sbloccare davvero i segreti spiacevoli per avvicinarsi al suo obiettivo originale. Così penso che siano gli eventi a modellare lui, il periodo descritto nel libro diventa il più importante di tutta la sua vita.

Intervista a Lars Mytting. Il legame tra dolore e bellezza in “Sedici alberi”

Sedici alberi sembra un ibrido tra un poliziesco e il racconto di una saga famigliare che coinvolge intere comunità provate dalla seconda guerra mondiale e dalle sue conseguenze. Suo scopo era raccontare delle devastazioni che i conflitti arrecano anche a distanza di svariati decenni?

In una certa misura, perché sono così tragici che non dovrebbero essere dimenticati. Ma le storie di guerra sono state raccontate molte volte, con riferimento sia a eventi militari sia civili, così per me era più importante usarli come uno sfondo per quello che poteva accadere tra le persone quando c’è una guerra, semplicemente perché sanno che le loro vite sono fragili e si assumono maggiori rischi e le regole originarie non sono più valide. Nessuno dei più importanti eventi del passato descritti nel libro sarebbero potuti accadere in tempo di pace, sebbene non siano necessariamente delle azioni militari.

Nel testo si legge: “l’albero deve incapsulare la ferita per continuare a crescere. I cerchi della crescita deviano tutto intorno alla lesione, generando linee imprevedibili”. È stato così anche con Edvard? È così anche con le persone reali?

Sì, penso che sia uno dei punti più sottili del libro. Gli alberi con le loro vite straordinarie, spesso crescendo in luoghi ostili, hanno al loro interno dei bei modelli. Un pino con una vita facile si rivela molto noioso, duro e a grana dritta, quando viene tagliato per farne legna da ardere o mobili. Lo stesso succede con le persone. Le cicatrici delle battaglie che affrontiamo in vita possono essere belle. So che ci sono delle culture in cui le cicatrici sono autoinflitte perché è prova che possono sopportare il dolore, e il dolore e la bellezza vanno mano nella mano nel libro.

In Sedici alberi si parla molto delle bombe inesplose che hanno reso sterminati campi vere e proprie roulette russe, assurde e pericolose. Anche Edvard sembra, a suo modo, essere una “bomba” pronta a esplodere in qualsiasi momento. Lo salvano più i ricordi o i suoi amati alberi?

Difficile da dire, in realtà, dato che sta combattendo così tanto con le forze che ha dentro, ma penso che voglia andare alla conclusione, o forse dovremmo dire all’inizio, degli eventi che l’hanno modellato. Quando infine diventa quello su cui i morti possono fare affidamento, penso che abbia raggiunto il suo obiettivo, e s ritrova con un semplice desiderio per il resto della vita: voler fare qui sulla terra cose che quelli in paradiso saranno lieti di vedergli fare.

Intervista a Lars Mytting. Il legame tra dolore e bellezza in “Sedici alberi”

LEGGI ANCHE – “La notte di Praga” di Philip Kerr

Cercando la verità nel suo passato e in quello dei suoi parenti, Edvard sembra imparare molto dagli errori commessi. Guardando alla storia del secolo scorso e ai conflitti mondiali lei pensa che gli uomini abbiano imparato qualcosa dagli sbagli e dalle atrocità inflitte e subite dalla popolazione mondiale?

Sì, senz’altro abbiamo imparato. La nostra consapevolezza delle conseguenze della guerra e di altre atrocità è giustamente ritenuta molto importante, e noi reagiamo immediatamente quando qualcosa per esempio ci ricorda i movimenti fascisti dell’Europa degli anni Trenta. Il problema è che, quando qualcosa di molto pericoloso inizia a prendere piede, ha una nuova forma e non sempre riusciamo a riconoscerlo. Dato che l’immaginazione umana è senza fine, lo è anche il male purtroppo. Così noi potremo ritrovarci con altri disastri anche in futuro, a meno che non iniziamo a usare la nostra immaginazione meglio della nostra capacità di distruzione.

Per la prima foto, copyright: Adarsh Kummur.

Articolo originale qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il rinnovamento culturale italiano degli anni ’50 nell’autoritratto di Goffredo Petrassi

09 mercoledì Ago 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

Autoritratto, CarlaVasio, GoffredoPetrassi, intervista, Laterza, MucchiEditore, RinnovamentoCulturaleItaliano

Il rinnovamento culturale italiano degli anni '50 nell'autoritratto di Goffredo Petrassi

Autoritratto di Goffredo Petrassi di Carla Vasio viene pubblicato in prima edizione con Laterza nel 1991 e riproposto al pubblico quest’anno da Mucchi editore. Le memorie di un grande compositore italiano raccolte dalla Vasio affinché le sue ricerche e sperimentazioni in campo musicale, ma che hanno poi influenzato anche la sua esistenza, non vadano perdute o dimenticate.

Ne abbiamo parlato con Carla Vasio nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Il suo libro Autoritratto di Goffredo Petrassi, che raccoglie le memorie di una vita intera, è uscito in prima edizione nel 1991 con Laterza. Perché ha ritenuto necessario ripubblicarlo nel 2017?

Non è stata una mia iniziativa ripubbblicare il lungo colloquio con Goffredo Petrassi: ho risposto alla richiesta di un editore che stimo, soddisfatta che venga riproposta in una nuova edizione la mia conversazione con un artista di altissima sapienza musicale e di nobile intelligenza. Nel raccontare ho scelto una struttura narrativa che permettesse al lettore di partecipare  all’evolversirsi dell’ambiente culturale, specificamente musicale in questo caso, che intorno agli anni cinquanta/sessanta ha rinnovato non solo la tecnica ma l’immaginario delle arti.

Chi era Goffredo Petrassi, oltre il personaggio pubblico?

La narrazione di Petrassi che sta alla base di questo libro è sostenuta da una precisione linguistica e storica necessaria a sottolineare l’importanza della sua opera e del suo insegnamento in un momento  in cui non soltanto la musica ma tutti i linguaggi dell’arte stavano sperimentando la felicità e i rischi di un rinnovamento profondo. Nel raccontare, Petrassi non si perde mai in divagazioni approssimative, fossero storiche o tecniche: non dimentica le difficoltà dell’infanzia e della giovinezza quando la sua famiglia poverissima  si trasferisce da un paese rurale a Roma, e poi la tenacia appassionata che lo ha portato a raggiungere i massimi livelli di preparazione negli studi e poi di innovazione nell’ attività creativa. La sua narrazione musicale raggiungeva sempre un’altissima precisione di linguaggio con una ricchezza di invenzione mai superflua o approssimativa. Inoltre è stato un attento e generoso maestro per i suoi allievi e per chiunque gli chiedesse notizie sull’evoluzione della musica anche in campo internazionale. All’insegnamento si è dedicato con grandissimo senso di responsabilità e con molta generosità.

Il rinnovamento culturale italiano degli anni '50 nell'autoritratto di Goffredo Petrassi

I fili conduttori del suo libro, come dell’arte di Petrassi, sembrano essere la passione e la curiosità, verso ciò che si fa come verso la vita intera. Sentimenti, atteggiamenti ma anche modi di essere che oggi sono egualmente presenti negli artisti contemporanei?

Mi auguro di sì. Petrassi esercitava sempre una consapevole e generosa partecipazione alla vita e al lavoro dei suoi allievi e dei suoi amici, con quel rispetto e quel distacco professionale che permettevano anche il formarsi di lunghe amicizie. Non so dire se in questo distratto tempo presente  si formino ancora importanti rapporti insegnante-allievo, impegnati e produttivi. Me lo auguro, tanto più che nella nostra cultura la pratica scolastica ha esempi di nobile generosità che non vanno dimenticati.

Lungo tutto il suo percorso artistico Petrassi non abbandonò mai la ricerca costante e il confronto dialettico con i classici della musica pur evolvendo verso l’originalità e l’innovazione. Era così anche per la sua vita privata?

È giusto dire che nel suo lavoro Petrassi non ha mai abbandonato la ricerca e l’innovazione, come si può osservare in tutta la sua ininterrotta attività creativa e anche nella sua partecipazione agli incontri internazionali di arte musicale, per esempio a Darmshtadt, in Svizzera, e in Germania. Quanto alla sua vita privata, è stata arricchita più che condizionata dagli eventi portati dalla sua attività professionale.

Il rinnovamento culturale italiano degli anni '50 nell'autoritratto di Goffredo Petrassi

Petrassi ha costruito una carriera internazionale di tutto rispetto e ha collaborato anche con diversi registi componendo colonne sonore per il cinema durante il periodo neorealista. Qual era la sua opinione riguardo questo mondo governato dalla finzione che voleva raccontare la realtà?

La sua cultura era vasta ed eclettica e questo gli ha permesso di partecipare alle innovazioni in vari campi dell’arte tra cui il cinema. Tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni sessanta Petrassi ha composto  le colonne sonore di film che hanno fatto la storia del cinema, tra cui Riso amaro di Dino Risi e Cronaca familiare di Valerio Zurlini, dando all’accompagnamento musicale quella forza innovativa che si stava confermando  nel cinema in quegli anni.

Il rinnovamento culturale italiano degli anni '50 nell'autoritratto di Goffredo Petrassi

Cosa ha significato per lei scrivere l’autoritratto di Goffredo Petrassi?

È stato un lavoro molto lungo e non facile. Durante i colloqui, che si sono svolti nel corso di un paio di anni, ho raccolto il materiale storico-narrativo che il maestro generosamente mi ha affidato. La sua non era una collaborazione superficiale: controllava il mio testo riga per riga se non parola per parola ed è stato quasi sempre soddisfatto del mio lavoro, che interpretava e ricostruiva i suoi discorsi rispettandone i contenuti e cercando di rendere con la scrittura l’intensità del colloquio.

Io seguivo le sue parole e lui era grato della mia correttezza professionale.

Questo libro è il risultato di una lunga e rispettosa amicizia.

Articolo originale qui


© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv. Intervista a Tommaso Ariemma

02 mercoledì Ago 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

Aristotele, filosofia, intervista, Kant, Lafilosofiaspiegataconleserietv, Mondadori, Nietzsche, popfilosofia, serietv, Spinoza, TommasoAriemma

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv

La filosofia e i suoi grandi rappresentanti appartengono al passato o al futuro? Per Tommaso Ariemma, docente universitario ora dedito all’insegnamento liceale, la filosofia si studia con le serie televisive che tanto piacciono ai ragazzi proprio perché incentrate su aspetti determinanti del filosofare che attirano l’attenzione del pubblico, in questo caso degli studenti. Ed ecco che nasce la “pop filosofia” che attrae ragazzi e insegnanti ma anche qualche critica.

Ne abbiamo parlato in un’intervista con Tommaso Ariemma, autore de La filosofia spiegata con le serie tv edito da Mondadori.

Per “svecchiare”, mi consenta il termine, una materia dai più ormai considerata “antica” lei ha inventato un metodo alquanto singolare. Perché e da dove ha origine l’idea?

L’idea ha innanzitutto origine dalle mie ricerche filosofiche, maturate negli anni di insegnamento universitario presso le Accademie di Belle Arti di Perugia e di Lecce come titolare della cattedra di Estetica. Lì ho potuto studiare attentamente molti fenomeni della cultura di massa, come le nuove serie tv, pubblicando numerosi volumi in merito. Una volta entrato a scuola, ho pensato di applicare la mia “pop filosofia” ai programmi liceali, con risultati sorprendenti soprattutto in termini di attenzione e partecipazione dei ragazzi. Si è trattato di applicare le mie competenze filosofiche, ma anche di un felice incontro con la passione dei ragazzi per le nuove serie tv.

La Filosofia si sposa alle serie tv come si adatta a ogni aspetto della vita e della quotidianità?

Si può fare filosofia di qualsiasi cosa. Tuttavia, le nuove serie tv come Lost, Breaking Bad, True Detective sono singolari proprio per la filosofia (o le filosofie) che veicolano. La componente filosofica è determinante, al punto da attirare enormemente l’attenzione del pensiero (e il desiderio di seguire dello spettatore). C’è quindi oggi un’affinità elettiva tra filosofia e serie tv che va colta. Usata in classe, rivoluziona in modo inaspettato la didattica.

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv

Gli antichi ci insegnano che fare politica equivale a vivere perché ogni scelta che compiamo, dalla più banale alla più complessa, è una scelta politica, consapevole o inconsapevole. Filosofare è un po’ come fare politica secondo lei?

Non si può vivere senza una filosofia più o meno spontanea. Le nostre scelte, la nostra vita, sono orientate da pensieri. Lo studio della filosofia porta a perfezionare i pensieri che ci permettono di orientarci nel mondo. E quindi a renderci più vivi.

Come hanno accolto i suoi alunni l’innovativo quanto originale metodo di studiare i grandi filosofi?

All’inizio i ragazzi sono stati colti di sorpresa: non si aspettavano lezioni di filosofia così vicine al loro immaginario. In un secondo momento, non ne hanno più potuto fare a meno. Soprattutto non hanno potuto più fare a meno di intendere le ore di filosofia come un momento di produzione e trasformazione. L’insegnamento con le serie tv è infatti solo la punta dell’iceberg: studiando insieme i meccanismi alla base della nuova serialità (e uno fra tutti: la Poetica di Aristotele), i miei ragazzi sono invitati a produrre testi transmediali, ebook, video performance, ovvero a mettere in atto (davvero, questa volta) quella “scuola digitale” tanto promossa da governo, quanto poi inattuata per tutta una serie di motivi, come lo scollamento dalla concreta pratica didattica dei formatori. Io quest’anno ho tenuto delle prime lezioni di formazione sul mio metodo “pop filosofico” e ho riscontrato un grande entusiasmo.

Grandi filosofi e fenomeni culturali di massa, la “pop filosofia” delle serie tv

E i suoi colleghi invece come hanno reagito alle sue scelte didattiche?

Bene, in generale. Sono in tanti, da tutte le scuole italiane, a chiedermi suggerimenti e confronti su questa sperimentazione pop. C’è ancora però qualche diffidenza, ma solo da parte di colleghi che hanno, a mio parere, un’idea molto sterile (e in alcuni casi imbarazzante) dell’insegnamento della filosofia: irrigidito su contenuti arretrati, senza confronto con il testo del filosofo e senza una sua attualizzazione problematica. Per applicare il metodo pop c’è bisogno di fare ricerca, di sperimentazione e soprattutto del desiderio di far crescere tutta la classe, senza lasciare nessuno indietro. Alcuni docenti hanno ancora il mito del programma (che, tra le altre cose, con il metodo pop viene davvero svolto fino al contemporaneo), secondo cui bisogna andare “avanti”. Ma dove? Io voglio, invece, che i miei studenti siano “avanti”.

Tre nomi tra i più noti: Nietzsche, Kant e Spinoza. In quali serie televisive bisogna andarli a cercare e perché?

Non credo che si tratti semplicemente di “andarli a cercare”. Spesso sono loro stessi a manifestarsi: come Parmenide o Nietzsche in True Detective, o Spinoza in The Young Pope. I filosofi vengono esplicitamente citati. Ma si possono fare anche interessanti esperimenti mentali, come accade nel mio libro: immaginare, ad esempio, Kant sull’isola di Lost. In questo modo non rinunciamo alla complessità, anzi la moltiplichiamo. Con il risultato di rendere il tutto ancora più avvincente e interessante per i ragazzi.

Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

La Filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Blog del giovedì: I migliori corsi di Filosofia in Italia


© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

← Vecchi Post

Articoli recenti

  • “Tattilismo e lo splendore geometrico e meccanico” di Filippo Tommaso Marinetti (FVE, 2020)
  • “Daphne Caruana Galizia. Un omicidio di stato”
  • “La terra del sogno” di Mariana Campoamor (Mondadori, 2020)
  • “Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)
  • “L’impero irresistibile”: gli Usa di Trump e la fine del dominio americano

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Recensioni
  • Senza categoria

Meta

  • Accedi
  • RSS degli articoli
  • RSS dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.OKMaggiori informazioni sui cookie