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Irma Loredana Galgano

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Guerra alle fake news o retorica e propaganda?

29 mercoledì Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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istruzione, RinnovamentoCulturaleItaliano

Con la pubblicazione dell’articolo sul New York Times si ravviva il dibattito sulle fake news e sul loro possibile condizionamento della campagna elettorale e dell’opinione pubblica. A essere nuovamente chiamati in causa sono i social network, più volte indicati come facile veicolo di diffusione dei fake.

Nell’articolo a firma di Sheera Frenkel viene citato anche il segretario dem Matteo Renzi e il suo accorato appello ai social appunto, in particolare Facebook, affinché si possa avere una campagna elettorale pulita.

«We ask the social networks, and especially Facebook, to help us have a clean electoral campaign. The quality of the democracy in Italy today depends on a response to these issues».

Beh, se la qualità della democrazia in Italia dipende da questo allora sono molti gli interrogativi che dovremmo porci. Perché l’ex capo del governo, che è stato fra i più assidui politici a utilizzare i social network per comunicare con i cittadini, improvvisamente vi si scaglia contro? Cosa va considerato fake news e soprattutto a chi spetta il compito di deciderlo?

Renzi e il suo partito dal palco della Leopolda hanno lanciato accuse molto pesanti contro l’opposizione. Accuse che non sembrano trovare grande riscontro nei dati, neanche in quelli di Adsense Google. E se così fosse, non sarebbe anche questa una fake news?

È chiaro quindi che il problema non sono “i social network, soprattutto Facebook”, non sono soltanto i social il problema. Le fake news possono diffondersi attraverso qualsiasi mezzo di informazione e anche nelle piazze, ai comizi, agli incontri, per le strade… La soluzione va cercata in tutt’altro modo rispetto a quello proposto da Matteo Renzi, dal Partito democratico e anche dal governo.

Assegnato alle commissioni riunite 1° Affari Costituzionali e 2° Giustizia il 28 febbraio 2017, il disegno di legge Disposizioni per prevenire la manipolazione dell’informazione online, garantire la trasparenza sul web e incentivare l’alfabetizzazione mediatica parte da un presupposto ingannevole e a tratti offensivo: siccome le persone non sono e non possono essere in grado di comprendere e di distinguere una notizia vera da un fake allora bisogna intervenire preventivamente per evitare “la manipolazione dell’informazione online” e “garantire la trasparenza sul web”.

Lecito a questo punto chiedersi a chi spetta il compito di selezionare “preventivamente” le notizie che possono poi trovare diffusione online e su quali principi e in base a quali competenze specifiche lo debba fare.

Nel testo si legge che, avendo il web mostrato i suoi ‘pericoli’, si rende necessaria «una netiquette per il rispetto degli utenti». Poco oltre però si legge: «le notizie false, o fake news o bufale, ci sono sempre state, ma non sono mai circolate alla velocità di oggi. Per questo non è più rinviabile un dibattito serio in questo senso». Il pericolo quindi sarebbe insito nella velocità di circolazione delle bufale e non solo o non tanto nella loro esistenza, che è più antica del web.

Le notizie false, le opinioni che rischiano di essere scambiate per fatti e non per pareri ci sono sempre stati ma internet ne ha velocizzato la diffusione e quindi questo è il momento di agire. Bene. Ma come si intende procedere?

«Usare gli strumenti già a disposizione nel nostro ordinamento giuridico spostando l’attenzione dal reale al virtuale perché gli attori sono sempre gli stessi». Esistono quindi già gli strumenti nel nostro ordinamento giuridico atti a evitare il diffondersi di notizie false, fuorvianti, di campagne a favore dell’odio e via discorrendo. Se esistono già vuol dire che sono già testati. Hanno funzionato nel reale? Sono risultati efficaci? E se non hanno funzionato nel reale perché si pensa funzioneranno nel virtuale?

Stando a quanto scritto nel testo del disegno di legge all’incremento dei consensi di movimenti populisti nei Paesi occidentali ha fatto seguito la «accresciuta» preoccupazione che le fake news possano essere diffuse a poi «cavalcate» a fini politici.

Si guarda alle azioni poste in essere da Francia e Germania, ai loro programmi volti a verificare l’attendibilità delle notizie che circolano sul web e alla celere rimozione di quelle ritenute false. Viene da chiedersi a questo punto: e tutte le altre? Come vengono verificate le notizie che passano attraverso tutti gli altri canali di informazione e istruzione? Anche per quelle c’è un monitoraggio costante che prevede la loro rimozione qualora fossero poi indicate come fake? Ovviamente non è possibile. Al massimo ci sono le smentite. E quelle ci sarebbero anche per il web ma evidentemente per i legislatori non bastano.

Si propone ai «colossi della rete» l’uso di selettori software per rimuovere «i contenuti falsi, pedo-pornografici o violenti» e si ritiene necessario ridiscutere «i tabù dell’anonimato, della trasparenza e della proprietà dei media online, del diritto di replica, di rettifica, del diritto all’oblio, della protezione della privacy e della rimozione dal web dei contenuti lesivi».

C’è però un qualcosa di profondamente sbagliato nell’azione del legislatore che dice di agire per proteggere gli interessi dei cittadini ma forse lo fa per proteggere i propri. Ed è la considerazione, scarsa, che si dimostra avere di questi. Il ritenere che non possono né potranno mai essere in grado di discernere da soli il giusto dallo sbagliato, il vero dal falso. Se così è bisognerebbe allora agire su questo. Formare i cittadini affinché siano indipendenti.

Il concetto di notizia «è sicuramente mutato nel passaggio dai media tradizionali ai social media e alle piattaforme online», colme di contenuti generati dagli utenti, dove «si è imposto l’infotaintment», ovvero la mescolanza tra informazione e intrattenimento, «tipicamente sfruttabile ai fini commerciali». Siamo certi che ciò sia avvenuto solo nel mondo virtuale?

«Chiunque, infatti, può dire quello che vuole, per la più che legittima libertà di espressione, ma se il pubblico di internet prende per buono e fondato qualsiasi cosa circoli online, senza più distinguere tra vero e falso, il pericolo è enorme». Il pericolo è enorme, è vero, ma permane anche se gli poni dei filtri artificiali perché in questo modo si potranno, forse, bloccare le notizie ritenute false o dannose ma non si farà nulla per creare dei cittadini più responsabili, più critici e più scaltri. Inoltre continuando ad additare i social e la Rete come principali veicoli di diffusione delle fake news, a volte citando solo questi, si rischia di ingenerare l’illusione che tutte le altre notizie che circolano al di fuori di essi siano automaticamente vere e fondate. Cosa che palesemente non è così.

Per aumentare il senso di panico nel testo viene anche ricordato che il pericolo si fa ancor più particolare quando si va a guardare come vengono trattati «aspetti sensibili della società», e viene citato a titolo esemplificativo la sanità. Sarebbe opportuno precisare e ricordare, come bene hanno fatto Beatrice Mautino e Dario Bressasini nel saggio Contro natura. Falsi allarmismi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola (Rizzoli, 2015), che quasi tutta l’informazione scientifica viene fatta da esperti e professionisti del settore solo nelle pubblicazioni scientifiche mentre nei mezzi di informazione che siano radio, tv, giornali e quant’altro sono dei generalisti a occuparsene. Che poi si vuole ritenere i generalisti sempre più affidabili delle persone comuni è un altro discorso.

Va da sé che i fomentatori di odio, i pedo-pornografi, i faker devono essere perseguiti legalmente, che deve essere impedito loro di truffare gli altri ma il punto è che i loro sostenitori o seguaci, come dir si voglia non li educhi certo al cambiamento bloccando o rimuovendo qualche notizia o video su internet. Chiuso un canale di sfogo ne cercheranno un altro. Se non tenti almeno di capire perché cadono facilmente in queste trappole, se non formi, in buona sostanza, dei cittadini con un elevato spirito critico, una vasta cultura e un notevole senso civico, dentro ma soprattutto fuori la Rete, chiuderai una porta ma loro cercheranno e troveranno un altro portone per dare libero sfogo alla propria rabbia.

Il giornalista del Guardian Joris Luyendijk nel saggio Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri (Einaudi, 2016) parla della disinformazione e del disinteresse del pubblico da un’altra angolazione, e si chiede perché «tanta gente mostra così scarso interesse a proposito di tematiche direttamente connesse ai loro interessi». Passa a descrivere poi i punti salienti del metodo da lui stesso inventato e definito della «curva di apprendimento». Luyendijk sostiene che spiegando con meticolosità, serietà e correttezza i dati e i fatti, nella maniera più chiara e continuativa possibile, il pubblico apprezzerà leggere anche di notizie e materie un tempo per lui ostiche. Forse seguendo il metodo di Luyendijk ci si lascerebbe meno facilmente abbindolare da bufale, fake o propaganda che, se letta con spirito critico e attenzione, appare chiaramente per quello che è: una surreale menzogna.

Modificando la legge 13 luglio 2015, n° 107, cosiddetta Buona Scuola, si stabilisce nel nuovo disegno di legge che le istituzioni scolastiche, «nei limiti delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili», individuino tra gli obiettivi formativi quello riguardante «l’alfabetizzazione mediatica» e sostengano «programmi di formazione volti a promuovere l’uso critico dei media online». E gli altri media? A chi spetta il compito di portare avanti questi progetti? Agli stessi insegnanti? Sulla base di quali competenze e conoscenze? Parlando di social e di odio forse andrebbe ricordato che proprio su Facebook esistono innumerevoli gruppi formati da docenti e leggendo i loro post e commenti si comprende la scarsa stima che hanno del sistema scolastico in generale, l’apatia verso gli studenti, la frustrazione per i compensi da fame… Nessuno nega che in Italia come nel resto del mondo ci siano o ci possano essere i migliori insegnanti ma ci sono anche coloro che scrivono e partecipano a questi gruppi di sfogo collettivo e tra essi ci sono anche gli educatori che verrebbero selezionati per stimolare «l’uso critico dei media online» negli studenti.

I legislatori italiani per arginare il problema dei fake online guardano alle misure repressive poste in essere, per esempio in Germania. Un Paese che stenta a introdurre nel proprio sistema legislativo norme contro la criminalità organizzata adducendo come motivazione il fatto che in Germania questa semplicemente non ci sia ma che ritiene doveroso, necessario e urgente muoversi per punire un faker, online.

Se anche dovessero riuscire a bloccare le fake news online resterebbero le altre, quelle che ci sono sempre state, come ammettono anche i legislatori italiani, che però viaggiavano a velocità meno sostenuta. Oppure, per dirla con altre parole, arrivavano in ritardo. Ma c’erano e non erano un problema urgente. Come c’erano i pedo-pornografi, i fomentatori di odio e tutto il resto. Internet è solo un nuovo canale utilizzato. Chiuso questo è molto probabile ne troveranno un altro. Per evitare che ciò accada è necessario fornire i cittadini di tutti gli strumenti utili alla formazione di un concreto e profondo senso critico e ciò non potrà mai avvenire attraverso una selezione preventiva o una rimozione tempestiva di contenuti ritenuti scomodi o falsi. E non si riuscirà a farlo neanche gravando una categoria di lavoratori già molto frustrata, come quella dei docenti e degli insegnanti, di ulteriori compiti per cui molto probabilmente non sono adeguatamente preparati.

La democrazia italiana non è certo in pericolo per un tot di bufale che girano in internet. Lo è magari per la corruzione dilagante, per il voto di scambio, per i ricatti elettorali delle mafie, per l’evasione fiscale che ruba fondi destinati all’istruzione e alla sanità pubbliche, lo è perché abbiamo insegnati sottopagati, malpreparati a svolgere il proprio lavoro, frustrati e amareggiati perché non vengono riconosciuti loro i propri diritti, perché abbiamo dei ragazzi e delle ragazze costretti a recarsi in aule bislacche di istituti fatiscenti, perché vengono negati loro i mezzi necessari per una preparazione adeguata ai tempi, per essere competitivi in ambito internazionale. La democrazia in Italia è a rischio perché abbiamo un elevato numero di politici corrotti, perché c’è una cospicua infiltrazione mafiosa nelle amministrazioni comunali, perché spesso si legifera tutelando interessi che non sono quelli dei cittadini.

Combattiamole queste fake news ma combattiamo anche tutto il resto.

LEGGI ANCHE

“Contro natura” di Bressanini e Mautino (Rizzoli, 2015)

“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016)

La preparazione degli studenti italiani rispetto ai coetanei stranieri

La preparazione degli insegnanti italiani. La verità

Neuroschiavi, la Manipolazione del Pensiero attraverso la Ripetizione

“Gli impostori. Inchiesta sul potere” di Emiliano Fittipaldi (Feltrinelli, 2017)

Articolo originale qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Riflessioni sparse sul sistema giudiziario italiano in “La tua giustizia non è la mia” di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo (Longanesi, 2016)

14 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, corruzione, GherardoColombo, giustizia, istruzione, Latuagiustizianonelamia, Longanesi, mafia, PiercamilloDavigo, politica, sistemagiudiziarioitaliano

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È uscito a settembre 2016 con Longanesi il libro di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Un testo che rimanda a una amichevole discussione/dissertazione tra due colleghi, trascritta poi e diventata così un libro. Molto interessanti i contenuti mentre è proprio la struttura che a tratti infastidisce il lettore il quale, volendo esser certo di attribuire al giusto interlocutore questa o quella affermazione, è costretto più volte a ritornare al capoverso dove, di volta in volta come nei dialoghi, viene indicato il titolare delle dichiarazioni. Un dialogo di oltre cento pagine. Per il resto il libro risulta sin da subito molto utile per apprendere sfumature e misteri del sistema giudiziario italiano visto nel suo insieme e confrontato con altri stranieri, in particolare il norvegese, l’americano, il francese e l’inglese.
Dodici punti elaborati nel corso della discussione e una conclusione volta a chiarire se e quanto sia davvero differente il concetto di giustizia dei due autori. Non si chiarisce del tutto quanto effettivamente la giustizia di Colombo sia lontana da quella di Davigo ma leggendo il testo nel lettore vige costante l’impressione che mentre Gherardo Colombo sembra perdersi nei suoi ideali Piercamillo Davigo mantenga sempre attivo un certo pragmatismo. Per leggerli in accordo bisogna attendere il capitolo sulla corruzione, uno dei mali peggiori del nostro Paese, tutt’altro che risolto. Per Davigo «il problema principale è che mentre prima (di Tangentopoli, ndr), pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici» adesso «si usano altri sistemi» che al momento non è ancora chiaro quali siano perché «i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti». Per Colombo prima di Tangentopoli «la corruzione, a livelli elevati, era un sistema» mentre ora «è diffusa a qualsiasi livello» e così tanto «che è praticamente impossibile riuscire a contrastarla attraverso strumenti di controllo».
Se la “élite” politica mostra ai cittadini questo volto non ci si può stupire quando Davigo afferma che «l’Italia è un paese nel quale la regola principale di comportamento verso l’autorità è la slealtà». Sono atteggiamenti, comportamenti, stili di vita che si apprendono quasi inconsciamente. Esattamente come quando a scuola si apprende la «apologia dell’omertà contro l’autorità, che è uno dei pilastri fondanti della cultura mafiosa». La scuola italiana, che Davigo considera «una delle peggiori fucine di illegalità che esistano in questo paese», è in prevalenza incentrata sul confronto/scontro tra i buoni e cattivi, i bravi e i somari, il rigore e le “spie”… E non si può non concordare con Davigo quando sostiene che «bisogna fare in modo che sia conveniente comportarsi bene e sconveniente comportarsi male. Altrimenti l’educazione non serve a niente».
Un ottimo modo per cominciare sarebbe quello di cominciare a “punire” dall’alto, nel senso che i primi a pagare per errori e crimini dovrebbero essere i cosiddetti colletti bianchi. «In Italia i ricchi rubano più dei poveri» eppure «non li prendono mai» e quando succede «gridano all’ingiustizia». Certo. Non ci sono abituati. La soluzione che viene cercata è peggiore di una beffa, è davvero un’ingiustizia considerando che «si cambiano le leggi, si fa di tutto perché non siano puniti». Un sistema talmente marcio che un governo viene indicato come “buono” se abbonda in condoni edilizi e voluntary disclosure. Il che, tradotto in parole più semplici, equivale a dire viva l’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia e i conti nei paradisi fiscali.
«Dopo la stagione di Mani Pulite, stracciato il velo dell’ipocrisia, i politici disonesti sono diventati di singolare improntitudine. Non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi». Viene da chiedersi se l’obiettivo è che smettano di farlo anche gli abusivi e gli evasori. Ammesso che non l’abbiano già fatto.
In La tua giustizia non è la mia Colombo e Davigo affrontano anche il tema dei lunghi processi, delle pene inique, della riforma del sistema giudiziario e carcerario, dell’indulto che rischia di diventare il “condono” giudiziario, delle operazioni sotto copertura, un azzardo secondo Davigo perché va a finire che non si riesce più a capire «se la polizia giudiziaria ha infiltrato qualcuno nella criminalità organizzata o viceversa» e su tanti altri aspetti della giustizia che quotidianamente combatte “il male” e deve farlo qualunque ne sia l’origine. Metaforicamente Colombo si interroga sul perché «da diecimila anni ci diciamo sempre le stesse cose e cerchiamo di risolvere gli stessi problemi». La soluzione va ricercata nell’idea errata «secondo la quale il bene e il male si distinguono per paternità» invece vanno distinti «oggettivamente».
Un libro originale La tua giustizia non è la mia, molto interessante per i contenuti e molto utile per il lettore che apprenderà informazioni e nel contempo sarà invogliato a riflettere su aspetti del sistema giudiziario italiano e suoi suoi operatori che vengono presentati in un modo mentre nascondono dell’altro. Sui politici, sui governi, sugli insegnanti e sugli alunni, sui cittadini, sui criminali…

Gherardo Colombo: è entrato in magistratura nel 1974. È stato consulente delle commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo e sulla mafia. Ha condotto o collaborato a inchieste divenute celebri, tra cui la scoperta della Loggia P2, l’omicidio Ambrosoli, i cosiddetti fondi neri dell’IRI, Mani Pulite. Dal marzo 2005 è stato giudice presso la Corte di Cassazione. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole. È attualmente presidente della casa editrice Garzanti. Nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità.

Piercamillo Davigo: è presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, in servizio alla Seconda sezione penale dal 2005. Entrato in magistratura nel 1978, è stato assegnato al Tribunale di Vigevano con funzioni di giudice, poi dal 1981 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con funzioni di sostituto procuratore. Dal 1992 ha fatto parte del pool di Mani Pulite, trattando procedimenti relativi a reati di corruzione e concussione ascritti a politici, funzionari e imprenditori. Dall’aprile 2016 è presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Fonte biografia autori http://www.longanesi.it

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Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

Leggi anche – L’Istituto della violenza e il cammino della nonviolenza

Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

Leggi anche – La trappola dell’8 marzo

Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

Leggi anche – Ipocrisie e contraddizioni nella lotta infinita contro la violenza sulle donne

Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

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