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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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“Giovani del Sud: Limiti e risorse delle nuove generazioni nel Mezzogiorno d’Italia”

05 lunedì Apr 2021

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EmilianoSironi, FrancescoDelPizzo, GiovanidelSud, Italia, recensione, saggio, StefaniaLeone, VitaePensiero

I giovani del Sud Italia meritano un’attenzione particolare: sia per la specificità della loro condizione sociale, sia per favorire una presa di coscienza delle particolari condizioni di difficoltà in cui devono realizzare i loro progetti di vita. 

Ragioni per cui l’Osservatorio Giovani dell’Istituto Giuseppe Toniolo, di anno in anno, studia la generazione dei Millennials, i giovani divenuti maggiorenni dal 2000 in poi, e volge il suo interesse anche verso la Generazione Z, ovvero tutti i nati nel nuovo millennio. Un’indagine longitudinale della condizione giovanile, che si focalizza su una lettura territoriale in maniera tale da consentire una comparazione tra i giovani del Sud, quelli del Centro e del Nord d’Italia.

Paola Bignardi, coordinatrice dell’Istituto, ritiene ancora insufficiente l’attenzione verso la questione giovanile da parte di quei soggetti soggetti sociali, economici, istituzionali che grande responsabilità hanno nei confronti delle nuove generazioni e del loro ingresso nella società da protagonisti.

Il rischio che la generazione adulta si affidi a conoscenze superate dalla rapidità dei cambiamenti in corso, fa sì che i giovani continuino a rimanere in una condizione di marginalità sociale penalizzante per loro e per tutta la società, mortificando quella spinta all’innovazione che soprattutto loro sono in grado di imprimere.

Le Note di Sintesi del Rapporto Svimez 2019 sull’economia e la società del Mezzogiorno mettono bene a fuoco, insieme al divario sempre più evidente tra le due Italie, una serie di criticità trasversali:

  • Crollo degli investimenti pubblici.
  • Allarmante crisi demografica.
  • Fuga dei giovani dalle regioni di origine.
  • Occupazione femminile a livelli significativamente inferiori a quella maschile.
  • Elevato tasso di abbandono scolastico.

Dati evidenziati anche dal Miur, che nel luglio 2019 pubblica un focus su La dispersione scolastica nell’anno 2016-2017 e nel passaggio all’anno scolastico 2017-2018. E a gennaio 2020, insieme alle Pari Opportunità, firma un Protocollo d’intesa per la lotta alla dispersione scolastica e la promozione delle pari opportunità e del diritto allo studio con l’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI). 

Il Rapporto sul contrasto del fallimento formativo redatto dal Miur rileva l’aumento della dispersione scolastica in ogni zona – nel Nord, Centro e Sud – di concentrazione della povertà delle famiglie, soprattutto nelle periferie urbane e nelle aree di massiccia esclusione sociale e in quei territori dove sono rilevanti disoccupazione, povertà culturale, degrado urbano, mancanza di offerta formativa e culturale diffusa e mancanza di interventi educativi precoci.

Oltre a favorire la conoscenza specifica dei giovani, gli studi condotti dall’Osservatorio Giovani si prefiggono lo scopo, fuor di dubbio arduo, di far emergere le risorse, portare ad evidenza le potenzialità, dare visibilità a quelle esperienze che, magari sottotraccia, parlano della vitalità di un mondo giovanile creativo e carico di passione.

Il deficit delle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali trova riscontro anche in studi sul piano specifico del valore delle reti e dei legami sociali. Come le ricerche empiriche di Paola Bordandini e Roberto Cartocci, che riportano l’attenzione sulle differenze ancora attuali di civic-ness tra le regioni settentrionali e centrali, a un livello più elevato, e quelle meridionali. 

Anche ricerche finalizzate a mappature territoriali di risorse di natura sociale, come il Rapporto nazionale sulle organizzazioni di volontariato di CSVnet, evidenziano che su indicatori quali la distribuzione di organizzazioni di volontariato per area geografica la percentuale di presenza al Nord pari al 47.2 per cento è doppia rispetto a quella del Sud e di quasi 20 punti percentuali superiore a quella del Centro. 

Un’indagine sul complesso mondo giovanile infatti, ricordano gli autori, non può prescindere dal riflettere su un sistema di reti e alleanze tra le agenzie educative, in primis scuola e famiglia, e poi con tutte le altre agenzie di socializzazione, quali parrocchie e associazioni di ogni genere. 

Infatti, una prolungata emarginazione di un giovane, nelle fasi della vita che, in condizioni normali, dovrebbero rappresentare l’inserimento nel mercato del lavoro, rischia di escluderlo definitivamente dal mondo produttivo. Riprendendo le definizioni di Becker e Coleman, a contraddistinguere lo status di Neet è anche il rischio di entrare in percorsi di marginalizzazione sociale. 

I dati dell’indagine dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo ci dicono che essere Neet, pur nel rispetto della complessa articolazione di tale categoria sociale, non cambia la condizione di benessere, o meglio di malessere, alle varie latitudini, come a sottolineare che la condizione di estrema vulnerabilità renda i giovani più simili al di là del luogo di origine.

Per contro, una condizione di lavoro precario – al pari di quella di studente – rende i giovani del Sud meno soddisfatti, con molta probabilità perché la minaccia di subire un downgrade occupazionale verso la condizione di Neet è percepito come un pericolo reale. 

Invece, il possesso di un lavoro stabile rende i giovani più felici al Sud rispetto al Nord. 

La condizione occupazionale è strettamente connessa alla percezione del futuro da parte del campione dei giovani intervistati, in modo ancor più emblematico rispetto al benessere soggettivo. Un sentimento di sfiducia e di perplessità verso il futuro appare così nelle classi più giovani, prima ancora che queste possano confrontarsi realmente con le difficoltà del mercato del lavoro. 

Per gli autori non stupisce la maggiore fiducia dei lavoratori autonomi. Pur essendo una tipologia di impiego esposta al rischio di impresa o connessa a una attività professionale – e perciò più facilmente preda di congiunture economiche sfavorevoli -, si comprende come la scelta di lavorare in proprio metta in qualche modo “in conto” la possibilità di correre dei rischi. 

Anche se in generale si percepisce una diminuzione del senso di benessere con l’avanzare dell’età, i dati dicono che l’aumento del livello di istruzione, ovvero dei titoli di studio conseguiti, è legato positivamente con un aumento del benessere percepito. 

Così anche il livello di istruzione dei genitori ha un effetto significativo: i figli di genitori con titoli di studio intermedio o elevato mostrano un maggiore benessere atteso, a parità dei valori nelle altre variabili. Questo aspetto è, per gli autori, di assoluto rilievo, perché il titolo di studio dei genitori è una utile proxy del background economico della famiglia di origine. 

In assoluto è lo status di lavoratore dipendente a tempo indeterminato a risultare associato a un maggiore livello di benessere. Per contro, la categoria più penalizzata sono ancora una volta i Neet. 

Emiliano Sironi sottolinea come un tema di grande interesse per lo sviluppo non solo economico ma anche demografico del Paese sia dato dalla difficile transizione all’età adulta dei giovani italiani.

Fino agli anni Settanta del Novecento gli step di vita rappresentavano un percorso standard – completamento degli studi, ingresso nel mondo del lavoro, uscita dalla famiglia di origine, formazione di un’unione che quasi sempre coincideva con il matrimonio, nascita di uno o più figli -, mentre ora hanno subito un progressivo sconvolgimento. 

In base ai dati Istat 2018, il 62.1 per cento di giovani tra i 18 e i 34 anni, celibi o nubili, vive in famiglia con almeno un genitore. Tale percentuale è ancora più alta al Sud e nelle isole (68.1 e 65.5 per cento) rispetto al dato registrato al Nord (circa il 57 per cento), con il Centro che rappresenta una condizione intermedia, ma con una tendenziale convergenza verso il risultato del Sud.

Si evidenzia così un rischio di osservare una generazione condannata a una revisione al ribasso delle proprie aspirazioni lavorative e personali. 

Un numero sempre crescente di giovani, soprattutto del Sud, prende in considerazione l’eventualità di lasciare la propria regione di origine o addirittura l’Italia al fine di migliorare la propria condizione occupazionale. 

E così nell’anno 2021 le regioni meridionali continuano a essere quelle a maggior rischio di depauperamento delle risorse più giovani e qualificate per via del fenomeno migratorio. 

I giovani di questo tempo vengono studiati, rammenta Stefania Leone, relativamente alla ridotta espressione di indipendenza, di autonomia e di presa di decisioni e per l’incapacità di progettare e costruirsi il proprio futuro. Ciò ha fatto in modo che, spesso, venissero appellati, con accezione negativa, con espressioni quali bamboccioni, choosy e simili, aprendo d’altra parte interrogativi profondi riguardo alle ragioni e alle reali misure di questi atteggiamenti e, contestualmente, alle corresponsabilità degli adulti. 

Si è dentro una società ibrida e potremmo dire ambivalente: nell’era post-industriale, alle prese con una pesante crisi economica e socio-culturale, i giovani del Sud sono proiettati verso il futuro e si confrontano con una società non più contadina ma neanche diffusamente industriale, denotano uno slancio verso la ricerca e la tecnologia pur abitando, di fatto, in una società ancora dominata dalla burocrazia e culturalmente dalla dipendenza verso uno stato assistenzialista, trovandosi spesso a fronteggiare dinamiche clientelari mai scomparse.1

Lo stesso Francesco Del Pizzo, ricordando i dati del Rapporto giovani 2017 dell’Istituto Toniolo, sottolinea l’insoddisfazione da parte dei giovani del Sud rispetto ai coetanei del Nord, ma anche la compresente dinamicità e disponibilità a mettersi in gioco per favorire un cambiamento positivo del proprio destino. 

I giovani del Sud, come quelli del Nord, mostrano una visione del lavoro finalizzata alla sicurezza e alla costruzione di progetti famigliari. È tuttavia più viva nel meridione la consapevolezza che il lavoro contempli anche la dimensione della realizzazione del sé, del prestigio e del successo. L’idea che l’identità professionale sia un fattore importante per la definizione dell’identità personale. 

I giovani meridionali, inoltre, si concentrano maggiormente sul presente e, in seconda battuta, sulla costruzione del proprio futuro. Per loro, la famiglia si presenta come luogo di fusione intima e di conflittualità ma resta, comunque, l’unità simbolica di riferimento all’interno del sistema sociale. 

Persiste in loro la fiducia in quasi tutte le istituzioni basate sulla conoscenza: scuola, università, luoghi di ricerca. 

Indici di gradimento ancora accettabili sono riferiti alle amministrazioni locali, quali Comuni e Regioni, mentre tutte le istituzioni più immediatamente riconducibili a una dimensione politica – partiti politici, Camera, Senato, Governo nazionale -, raccolgono ovunque i massimi livelli di sfiducia, unitamente a istituti bancari, giornali e social network. 

Molto consistente è, inoltre, la fetta di giovani profondamente sfiduciati, rispetto a quelli che invece nutrono fiducia, nel prossimo. 

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Bibliografia di riferimento

Francesco Del Pizzo, Stefania Leone, Emiliano Sironi, Giovani del Sud. Limiti e risorse delle nuove generazioni nel Mezzogiorno d’Italia, Vita e Pensiero, Milano, 2020.

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1D’Agostino Federico (2019), Giovani, famiglia e religiosità al Sud, in F. Del Pizzo – P. Incoronato (a cura di), Giovani e vita quotidiana. Il ruolo sociale della famiglia e della religione, Milano, Franco Angeli. 

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Vita e Pensiero per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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“Il complotto Toscanini” di Filippo Iannarone (Piemme, 2018)

18 sabato Apr 2020

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FilippoIannarone, IlcomplottoToscanini, Italia, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone, edito da Piemme in prima edizione a gennaio 2018, si apre al lettore con una citazione di Lucio Anneo Seneca.
«Non osiamo molte cose non perché sono difficili, ma molte cose sono difficili perché non osiamo».
E l’autore, in questo libro, ha osato molto. Un esempio ben costruito e ben riuscito di come i fatti storici reali diventino poi, grazie alla fantasia e all’immaginazione, un canovaccio che rappresenta solo la base di partenza e, al contempo, una piccola parte seppur non marginale, della storia presentata al lettore.

Iannarone, attraverso la descrizione dei ricordi dei protagonisti o degli accadimenti della storia narrata, racconta i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, le speranze e le paure non di un gruppo o di una generazione, bensì di un’intera nazione.
Dopo gli orrori del conflitto, le atrocità della guerra, i combattimenti, i bombardamenti, la distruzione, le rovine… l’Italia sembra risorgere. E per tutti si profila non il desiderio di ricostruire il vecchio, il passato, ma di creare davvero un Paese nuovo, sotto l’egida del grande rinnovamento chiamato Repubblica.
Anche se l’ombra del male, della sofferenza, del dolore e della morte non abbandona nessuno di quelli che l’hanno guardata dritta negli occhi. Il male del conflitto, della guerra, del fanatismo, dell’estremismo, del fascismo e del nazismo.

Notevole anche il modo in cui l’autore riesce a descrivere il profondo rapporto che unisce i protagonisti, Luigi e Iolanda. Un legame che si è creato cercando di strapparlo al buio della vita che finisce. Un’esistenza, quella di Luigi, che è rinata giorno dopo giorno accanto a quella donna che poi sarebbe diventata sua moglie. Ad unirli l’amore, certo, ma anche la passione, il coraggio, gli ideali e gli intenti comuni. Elementi tutti che hanno contribuito a saldare un rapporto nel quale entrambi si vedono e si rispecchiano perfettamente.
Grande l’abilità narrativa di Iannarone nel comunicare al lettore questi sentimenti forti, intensi, lasciandoli trasparire da pochi piccoli gesti e parole legati, tra l’altro, alla “banale” quotidianità.

«La costruzione della comunicazione di buone notizie è ancor più importante in democrazia» perché «la percezione da parte della gente comune di vivere in un paese normale ci permetterebbe di avere meno problemi di ordine pubblico, di disperdere questa continua incitazione al conflitto sia da destra sia da sinistra». Iannarone centra un nodo dolente della democrazia, di tutte le democrazie occidentali, le quali hanno saputo costruire un’immagine mediatica di se stesse basata sulla libertà di pensiero e di idee e sulla libera circolazione delle stesse. Al contempo, hanno sempre puntato su una comunicazione che indichi la propaganda come un qualcosa che non appartiene alla democrazia bensì ai regimi dittatoriali.
Le democrazie in effetti non impongono se stesse, regalano invece una bella, positiva e propositiva immagine di sé.

Riesce l’autore a descrivere e trasmettere al lettore la società italiana degli anni Trenta, come anche di quella dell’immediato dopoguerra, sul finire degli anni Quaranta. Esemplare il modo in cui riesce a cogliere e descrivere anche le minime sfumature comportamentali rispetto ai suddetti periodi, i quali, seppur non lontani sulla linea del tempo, lo sono stati molto invece per tutto il resto. Egual ragionamento vale per i rapporti di genere e di classe. Leggendo Il complotto Toscanini si realizza quanto in effetti il mondo sia cambiato e quanto, invece, sia rimasto invariato o addirittura peggiorato.

Il rapporto tra Luigi e Iolanda, quello professionale molto rigido e gerarchico, la società italiana e le sue classi. I ruoli sociali e famigliari degli uomini e delle donne. Il che non vuol significare che le donne non lavorassero anche fuori di casa, allora come adesso. Vi era solo una più netta e definita distinzione tra i generi che al giorno d’oggi sembra essere stata colmata solamente in apparenza. In realtà si intravede solo una gran confusione, un’illusione di progresso e di parità. Una zona grigia che troppo spesso produce ombre deformi e pericolose.

L’emancipazione femminile di cui tanto si narra deve, per essere cosa seria e concreta, passare necessariamente attraverso la parità, l’eguaglianza e il rispetto reciproco di diritti e doveri. Altrimenti è una farsa. E, purtroppo, è quello a cui sembra di assistere quotidianamente. Come per la comunicazione anche per i diritti civili le battaglie come i traguardi sono tutt’altro che lontani ricordi da poter archiviare.

Ottima la struttura narrativa del libro. Una solida “impalcatura”che regge bene l’intreccio sviluppato lungo una doppia linea temporale. Il presente e il passato che si avvicendano nei vari capitoli che vanno a comporre il testo ma che si intersecano di continuo nel racconto, nello svolgersi delle vicende e nella narrazione dei ricordi o dei pensieri.

Dalla lettura del testo si evince chiaramente il dettagliato lavoro di ricerca preventivo eseguito da Iannarone, il quale deve essersi accuratamente documentato non solo sulla storiografia dell’epoca nella quale ha deciso di ambientare la sua storia, ma anche sui costumi e le abitudini del tempo. I protagonisti infatti vestono, parlano e hanno delle movenze che li identificano perfettamente nel periodo considerato.

Grazie a una cura particolare per i dettagli, a “pause narrative” nelle quali il colonnello Luigi Mari e il suo assistente, il tenente Vinicio Barbetti, fanno il punto della situazione e di quanto scoperto, alle analisi e ai racconti storico-letterari del colonnello o dei suoi intervistati, l’autore riesce a rendere famigliare per il lettore l’intera vicenda, pur nella sua complessità, i tanti personaggi e anche l’ambiente.

Nei ringraziamenti Iannarone sottolinea come lo abbia aiutato la grande passione per la musica e questo sarà certamente vero. Ma deve essergli occorso uno studio profondo e articolato per ricostruire nel suo libro ambienti e accadimenti cui è impossibile abbia presenziato. Ciò che i suoi occhi non hanno visto direttamente, la sua mente ha fatto propri grazie a un minuzioso processo di immedesimazione che poi deve aver trasferito al protagonista, Luigi Mari.

La storia raccontata ne Il complotto Toscanini è un’indagine investigativa indiretta, ovvero condotta da persone diverse dagli inquirenti incaricati ufficialmente, e posticipata nel tempo. Molti anni dopo l’omicidio. Il punto di partenza è una verifica su una celebrità, il maestro Toscanini, al fine di meglio valutare la sua candidatura a senatore a vita.
Nonostante questo, nulla manca al libro rispetto un più classico poliziesco. Piuttosto molto altro si ritrova nel testo di Iannarone.

Informazioni storiche, artistiche, letterarie che arricchiscono la narrazione senza appesantirla e, al contempo, dilatano il lavoro di indagine. Del tutto compatibile con il carattere peculiare dell’investigazione, non ufficiale appunto e non finalizzata a scovare il colpevole e assicurarlo alla giustizia.

Un testo molto valido, Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone. Un’ottima opera letteraria che merita senz’altro di essere letta anche come punto di riferimento e apprendimento.


Articolo originale qui



Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


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La responsabilità globale del ‘deserto esistenziale’ de “L’infanzia nelle guerre del Novecento” di Bruno Maida (Giulio Einaudi Editore, 2017) 

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Una lunga e oscura vicenda di sangue e potere: “Storia segreta della ‘ndrangheta” di Gratteri e Nicaso (Mondadori, 2018)

12 martedì Mar 2019

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AntonioNicaso, Italia, mafia, Mondadori, NicolaGratteri, recensione, saggio, Storiasegretadellandrangheta

Uscito in prima edizione a ottobre 2018, con la casa editrice Mondadori, Storia segreta della ‘ndrangheta di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso è un testo corredato e arricchito di riferimenti a fonti certe e documentali. Un resoconto storico che ahinoi forse non entrerà mai a far parte dei libri di storia, maggiormente se scolastici. Con il rischio, o meglio la certezza che i ragazzi continueranno ad apprendere delle mafie secondo stereotipi aridi e inutili o, peggio ancora, in maniera mitizzata attraverso tv, cinema e videogame.

Nel testo vengono descritti con dovizia di particolari i legami che hanno unito, fin dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, i boss calabresi con quelli siciliani, della “Nuova Camorra organizzata” di Napoli e la banda della Magliana a Roma.

Gratteri e Nicaso dedicano quasi un intero capitolo alla descrizione del radicamento della ‘ndrangheta in varie e numerose regioni italiane (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, NordEst e Centro Italia), nonché l’espansione in Europa e nel resto del mondo. A smontare, o almeno tentare di farlo, i luoghi comuni che vogliono la corrispondenza perfetta tra mafie e Sud Italia, tra Terra dei fuochi e Campania.
Sono ormai disparate e diffuse le inchieste che hanno portato ad arresti e processi per mafia al Nord ma quella «destinata a rimanere nella storia» è Crimine-Infinito, scattata nel 2010. Un’indagine sviluppatasi su un doppio fronte: lombardo e calabrese. Servita a «individuare e colpire decine di ‘ndranghetisti radicati in Lombardia» e a cambiare «la percezione della ‘ndrangheta».

Tra passato e presente, in sostanza, c’è una sola differenza: «ieri la ‘ndrangheta era ritenuta forza eversiva, oggi è sempre più governo del territorio». Un tempo era il boss ad andare a casa del politico a chiedere assunzioni o favori, oggi «è il politico che va a casa del boss a chiedere pacchetti di voti». I consigli comunali calabresi sciolti per mafia sono stati «3 nel 2016, 12 nel 2017 e 8 nei primi otto mesi del 2018».

Ciò che colpisce durante la lettura di Storia segreta della ‘ndrangheta, oltre la grande capacità di narrazione e sintesi degli autori, è il ritrovare delle sconcertanti somiglianze con quanto accade nel tempo, nella storia appunto, come anche nell’attualità della cronaca.
A seguito del terremoto del 28 dicembre 1908, che ferisce duramente Reggio Calabria e Messina, il Parlamento stanzia un finanziamento di 100milioni di lire per la ricostruzione. «Subito dopo il terremoto, molti calabresi annusano l’affare della ricostruzione».
E poi arrivano gli anni in cui «si ricorre al tritolo per taglieggiare le imprese che si aggiudicano i lavori dell’ultimo tratto dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria». Del resto, sono oltre 170 i miliardi previsti per la realizzazione dell’opera. Una cifra enorme, «alla quale si aggiungono i fondi della legge Pro-Calabria», 345miliardi stanziati dal governo per opere di sistemazione idraulico-forestale.

Nell’intento degli autori c’è la volontà di raccontare la storia della ‘ndrangheta per conoscerne gli aspetti più reconditi, per capire quanto sia in realtà necessario «combatterla, spezzando quel grumo di potere che continua ad alimentarla». Perché la ‘ndrangheta è «una sorta di mostruoso animale giurassico» che non si estingue perché «sono ancora in tanti a proteggerla, a tutelarla, a cercarla e a legittimarla». Non si può non convenire con Gratteri e Nicaso allorquando, nelle conclusioni del libro, affermano che servirebbe un «nuovo sentimento etico-politico», in grado di coinvolgere individui e gruppi, élite e popolo su obiettivi comprensibili «per rendere sconveniente la scelta dell’illegalità».


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della casa editrice Mondadori per la disponibilità e il materiale.


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“Il Patto sporco” di Nino Di Matteo e Saverio Lodato (Chiarelettere, 2018) 

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Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017) 

L’Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo (Sperling&Kupfer, 2016) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il diritto alla salute passa attraverso gli ingranaggi della white economy. È questo il futuro della Sanità?

10 domenica Mar 2019

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Chiarelettere, FrancescoCarraro, Italia, MassimoQuezel, recensione, saggio, salute, SaluteSpA

Stando a quanto si legge sui giornali, si ascolta nei talk show e si commenta sui social, la transazione graduale del comparto sanitario da un sistema in prevalenza pubblico a uno in prevalenza privato sembrerebbe la scelta più sensata. Necessaria per azzerare, o quantomeno ridurre al minimo le lunghe e improponibili liste di attesa, per essere curati in strutture migliori e all’avanguardia nel settore. E via discorrendo. Non si intravedono all’orizzonte valide opzioni alternative. Del resto i politici, in questi anni, ci hanno messo il carico da novanta con i continui tagli ai fondi destinati alla sanità pubblica e innescando, non si sa quanto consciamente, un circolo vizioso per cui «i servizi peggiorano, le condizioni in cui operano i sanitari diventano sempre più difficili e, inevitabilmente, i rischi di errori gravi aumentano». Come in aumento sono pure le denunce e le richieste di risarcimento contro, pressoché esclusivamente, i medici ospedalieri del comparto sanitario pubblico.

I medici, le Asl per cui lavorano e le Regioni possono tutelarsi stipulando polizze assicurative che coprano i rischi per errori, che purtroppo accadono. Tuttavia l’aumento esponenziale di denunce e richieste di risarcimento hanno reso il comparto molto poco appetibile per le compagnie assicuratrici, molte delle quali si sono ritrovate, nel tempo, anche a dover gestire, o tentare di farlo, ingenti perdite legate proprio alla responsabilità civile medica.

«A dimostrarlo bastano tre casi esemplari riportati dall’Ania (Associazione nazionale fra le imprese assicuratrici, ndr) nel suo dossier del 2014»:
– Lloyd’s di Londra che, nel 2012, ha dovuto immettere 10milioni di sterline – dei 30 richiesti a tutti i soci per l’aumento di capitale – nelle casse della Lloyd’s Market-form, in crisi di liquidità proprio per le perdite sul mercato italiano della responsabilità medica.
– Faro Assicurazioni, una piccola compagnia genovese cui avevano fatto ricorso molte Regioni e aziende ospedaliere d’Italia. «In poco tempo l’azienda è stata subissata da una mole ingestibile di richieste risarcitorie».
– La compagnia rumena Societatea de Asigurare-Reasigurare City Insurance S.A., gestita quasi per intero da italiani e che proprio in Italia vantava il 90 per cento dei contratti. «Una serie di indagini ha portato ad accertare la sua incapienza e, il 2 luglio 2012, l’Ivass (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, ndr) le ha proibito di stipulare nuove polizze nel nostro paese».

Ciò ha favorito la nascita di un nuovo fenomeno, «la cosiddetta autoassicurazione». La singola azienda ospedaliera o la Regione da cui essa dipende si fa carico del pagamento dei risarcimenti, «in pratica, una polveriera».

Secondo l’Ania, le principali cause dell’aumento del numero di denunce per malpractice e di risarcimento sarebbero tre:
– Una maggiore consapevolezza e attenzione dei pazienti alle cure ricevute, a volte anche favorita, soprattutto recentemente, da alcuni fornitori di servizi di gestione del contenzioso.
– Un deciso aumento degli importi dei risarcimenti riconosciuti dai tribunali.
– L’ampliamento dei diritti e dei casi da risarcire da parte della giurisprudenza.

Per migliorare la situazione l’Ania, in audizione alla Camera dei deputati nel 2013, ha avanzato tre proposte:
– Passare a un sistema in cui, per determinate casistiche di eventi, sia previsto un risarcimento, o meglio un indennizzo standardizzato, senza la ricerca e l’attribuzione della responsabilità.
– La rivisitazione del concetto di responsabilità attraverso l’introduzione di protocolli che esimano gli operatori dalla responsabilità se essi sono in grado di dimostrare di averli correttamente eseguiti, o attraverso una più precisa delimitazione del perimetro della responsabilità.
– Il contenimento del ricorso alla giustizia ordinaria tramite meccanismi alternativi di risoluzione del contenzioso e la disincentivazione delle richieste infondate.

Per Carraro e Quezel il metodo migliore per ridurre i rischi legati alla malpractice è dotare la sanità di più risorse e migliorare «le condizioni di lavoro degli addetti, fornendoli di mezzi adeguati e di occasioni più frequenti per aggiornare le loro conoscenze scientifiche e le loro competenze tecniche».
Del resto, se da un lato l’Ania teme sviluppi negativi conseguenti all’autoassicurazione di Asl e Regioni, dovuti in prevalenza all’inesperienza nel settore degli stessi, rispetto a una compagnia assicuratrice, dall’altro la stessa Ania che propone l’introduzione di rigidi protocolli dimostra la medesima ignoranza, in campo medico. La casistica cui vanno incontro quotidianamente medici, chirurghi e operatori sanitari è tale da renderle improponibile una simile opzione. Piuttosto necessita una maggiore diffusione e un costante aggiornamento delle linee guida scientifiche, già parzialmente in uso.

Le scelte della politica, «declinate in mille modi diversi e perversi» (dal blocco del turnover alla riduzione dei posti letti, dall’accorpamento degli ospedali all’aumento dei ticket, dal ritocco dei Lea – Livelli essenziali di assistenza – all’eliminazione dei servizi essenziali), sembrano «scientificamente concepite per agevolare il processo di destrutturalizzazione del sistema sanitario italiano». Francesco Carraro e Massimo Quezel sottolineano le due conseguenze di questa situazione:
– Gli italiani rinunciano a curarsi, non avendo risparmi sufficienti per farlo.
– Come in molti altri settori della vita quotidiana, anche in quello della salute il cittadino è costretto a fare un mutuo.
Nel 2017 gli istituti specializzati nel credito hanno erogato 400milioni di euro a pazienti costretti a indebitarsi per garantirsi le cure.

Non vi sono dubbi quindi che questo fenomeno ha generato «un business dai contorni appetibilissimi» per quelle stesse compagnie di assicurazione che stanno scappando dal campo della responsabilità civile medica. «La chiamano white economy».
Stando ai dati forniti dall’Ania, «tra il 2013 e il 2014 gli italiani hanno sborsato per le polizze malattia 2 miliardi di premi». Ma c’è un risvolto alquanto inquietante e a raccontarlo agli autori di Salute S.p.A. è proprio un broker assicurativo: «Le polizze sono concepite per pagare il meno possibile».

Parafrasando il motto molto in voga tra i banker della city londinese, come riporta il giornalista del «Guardian» Joris Luyendijk nel saggio Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri: «It’s only Opm (other people’s money)», si potrebbe quasi affermare che i broker assicurativi operano seguendo il mantra: It’s only other people’s lives.

Salute S.p.A., il libro-inchiesta di Francesco Carraro e Massimo Quezel, edito in prima edizione da Chiarelettere a settembre 2018, è un testo molto articolato e analitico, che affronta il problema della malpractice nella sanità pubblica ma, soprattutto, ne indaga le cause. Molto interessanti le tre interviste, poste a conclusione del testo, a un broker assicurativo, a un liquidatore e a un medico legale, perché entrano nel vivo del discorso. Raccontano in concreto il nocciolo della questione. Del diritto alla salute, se è poi veramente ancora tale e se lo è mai davvero stato. Delle lacune della sanità pubblica. Delle carenze di quello che vorrebbe tanto porsi come “il secondo pilastro”, ovvero il comparto assicurativo ma di come, in realtà, questo difetti proprio, anche se non esclusivamente, in quello che è il cardine su cui si fonda e si regge la pubblica sanità: il principio mutualistico. Destrutturare il comparto sanitario pubblico a favore di quello privato significa, inesorabilmente, abbandonare detto principio. Se si ritiene la soluzione migliore la si può anche intraprendere in via definitiva purché lo si faccia con cognizione di causa e, soprattutto, informando correttamente i cittadini in merito.

Salute S.p.A. si rivela essere senz’altro una lettura interessante, non da ultimo perché invoglia alla riflessione su tematiche fondamentali date, troppo spesso e con troppa leggerezza, per scontate ormai. Un libro da leggere.

Bibliografia di riferimento

Salute S.p.A., Francesco Carraro, Massimo Quezel, Chiarelettere (prima edizione settembre 2018).

Biografia degli autori

Francesco Carraro, avvocato e scrittore, si occupa da anni di responsabilità civile, medica in particolare, e di azioni di risarcimento danni. È autore di “KrisiKo. La via d’uscita nel grande gioco della crisi” (con Vito Monaco) e di “Post scriptum. Tutta la verità sulla post verità”, entrambi pubblicati dalla casa editrice padovana Il Torchio.

Massimo Quezel, patrocinatore stragiudiziale, ha dedicato anni allo studio e alla formazione in materia di infortunistica, risarcimento danni e responsabilità professionale medica, con l’obiettivo di fare da controcanto allo strapotere delle assicurazioni. Nel 2001 ha fondato un network nazionale di studi di consulenza il cui obiettivo è tutelare i diritti dei danneggiati al fine di garantirgli la possibilità di ottenere il giusto risarcimento. È autore del libro “Assicurazione a delinquere” (Chiarelettere 2016).


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Chiarelettere edizioni per la disponibilità e il materiale


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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92”…

01 domenica Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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AaronPettinari, Imprimatur, Italia, mafia, PietroOrsatti, Quelterribile92

Ci sono errori che non si vorrebbe mai ammettere di aver commesso e verità che si vorrebbe tenere per sempre nascoste. Quella su quanto accaduto in Italia durante la Prima Repubblica e che ha direttamente condotto agli attentati del 1992, per esempio, è una di queste. Perché? La domanda è tutt’altro che retorica e la risposta affatto scontata.

Eppure uno dei modi migliori per evitare di incorrere negli stessi errori è mantenere quanto più vivi possibile la memoria storica e il racconto veritiero di quanto accaduto.

In occasione dei venticinque anni dagli attentati del ’92, Imprimatur pubblica il libro, raccolta di venticinque testimonianze, di Aaron Pettinari e Pietro Orsatti, che si apre al lettore con una citazione di José Saramago.

«Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere».

Parole che hanno un significato profondo. La memoria non si costruisce, o meglio non si dovrebbe costruire, con il semplice racconto di una cosiddetta versione ufficiale dei fatti accaduti. No, la sua costruzione dovrebbe essere un procedimento molto più complesso, invece tutto quello che non è gradito al mainstream semplicemente sembra scomparire oppure diventare una visione complottistica.

Nel suo testo sulla Shock Economy Naomi Klein parla in maniera dettagliata della privazione sensoriale, ovvero la tecnica largamente utilizzata per indurre monotonia, che causa la perdita di capacità critica e crea il vuoto mentale in maniera tale che la gran parte delle persone non tenteranno nemmeno di analizzare criticamente i fatti loro raccontati, prendendo sempre e comunque per buona la versione loro narrata. Che, intendiamoci, non è detto che sia sempre falsa o falsata. Il punto è la capacità critica che ognuno dovrebbe avere, anche difronte alla verità.

Orsatti e Pettinari hanno raccolto il racconto di venticinque testimoni appartenenti al mondo del giornalismo, dello spettacolo, della musica, del teatro… e ognuno di loro ha descritto quel terribile ’92 dal suo punto di vista. Il quadro che emerge è abbastanza preoccupante: per le inchieste arenatesi, per i ripetuti depistaggi, per tutto ciò su cui non si è voluto indagare, che non si è voluto conoscere, preferendo invece abbracciare l’illusione del cambiamento, del rinnovamento, il giornalismo italiano che ha preferito in massa cavalcare l’onda anomala del vuoto assoluto lasciando che fossero «la satira e il teatro» a occuparsi di “informazione”. I venti anni del berlusconismo che altro non sono stati che il prosieguo di quanto esattamente accadeva prima perché è inutile continuare a negare che «c’è sempre stata una forte relazione tra sesso e potere». Una sinistra fittizia che a parole continua a urlare ideali e valori ma poi, a conti fatti, non ha fatto altro che uniformarsi al fiume in piena del degrado morale ed etico.

Il contributo più illuminante è certamente quello di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Lui che in poche parole non racconta solo gli attentati e quel terribile ’92, ma l’ipocrisia di un Paese intero e della classe dirigente che lo governa.

«Venticinque anni è non puoi più dimenticare. Perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui».

«Venticinque anni e ogni anno in via d’Amelio per impedire quei funerali di Stato che la nostra famiglia rifiutò fin dal primo momento. Per impedire che degli avvoltoi arrivino in via d’Amelio portando i loro simboli di morte per accertarsi che Paolo sia veramente morto».

Perché la vera lotta alla mafia non si fa con le manifestazioni, con i cortei, con le celebrazioni… la mafia, fuori e dentro lo Stato, si combatte chiedendo Verità e Giustizia, costruendo una memoria storica collettiva basata sui fatti non sui racconti.
Ed è proprio a coloro che hanno il coraggio di lottare, che non vogliono dimenticare e non si stancano di essere “eretici” che vanno i ringraziamenti di Aaron Pettinari a margine del libro. Persone che ci sono, che operano ogni giorno, su tutto il territorio nazionale e non solo in Sicilia Calabria e Campania, persone ai margini della società e troppo spesso marginalizzate dalla stessa.

Nel libro L’inganno della mafia. Quando i criminali diventano eroi, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso analizzano a fondo il processo di legittimazione di cui sempre «hanno goduto in Italia mafia, ‘ndrangheta e camorra; una legittimazione che ne spiega il successo più di ogni altra cosa». Se le mafie durano da due secoli «ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato ad esso». Relazioni che Antonio Belnome, ex affiliato alla ‘ndrangheta, chiama «gemellaggi con lo Stato».

Non si può certo dire che il dibattito sulla mafia oggi sia un tema trascurato nella discussione pubblica, ma resta il problema di come se ne parla. Perlopiù con «l’immagine stereotipata e romanzata della mafia», descritta come una «piovra invincibile» contro cui si oppongono “eroi” che possono essere indistintamente magistrati, poliziotti, giornalisti, persone comuni ma che restano sempre dei “lupi solitari” «destinati a soccombere». In molti sostengono che lo spettacolo è altro rispetto all’educazione, all’istruzione e all’informazione, «ma non si può certo ignorare che la spettacolarizzazione del mondo criminale rischia di essere molto pericolosa». Soprattutto in quei film e serie tv dove lo Stato e la società civile sono praticamente del tutto assenti ed esistono solo le lotte intestine all’interno dei clan per decretare di volta in volta il boss più grande, feroce, ricco e potente… una visione distorta e contorta che finisce per creare negli spettatori il desiderio di emulazione addirittura. Come accade anche, ad esempio, per i videogiochi di mafia che sono sempre i più richiesti e venduti. Un problema vero che diventa gioco e spettacolo e uno Stato che letteralmente scompare.

E così, paradossalmente, le stesse persone che sono appassionate di una serie tv o di un film di mafia, si disinteressano completamente, per esempio, del processo durato sei anni sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto concretizzarsi poche settimane fa la sentenza di condanna in primo grado e, incredibilmente, la notizia sembra non aver scosso né toccato che una ristretta parte di cittadinanza italiana.

In tantissimi sui social e nella Rete hanno calorosamente mostrato la loro solidarietà a Roberto Saviano laddove si profilava l’eventualità di eliminare la scorta che lo segue da anni ormai. Saviano notissimo al grande pubblico anche perché autore di una delle serie televisive di cui sopra. È bene precisare che chi scrive non chiede e non vuole che venga tolta la scorta a Saviano, piuttosto che sia data a tutti coloro che a vario titolo combattono le mafie. L’esempio è stato riportato solo perché appare paradossale che le medesime persone che si sono così infervorate per quanto potenzialmente potrebbe accadere al giornalista sceneggiatore non hanno pressoché battuto ciglio per la sentenza di primo grado nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto condannati il 20 aprile 2018:

Bagarella Leoluca e Cinà Antonino
De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subrani Antonio
Dell’Utri Marcello
Ciancimino Massimo

Uomini dello Stato e uomini di Mafia colpevoli.

Appare inoltre paradossale che la sospensione della scorta all’ex magistrato Antonio Ingroia, già deliberata dal governo Gentiloni e attuata nel maggio 2018, non abbia ricevuto pressoché alcuna eco mediatica. Per certo la notizia non ha destato il clamore dell’ipotesi di sospensione a quella di Roberto Saviano.

È evidente che c’è una abominevole distorsione nella percezione mediatica delle informazioni da parte del pubblico. Altrimenti non si potrebbe spiegare il motivo per cui a coloro a cui sta tanto a cuore la sicurezza del giornalista Roberto Saviano perché impegnato contro la mafia non interessa affatto o interessa poco la sorte dell’ex magistrato Antonio Ingroia sempre impegnato nella lotta alle mafie come anche nel processo sulla Trattativa.

Una trattativa tra lo Stato e la mafia che spesso, troppo spesso si preferisce ignorare quando proprio non negare nell’informazione e, di conseguenza, nell’immaginario collettivo. Quasi si desiderasse non far mai rientrare nella formazione della memoria storica del Paese.

Ed ecco che ritornano le immagini dei funerali degli agenti della scorta del giudice Paolo Borsellino, allorquando dal pubblico si alzavano cori di protesta contro le autorità presenti, tra cui il neopresidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro costretto a lasciare la chiesa scortato e spintonato. “Assassini” veniva urlato e ancora “Fuori la mafia dalla Stato”.

Il fuoco amico di cui parla Salvatore Borsellino.

Eppure ci sono coloro che nel giornalismo, nella televisione, nel cinema e, sopratutto, nella magistratura hanno scelto di continuare a urlare queste parole. A loro però spesso viene riservato un trattamento tutt’altro che piacevole e facilmente diventano esibizionisti, paranoici, complottisti, megalomani. Questo quando non sono o non si riesce proprio a isolarli o ignorarli del tutto.

Nel 2014 Sabina Guzzanti gira il docu-film LaTrattativa nel quale, seguendo i fatti e le testimonianze si cerca di ricostruire quanto accaduto. Nel maggio 2018 Corsiero Editore insieme ad Antimafiaduemila pubblicano il libro di Saverio Lodato Avanti Mafia! Perché le mafie hanno vinto che raccoglie tutti gli articoli scritti dal giornalista durante i sei anni del processo sulla Trattativa. Anni caratterizzati da «un silenzio diffuso, assordante, interrotto soltanto da alcuni giornalisti», come sottolinea il pubblico ministero Nino di Matteo intervenuto alla presentazione del libro a Palermo il 12 giugno scorso.

Lo stesso inquietante silenzio e il medesimo scarso interesse da parte del pubblico, ovvero dei cittadini italiani, mostrato per il processo Aemilia. Il maxi-processo per mafia del Nord Italia dove oggi si sperimenta quanto accaduto nel Sud Italia del secolo scorso, semplicemente l’esistenza della mafia si preferisce negarla, fingere di non vederla. Eppure sono tanti anni ormai che un all’inizio gruppo di liceali ne parla, ne scrive, ne denuncia. Sono i ragazzi di Corto Circuito capitanati da Elia Minari. Inchieste raccolte anche nel libro Guardare la mafia negli occhi.

Il titolo del libro di Elia Minari è molto illuminante perché è proprio questo che bisognerebbe fare: guardare la mafia negli occhi. E non limitarsi alle immagini stereotipate che di essa sono pieni i giornali, i telegiornali, i film e le serie tv. La mafia dentro e fuori lo Stato. Quella mafia che ha deciso la morte dei giudici Falcone e Borsellino, degli uomini e delle donne delle loro scorte, di tutte le persone a Roma, Bologna, Firenze e di tutti coloro che sono caduti perché divenuti intralcio al potere o ostacolo al “gemellaggio con lo Stato”. In nome di questo orrendo sistema tante vite sono state spezzate, tanti crimini atroci commessi, tanti diritti cancellati, tanta parte di territorio devastata… e c’è stato chi per rimorso o convenienza alla fine ha ceduto, si è pentito e ha raccontato. Ma ciò che fa davvero rabbrividire è che si è trattato sempre e solo di “uomini d’onore”, di quella parte di mafia operante fuori dallo Stato. Dall’altra parte invece mai nessuno ha ceduto, ha tentennato, ha parlato, si è pentito o ha denunciato. Mai. E, riprendendo le parole di Nino di Matteo, è doveroso sottolineare che «non potrà mai dirsi archiviata la stagione delle stragi fino a quando non si sarà fatta chiarezza sulle collusioni ad alto livello».

Solo quando si riuscirà realmente a tirare “fuori la mafia dallo Stato” si potrà allora pensare di combattere quella che agisce fuori da esso. Fino a quel momento le dichiarazioni, le celebrazioni, le manifestazioni a cui parteciperà lo Stato e i suoi rappresentanti avranno sempre il sapore amaro dell’ipocrisia e della finzione. Purtroppo.


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“Grande Raccordo Criminale” di Bulfon e Orsatti (Imprimatur, 2014) 

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“10 cose da sapere sui vaccini” di Giulio Tarro (Newton Compton Editori, 2018)

20 mercoledì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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10cosedasaperesuivaccini, GiulioTarro, Italia, NewtonCompton, recensione, saggio

Il decreto vaccini dell’allora Ministro Beatrice Lorenzin è stato convertito in legge il 28 luglio 2017. «Con legge sui vaccini proteggiamo i nostri figli e le prossime generazioni», dice la Ministra che sceglie, per attuare questa forma di protezione, la linea dura: «Le vaccinazioni obbligatorie saranno vincolanti per iscrizione ad asili e servizi per l’infanzia. Dovranno vaccinarsi anche gli studenti fino a 16 anni. Sanzioni per chi non rispetta l’obbligo da 100 a 500 euro».

E, immancabilmente, sono partite “campagne di informazione” condotte «a suon di slogan, frasi da cartellone pubblicitario», con un dibattito sulla salute dei cittadini consumatosi perlopiù in «rissosi talk show ed enigmatiche circolari» emanate «dai più svariati enti, che hanno finito per avvelenare il clima».
Tutto questo si sarebbe potuto evitare «spiegando, tra l’altro, quali studi hanno portato a decidere l’obbligatorietà di ben dieci vaccini» e sul perché l’Italia «stia adottando sulle vaccinazioni una politica ben diversa rispetto a quella degli altri Paesi, anche quelli più avanzati, nonostante manchi l’evidenza di imminenti epidemie».

Per farlo necessitavano persone competenti, serie, pacate, libere da interessi e/o coinvolgimenti vari. Il professor Giulio Tarro decide di scrivere un libro, 10 cose da sapere sui vaccini. Tutta la verità. Un libro indispensabile per genitori consapevoli, e lo pubblica a marzo di quest’anno con Newton Compton Editori mettendoci dentro tutto ciò che è necessario, basilare conoscere per effettuare delle scelte consapevoli. Non coercizioni ma scelte. Non imposizioni passibili di multa ma decisioni maturate nell’ottica del benessere individuale e collettivo.

Un libro, quello del professor Tarro, che si rivela utile, necessario e interessante in ogni sua riga. Con un linguaggio semplice e lineare riesce a spiegare fin nei minimi dettagli tutti gli aspetti inerenti le malattie e i relativi vaccini. Un manuale tecnico che spiega la medicina in maniera chiara e accessibile a tutti.

Le vaccinazioni, ad oggi, sono ancora «il modo più sicuro ed efficace per ottenere la protezione da alcune gravi malattie», sia individuale che collettiva, ma è fondamentale una netta distinzione, che purtroppo manca, fra interesse pubblico e privato, nella ricerca, nella sperimentazione, nella vendita e somministrazione.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, per rispondere adeguatamente alle nuove sfide del XXI secolo, «la medicina deve concentrarsi sulla salute della persona piuttosto che solo sulla malattia». Utile potrebbe essere approfondire e proseguire la ricerca sull’immunoprofilassi, per ridurre sempre più i rischi della vaccinazione che pur sempre ci sono. Portare avanti strutturate campagne di informazione che favoriscano l’adesione invece della coercizione. Studiare tempistiche specifiche per le singole malattie e immunizzazioni piuttosto che scegliere sempre e comunque la copertura cosiddetta a gregge e a grappolo, essendo tutte le vaccinazioni concentrate nei primi mesi di vita dei bambini e invariate per genere nonché, a volte, polivalenti, ovvero somministrate in unica dose per diverse tipologie di malattie.

Presentato in questi giorni al Senato un disegno di legge per modificare alcuni aspetti del decreto Lorenzin in materia di obbligatorietà delle vaccinazioni, come riporta l’agenzia di stampa PublicPolicy.  Innanzitutto si chiede di «eliminare l’obbligo per un soggetto immunizzato di assumere un vaccino per cui ha già l’antigene» e porre fine al «divieto di ingresso negli asili per i bambini che non sono in regola con le vaccinazioni». Viene anche chiesta l’abolizione dell’obbligatorietà della presentazione della documentazione vaccinale quale requisito di accesso negli asili perché questo provvedimento viene considerato «ingiustificato e irrazionale», soprattutto se rapportato all’eventuale inosservanza dei ragazzi più grandi, per i quali è prevista solo una sanzione amministrativa e non l’esclusione dall’accesso nelle aule.
In buona sostanza, il nuovo disegno di legge cerca di eliminare, o quantomeno limitare, l’aspetto coercitivo del decreto Lorenzin. Ci si augura che a questo disegno di legge faranno seguito strutturate campagne informative che contribuiranno per certo, come già accaduto in altri Paesi, a far aumentare per libera scelta il consenso alla vaccinazione.

Giulio Tarro: è nato a Messina nel 1938. Si è laureato in Medicina e Chirurgia all’Università di Napoli. Ha dedicato la sua vita alla ricerca sia in Italia che all’estero. Allievo di Sabin e Presidente della Commissione sulle biotecnologie della virosfera UNESCO, è stato candidato al Nobel per la Medicina.


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PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo

09 sabato Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


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The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?

05 martedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Europa, Italia, italiani, NWO, Piigs, TheCorporation, USA

La questione in fondo si riduce a due semplici quesiti: fin dove sono disposti ad arrivare i business men per raggiungere il loro tanto agognato profitto? Fino a che punto cittadini e governi sono disposti a rinunciare a doveri e diritti pur di rispettare le impunite leggi del libero mercato?

Originariamente il ruolo e lo scopo delle Corporation era tutt’altro rispetto a quello attuale e somigliava più a una cordata di persone o società che appaltavano un grosso lavoro dallo Stato, il quale stabiliva rigidamente tempi, costi e regole. Così sono stati costruiti la gran parte dei ponti americani e le immense ferrovie che attraversano il Paese.
Oggi sono persone giuridiche cui vengono riconosciuti tutti i diritti delle persone e anche più, in quanto sono indicate come particolari. Per legge hanno il solo scopo di tutelare gli azionisti e non la comunità o la forza lavoro. «Non hanno un’anima da salvare o un corpo da incarcerare» e sono prive di «coscienza morale» come sottolinea Noam Chomsky, uno dei tanti intervistati del documentario The Corporation appunto, prodotto da Jennifer Abbott, Mark Achbar e Joel Bakan nel 2003.

La Corporation è ormai un’istituzione dominante nella realtà contemporanea. Grandi, enormi società di capitali con poteri altrettanto sconfinati e controlli sempre più limitati.
Le Corporation oggi sono globali ed essendo tali, in sostanza, i governi hanno perso qualsiasi forma di controllo su di loro. A dirlo è l’ex amministratore delegato della Goodyear, una delle Corporation che si scoprì aveva preso parte al complotto ordito per spodestare il presidente Roosevelt. Oggi queste azioni, questi complotti sono inutili perché «il Capitalismo è il padrone incontrastato». Rappresenta ormai a tutti gli effetti «l’Oligarchia regnante del nostro sistema».

Un sistema che nel 2008 ha portato il mondo intero ad affrontare una delle crisi economiche più terribili mai presentatesi dove, ancora una volta, a rimetterci sono stati i deboli e i meno furbi. In Europa, per esempio, a farne le spese sono stati i Paesi additati come deboli o peggio come piigs. Infelice acronimo che voleva sottolineare le porcine economy dei Paesi con un’economia debole e un debito pubblico insostenibile, «i Paesi maiali sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna». Un acronimo che è diventato anche il titolo del documentario di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre girato nel 2017.

Come il documentario The Corporation anche Piigs risulta essere molto illuminante per quello che si scopre e non si conosceva e per quello che viene invece confermato da chi, magari, in altre sedi tende a negare o minimizzare.

Stefano Fassina sostiene che la distinzione tra economie forti e deboli all’interno dell’eurozona, e che dà adito a stereotipi e luoghi comuni duri da scalfire, sia in realtà «una lettura strumentale» fatta, «come sempre avviene nella Storia, da chi è più forte, da chi orienta la comunicazione, da chi orienta l’interpretazione» e lo fa per «scaricare su una parte problemi che invece erano sistemici». E va avanti sottolineando il fatto che i Paesi virtuosi erano tali proprio per i problemi dei Paesi periferici: «la Germania cresceva per le esportazioni e la Grecia, che era in debito, riceveva dei prestiti perché qualcuno premeva per importare Mercedes dalla Germania».

Chi esercitava dette pressioni? Gli interessi di chi stanno tutelando in questo modo gli Stati e l’UE?
Possiamo ipotizzare che anche in Europa le Corporation, che chiamiamo Multinazionali o Società di Capitali, si beffano dei diritti dei cittadini e delle leggi per raggiungere i loro tanto amati profitti? Ma laddove i Governi accettano e acconsentono il loro “gioco” non vengono minati i principi fondamentali della Democrazia?

Yanis Varoufakis sostiene che, in realtà, «la Democrazia non è mai stata la caratteristica principale dell’Unione Europea». E racconta nel dettaglio le risposte che si è sentito dare nel momento in cui vi si è recato per contrattare i termini di una eventuale soluzione per il suo Paese. Soluzione che per molti versi poteva sembrare una vera e propria punizione, per un popolo, quello greco, che aveva osato alzare la testa e la voce contro i ferrei diktat dell’austerity. Per esempio, l’Europa nello «spostare le perdite delle banche sulle spalle dei contribuenti più deboli ha rivelato il suo autoritarismo».

Sergio Mattarella lo scorso 26 maggio ha sottolineato come la funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica sia di garanzia e non può quindi né deve subire imposizioni di alcun tipo, dichiarando di poter accettare tutte le nomine proposte tranne quella del Ministro dell’Economia. «La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari». L’incertezza della nostra posizione nell’euro «ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende».

Paolo Barnard, sempre all’interno del documentario Piigs, afferma che il debito pubblico è un problema quando uno stato contrae passivi con una moneta non sua. Gli fanno eco Stephanie Kelton e Paul De Grawe. «I Paesi eurozona riscuotono le tasse in euro, spendono in euro ma non hanno sovranità monetaria». Il risultato di questo è che «i mercati possono mettere in sofferenza lo Stato italiano, vendendo in massa i titoli sapendo che il governo non ha euro per ripagare i detentori dei titoli».

Federico Rampini invece sottolinea la necessità di «riprendere l’economia perché è il nostro futuro». E rimarca «l’analfabetismo economico» di cui soffrono gli italiani. Che non suona tanto come un’offesa quanto come una mera constatazione del fatto che si stenta a capire i concetti base di economia. Si continua a credere che tutto ciò che riguarda l’economia rimanga «nel mondo magico» della stessa. Bisogna invece iniziare a riflettere sul fatto che «tutto è economia»: le guerre, lo sfruttamento, l’abbandono dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione…

Per i broker di Wall Street l’Undici Settembre è stata una «benedizione camuffata». Tutti quelli che non erano nelle Torri Gemelle e si sono salvati hanno immediatamente investito in oro e hanno raddoppiato il capitale. A raccontarlo alla telecamera degli operatori di The Corporation è un broker di Wall Street.
Quando l’America bombardò l’Iraq nel 1991, tutti i broker tifavano affinché Saddam Hussein continuasse a dare problemi, a incendiare pozzi, così il prezzo del petrolio sarebbe continuato a salire e loro a guadagnare. «Noi speravamo in una pioggia di bombe su Saddam». Quella, al pari dell’Undici Settembre, era una tragedia, una vera e propria catastrofe con bombardamenti, guerre, morti… il broker si rende conto di questo ma ammette che anche «la devastazione crea opportunità».

Fin dove si spingono questi operatori dei mercati, mediatori o investitori che siano? Esiste un limite oltre il quale si rifiutano di pescare nel torbido?

Stando ai dati forniti da un Rapporto del Dipartimento del Tesoro, in una sola settimana 56 Corporation americane sono state multate per aver commerciato con nemici ufficiali degli Stati Uniti, «compresi terroristi, tiranni e regimi dittatoriali». Le Corporation sono in grado di produrre grande ricchezza ma anche «enormi danni, molto spesso taciuti».

Le politiche governative e statali non possono e non devono piegarsi sempre e comunque agli umori del libero mercato, in considerazione anche e soprattutto del fatto che a guadagnarci, come anche a rimetterci, sono sempre gli stessi. Da un lato le grandi società di capitali, gli investitori e i broker e dall’altro i piccoli investitori e le popolazioni.
Ancora il Presidente Mattarella, sempre nel corso dell’intervento per motivare la bocciatura di Paolo Savona a Ministro dell’Economia, sottolinea come la manifesta volontà di uscire dall’euro è cosa ben diversa «da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione Europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano». E i cambiamenti necessari da porre in essere sarebbero davvero tanti.

A chiusura del documentario Piigs c’è la lunga e amara analisi di Giuliano Amato sulla sovranità monetaria e su quella economica dei Paesi membri e dell’intera Unione Europea. Egli stesso ammette che la soluzione da loro trovata e poi posta in essere è stata sconsigliata da molti economisti, specie americani. «La vostra Banca Centrale se non è la Banca Centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione a cui assolve la Banca Centrale di uno Stato che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza». Che poi è quanto affermato anche da Paolo Barnard. Ma gli “architetti” ideatori dell’eurozona, tra cui appunto lo stesso Amato, non hanno voluto dar retta a questi economisti, stabilendo addirittura nei Trattati dei «vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». L’Unione Europea in sostanza non si assume la responsabilità degli impegni dei singoli stati e la Banca Centrale Europea non può comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati. Non sono previste agevolazioni creditizie e finanziarie per i singoli stati… insomma, moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. «Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi», chiosa Giuliano Amato.

«Certo che ci saranno trasferimenti di sovranità. Ma non sarebbe intelligente da parte mia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo» (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, Europe Agency, 24 giugno 2007).

I problemi, che già sapevano esserci in potenza, sono aumentati notevolmente dopo la crisi del 2008 ma, soprattutto, in conseguenza delle misure intraprese per “superarla”. Politiche che, nell’opinione di Stefano Fassina, «hanno aggravato i problemi invece di risolverli».
Si pensi, per esempio, al Fiscal Compact. Il Patto di Pareggio di Bilancio. L’anticristo del Bilancio di un’istituzione pubblica che, paradossalmente, può garantire maggiore benessere ai cittadini lavorando in sofferenza. Perché l’istituzione pubblica è l’unica società esistente al mondo che non ha scopo di lucro, quindi non opera per il profitto ma per i servizi ai cittadini. Basti pensare al New Deal lanciato dal Presidente americano Roosevelt che, forse anche per politiche come questa, si inimicò le Corporation che tramarono per destituirlo.
«Il pareggio di Bilancio dà priorità alla stabilità dei prezzi mettendo in secondo piano il diritto al lavoro, alla salute e a un salario dignitoso… per esempio».

Ma se tutti sapevano l’inutilità, o meglio la nocività di questi provvedimenti per i singoli Stati e, soprattutto, per i cittadini, perché sono stati posti in essere comunque? Sono stati imposti a reale beneficio di chi? Del mercato? Delle Corporation, che in Europa diventano le Multinazionali?

A seguito del veto del Presidente Mattarella, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio diffonde un video nel quale sottolinea che il governo del cambiamento sia stato stoppato non per Paolo Savona e l’impossibilità di trovargli un sostituto, bensì perché chiunque, nel corso della sua carriera, fosse stato in qualche misura critico sull’euro non andava bene. Non poteva andare bene. «Se siamo in queste condizioni non siamo in una Democrazia libera». Nel Contratto di Governo non c’è l’uscita dall’euro, è prevista la modifica dei Trattati, la rivisitazione di alcune regole europee. Il veto quindi si basava su opinioni non su reali intenzioni. Eppure il tutto andava fermato o cambiato. Perché?

Nel momento stesso in cui Luigi Di Maio ha palesato l’eventualità di procedere con l’iter per la messa in stato di accusa del Presidente il dibattito sui media ma, soprattutto, sui social si è infervorato generando due aperte fazioni che, prontamente, si sono schierate a favore o contro Sergio Mattarella. Gli interventi vertevano tutti o quasi sul diritto costituzionale o meno che aveva o che ha il Presidente della Repubblica di opporsi alla nomina di un singolo Ministro e su quali motivazioni detta scelta debba basarsi. Nessuno però o quasi si è posto l’unico interrogativo utile, ovvero: i mercati e gli investitori sono una motivazione valida?
La risposta è arrivata, qualche giorno più tardi le dichiarazioni di Mattarella, da Günther Oettinger, commissario UE al Bilancio: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nella giusta direzione» (“The markets will teach the Italians to vote for the right thing”). Il giornalista Bernd Thomas Riegert ha poi rimosso questo tweet e lo ha sostituito adducendo come motivazione il fatto di non aver riportato fedelmente la citazione di Oettinger. Il succo di quanto scrive in seguito non si discosta poi tanto dalla prima versione. Si tratta semplicemente di un messaggio meno chiaro, meno esplicito ma di eguale sostanza.
Un modo meno “aggressivo” di dire la stessa cosa, diciamo nei termini usati anche dal Presidente Mattarella.

Gli italiani però si sono offesi per le sue parole, quelle del commissario UE, e questi allora si è pubblicamente scusato. Va bene, scuse accettate ma la sostanza non cambia. È vero oppure non lo è che i mercati influenzano i governi? È vero oppure non lo è che se un Ministro dell’Economia non piace ai mercati il ministro non lo può fare? È vero oppure non lo è che, se i singoli Paesi mantengono la responsabilità sui debiti pubblici pur avendo abbandonato la sovranità monetaria, è necessario quantomeno rinegoziare i Trattati?

Nell’intervista rilasciata per il documentario Piigs, Noam Chomsky evidenzia quanto sia «interessante osservare le reazioni in Europa quando qualche politico suggerisce che forse la gente dovrebbe avere voce su ciò che la riguarda». Citando, per esempio, i Referendum popolari indetti in Grecia nel 2015. «La reazione è stata di incredulità: Come osate chiedere alla gente cosa deve accadergli? Non sono affari loro. Devono seguire gli ordini. Prendiamo noi le decisioni…».
Yanis Varoufakis ricorda che al primo Eurogruppo cui ha presenziato propose un accordo, un compromesso tra la Troika e il Governo greco, «a metà tra le loro imposizioni e il mandato elettorale». Wolfgang Schauble rispose: «Le elezioni non possono essere permesse se modificano il programma economico della Grecia».

«La Grecia è stata selvaggiamente punita per aver osato chiedere un Referendum e i tecnocrati europei hanno imposto misure ancora più dure, per togliere loro dalla testa l’idea folle che la democrazia possa avere un qualche valore». (Noam Chomsky)

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Liberi dall’amianto? I numeri parlano chiaro e non danno certo conforto

27 domenica Mag 2018

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Italia, italiani, Legambiente, NWO

Tra il 1945 e il 1992 in Italia sono state prodotte 3.7milioni di tonnellate di amianto grezzo e importate 1.9milioni di tonnellate. Con la legge 257/1992 è stata decretata la cessazione dell’impiego dell’amianto sull’intero territorio nazionale. In 26 anni sono stati registrati 21.463 casi di mesotelioma maligno, di cui il 93% a carico della pleura e il 6.5% del peritoneo. Oltre 6mila morti l’anno.

In occasione della giornata mondiale delle vittime dell’amianto, che cade il 28 aprile, Legambiente ha pubblicato il dossier Liberi dall’amianto? e ribadito «l’urgenza e la necessità improrogabile per il nostro Paese di agire attraverso una concreta azione di risanamento e bonifica del territorio».

A distanza di 26 anni dall’approvazione della legge, «il Piano Regionale Amianto non è stato approvato in tutte le Regioni». L’indagine posta in essere da Legambiente ha stimato un totale di quasi 58milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Si parla di 370mila strutture di cui oltre 20mila sono siti industriali, 50.744 edifici pubblici, 214.469 edifici privati, oltre 60mila le coperture in cemento amianto e 18.945 altra tipologia di siti.
Sono oltre 1.195 i siti ricadenti in I Classe, ovvero a maggiore rischio, e 12.995 quelli in II Classe.

Molto a rilento vanno avanti le attività di bonifica. Rilevamenti ISPRA del 2015 parlano di 369mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto prodotti (71% al Nord, 18.4% al Centro e 10.6% al Sud), di cui 227mila tonnellate smaltite in discarica e 145mila tonnellate esportate nelle miniere dismesse della Germania a fronte di quasi 40milioni di tonnellate di amianto presenti sul territorio.

E molto scarse sono anche le attività di formazione del personale tecnico, con programmi e momenti di aggiornamento che risultano solo in otto Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto) e nella Provincia Autonoma di Trento, nonché le attività di formazione e informazione rivolte ai cittadini. Scarse, sporadiche e comunque risalenti a diversi anni fa.

Stando ai dati forniti dal Ministero dell’Ambiente, aggiornati al novembre 2017, in Italia «ci sono circa 86mila siti interessati dalla presenza di amianto, di cui 7.669 risultano bonificati e 1.778 parzialmente bonificati». Tra questi rientrano anche i «779 impianti industriali (attivi o dismessi)» e «10 SIN (Siti di Interesse Nazionale da bonificare) che presentano problemi connessi al rischio amianto». Numeri che lo stesso Ministero dell’Ambiente «ritiene essere sottostimati» in quanto i dati raccolti dalle Regioni «non consentono una copertura omogenea del territorio nazionale».

Inoltre 20 anni di produzione normativa ha generato «una situazione ingarbugliata e spesso contraddittoria tra norma e norma». Alla risoluzione di questo problema era preposto il Testo Unico per il riordino, il coordinamento e l’integrazione di tutta la normativa in materia di amianto, presentato a novembre 2016 al Senato e realizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali. «Il Testo Unico è al momento ancora fermo in Senato».

Il monitoraggio delle fibre disperse in aria è «una delle attività fondamentali che gli Enti preposti dovrebbero mettere in campo» per prevenire l’insorgere di rischi sanitari per i cittadini. I dati forniti dalle Regioni in tal senso «sono però scoraggianti».

Il V Rapporto fornito dall’INAIL attraverso il ReNaM (Registro Nazionale dei Mesoteliomi), risalente al 2015, sottolinea come «l’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate». L’incisività della malattia è rarissima fino a 45 anni («il 2% dei casi registrati»). L’età media della diagnosi è «69.2 anni, senza distinzione significativa di genere». Il 69.5% dei casi analizzati presenta un’esposizione professionale («certa, probabile, possibile»), il 4.8% famigliare, il 4.2% ambientale, l’1.6% per un’attività extralavorativa di svago o hobby.
Per quanto riguarda i casi da esposizione professionale, i settori di attività maggiormente coinvolti risultano essere:
Edilizia
Industria pesante

Sul sito del Ministero della Salute si legge che «la presenza delle fibre di amianto o asbesto nell’ambiente comporta inevitabilmente dei danni a carico della salute, anche in presenza di pochi elementi fibrosi». I danni a carico della salute sono “inevitabili” anche in presenza di pochi elementi fibrosi perché si tratta di «un agente cancerogeno». Particolarmente nocivo è il fibrocemento (“eternit”), una mistura di amianto e cemento particolarmente friabile e quindi soggetta a danneggiamento o frantumazione, infatti «i rischi maggiori sono legati alla presenza delle fibre nell’aria» che, una volta inalate, «si possono depositare all’interno delle vie aeree e sulle cellule polmonari». Asbestosi, mesotelioma (tumore che si sviluppa a carico della membrana che riveste i polmoni, pleura, o gli altri organi interni, peritoneo), tumore dei polmoni… queste le conseguenze che possono e in genere si manifestano anche a distanza di molti anni dall’esposizione e a bassi livelli di asbesto.

In questo opuscolo ministeriale informativo ci tengono a ribadire che, essendo un agente cancerogeno, «occorre evitare l’esposizione anche a bassi livelli di concentrazione» poiché basta «una minima esposizione per subirne gli effetti nocivi». Già. Ma se le tonnellate di amianto sparse, disseminate e abbandonate lungo tutto il territorio nazionale non vengono bonificate come si fa a evitare l’esposizione anche a minime quantità di asbesto, magari aerodisperso? La risposta a questa domanda però non si trova nell’opuscolo e nemmeno negli allegati a esso accorpati sul sito ministeriale.

Qualche indicazione viene data in caso di bonifica o smaltimento di manufatti già esistenti. Viene consigliato in questi casi di non procedere da autodidatta bensì di «rivolgersi sempre a personale qualificato» in maniera tale da «non recare danni maggiori a se stessi e agli altri».

Si legge ancora che l’articolo 4 della Legge 257/92 «prevedeva l’istituzione della Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto». L’ultimo mandato di suddetta Commissione si è concluso nel 2005, con proroga fino al 2006. Dopodiché è cessata l’attività di monitoraggio come anche quella di «produzione di documenti tecnici affidati a essa come compiti fondamentali». Per «mantenere tuttavia vivo l’interesse per le tematiche rimaste in sospeso e mettere in luce le nuove problematiche emergenti», il Ministero ha previsto la costituzione di un Gruppo di studio che, nel 2012, ha elaborato «un rapporto finale, che fotografa lo stato dell’arte della problematica».

Il rapporto sullo “stato dell’arte” ci dice che ogni Regione, ad accezione di Molise e P.A. di Bolzano, ha istituito un Centro Operativo (COR) con compiti di identificazione di tutti i casi di mesotelioma insorti nel proprio territorio e di analisi della storia professionale, residenziale, famigliare e ambientale dei soggetti ammalati. «La rilevazione avviene coinvolgendo tutte le fonti informative utili (ospedali pubblici e cliniche private) e conducendo la ricerca attiva dei casi». Nella relazione gli operatori del Gruppo di lavoro si dichiarano abbastanza soddisfatti della raccolta dati al riguardo. Stessa cosa non può dirsi per i tumori polmonari, in quanto «non esiste in Italia un sistema di registrazione esaustivo dei casi integrato dalla raccolta anamnestica delle circostanze che espongono ad amianto». Per l’asbestosi si fa invece riferimento alle «statistiche INAIL di denunce e di riconoscimento di malattie professionali» e viene precisato che «l’attendibilità delle statistiche INAIL sulle denunce e riconoscimento delle asbestosi non è mai stata valutata attraverso un confronto con un adeguato golden standard».

Diverse Regioni hanno approvato programmi di sorveglianza sanitaria per gli ex-esposti ad amianto. Ma si tratta di protocolli estremamente eterogenei, si passa infatti dalla «Regione Campania, che prevede la sistematica fornitura di strumenti diagnostici tecnologicamente avanzati e quella delle Regioni Piemonte e Friuli Venezia Giulia che delegano le decisioni, caso per caso, ai medici di base». Nella relazione si legge anche che, per quanto riguarda l’estero, «l’esperienza più esaustiva è quella finlandese», che integra uno screening per tutte le malattie correlate all’amianto (compresa l’offerta di Tac spirale), servizi di igiene e di analisi chimica, progetti di ricerca e cooperazione internazionale.

Anche la relazione del Gruppo di Lavoro pone l’accento sul censimento a macchie di leopardo e i ritardi nelle bonifiche, spesso fatte anche male. «Questi censimenti, nonostante il cospicuo e ripetuto impegno economico, hanno in realtà prodotto risultati di non eccessivo rilievo e di limitata fruibilità». Stesso discorso vale per la bonifica e lo smaltimento. Ci sono stati sicuramente dei miglioramenti nella conoscenza del processo di dismissione dell’amianto «ma se non esteso a tutte le Regioni non permette di avere un quadro completo a livello nazionale del trend in atto, con particolare riferimento al destino finale dei rifiuti di amianto, che attualmente non risulta ben conosciuto nel sue caratteristiche».

Le informazioni che si evincono dalla relazione sommate ai numeri del dossier di Legambiente fanno emergere un quadro davvero allarmante o, se si preferisce, disarmante della situazione italiana a 26 anni dalla messa al bando di questo elemento fibroso altamente nocivo per la salute dei cittadini. «Quanto fatto sino ad oggi non può quindi considerarsi un punto di arrivo in quanto l’esigenza di costante e sempre più approfondita conoscenza della tematica è elemento essenziale per assicurare oltre alla correttezza delle azioni anche la tutela degli operatori, dei cittadini, dell’ambiente».

Essendo molti i Paesi che ancora estraggono e lavorano fibra di amianto viene riscontrato, «con frequenze non eccessive ma certamente meritevoli di attenzione», l’arrivo sul territorio nazionale di merce non conforme ai dettami normativi in materia di amianto. L’obiettivo da porsi è, quindi, «evitare, per quanto possibile, l’ingresso in Italia di prodotti realizzati con componentistiche vietate dalla normativa vigente riguardanti materiali con fibre di amianto» e per raggiungere detto scopo è necessaria una «organica interazione tra i vari soggetti coinvolti o comunque cointeressati». Organi centrali, Regioni, Asl, dogane portuali e aeroportuali.

Anche il Gruppo di Lavoro ministeriale, come Legambiente, giunge alla conclusione che sia necessario redarre quanto prima un Testo Unico normativo di riferimento. «Diversi Ministeri (Ambiente, Industria, Sanità) hanno nel tempo legiferato per le proprie competenze, ma non sempre si è tenuto conto di altri precedenti provvedimenti di diverse amministrazioni con cui vi potevano essere elementi di non chiarezza applicativa».

Per la tutela degli operatori, dei cittadini e dell’ambiente ci si attenderebbe quindi quanto prima l’approvazione di un Testo Unico articolato ed esaustivo, un censimento che vada a coprire l’intero territorio nazionale e una bonifica altrettanto plenaria.

A giugno 2012 il Ministero della Salute pubblica il Quaderno n°15 sullo «stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate». Ma quali sono esattamente le patologie asbesto-correlate?
Sono respirabili tutte le fibre, «come generalmente quelle di asbesto», con diametro inferiore a 3.5micron. Le fibre comprese tra 5 e 10 micron di lunghezza, arrivando all’interstizio e per via linfatica alle sierose, «possono determinare lesioni interstiziali e pleuriche»:
Fibrosi
Ispessimenti e Placche pleuriche
Neoplasie
Quelle di lunghezza superiore ai 10micron, arrestandosi a livello alveolare, «possono provocare lesioni alveolari (alveolite asbestosica)».

Tra le patologie asbesto-correlate vengono quindi inserite:
Asbestosi
Pleuropatie asbesto-correlate (Placche pleuriche e Ispessimento pleurico diffuso)
Versamenti pleurici benigni (pleuriti benigne da asbesto)
Tumore polmonare
Mesotelioma (Mesotelioma pleurico e Mesotelioma maligno extrapleurico)

Vanno evidenziate poi le patologie extrapolmonari da asbesto. «Una possibile correlazione è stata evidenziata tra l’esposizione ad asbesto e le patologie autoimmunitarie». Gli effetti sull’apparato gastrointestinale «sono prevalentemente riconducibili all’insorgenza di tumore dello stomaco». Per quanto riguarda l’apparato riproduttivo, «una possibile correlazione è stata documentata con il tumore ovarico». La IARC (International Agency for Research on Cancer) definisce come «sufficiente l’evidenza di insorgenza di cancro alla laringe e dell’ovaio in seguito a esposizione ad asbesto e limitata quella per tumore della faringe, stomaco, colon-retto».

Negli Stati Uniti e in Svezia, dove i consumi di amianto sono diminuiti più precocemente, «si assiste già a una diminuzione dei tassi di mortalità e di incidenza». Laddove i consumi sono cresciuti, come nei Paesi in via di sviluppo, «le limitate statistiche disponibili suggeriscono che l’epidemia sia attualmente al suo esordio». Il declino del consumo di amianto in Italia è avvenuto «in ritardo rispetto ad altri Paesi occidentali». La bonifica e lo smaltimento dell’amianto messo al bando orami dal lontano 1992 sono ancora procedure in fase di rodaggio. Per il nostro Paese si prevede una diminuzione dei picchi di mortalità e incidenza a partire dal 2015-2020. Si prevede. O meglio si suppone. Si potrebbe anche immaginare che la gran parte dell’amianto prodotto e importato tra il 1945 e il 1992 fosse stato tempestivamente censito, smaltito e i siti, pubblici e privati, bonificati… già si potrebbe ma quello che proprio non si può fare è cambiare la realtà, lo stato delle cose. E quello è disastroso.

Tre verbi che devono diventare azioni concrete e diffuse: censire, bonificare, smaltire. Tutto e ovunque. E farlo in tempi brevi. Tutto il resto sono parole, o meglio chiacchiere inutili.


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Non è lavoro, è sfruttamento” di Marta Fana (Editori Laterza, 2017)

31 mercoledì Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Italia, Laterza, lavoro, MartaFana, Nonelavoroesfruttamento, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

Denunciare i danni del lavoro precario, in una società strutturata secondo la regola che il valore di ogni cosa è commisurato al suo costo, è assolutamente doveroso e bene ha fatto l’autrice a sottolineare che non si deve in alcun modo «soffiare sul fuoco delle responsabilità individuali, delle frustrazioni che la solitudine sociale produce». Bisogna smetterla di enumerare i suicidi per precariato o fallimento come un elenco di casi individuali. È necessario urlare e mobilitarsi contro le classi dirigenti e politiche che promettono, illudono, arraffano e affamano. Ribellarsi alla cultura mafiosa e omertosa che nel lavoro prolifera più che altrove. Inchiodare alle proprie responsabilità generazioni intere di italiani che hanno preferito il compromesso, turandosi il naso prima al seggio elettorale e poi accettando leggi e provvedimenti che hanno generato condizioni di lavoro da vero e proprio sfruttamento.

Pubblicato con la casa editrice Laterza, Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana è un testo molto ben scritto e articolato che analizza vari aspetti del fenomeno e da varie angolazioni, senza mai perdere di vista l’obiettivo, ovvero il racconto e la denuncia. Punti di partenza fondamentali affinché si metta in essere la “rivoluzione” del cambiamento, quello voluto dal popolo e non da esso subito.

È vero quanto dice l’autrice, che l’unità di classe della popolazione è stata costantemente attaccata proprio allo scopo di fare breccia e dividere. Ma lo è anche il fatto che ciò è stato possibile perché glielo si è lasciato fare. Andrebbe comunque ridimensionato l’aspetto di socializzazione del lavoro, e anche della scuola. Si può e si deve avere una vita anche fuori da questi luoghi che hanno, o dovrebbero avere, come scopo principale lo svolgimento della propria attività professionale e di formazione. L’essere umano è molto altro, il lavoro è solo una parte, una necessità generata dal bisogno di possedere un reddito, una retribuzione. Ottimo quando la Fana ricorda che dovrebbero lavorare tutti e di meno. È esattamente ciò che serve. Basta straordinari non pagati o sottopagati, basta collaborati “volontari” … lavorare tutti e meno.


LEGGI ANCHE – Primo Maggio: Festa dei lavoratori o del lavoro? 


Doveroso aprire una parentesi sul reale ruolo svolto dai sindacati, più volte citati dall’autrice, nati per essere e farsi portavoce delle richieste dei lavoratori e garanti dei loro diritti e diventati, con il tempo e con i pubblici finanziamenti, sempre più dei semplici delegati, valvola di sfogo, mediatori, pacificatori tra le parti, zona cuscinetto tra l’avidità della ricchezza e lo sfruttamento della forza lavoro.


«Una triste storia di sfruttamento che ha coinvolto circa 18.500 lavoratori e che vede la firma dei tre maggiori sindacati italiani Cgil, Cisl e Uil.»


Un esempio tra i tanti, troppi che si potrebbero elencare, il reclutamento di giovani sponsorizzato con lo slogan a effetto “Essere volontario in Expo Milano 2015”.

Un libro interessante, necessario, doveroso Non è lavoro, è sfruttamento di Marta Fana, pubblicato nell’epoca che si definisce della digitalizzazione, e si ritiene evoluta rispetto a quelle oramai “arcaiche” industriale, agricola, capitalista. Una società che però sembra mantenere intatte moltissime forme e logiche di sfruttamento usate anche in passato. Solo che viene dato loro un nome diverso, preferibilmente preso in prestito dalla terminologia inglese. Così tutto diventa più cool, glam, fashion, trendy… Appunto. E così la precarizzazione del lavoro diventa jobs act, il lavoro a chiamata diventa voucher, il lavoro a cottimo diviene free lance. Ma la sostanza resta immutata, o peggiora. Purtroppo. E quando si ha necessità ulteriore di “ottimizzare” i costi per il personale entra in gioco la vera essenza dell’alternanza scuola-lavoro.

Straordinaria la lettera indirizzata al ministro Poletti, apparsa sul portale online dell’Espresso il 20 dicembre 2016 e riproposta anche nel testo, dettata forse, più che dal sentimento o dall’impulsività, dal tentativo di arginare con l’azione i conati di vomito che si riaffacciano a ogni decreto, legge o dichiarazione pubblica, ufficiale o ufficiosa, che corrisponde, in realtà, alla manifestazione di un potere immeritato, immotivato e malgestito da parte di intere classi politiche e dirigenti.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa degli Editori Laterza per la disponibilità e il materiale


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