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Irma Loredana Galgano

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PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo

09 sabato Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


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05 martedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Europa, Italia, italiani, NWO, Piigs, TheCorporation, USA

La questione in fondo si riduce a due semplici quesiti: fin dove sono disposti ad arrivare i business men per raggiungere il loro tanto agognato profitto? Fino a che punto cittadini e governi sono disposti a rinunciare a doveri e diritti pur di rispettare le impunite leggi del libero mercato?

Originariamente il ruolo e lo scopo delle Corporation era tutt’altro rispetto a quello attuale e somigliava più a una cordata di persone o società che appaltavano un grosso lavoro dallo Stato, il quale stabiliva rigidamente tempi, costi e regole. Così sono stati costruiti la gran parte dei ponti americani e le immense ferrovie che attraversano il Paese.
Oggi sono persone giuridiche cui vengono riconosciuti tutti i diritti delle persone e anche più, in quanto sono indicate come particolari. Per legge hanno il solo scopo di tutelare gli azionisti e non la comunità o la forza lavoro. «Non hanno un’anima da salvare o un corpo da incarcerare» e sono prive di «coscienza morale» come sottolinea Noam Chomsky, uno dei tanti intervistati del documentario The Corporation appunto, prodotto da Jennifer Abbott, Mark Achbar e Joel Bakan nel 2003.

La Corporation è ormai un’istituzione dominante nella realtà contemporanea. Grandi, enormi società di capitali con poteri altrettanto sconfinati e controlli sempre più limitati.
Le Corporation oggi sono globali ed essendo tali, in sostanza, i governi hanno perso qualsiasi forma di controllo su di loro. A dirlo è l’ex amministratore delegato della Goodyear, una delle Corporation che si scoprì aveva preso parte al complotto ordito per spodestare il presidente Roosevelt. Oggi queste azioni, questi complotti sono inutili perché «il Capitalismo è il padrone incontrastato». Rappresenta ormai a tutti gli effetti «l’Oligarchia regnante del nostro sistema».

Un sistema che nel 2008 ha portato il mondo intero ad affrontare una delle crisi economiche più terribili mai presentatesi dove, ancora una volta, a rimetterci sono stati i deboli e i meno furbi. In Europa, per esempio, a farne le spese sono stati i Paesi additati come deboli o peggio come piigs. Infelice acronimo che voleva sottolineare le porcine economy dei Paesi con un’economia debole e un debito pubblico insostenibile, «i Paesi maiali sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna». Un acronimo che è diventato anche il titolo del documentario di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre girato nel 2017.

Come il documentario The Corporation anche Piigs risulta essere molto illuminante per quello che si scopre e non si conosceva e per quello che viene invece confermato da chi, magari, in altre sedi tende a negare o minimizzare.

Stefano Fassina sostiene che la distinzione tra economie forti e deboli all’interno dell’eurozona, e che dà adito a stereotipi e luoghi comuni duri da scalfire, sia in realtà «una lettura strumentale» fatta, «come sempre avviene nella Storia, da chi è più forte, da chi orienta la comunicazione, da chi orienta l’interpretazione» e lo fa per «scaricare su una parte problemi che invece erano sistemici». E va avanti sottolineando il fatto che i Paesi virtuosi erano tali proprio per i problemi dei Paesi periferici: «la Germania cresceva per le esportazioni e la Grecia, che era in debito, riceveva dei prestiti perché qualcuno premeva per importare Mercedes dalla Germania».

Chi esercitava dette pressioni? Gli interessi di chi stanno tutelando in questo modo gli Stati e l’UE?
Possiamo ipotizzare che anche in Europa le Corporation, che chiamiamo Multinazionali o Società di Capitali, si beffano dei diritti dei cittadini e delle leggi per raggiungere i loro tanto amati profitti? Ma laddove i Governi accettano e acconsentono il loro “gioco” non vengono minati i principi fondamentali della Democrazia?

Yanis Varoufakis sostiene che, in realtà, «la Democrazia non è mai stata la caratteristica principale dell’Unione Europea». E racconta nel dettaglio le risposte che si è sentito dare nel momento in cui vi si è recato per contrattare i termini di una eventuale soluzione per il suo Paese. Soluzione che per molti versi poteva sembrare una vera e propria punizione, per un popolo, quello greco, che aveva osato alzare la testa e la voce contro i ferrei diktat dell’austerity. Per esempio, l’Europa nello «spostare le perdite delle banche sulle spalle dei contribuenti più deboli ha rivelato il suo autoritarismo».

Sergio Mattarella lo scorso 26 maggio ha sottolineato come la funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica sia di garanzia e non può quindi né deve subire imposizioni di alcun tipo, dichiarando di poter accettare tutte le nomine proposte tranne quella del Ministro dell’Economia. «La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari». L’incertezza della nostra posizione nell’euro «ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende».

Paolo Barnard, sempre all’interno del documentario Piigs, afferma che il debito pubblico è un problema quando uno stato contrae passivi con una moneta non sua. Gli fanno eco Stephanie Kelton e Paul De Grawe. «I Paesi eurozona riscuotono le tasse in euro, spendono in euro ma non hanno sovranità monetaria». Il risultato di questo è che «i mercati possono mettere in sofferenza lo Stato italiano, vendendo in massa i titoli sapendo che il governo non ha euro per ripagare i detentori dei titoli».

Federico Rampini invece sottolinea la necessità di «riprendere l’economia perché è il nostro futuro». E rimarca «l’analfabetismo economico» di cui soffrono gli italiani. Che non suona tanto come un’offesa quanto come una mera constatazione del fatto che si stenta a capire i concetti base di economia. Si continua a credere che tutto ciò che riguarda l’economia rimanga «nel mondo magico» della stessa. Bisogna invece iniziare a riflettere sul fatto che «tutto è economia»: le guerre, lo sfruttamento, l’abbandono dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione…

Per i broker di Wall Street l’Undici Settembre è stata una «benedizione camuffata». Tutti quelli che non erano nelle Torri Gemelle e si sono salvati hanno immediatamente investito in oro e hanno raddoppiato il capitale. A raccontarlo alla telecamera degli operatori di The Corporation è un broker di Wall Street.
Quando l’America bombardò l’Iraq nel 1991, tutti i broker tifavano affinché Saddam Hussein continuasse a dare problemi, a incendiare pozzi, così il prezzo del petrolio sarebbe continuato a salire e loro a guadagnare. «Noi speravamo in una pioggia di bombe su Saddam». Quella, al pari dell’Undici Settembre, era una tragedia, una vera e propria catastrofe con bombardamenti, guerre, morti… il broker si rende conto di questo ma ammette che anche «la devastazione crea opportunità».

Fin dove si spingono questi operatori dei mercati, mediatori o investitori che siano? Esiste un limite oltre il quale si rifiutano di pescare nel torbido?

Stando ai dati forniti da un Rapporto del Dipartimento del Tesoro, in una sola settimana 56 Corporation americane sono state multate per aver commerciato con nemici ufficiali degli Stati Uniti, «compresi terroristi, tiranni e regimi dittatoriali». Le Corporation sono in grado di produrre grande ricchezza ma anche «enormi danni, molto spesso taciuti».

Le politiche governative e statali non possono e non devono piegarsi sempre e comunque agli umori del libero mercato, in considerazione anche e soprattutto del fatto che a guadagnarci, come anche a rimetterci, sono sempre gli stessi. Da un lato le grandi società di capitali, gli investitori e i broker e dall’altro i piccoli investitori e le popolazioni.
Ancora il Presidente Mattarella, sempre nel corso dell’intervento per motivare la bocciatura di Paolo Savona a Ministro dell’Economia, sottolinea come la manifesta volontà di uscire dall’euro è cosa ben diversa «da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione Europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano». E i cambiamenti necessari da porre in essere sarebbero davvero tanti.

A chiusura del documentario Piigs c’è la lunga e amara analisi di Giuliano Amato sulla sovranità monetaria e su quella economica dei Paesi membri e dell’intera Unione Europea. Egli stesso ammette che la soluzione da loro trovata e poi posta in essere è stata sconsigliata da molti economisti, specie americani. «La vostra Banca Centrale se non è la Banca Centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione a cui assolve la Banca Centrale di uno Stato che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza». Che poi è quanto affermato anche da Paolo Barnard. Ma gli “architetti” ideatori dell’eurozona, tra cui appunto lo stesso Amato, non hanno voluto dar retta a questi economisti, stabilendo addirittura nei Trattati dei «vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». L’Unione Europea in sostanza non si assume la responsabilità degli impegni dei singoli stati e la Banca Centrale Europea non può comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati. Non sono previste agevolazioni creditizie e finanziarie per i singoli stati… insomma, moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. «Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi», chiosa Giuliano Amato.

«Certo che ci saranno trasferimenti di sovranità. Ma non sarebbe intelligente da parte mia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo» (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, Europe Agency, 24 giugno 2007).

I problemi, che già sapevano esserci in potenza, sono aumentati notevolmente dopo la crisi del 2008 ma, soprattutto, in conseguenza delle misure intraprese per “superarla”. Politiche che, nell’opinione di Stefano Fassina, «hanno aggravato i problemi invece di risolverli».
Si pensi, per esempio, al Fiscal Compact. Il Patto di Pareggio di Bilancio. L’anticristo del Bilancio di un’istituzione pubblica che, paradossalmente, può garantire maggiore benessere ai cittadini lavorando in sofferenza. Perché l’istituzione pubblica è l’unica società esistente al mondo che non ha scopo di lucro, quindi non opera per il profitto ma per i servizi ai cittadini. Basti pensare al New Deal lanciato dal Presidente americano Roosevelt che, forse anche per politiche come questa, si inimicò le Corporation che tramarono per destituirlo.
«Il pareggio di Bilancio dà priorità alla stabilità dei prezzi mettendo in secondo piano il diritto al lavoro, alla salute e a un salario dignitoso… per esempio».

Ma se tutti sapevano l’inutilità, o meglio la nocività di questi provvedimenti per i singoli Stati e, soprattutto, per i cittadini, perché sono stati posti in essere comunque? Sono stati imposti a reale beneficio di chi? Del mercato? Delle Corporation, che in Europa diventano le Multinazionali?

A seguito del veto del Presidente Mattarella, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio diffonde un video nel quale sottolinea che il governo del cambiamento sia stato stoppato non per Paolo Savona e l’impossibilità di trovargli un sostituto, bensì perché chiunque, nel corso della sua carriera, fosse stato in qualche misura critico sull’euro non andava bene. Non poteva andare bene. «Se siamo in queste condizioni non siamo in una Democrazia libera». Nel Contratto di Governo non c’è l’uscita dall’euro, è prevista la modifica dei Trattati, la rivisitazione di alcune regole europee. Il veto quindi si basava su opinioni non su reali intenzioni. Eppure il tutto andava fermato o cambiato. Perché?

Nel momento stesso in cui Luigi Di Maio ha palesato l’eventualità di procedere con l’iter per la messa in stato di accusa del Presidente il dibattito sui media ma, soprattutto, sui social si è infervorato generando due aperte fazioni che, prontamente, si sono schierate a favore o contro Sergio Mattarella. Gli interventi vertevano tutti o quasi sul diritto costituzionale o meno che aveva o che ha il Presidente della Repubblica di opporsi alla nomina di un singolo Ministro e su quali motivazioni detta scelta debba basarsi. Nessuno però o quasi si è posto l’unico interrogativo utile, ovvero: i mercati e gli investitori sono una motivazione valida?
La risposta è arrivata, qualche giorno più tardi le dichiarazioni di Mattarella, da Günther Oettinger, commissario UE al Bilancio: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nella giusta direzione» (“The markets will teach the Italians to vote for the right thing”). Il giornalista Bernd Thomas Riegert ha poi rimosso questo tweet e lo ha sostituito adducendo come motivazione il fatto di non aver riportato fedelmente la citazione di Oettinger. Il succo di quanto scrive in seguito non si discosta poi tanto dalla prima versione. Si tratta semplicemente di un messaggio meno chiaro, meno esplicito ma di eguale sostanza.
Un modo meno “aggressivo” di dire la stessa cosa, diciamo nei termini usati anche dal Presidente Mattarella.

Gli italiani però si sono offesi per le sue parole, quelle del commissario UE, e questi allora si è pubblicamente scusato. Va bene, scuse accettate ma la sostanza non cambia. È vero oppure non lo è che i mercati influenzano i governi? È vero oppure non lo è che se un Ministro dell’Economia non piace ai mercati il ministro non lo può fare? È vero oppure non lo è che, se i singoli Paesi mantengono la responsabilità sui debiti pubblici pur avendo abbandonato la sovranità monetaria, è necessario quantomeno rinegoziare i Trattati?

Nell’intervista rilasciata per il documentario Piigs, Noam Chomsky evidenzia quanto sia «interessante osservare le reazioni in Europa quando qualche politico suggerisce che forse la gente dovrebbe avere voce su ciò che la riguarda». Citando, per esempio, i Referendum popolari indetti in Grecia nel 2015. «La reazione è stata di incredulità: Come osate chiedere alla gente cosa deve accadergli? Non sono affari loro. Devono seguire gli ordini. Prendiamo noi le decisioni…».
Yanis Varoufakis ricorda che al primo Eurogruppo cui ha presenziato propose un accordo, un compromesso tra la Troika e il Governo greco, «a metà tra le loro imposizioni e il mandato elettorale». Wolfgang Schauble rispose: «Le elezioni non possono essere permesse se modificano il programma economico della Grecia».

«La Grecia è stata selvaggiamente punita per aver osato chiedere un Referendum e i tecnocrati europei hanno imposto misure ancora più dure, per togliere loro dalla testa l’idea folle che la democrazia possa avere un qualche valore». (Noam Chomsky)

Fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?


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Liberi dall’amianto? I numeri parlano chiaro e non danno certo conforto

27 domenica Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Italia, italiani, Legambiente, NWO

Tra il 1945 e il 1992 in Italia sono state prodotte 3.7milioni di tonnellate di amianto grezzo e importate 1.9milioni di tonnellate. Con la legge 257/1992 è stata decretata la cessazione dell’impiego dell’amianto sull’intero territorio nazionale. In 26 anni sono stati registrati 21.463 casi di mesotelioma maligno, di cui il 93% a carico della pleura e il 6.5% del peritoneo. Oltre 6mila morti l’anno.

In occasione della giornata mondiale delle vittime dell’amianto, che cade il 28 aprile, Legambiente ha pubblicato il dossier Liberi dall’amianto? e ribadito «l’urgenza e la necessità improrogabile per il nostro Paese di agire attraverso una concreta azione di risanamento e bonifica del territorio».

A distanza di 26 anni dall’approvazione della legge, «il Piano Regionale Amianto non è stato approvato in tutte le Regioni». L’indagine posta in essere da Legambiente ha stimato un totale di quasi 58milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Si parla di 370mila strutture di cui oltre 20mila sono siti industriali, 50.744 edifici pubblici, 214.469 edifici privati, oltre 60mila le coperture in cemento amianto e 18.945 altra tipologia di siti.
Sono oltre 1.195 i siti ricadenti in I Classe, ovvero a maggiore rischio, e 12.995 quelli in II Classe.

Molto a rilento vanno avanti le attività di bonifica. Rilevamenti ISPRA del 2015 parlano di 369mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto prodotti (71% al Nord, 18.4% al Centro e 10.6% al Sud), di cui 227mila tonnellate smaltite in discarica e 145mila tonnellate esportate nelle miniere dismesse della Germania a fronte di quasi 40milioni di tonnellate di amianto presenti sul territorio.

E molto scarse sono anche le attività di formazione del personale tecnico, con programmi e momenti di aggiornamento che risultano solo in otto Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto) e nella Provincia Autonoma di Trento, nonché le attività di formazione e informazione rivolte ai cittadini. Scarse, sporadiche e comunque risalenti a diversi anni fa.

Stando ai dati forniti dal Ministero dell’Ambiente, aggiornati al novembre 2017, in Italia «ci sono circa 86mila siti interessati dalla presenza di amianto, di cui 7.669 risultano bonificati e 1.778 parzialmente bonificati». Tra questi rientrano anche i «779 impianti industriali (attivi o dismessi)» e «10 SIN (Siti di Interesse Nazionale da bonificare) che presentano problemi connessi al rischio amianto». Numeri che lo stesso Ministero dell’Ambiente «ritiene essere sottostimati» in quanto i dati raccolti dalle Regioni «non consentono una copertura omogenea del territorio nazionale».

Inoltre 20 anni di produzione normativa ha generato «una situazione ingarbugliata e spesso contraddittoria tra norma e norma». Alla risoluzione di questo problema era preposto il Testo Unico per il riordino, il coordinamento e l’integrazione di tutta la normativa in materia di amianto, presentato a novembre 2016 al Senato e realizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali. «Il Testo Unico è al momento ancora fermo in Senato».

Il monitoraggio delle fibre disperse in aria è «una delle attività fondamentali che gli Enti preposti dovrebbero mettere in campo» per prevenire l’insorgere di rischi sanitari per i cittadini. I dati forniti dalle Regioni in tal senso «sono però scoraggianti».

Il V Rapporto fornito dall’INAIL attraverso il ReNaM (Registro Nazionale dei Mesoteliomi), risalente al 2015, sottolinea come «l’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate». L’incisività della malattia è rarissima fino a 45 anni («il 2% dei casi registrati»). L’età media della diagnosi è «69.2 anni, senza distinzione significativa di genere». Il 69.5% dei casi analizzati presenta un’esposizione professionale («certa, probabile, possibile»), il 4.8% famigliare, il 4.2% ambientale, l’1.6% per un’attività extralavorativa di svago o hobby.
Per quanto riguarda i casi da esposizione professionale, i settori di attività maggiormente coinvolti risultano essere:
Edilizia
Industria pesante

Sul sito del Ministero della Salute si legge che «la presenza delle fibre di amianto o asbesto nell’ambiente comporta inevitabilmente dei danni a carico della salute, anche in presenza di pochi elementi fibrosi». I danni a carico della salute sono “inevitabili” anche in presenza di pochi elementi fibrosi perché si tratta di «un agente cancerogeno». Particolarmente nocivo è il fibrocemento (“eternit”), una mistura di amianto e cemento particolarmente friabile e quindi soggetta a danneggiamento o frantumazione, infatti «i rischi maggiori sono legati alla presenza delle fibre nell’aria» che, una volta inalate, «si possono depositare all’interno delle vie aeree e sulle cellule polmonari». Asbestosi, mesotelioma (tumore che si sviluppa a carico della membrana che riveste i polmoni, pleura, o gli altri organi interni, peritoneo), tumore dei polmoni… queste le conseguenze che possono e in genere si manifestano anche a distanza di molti anni dall’esposizione e a bassi livelli di asbesto.

In questo opuscolo ministeriale informativo ci tengono a ribadire che, essendo un agente cancerogeno, «occorre evitare l’esposizione anche a bassi livelli di concentrazione» poiché basta «una minima esposizione per subirne gli effetti nocivi». Già. Ma se le tonnellate di amianto sparse, disseminate e abbandonate lungo tutto il territorio nazionale non vengono bonificate come si fa a evitare l’esposizione anche a minime quantità di asbesto, magari aerodisperso? La risposta a questa domanda però non si trova nell’opuscolo e nemmeno negli allegati a esso accorpati sul sito ministeriale.

Qualche indicazione viene data in caso di bonifica o smaltimento di manufatti già esistenti. Viene consigliato in questi casi di non procedere da autodidatta bensì di «rivolgersi sempre a personale qualificato» in maniera tale da «non recare danni maggiori a se stessi e agli altri».

Si legge ancora che l’articolo 4 della Legge 257/92 «prevedeva l’istituzione della Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto». L’ultimo mandato di suddetta Commissione si è concluso nel 2005, con proroga fino al 2006. Dopodiché è cessata l’attività di monitoraggio come anche quella di «produzione di documenti tecnici affidati a essa come compiti fondamentali». Per «mantenere tuttavia vivo l’interesse per le tematiche rimaste in sospeso e mettere in luce le nuove problematiche emergenti», il Ministero ha previsto la costituzione di un Gruppo di studio che, nel 2012, ha elaborato «un rapporto finale, che fotografa lo stato dell’arte della problematica».

Il rapporto sullo “stato dell’arte” ci dice che ogni Regione, ad accezione di Molise e P.A. di Bolzano, ha istituito un Centro Operativo (COR) con compiti di identificazione di tutti i casi di mesotelioma insorti nel proprio territorio e di analisi della storia professionale, residenziale, famigliare e ambientale dei soggetti ammalati. «La rilevazione avviene coinvolgendo tutte le fonti informative utili (ospedali pubblici e cliniche private) e conducendo la ricerca attiva dei casi». Nella relazione gli operatori del Gruppo di lavoro si dichiarano abbastanza soddisfatti della raccolta dati al riguardo. Stessa cosa non può dirsi per i tumori polmonari, in quanto «non esiste in Italia un sistema di registrazione esaustivo dei casi integrato dalla raccolta anamnestica delle circostanze che espongono ad amianto». Per l’asbestosi si fa invece riferimento alle «statistiche INAIL di denunce e di riconoscimento di malattie professionali» e viene precisato che «l’attendibilità delle statistiche INAIL sulle denunce e riconoscimento delle asbestosi non è mai stata valutata attraverso un confronto con un adeguato golden standard».

Diverse Regioni hanno approvato programmi di sorveglianza sanitaria per gli ex-esposti ad amianto. Ma si tratta di protocolli estremamente eterogenei, si passa infatti dalla «Regione Campania, che prevede la sistematica fornitura di strumenti diagnostici tecnologicamente avanzati e quella delle Regioni Piemonte e Friuli Venezia Giulia che delegano le decisioni, caso per caso, ai medici di base». Nella relazione si legge anche che, per quanto riguarda l’estero, «l’esperienza più esaustiva è quella finlandese», che integra uno screening per tutte le malattie correlate all’amianto (compresa l’offerta di Tac spirale), servizi di igiene e di analisi chimica, progetti di ricerca e cooperazione internazionale.

Anche la relazione del Gruppo di Lavoro pone l’accento sul censimento a macchie di leopardo e i ritardi nelle bonifiche, spesso fatte anche male. «Questi censimenti, nonostante il cospicuo e ripetuto impegno economico, hanno in realtà prodotto risultati di non eccessivo rilievo e di limitata fruibilità». Stesso discorso vale per la bonifica e lo smaltimento. Ci sono stati sicuramente dei miglioramenti nella conoscenza del processo di dismissione dell’amianto «ma se non esteso a tutte le Regioni non permette di avere un quadro completo a livello nazionale del trend in atto, con particolare riferimento al destino finale dei rifiuti di amianto, che attualmente non risulta ben conosciuto nel sue caratteristiche».

Le informazioni che si evincono dalla relazione sommate ai numeri del dossier di Legambiente fanno emergere un quadro davvero allarmante o, se si preferisce, disarmante della situazione italiana a 26 anni dalla messa al bando di questo elemento fibroso altamente nocivo per la salute dei cittadini. «Quanto fatto sino ad oggi non può quindi considerarsi un punto di arrivo in quanto l’esigenza di costante e sempre più approfondita conoscenza della tematica è elemento essenziale per assicurare oltre alla correttezza delle azioni anche la tutela degli operatori, dei cittadini, dell’ambiente».

Essendo molti i Paesi che ancora estraggono e lavorano fibra di amianto viene riscontrato, «con frequenze non eccessive ma certamente meritevoli di attenzione», l’arrivo sul territorio nazionale di merce non conforme ai dettami normativi in materia di amianto. L’obiettivo da porsi è, quindi, «evitare, per quanto possibile, l’ingresso in Italia di prodotti realizzati con componentistiche vietate dalla normativa vigente riguardanti materiali con fibre di amianto» e per raggiungere detto scopo è necessaria una «organica interazione tra i vari soggetti coinvolti o comunque cointeressati». Organi centrali, Regioni, Asl, dogane portuali e aeroportuali.

Anche il Gruppo di Lavoro ministeriale, come Legambiente, giunge alla conclusione che sia necessario redarre quanto prima un Testo Unico normativo di riferimento. «Diversi Ministeri (Ambiente, Industria, Sanità) hanno nel tempo legiferato per le proprie competenze, ma non sempre si è tenuto conto di altri precedenti provvedimenti di diverse amministrazioni con cui vi potevano essere elementi di non chiarezza applicativa».

Per la tutela degli operatori, dei cittadini e dell’ambiente ci si attenderebbe quindi quanto prima l’approvazione di un Testo Unico articolato ed esaustivo, un censimento che vada a coprire l’intero territorio nazionale e una bonifica altrettanto plenaria.

A giugno 2012 il Ministero della Salute pubblica il Quaderno n°15 sullo «stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate». Ma quali sono esattamente le patologie asbesto-correlate?
Sono respirabili tutte le fibre, «come generalmente quelle di asbesto», con diametro inferiore a 3.5micron. Le fibre comprese tra 5 e 10 micron di lunghezza, arrivando all’interstizio e per via linfatica alle sierose, «possono determinare lesioni interstiziali e pleuriche»:
Fibrosi
Ispessimenti e Placche pleuriche
Neoplasie
Quelle di lunghezza superiore ai 10micron, arrestandosi a livello alveolare, «possono provocare lesioni alveolari (alveolite asbestosica)».

Tra le patologie asbesto-correlate vengono quindi inserite:
Asbestosi
Pleuropatie asbesto-correlate (Placche pleuriche e Ispessimento pleurico diffuso)
Versamenti pleurici benigni (pleuriti benigne da asbesto)
Tumore polmonare
Mesotelioma (Mesotelioma pleurico e Mesotelioma maligno extrapleurico)

Vanno evidenziate poi le patologie extrapolmonari da asbesto. «Una possibile correlazione è stata evidenziata tra l’esposizione ad asbesto e le patologie autoimmunitarie». Gli effetti sull’apparato gastrointestinale «sono prevalentemente riconducibili all’insorgenza di tumore dello stomaco». Per quanto riguarda l’apparato riproduttivo, «una possibile correlazione è stata documentata con il tumore ovarico». La IARC (International Agency for Research on Cancer) definisce come «sufficiente l’evidenza di insorgenza di cancro alla laringe e dell’ovaio in seguito a esposizione ad asbesto e limitata quella per tumore della faringe, stomaco, colon-retto».

Negli Stati Uniti e in Svezia, dove i consumi di amianto sono diminuiti più precocemente, «si assiste già a una diminuzione dei tassi di mortalità e di incidenza». Laddove i consumi sono cresciuti, come nei Paesi in via di sviluppo, «le limitate statistiche disponibili suggeriscono che l’epidemia sia attualmente al suo esordio». Il declino del consumo di amianto in Italia è avvenuto «in ritardo rispetto ad altri Paesi occidentali». La bonifica e lo smaltimento dell’amianto messo al bando orami dal lontano 1992 sono ancora procedure in fase di rodaggio. Per il nostro Paese si prevede una diminuzione dei picchi di mortalità e incidenza a partire dal 2015-2020. Si prevede. O meglio si suppone. Si potrebbe anche immaginare che la gran parte dell’amianto prodotto e importato tra il 1945 e il 1992 fosse stato tempestivamente censito, smaltito e i siti, pubblici e privati, bonificati… già si potrebbe ma quello che proprio non si può fare è cambiare la realtà, lo stato delle cose. E quello è disastroso.

Tre verbi che devono diventare azioni concrete e diffuse: censire, bonificare, smaltire. Tutto e ovunque. E farlo in tempi brevi. Tutto il resto sono parole, o meglio chiacchiere inutili.


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L’Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo (Sperling&Kupfer, 2016)


 

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La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi?

20 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Italia, italiani, NWO, ordinemondiale, paura

Mark Zuckerberg, ideatore e ceo del social network Facebook, il 12 gennaio 2018 scrive, sulla sua pagina social, un post che ha scatenato una grande eco mediatica. Il succo del suo comunicato riguarda l’imminente e progressivo cambiamento dell’algoritmo che gestisce la condivisione dei post e dei video perché, a suo dire, Facebook sta deragliando da quello che era lo scopo originario per cui lui stesso l’ha inventato.

Facebook sarebbe quindi stato ‘costruito’ per aiutare le persone a rimanere in contatto e avvicinarsi a quelle ritenute importanti, affettivamente parlando. Per questo motivo famigliari e amici devono restare il fulcro del mondo social racchiuso nell’universo del libro delle facce. La esplosione di contenuti pubblici starebbe quindi rompendo l’asse dell’equilibrio, allontanandosi dallo scopo principale del social, ovvero «help us connect with each other» (“aiutarci a connettersi tra noi”).
Zuckerberg si augura che il tempo passivo trascorso sui social, in particolare il suo, diminuisca e che gli utenti siano sempre più stimolati a interagire. Adottando queste misure lui dichiara di aspettarsi una diminuzione del tempo trascorso sul social ma, al contempo, si augura che sia tempo prezioso, di qualità.


«I expect the time people spend on Facebook and some measures of engagement will go down. But I also expect the time you do spend on Facebook will be more valuable.»


Il social network Facebook quindi, per mano dei suoi organizzatori, vuole spronare i suoi utenti a essere più attivi, cliccando like e commentando post personali, famigliari, di amici e conoscenti, foto e riflessioni… saranno quindi scoraggiate le condivisioni di post da pagine pubbliche, da link esterni, notizie, informazione e quant’altro possa distogliere l’attenzione e l’interesse degli utenti dallo scopo principale del social: “aiutarci a connettersi tra noi”.
Ora, a meno che una persona non abbia tutti i suoi affetti lontano e viva isolato su un eremo, davvero si fatica a comprendere fino in fondo la necessità della condivisione social e non di quella reale di immagini, foto, ricordi, impressioni, pensieri, riflessioni, considerazioni… che invece potrebbero e possono benissimo essere condivise de visu, via mail, in chat, su skype, al telefono… Ma l’aspetto più interessante e a tratti inquietante è il tentare di capire se davvero Zuckerberg sia così filantropo da boicottare volutamente il suo social network a beneficio dell’affettività dei suoi iscritti.

Due giorni dopo l’annuncio di Marc Zuckerberg già è virale la notizia, basata su dati della rivista Forbes, di una perdita di 3,3miliardi di dollari a causa del calo nella quotazione in borsa del titolo Facebook. Zuckerberg possedendo il 17% delle azioni ne avrebbe quindi subito un danno personale. Ora, considerando che sempre secondo la rivista Forbes, il patrimonio complessivo dell’ideatore di Facebook ammonterebbe a 72,4miliardi di dollari, quella subita è una perdita che, pur ammettendo non fosse stata calcolata, sarebbe per certo facilmente recuperabile.
La scelta di modificare l’algoritmo di condivisione non sarebbe piaciuta a investitori e sponsor e il titolo societario scende del 4,4%.
Lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di prevedere un leggero calo nella quantità del tempo che gli utenti trascorreranno sul social a seguito dei cambiamenti dell’algoritmo. È lecito supporre avesse anche preventivato un iniziale calo di fiducia da parte di investitori e sponsor?

Dopo un 2017 trascorso a tentare in vari modi di bloccare segnalare contrastare confutare le fake news Facebook sembra compiere una decisa virata che prevede, in buona sostanza, una riduzione delle notizie, presumibilmente quindi anche delle cosiddette bufale, e l’ammissione neanche troppo implicita che il social non è un organo idoneo alla diffusione dell’informazione. Non è per questo scopo che è stato creato.
La ricerca condotta dal team di Facebook in sinergia con esperti accademici avrebbe messo in luce che l’utilizzo dei social per connettersi con persone a cui teniamo sarebbe un toccasana per il nostro benessere.

Quindi creare un ambiente social con parenti, famigliari e amici, connettersi virtualmente con loro, condividere sul social momenti di vita, di affetto, di amore, di delusione, di tristezza, di passione… gioverebbe alla di ognuno “felicità e salute”. Essere sempre più il fulcro della propria filter bubble. Questo lo scopo reale di Facebook. Questo il ‘benessere’ di cui sembra parlare il suo fondatore, il quale anni fa ha dichiarato, parafrasando forse inconsapevolmente le parole del patron di Le Figaro, Hippolyte de Villemessant (“Per i miei lettori è più importante l’incendio di in solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid”), ha detto: “La morte di uno scoiattolo davanti casa può essere più pertinente per i tuoi interessi di quella di una persona in Africa”. Naturale a questo punto chiedersi cosa esattamente “è più pertinente” per “gli interessi” immediati e futuri del ceo di Facebook.

Il primo data center di Facebook fuori dagli Stati Uniti è stato impiantato a Luleå, in Svezia. Un anonimo enorme capannone grigio che racchiude in sé un’immensa memoria connessa. È prevista l’apertura prossima di strutture simili a Clonee in Irlanda e a Odense in Danimarca. I responsabili della struttura svedese più volte hanno ribadito al giornalista Diego Barbera, giunto in loco per un servizio, che «i dispositivi vengono trasportati in modo riservato e sicuro» affinché «sia impossibile accedere a qualsivoglia dato». Tutte «le informazioni sono conservate, e i vecchi supporti sono completamente distrutti». Massima protezione e cautela quindi nella raccolta dei dati che assolutamente non devono lasciare la struttura, né essere trafugati. Ma allora a cosa serve questo immenso archivio di dati e informazioni condivise dagli utenti del social network Facebook?

In un servizio di Stefania Rimini per la trasmissione Report, girato nell’ormai lontano 2011, illuminante già nel titolo (“Il prodotto sei tu”) ci si chiedeva come mai una società fondata dall’allora poco più che ventenne Marc Zuckerberg che, in apparenza, non comprava e non vendeva nulla, assolutamente gratuita, facesse tanto gola a investitori internazionali quali «la banca Goldman Sachs ma anche la Microsoft, il miliardario russo Yuri Milner e il magnate di Hong Kong Li Ka Shing». Una società all’epoca non ancora quotata in borsa che ha subito una crescita vorticosa ed esponenziale, nel numero degli iscritti come nel valore di mercato nella quale sembra «tutto bello tutto gratis ma se ti va di leggere i termini contrattuali che quasi nessuno legge, scopri che sì, non stai pagando per il prodotto… perché il prodotto sei tu».

Profili che ogni utente compila volontariamente al momento dell’iscrizione, con dati personali anche sensibili, consegnati autonomamente ma con quanta reale coscienza dell’uso che ne verrà fatto? Schede zeppe di informazioni personali, di gusti e preferenze, livello culturale e titoli di studio, professione, stato civile, sesso e orientamento sessuale, orientamento politico e religioso… che rischiano però di diventare dati troppo statici e obsoleti se non li si rinvigorisce con aggiornamenti continui. Nuovi like, nuove foto, nuovi commenti… espressioni a loro volta delle singole personalità che navigano in questo mare che il suo proprietario dichiara di voler far diventare sempre più un porto sicuro. Stare bene quando si accede al social, sentirsi in famiglia, condividere con gli affetti, con gli amici, con i conoscenti… tutto per far sentire al meglio l’utente, libero di manifestare e condividere il suo essere. A pieno beneficio di chi?

Non è naturalmente un problema precipuo di Facebook ma generale della Rete e dei social. Semplicemente è la costante premura del suo fondatore a creare e fortificare questa sorta di filter bubble a destare qualche sospetto di troppo.

Sempre nel 2011 esce per Il Saggiatore il libro di Eli Pariser Il filtro. Quello che internet ci nasconde (“The Filter Bubble. What The Internet Is Hiding From You”). Nel libro Pariser sottolinea l’impiego dei filtri per creare la bolla nella quale ognuno poi naviga in base alla “rilevanza” che è in pratica l’unico vero criterio seguito. Una bolla creata in base alle pagine che visitiamo, ai link che cerchiamo, agli interessi e via discorrendo. Quello verso cui non mostriamo interesse semplicemente scompare… dalla nostra filter bubble. Se due persone compiono la medesima indagine su un motore di ricerca, per esempio Google, i risultati saranno molto dissimili tra loro. Ciò è conseguenza della «personalizzazione del web», creata dagli indicatori impiegati per stabilire chi siamo e cosa potrebbe piacerci in base proprio agli interessi che abbiamo mostrato e che sono costantemente monitorati.

I nostri interessi devono essere mostrati e costantemente aggiornati a beneficio di chi li cataloga, li archivia, li studia e poi, magari, li utilizza come merce di scambio con chi questi dati li usa per creare prodotti ad hoc, studiati e realizzati sulle esigenze e sugli interessi dichiarati, proposti poi direttamente a chi ha manifestato il desiderio di possederli tramite pubblicità, newsletter, spot, link… Il tutto, naturalmente, in forma anonima e sicura per l’utente. Certo.

Il mondo cambia, il commercio anche, la globalizzazione avanza, la Rete è fondamentale e anche utile. Nessuna obiezione. Rimane però la curiosità di sapere con quanta coscienza l’utente compie le sue scelte, definisce i suoi interessi, manifesta e soddisfa i propri bisogni.

Per Pariser «la democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando internet ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni limita questo confronto».

A questo punto viene naturale chiedersi quanto potere abbiano effettivamente Google e Facebook, per citarne alcuni, nella creazione della di ognuno filter bubble e quanto invece sia dovuto alla incoscienza o proprio alla volontà dell’utente di dedicare il suo tempo e le sue energie solo per ciò che gli interessa e gli piace e annullare i problemi, le opinioni dissimili, gli argomenti per lui ostici. In base a queste considerazioni viene da affermare che la vera filter bubble la creiamo noi stessi, dentro e fuori la Rete e i social.

Sul portale di wearesocial.com si può leggere una dettagliata descrizione di cosa sia in realtà il social thinking, ovvero l’approccio alla «creatività per risolvere problemi di business e brand». La base di partenza sono i social insight – «comprensione del comportamento sociale delle persone e, di conseguenza prendere in considerazione i canali e le piattaforme per loro rilevanti» – permettendo così lo sviluppo di «idee creative che costruiscano valore per i brand e per le persone». Mentre gli insight tradizionali permettono di comprendere i comportamenti delle persone concentrandosi solo su motivazioni individuali, gli insight social «mettono questa comprensione nel contesto delle nostre relazioni interpersonali, delle community e della società fornendo evidenze spesso nascoste, inaspettate o inespresse».

Le social idea sono idee «powered by people». Sono idee con un altissimo potenziale e di grande valore, in altre parole sono preziose, esattamente come il tempo passato sui social a raccontarle, perché «sono in grado di creare o rafforzare relazioni e community, unire le persone, attivare conversazioni e stimolare all’azione». Addirittura possono o potrebbero «influenzare il comportamento delle persone e avere un impatto culturale». Molto più spesso però sono studiate per capire come «creino valore di business».

Il numero delle persone in Italia Europa e nel mondo connesse a internet è in costante aumento, lo stesso per il tempo trascorso sui vari social. In crescita anche la connessione tramite smartphone, in calo quella da pc. Social e video sono le ‘mete’ preferite dalla gran parte degli utenti connessi in Italia. Oltre la metà della popolazione online utilizza applicazioni di messaging e chat dai dispositivi mobile. Perché?

I motivi addotti per spiegare il fenomeno ormai di massa dell’adesione a social e chat sono numerosi e spaziano dalla paura della solitudine che attanaglierebbe tutti fuori dal web alla possibilità di trovare lì campo libero allo sfogo delle proprie frustrazioni, dell’aggressività altrimenti repressa e via dicendo. Ma la verità è che online, sui social, nelle chat, nei gruppi… non troviamo altro, troviamo esattamente ciò che incontriamo per strada, al bar, allo stadio, nei parchi e lungo le vie. La differenza forse è che nella auto-celebrazione di se stessi che spesso si fa sui social ci si illude di trovare un pubblico copioso interessato alle foto, ai pensieri, ai commenti, alle riflessioni, alle offese, agli sfoghi, ai like… il pubblico in effetti c’è ed è anche molto attento a ogni interazione, ma non è quello che si pensa.

Albine ha reso pubblico il Val-You Calculator, un ‘divertente’ test che consente a ognuno di calcolare quanto vale il suo profilo social per Facebook. Farlo equivale a ritrovarsi dinanzi a un risultato che dà una cifra irrisoria, soprattutto se non si è molto attivi sui social. Ma, a ben pensarci, stando alla stima di giugno 2017, Facebook ha raggiunto i 2miliardi di utenti. Ed ecco che una cifra irrisoria moltiplicata per 2miliardi diventa un colosso quotato in borsa, finanziato da investitori globali e con un potere sociale, culturale e commerciale enorme. Enorme.


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G8, scuola Diaz e Bolzaneto: Il tempo trasforma la colpa in merito?

13 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

Nel novembre del 2015 nuove condanne furono inflitte agli agenti di polizia e funzionari che non impedirono le violenze alla scuola Diaz nel luglio 2001, allorquando si svolse il G8 a Genova. Il risarcimento richiesto ammontava a 350mila euro ma il giudice della Corte dei Conti lo ha ridimensionato accogliendo la tesi secondo cui non essendo stati identificati tutti i responsabili del pestaggio non si poteva accollare l’intero importo esclusivamente agli indagati. Il Tribunale di Genova ha così condannato i responsabili al pagamento di 110mila euro, a titolo di risarcimento morale e materiale per le violenze subite dal giornalista Mark William Covell.

«Arrivato al primo piano dell’istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano.»

A raccontarlo ai pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona è il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier, uno dei 28 poliziotti imputati per la vicenda, nella nuova versione illustrata agli inquirenti nel 2007, molto diversa da quella fornita inizialmente.

«Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza»

Uno spirito di appartenenza che in altri contesti non si fatica a indicare come omertà. Non si può a questo punto non porsi la domanda che in tanti urlano da quasi venti anni: cosa è successo veramente alla scuola Diaz, alla caserma di Bolzaneto e durante i giorni del G8 di Genova?

“Sembrava una macelleria messicana”, dice Fournier. Macelleria messicana è una situazione in cui si verificano atti di estrema violenza e crudeltà. Perché a Genova si sono verificati?

Il G8 è un annuale incontro tra i capi di stato e di governo delle maggiori democrazie mondiali. Il summit del 2001 si è tenuto nella città di Genova tra il 20 e il 22 luglio. I punti discussi all’ordine del giorno sono molteplici e spaziano dal commercio internazionale alla fame nel mondo, dai problemi legati all’ambiente alle innovazioni tecnologiche, dai cambiamenti climatici alle malattie, dalla finanza alla pace nel mondo. Gli incontri tra i grandi della Terra sono blindati, come i luoghi in cui si svolgono e ciò che viene fatto trapelare sono le dichiarazioni ufficiali dei diretti interessati, o chi per essi, in conferenza stampa e l’idea che il tutto possa quasi essere una costosissima reunion di pranzi ed eventi che forse potrebbe anche essere evitata visto che se i partecipanti sono concordi sul da farsi potrebbero comunicarselo in mille altri modi e se non lo sono non è detto che lo diventino proprio in quei giorni.

Le iniziative contro il G8 sembrano essere tutte motivate dalla convinzione che un altro mondo è possibile. Un mondo votato verso il commercio equo e solidale, la finanza etica, l’annullamento del debito dei paesi poveri, le produzioni biologiche, pregno di azioni concrete contro le guerre. Con limiti e restrizioni al commercio delle armi. Un mondo con uno sviluppato senso critico, sociale e solidale. Un mondo pulito. Le numerose sigle e associazioni che protestavano contro il G8 a Genova si erano riunite in un comitato chiamato Genova Social Forum, il cui portavoce fu nominato Vittorio Agnoletto, medico milanese fondatore della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (LILA).

In un’intervista rilasciata a oltremedianews, Agnoletto ha dichiarato che, a parer suo, l’aspetto più scioccante sul piano politico è stato l’assalto alla scuola Diaz perché «quell’evento ha reso evidente che, da parte delle istituzioni dello Stato e dei suoi rappresentanti, non c’era assolutamente più nessun rispetto della legge, delle regole e della legalità e che i rappresentanti dello Stato stavano agendo unicamente in base alla logica del più forte e stavano manipolando completamente la realtà, costruendo, come si è potuto vedere successivamente, una versione del tutto falsa di quello che stava accadendo».

Ma perché la polizia irrompe nella scuola Diaz? Ufficialmente è alla ricerca dei black bloc, i manifestanti del blocco nero indicati come i responsabili dei disordini durante le manifestazioni e degli atti di vandalismo alla città. Ma questi black bloc alla Diaz non c’erano.

Agnoletto, nel corso dell’intervista, ci tiene a precisare però che il fatto più grave accaduto a Genova durante il G8 è stato l’uccisione di Carlo Giuliani: «Una vita umana che non potrà mai essere restituita è un valore incomparabile rispetto a qualunque altro evento».

Carlo Giuliani, giovane manifestante no-global muore in piazza Alimonda per il proiettile sparato dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, indagato per omicidio e prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. Giuliani minacciava di colpire l’auto dentro cui stazionavano Placanica e colleghi con un estintore. Placanica gli ha sparato in testa. In tanti si saranno chiesti in tutti questi anni quale effetto avrebbe sortito un colpo sparato in aria contro un gruppo di manifestanti che, nella concitazione del momento, provavano ad assalire e assaltare i nemici di quel momento con armi di fortuna. Ma c’è anche un’altra domanda da porsi: perché la polizia, il cui compito sarebbe quello di proteggere i cittadini, aveva incarnato fin da subito le sembianze del ‘nemico‘, ovvero lo Stato e i suoi rappresentanti che se ne stavano blindati nella zona rossa? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è già in essa contenuta.

Agli occhi dei manifestanti, come per i membri del blocco nero e degli ultras, i celerini, ovvero i poliziotti della squadra mobile, la cosiddetta celere, sono l’incarnazione dello Stato e dei suoi rappresentanti, o meglio ne sono i servi, diventando di fatto il nemico da ‘combattere’. Quello vero, diciamo così, è inarrivabile, barricato, e così l’interesse si concentra sul suo surrogato oppure, come nel caso degli ultras, sui ‘nemici’ della tifoseria avversaria. Ma questi poliziotti, i celerini, come vedono i loro ‘nemici’ sul campo e come i rappresentanti dello Stato?

I poliziotti del reparto mobile sono addestrati per garantire l’ordine e devono restare impassibili agli sputi, agli insulti, alle minacce, al lancio di oggetti… almeno fino a quando il loro comandante non dà il via alla carica, ovvero alla “occupazione del territorio” e allora partono i lacrimogeni e, quando non bastano, vengono sfoderati gli sfollagente, usati fino a quando il funzionario non dice “basta!”. Vengono offensivamente indicati come servi. Sono in realtà servitori dello Stato, il medesimo che, attraverso altri funzionari e altri servitori, manda, per fare un esempio, indirizzate direttamente a loro le lettere di sfratto, coatta esecuzione della volontà statale che tante volte hanno avuto il compito di supportare e coordinare. Sono servitori addestrati a mostrare il muso duro verso protestanti, manifestanti, sfrattati e tifosi ma che devono remissivamente sottostare agli ordini dei diretti superiori, chiunque essi siano e qualsiasi decisione prendano. Costretti a difendersi in aula quando perdono le staffe e a vedere, inermi, i funzionari giudiziariamente illesi per decisioni sbagliate che hanno portato, magari, conseguenze disastrose. La domanda da porsi non è relativa alla presenza o meno di rabbia e frustrazione, ma semplicemente quando e verso chi verrà incanalata.

L‘Italia, per i fatti accaduti alla scuola Diaz di Genova e alla caserma di Bolzaneto è stata condannata prima perché si trattava di tortura e poi perché ritardava l’adeguamento delle leggi. E ciò è di una tale gravità da far rabbrividire. Non si sta parlando di raptus, di errore strategico, di impulsività… no, si parla di tortura. Qualsiasi forma di coercizione fisica o mentale non inferta allo scopo di ottenere una confessione o informazioni va intesa come violenza, sevizia, crudeltà fine a se stessa dettata solo dalla brutalità. Azioni che, per essere poste in essere, necessitano di un addestramento, di sangue freddo e anche di un certo macabro auto-controllo derivante da una formazione militare o paramilitare oppure da devianze psichiatriche.

Vincenzo Canterini, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile romano, nel quale era inquadrato il VII Nucleo Sperimentale antisommossa guidato da Michelangelo Fournier che irruppe nella scuola Diaz, nel libro Diaz, scritto con Simone Di Meo e Marco Chiocci (Imprimatur, 2012), racconta la sua verità sulla sanguinosa notte di Genova.

«La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti.»

In un’intervista rilasciata per altraeconomia.it, Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano nazionale e cofondatore del Comitato Verità e Giustizia per Genova, testimone e vittima dei fatti della Diaz, ribatte, punto per punto, le dichiarazioni di Franco Gabrielli, oggi capo della Polizia, all’epoca dirigente della Digos di Roma. Partendo proprio dalle scuse che non sono mai arrivate… «come le ragioni chiare per le quali si vorrebbe chiedere scusa: Per i pestaggi alla Diaz? Per i falsi realizzati dopo l’irruzione? Per la violazione di numerosi articoli del codice penale e della Costituzione? Per averne impunemente ostacolato i processi, come riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Per le mancate rimozioni e sanzioni disciplinari dei responsabili delle violenze?»

Nel luglio del 2015 sono diventate definitive le condanne ai 25 poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz al termine del G8 di Genova del luglio 2001. Tutti condannati in Cassazione per falso aggravato in relazione ai verbali di perquisizione e arresto a carico dei manifestanti. L’unica imputazione sopravvissuta alla prescrizione dopo i trascorsi 11 anni. Pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni anche per alcuni degli alti gradi inflitta nel 2012:

  • Giovanni Luperi (capo del Dipartimento analisi dell’Aisi).

  • Franco Gratteri (capo della Direzione centrale anticrimine).

  • Gilberto Caldarozzi (capo del Servizio centrale operativo).

Tutti condannati a risarcire le parti civili ma nessuno che abbia mai veramente rischiato di finire in carcere, complice anche lo sconto di tre anni all’indulto approvato nel 2006. Diverse le prescrizioni che sono cosa ben diversa da un’assoluzione.

A luglio 2017 per chi non era potuto andare in pensione si prospettava la concreta possibilità di rientrare in servizio.

L’11 settembre 2017 il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nomina vice direttore tecnico operativo della Direzione investigativa antimafia Gilberto Caldarozzi. Pietro Troiani, il poliziotto accusato di aver introdotto nella scuola Diaz due bottiglie incendiarie tipo Molotov, già vicequestore avrebbe ricevuto anche l’incarico di dirigente del Centro operativo autostradale di Roma con competenza su tutto il Lazio.

Michelangelo Fournier prontamente ha tenuto a replicare alle affermazioni di Marco Travaglio allorquando il direttore de Il Fatto quotidiano avrebbe affermato che Fournier «dopo la prima condanna a 4 anni e 2 mesi ascese al vertice della Direzione Centrale Antidroga». La condanna di Fournier era solo di 2 anni e non di 4 ma, per il resto, Travaglio resta sulle sue posizioni specificando che «fare carriera non significa necessariamente ottenere promozioni e premi: per chi partecipò all’assalto alla Diaz, anche se alla fine sembrò pentirsene, già il fatto di seguitare a ricoprire ruoli di responsabilità nella Polizia di Stato dopo quello che era accaduto, e addirittura dopo essere stato condannato per lesioni personali continuate, mi pare sufficiente per dire che ha fatto carriera».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sempre in merito alle promozioni, in particolare quella di Caldarozzi, ipotizza uno sviluppo differente se in Italia ci fosse stata per tempo e da tempo un’adeguata legge sulla tortura. Mentre Enrica Bartesaghi, già presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova istituito a sostegno «delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero», ormai sciolto e madre di Sara, tra le vittime della Diaz, scrive parole che rappresentano invece esattamente lo scenario che è stato.

«In questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova»

I manifestanti avevano il diritto di protestare? Di sfilare in corteo per dimostrare la loro opinione, contraria, alle decisioni dei grandi della Terra? Avevano il diritto di alloggiare in quella scuola trasformata per l’occasione in dormitorio? I celerini avevano il diritto di manganellare a destra e a manca fino all’alt del funzionario incaricato di dare il comando? I poliziotti hanno il diritto di fabbricare prove mancanti? Di dichiarare il falso? Di trascriverlo nei verbali? I funzionari hanno il diritto di impartire determinati ordini incuranti delle conseguenze? Se viene dimostrato l’errore nella catena di comando quanto è importante che corrisponda un’adeguata punizione in un paese che si dichiara democratico? Se il vertice non viene punito perché dovrebbe esserlo chi ha solamente eseguito degli ordini? Se il vertice non era a conoscenza perché questi ‘picchiatori’ selvaggi e ‘torturatori’ non sono stati fermati?

Al G8 i manifestanti riunitisi come Genova Social Forum volevano partecipare a cortei e manifestazioni lungo le strade della città che ospitava i grandi della Terra proprio in quei giorni, presumibilmente, perché volevano approfittare dell’interesse mediatico elevato per l’occasione. La Costituzione italiana è a favore della libera manifestazione delle proprie idee. Se i Capi di Stato e di Governo devono riunirsi in sontuose location per prendere decisioni che poi, inevitabilmente, ricadranno sui popoli, i cittadini che vanno a comporre quelle popolazioni hanno e devono avere a loro volta il diritto di di riunirsi e manifestare le proprie personali opinioni. Il dispiegamento di forze dell’ordine impiegato per proteggere le celebrities dovrebbe essere dispiegato anche per proteggere la popolazione, i cittadini, siano essi manifestanti oppure no.

I poliziotti vengono chiamati in causa per motivi diversi. Viene detto loro di entrare in azione per arginare la violenza. Devono essere pronti anche con il minimo preavviso e, quasi sempre, non hanno idea di cosa li aspetta davvero. Tra gli interventi più frequenti richiesti agli agenti della mobile è il servizio d’ordine allo stadio. Le violenze dentro e appena fuori gli stadi sono innumerevoli, spesso gravissime e si riallacciano a dinamiche psicologiche e sociali che poco o nulla hanno a che fare con lo sport e la sportività. Piuttosto legate alla rabbia repressa, alla frustrazione, all’appartenenza a un gruppo e la sottomissione alle sue regole. Violenza estremista e provocazione, come quella dei black bloc, che inevitabilmente finisce con il coinvolgere persone che nulla hanno a che fare con tutto ciò. Momenti in cui il tutto appare ancora più surreale, paradossale, incredibile al punto da lasciare increduli, basiti, scioccati tutti… in un primo momento, poi l’indifferenza ritorna a farla da padrona. Ma non per le vittime, non per i carnefici, non per coloro che nuovamente in quel delirio vengono chiamati a ‘combattere’.

«Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono». (Bertolt Brecht)

Articolo originale qui

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Disclosure: Copyright prima immagine galleria per La storia della tortura www.focus.it

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I rischi della vita in “Incerti posti” di Marco Montemarano (Morellini, 2017)

27 lunedì Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Europa, Incertiposti, Italia, italiani, MarcoMontemarano, MorelliniEditore, recensione, romanzo

L’incertezza è un rischio perché per agire devi essere impavido, come un ginnasta o un circense che si lanciano nel vuoto senza avere una rete di protezione pronto ad accoglierli e trattenerli se qualcosa dovesse andare storto. Ma la vita è sempre un’incertezza e quindi un rischio. Come lo sono i protagonisti del libro di Montemarano e i luoghi dove le loro storie si snodano e si annidano dentro cubi di cemento che possono essere al contempo nidi e trappole.

Periferia. Questa è la geolocalizzazione scelta da Marco Monterano a fare da sfondo alle vicende di Matteo e sua sorella, di Antonio e sua madre, di Bernardo e dei bulli di Zeppetella… scorci di vita strappati al cemento dei cubi di mattoni, dei muri infiniti, delle strutture fatiscenti e abbandonate che determinano paesaggi desolanti e prospettive incerte. Come la vita. Come il futuro. Come il passato.

E sono proprio i ricordi confusi che tormentano Matteo e Arianna, flash di una vita vissuta che sembra immaginata e sogni che sono incubi ma sembrano veri, reali.

In libreria da settembre 2017, Incerti posti di Marco Montemarano, edito da Morellini, è una conferma del carattere letterario dell’autore, del suo personale stile di scrittura, della sua voglia di non limitarsi a inventare delle storie ma raccontare i fatti della vita e farli entrare nella mente del lettore. Per conoscere. Per capire. Per dare in qualche modo giustizia a vittime di episodi di cronaca passati quasi in sordina o comunque presto dimenticati.

Si ritrova nel testo di Montemarano anche il dualismo tra Sud e Nord, inteso però come la parte settentrionale dell’Europa, non solo dell’Italia. Mentre il meridione è ‘egregiamente’ rappresentato dalla periferia romana e dai suoi abitanti. Un sottile e pungente resoconto della società, che è una realtà di molti luoghi e città italiane, e che può essere spiegata parafrasando le riflessioni del protagonista, Antonio, sulla madre del suo amico Bernardo.

«La signora vedeva suo figlio circondato da ombre e non capiva che Bernardo l’ombra ce l’aveva dentro»

Un libro, Incerti posti, che racconta del malessere più intimo e personale come delle difficoltà lavorative, dello sfruttamento sessuale di una giovane donna e di quello professionale, dell’amore e dell’odio, dei segreti e delle verità che si preferisce fingere di non vedere o capire anche quando appaiono troppo palesi per poterle ancora nascondere… eppure lo fa con uno stile narrativo semplice, senza presunzioni di sorta, anche quando racconta di fatti tragici, drammatici o violenti lo fa come un semplice ma chiaro reportage. Sarà poi compito del lettore riflettere sul narrato e trarne le dovute conclusioni.

Una narrazione che coinvolge il lettore come già accaduto leggendo gli altri libri di Marco Montemarano, una scrittura per passione che cattura il lettore e lo ‘costringe’ a riflettere sui mali della vita e sulle sue incertezze. Incerti posti, un libro da leggere.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Morellini Editore per la disponibilità e il materiale

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Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Perrone Editore, 2017)

04 lunedì Set 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DaniloChirico, GiulioPerroneEditore, Italia, italiani, mafia, MarcoCarta, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, UNDER

Se lo Stato produce «leggi che fanno la guerra ai poveri (non alle ragioni della povertà) delle nostre città» diventa doveroso e necessario «un radicale cambio del punto di osservazione sulla società». Così i curatori del testo Under. Giovani mafie periferie, edito a maggio 2017 da Giulio Perrone Editore, Danilo Chirico e Marco Carta, hanno fatto una vera e propria «immersione nelle periferie e nella povertà», in quello che è a tutti gli effetti «il tema di questa Italia» ma di cui «nessuno sembra volersi occupare», o almeno di farlo in maniera seria e concreta. Hanno fatto «un tuffo nel passato» scoprendo che «le cronache di questi mesi (con i commenti, gli allarmi, le preoccupazioni, le polemiche) sono le stesse di dieci o venti anni fa», ovvero che «per dieci o venti anni nessuno ha mosso un dito».

Lo scopo dichiarato del libro è «promuovere una discussione pubblica il più possibile larga» per illuminare problematiche e criticità, formulare strade alternative da percorrere, irrompere nella politica affinché cambi «linguaggio, priorità e modalità» e metta fine alla «colpevolizzazione dei poveri e degli emarginati con la scusa del decoro».

UNDER si compone di vari contributi legati tra loro dalla ferma volontà di illuminare «il senso di abbandono di chi vive ai margini della città contemporanea», quartieri dormitorio privi di spazi aggregativi in cui «i centri commerciali, spiega il sociologo Massimo Ilardi, sono diventati le nuove piazze, supplendo ai vuoti spaventosi di intervento pubblico». Buchi di presenza e assistenza che hanno contribuito a trasformare velocemente le periferie in «ghetti in mano alla criminalità organizzata». È necessario «offrire alternative al welfare delle mafie» e questo non può più essere un dovere che lo Stato continua a scaricare su associazioni e singoli privati.

Stando ai dati diffusi dal rapporto Disordiniamo del Garante per l’Infanzia, «l’Italia spende per bambini e famiglie l’1,3% del Pil, rispetto all’11% della Germania, per fare un esempio comparativo e indicativo». Non si può certo affermare che si sta facendo il massimo. I margini di miglioramento sono notevoli considerando anche che attualmente «le risorse vengono impiegate soprattutto sotto forma di trasferimento di denaro». Programmi strutturali e strutturati, progetti e obiettivi ad ampio raggio e duraturi nel tempo potrebbero, magari, dare risultati migliori. A parole, tutti affermano di voler investire nella scuola e nella cultura. Anche la ministra Fedeli lo fa nell’intervista riportata nel testo, nella quale viene più volte menzionata Labuonascuola ma l’Italia, stando ai dati Eurostat, «è all’ultimo posto in Ue per percentuale di spesa pubblica destinata all’educazione e al penultimo posto per quella destinata alla cultura».

Così, anche se la stessa ministra mette le mani avanti quando afferma che «non sempre è possibile percepire subito i risultati delle azioni che vengono messe in campo. Soprattutto in ambito scolastico», non si può non chiedersi quanto siano invece necessari provvedimenti più incisivi che evitino alle nuove generazioni di restare costantemente indietro rispetto ai loro coetanei europei e mondiali. Intere generazioni sempre più affascinate dal mondo criminale nel quale non occorre studiare e lavorare, pagare tasse e contributi, dove a vincere è il più scaltro e basta “poco” per riempire il portafogli. Dove le «carriere crescono all’ombra di uno ‘stupore di maniera’ di fronte ai casi di cronaca più sensazionali», quelli su cui né la stampa né il pubblico può tacere fingendo di non sapere che «non si può costruire un paese civile se si rinuncia a una seria cultura antropologica della criminalità minorile».

Il sistema mafioso è una sanguisuga, se smetti di nutrirlo va altrove oppure si indebolisce. Se invece ci scendi a compromesso, se accetti la spartizione non solo contribuisci a rafforzarlo ma ne diventi a tutti gli effetti una pedina, una componente, anche se mafioso non ti ritieni e preferisci essere etichettato come onorevole, professionista, impiegato, politico, cittadino… Nonostante sia tutt’oggi molto diffusa e condivisa l’opinione dei «negazionisti delle mafie», i quali forse preferiscono pensare e lasciar credere che il fenomeno sia ancora legato e circoscritto a determinati territori e figuri che cinema e televisione hanno stereotipato alla stregua di ‘maschere’ senza tempo. La mafia si è evoluta e diffusa e quella visibile tra i giovani delle periferie non è che una soltanto delle sue evoluzioni.

Cesare Moreno della onlus Maestri di strada afferma di non avere paura della mafia, «perché mi confronto tutti i giorni con questo ambiente». A spaventarlo invece è «questa società che non crede in se stessa e non ha nulla da dire ai giovani». Uno Stato che, nonostante gli slogan e le belle parole, sembra aver abbondantemente gettato la spugna. Nella provincia di Reggio Calabria ben 81 comuni, su un totale di 83, «non hanno i servizi sociali». Così, in terra di ‘ndrangheta, «si è abbandonata completamente un’idea di sociale» e la lotta al crimine organizzato «è affidata soltanto a magistrati, poliziotti, esercito». Una «lotta a metà, quindi inefficace per definizione». Sempre attuali le parole di Platone che vedeva «la giustizia giusta esistere solo in un paese giusto».

Sottolinea Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione con il Sud, come «è del tutto evidente che parlare di sviluppo economico immaginando di applicare il solito paradigma del prima lo sviluppo e la crescita, poi il welfare è una pericolosa stupidaggine» non solo per le periferie geografiche ma anche per quelle sociali. Affinché ci sia «sviluppo ci deve essere essere coesione sociale», altrimenti è più facile ci siano solo squilibri e sfruttamento.

A Roma, a Ponte di Nona, con «il piano di riqualificazione realizzato nell’ambito del progetto Punti Verdi Qualità» i cittadini «si sono ritrovati una gigantesca sala slot inaugurata nel 2009 mentre l’asilo è rimasto chiuso». Una città, la capitale, dove «si contano oltre 50.000 slot machine» in uno stato, l’Italia, che vieta il gioco d’azzardo. Che afferma di vietarlo in base alla normativa vigente.

Le politiche di austerity hanno «indebolito la continuità degli interventi sociali», piegando anche «la necessità dei più deboli alla logica del massimo ribasso». Incisivo l’intervento di Marco Carta su una città schiacciata «sotto il mondo di mezzo» dove sembra si operano scelte e interventi «come se un bambino da recuperare fosse una buca da riempire».

Più volte, leggendo Under. Giovani mafie periferie, ci si chiede come si fa, in terra di mafia, a scegliere liberamente. La verità è che non si può dove manca uno Stato a fornire gli strumenti necessari per poterlo fare. Perché, è inutile negarlo, è proprio laddove lo Stato arretra sulle proprie responsabilità che le organizzazioni criminali riescono ad avanzare e a radicare il controllo del territorio, che per loro è fondamentale. Il sistema mafioso «ha tante porte che qualcuno avrebbe il dovere di chiudere». Le famiglie, certo. La scuola, anche. Ma è dallo Stato e da tutte le sue istituzioni che deve partire la spinta più potente. Che dovrebbe partire. Non serve additare il fenomeno come peculiare delle regioni del Sud. Non è bastato in passato per evitare che la mafia si espandesse anche oltre i confini di stato e non servirà neanche ora a salvare i giovani e le periferie, geografiche e sociali.

 

E se è vero che «le mafie si combattono anche con la cultura e con la coscienza collettiva» lo è di sicuro che il popolo tutto deve ‘combattere’ la latitanza dello Stato nelle periferie come nei centri, per le strade come nei palazzi, nei discorsi come sulla carta… affinché nessun cittadino sia costretto a chiedersi «da che parte sta la legge». Mai.

Under. Giovani mafie periferie curato da Danilo Chirico e Marco Carta è una miscellanea di contributi di numerosi autori che risulta al lettore molto interessante spaziando dal racconto di testimonianze dirette a fatti, da resoconti di dati e statistiche a progetti attuati o da attuare. Un libro che si spinge oltre le intenzioni dei curatori, ovvero la spinta ad aprire “una discussione pubblica il più possibile larga”, perché lo ‘squarcio’ che apre in chi lo legge è più profondo e non riguarda solo l’esterno, il relazionarsi con gli altri, ma anche con se stessi.

Danilo Chirico: Nato a Reggio Calabria, vive e lavora a Roma. Giornalista, scrittore e autore televisivo. Ha scritto e curato diversi libri sulle mafie. È presidente dell’Associazione antimafie daSud.

Marco Carta: Giornalista romano impegnato a far conoscere e indagare ‘il lato oscuro’ della capitale.

In Under. Giovani mafie periferie sono presenti articoli e/o contributi di: Lorenzo Misuraca, Angela Iantosca, Andrea Meccia, Lara Facondi, Gianluca Palma, Carmen Vogani, Daniela Valdacca, Jessica Niglio, Amalia de Simone, Bruno Palermo, Dario Antonini, Zeno Gaiaschi, Sara Troglio.

Source: Si ringraziano Giulia Martiradonna e la Bookmedia Events per la disponibilità e il materiale.

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“L’Ammerikano” di Pietro de Sarlo: un libro sui contrasti (Europa Edizioni, 2016)

08 giovedì Giu 2017

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America, Basilicata, Europa, EuropaEdizioni, Italia, italiani, LAmmerikano, oronero, petrolio, PietrodeSarlo, recensione, romanzo

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È lo stesso autore, nella prefazione al libro, a indicarlo come fondato sui contrasti: «tra epoche diverse, diverse aree del mondo e soprattutto tra il solitario e doloroso percorso di vita del protagonista, l’Ammerikano, e la storia del suo antagonista, Vincenzo».

Un libro che in origine ne sembrano due, le cui storie e vite solo in apparenza separate pian piano si tessono e si intrecciano come una trama (accattivante) e un ordito (fitto), il tutto scritto con un registro narrativo interessante. In più occasioni sembra che l’autore si rivolga direttamente al lettore attraendolo nella storia, nelle vicende narrate.

L’Ammerikano di Pietro de Sarlo è un libro a cavallo tra un romanzo-commedia e un giallo che, raccontando una storia immaginaria, descrive innumerevoli sfaccettature di vite reali o possibili. Un libro pensato per i coetanei dell’autore costretti a lasciare la propria terra di origine come i loro padri e nonni, motivati dalla «speranza di una vita migliore per i propri figli». Una narrazione che dà adito a riflessioni amare, ma vere, sulla situazione politica ed economica della Basilicata, che rispecchia e riflette quella del Sud e dell’Italia intera.

La Basilicata da una parte, con il «sogno texano della regione e dei suoi abitanti» ben presto tradottosi «nell’incubo nigeriano dello sfruttamento petrolifero», e l’America dall’altra, con tutta la potenza del suo mainstream che ha contagiato l’intero pianeta e in grado di convincere tutti e ognuno che qualsiasi cosa o persona proviene da lì sia inopinabile e quasi magica. Due universi talmente opposti che, alla fine e paradossalmente, finiscono per somigliarsi. Ben rappresentati e delineati dall’autore a cui va riconosciuto anche il merito di aver creato, con i suoi personaggi, i ‘tipi’ perfetti per l’ambientazione e le scene narrative e di aver raccontato le loro storie con uno stile di scrittura piacevole e scorrevole, infarcito di termini dialettali che se da un lato potrebbero rallentare la lettura e scoraggiare i lettori non meridionali dall’altro la rendono a questi ancor più gradevole.

Un buon libro, L’Ammerikano di Pietro de Sarlo. Un testo che racconta una storia originale e curata nei dettagli. Leggera e a tratti divertente ma che consente lo stesso all’autore di immettervi considerazioni, anche importanti, sullo stato di degrado e abbandono della propria terra natia, sull’emigrazione e l’immigrazione, la politica e la cultura della società non solo lucana e, di rimando, invoglia il lettore a riflettere, regalandogli così non solo una bella storia da leggere e raccontare ma un’eredità di riflessioni da portare avanti.

Pietro De Sarlo, sessantenne lucano, laureato in ingegneria ha sviluppato una importante carriera manageriale nei principali gruppi italiani e esteri operanti in Italia. è autore di numerosi articoli di economia e politica su alcune testate on line come Basilicata24, Economia Italiana, Scenari Economici e Il Giornale Lucano. Già fondatore dell’associazione Pinguini Lucani ha pubblicato, nel 2010, un saggio (Si può Fare!) sull’emergenza economica e ambientale derivante dalle estrazioni petrolifere e sulle possibilità di sviluppo economico e sociale della Lucania.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016)

12 venerdì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Uscito in prima edizione ad aprile 2016 per Editori Laterza, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna è un saggio tascabile di poco oltre centocinquanta pagine sui «radicalismi emergenti, tra gli immigrati e contro gli immigrati».

Un libro che è un valido «strumento di lettura e di orientamento», utile a fornire «chiavi interpretative» prive di pregiudizi ideologici per una questione che ha «radici profonde nella storia» e di cui gli autori si interessano sistemicamente. Ciò ha consentito loro di evitare l’inseguimento delle notizie di stretta attualità e mantenere un approccio meno semplicistico al fenomeno, riuscendo così a raccontare al lettore «alcune prospettive di questa storia grandiosa, piena di speranze e soddisfazioni, ma anche delusioni e sofferenze».

Una vicenda che ha visto un paese come l’Italia «che si credeva monoculturale e in passato di emigrazione» trasformarsi, nel giro di un paio di generazioni, «in un grande porto di mare» e un popolo, quello italiano, che nella necessità del confronto con l’altro, con il “diverso”, si vede costretto a fare i conti con la propria identità. Una condizione di mutamento continuo, dove «anche i nativi vengono in qualche modo modificati dall’interazione con i migranti», esattamente come questi subiscono la metamorfosi del cambiamento e così «da questi incontri nasce una popolazione nuova». Diventa a questo punto necessario «adattare la nostra società e – prima ancora – la nostra mentalità, per vivere al meglio questo grandioso mutamento».

Nel caos degli allarmismi di informazione e politica il testo di Allievi e Dalla Zuanna viene positivamente accolto come una lettura che invita alla calma e alla conoscenza riguardo un fenomeno che è sempre esistito e che ruota intorno a tre “semplici” parole: «necessità, selezione, integrazione».

Utile doveroso e necessario anche l’aver ricordato in Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione che il censimento del 1881 rivelò che metà dei milanesi non erano nati a Milano e che nel primo secolo di Unità nazionale (1861 – 1961), almeno 25milioni di italiani hanno lasciato l’Italia, «quasi 700 al giorno».

L’impegno degli autori è stato profuso non solo nel racconto dettagliato di ciò che i fatti storici avrebbero dovuto insegnarci e il cui apprendimento sotto un ottica diversa avrebbe potuto meglio preparare la società attuale ad affrontare la “crisi migratoria” in atto, ma anche nell’analisi dei dati, nella formulazione di pacate ipotesi risolutive nonché per sfatare i luoghi comuni che sembrano sempre più radicalizzati e strumentalizzati per creare un clima di diffidenza e paura.

  • Gli stranieri rubano il lavoro agli italiani.

  • Gli stranieri frenano lo sviluppo dell’Italia.

  • Tra gli stranieri c’è un’elevata percentuale di criminali.

Gli economisti mostrano e dimostrano che, in Italia come in altri Paesi “ricchi”, i nuovi flussi migratori «hanno causato la crescita dei salari dei nativi, favorendo nel contempo la compressione dei salari degli stranieri» già presenti da tempo sul territorio. Sul mercato del lavoro «gli immigrati sono complementari piuttosto che concorrenti degli italiani». Sono loro per la gran parte ad accollarsi l’onere di svolgere mansioni dirty, dangerous and demeaning (sporche, pericolose e umilianti) e la loro “disponibilità” allo svolgimento dei ddd jobs ha di fatto «permesso agli italiani di concentrarsi sui lavori meglio retribuiti, meno faticosi e più prestigiosi». Ma ha anche, in concreto, spinto «verso mansioni meglio retribuite i lavoratori italiani non qualificati». Per contro «polacche, ucraine, filippine, peruviane, moldave e rumene» sono le più penalizzate, costrette per necessità «a svolgere un lavoro poco qualificato rispetto al titolo di studio conseguito e alle competenze professionali acquisite».

I motivi alla base della mancanza di lavoro, della diffusa disoccupazione, anche giovanile, e dei bassi livelli di crescita dell’Italia vanno invece ricercati nelle «forti barriere all’ingresso delle professioni», negli «oligopoli e cartelli fra le imprese (spesso tutelati dal sistema politico)», nella tendenza a «preservare strenuamente il posto di lavoro piuttosto che a proteggere il lavoratore».

Leggi anche – Primo Maggio: Festa dei lavoratori o del lavoro?

Allievi e Dalla Zuanna sottolineano con fermezza il destino di declino cui andrà inesorabilmente incontro il nostro Paese «se non inizierà a prendere di petto questi problemi». Paesi come la Germania, il Regno Unito e gli Usa negli ultimi venti anni «sono cresciuti molto più di noi pur condividendo i nostri alti tassi immigratori». Mentre paesi come il Giappone «sono cresciuti poco anche se continuano a tenere blindate le loro frontiere». Ne conviene quindi che «alti tassi di immigrazione possono convivere con alti tassi di sviluppo».

Non è tanto la condizione di straniero in sé a essere determinante nel delinquere quanto «quella di marginale». È «la povertà materiale, di risorse sociale e di capitale culturale» a giocare un ruolo decisivo. Leggendo i dati del Dossier Statistico Immigrazione 2015 del Centro Studi e Ricerche IDOS, che gli autori riportano nel testo, si apprende che le denunce contro italiani sono in aumento del 28% mentre quelle verso stranieri sono in calo del 6,2% e che il 17% di queste riguarda violazioni della normativa di soggiorno.

Inoltre non bisogna dimenticare che «gli stranieri non sono solo soggetto, sono anche oggetto di devianza e vittime di criminalità». Dettagliato il resoconto che fanno Allievi e Dalla Zuanna su traffico di manodopera, tratta, sfruttamento, caporalato, violenza, truffa… insomma su tutte le «forme di criminalità legate al business sugli immigrati e all’accoglienza», ricordando anche il recente scandalo etichettato da media e magistratura Mafia Capitale.

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Gli autori sottolineano come la questione dei profughi, al pari dell’immigrazione, non è un’emergenza ma «un dato strutturale del mondo globale» e come tale va affrontata.

  • Con strategie, non con parole d’ordine.

  • Con politiche, non con slogan.

  • Con pragmatismo, non con precomprensioni ideologiche.

A livello europeo, a livello nazionale e locale, nella scuola… evitando strumentalizzazioni e multiculturalismi improvvisati che sono speculari all’identitarismo grossolano.

I rifugiati sono dei testimoni della storia e delle volte portano con sé «il destino, la coscienza e il desiderio di riscatto di un intero paese». Viene riportato l’esempio di un esule italiano antifascista in Francia che, dopo aver lavorato come muratore, è rientrato in Italia e diventato successivamente il settimo Presidente della Repubblica. Sandro Pertini.

I migranti economici si muovono per ragioni in parte differenti dai rifugiati politici ma la loro storia merita egualmente di essere scritta con l’inchiostro della civiltà, dell’umanità e del rispetto, tenendo sempre a mente le tre “semplici” parole che ricorrono nelle storie migratorie.

  • Necessità.

  • Selezione.

  • Integrazione.

Tre termini che custodiscono il mondo che è stato e al contempo mostrano quello che sarà. Perché il cambiamento è «la chiave di lettura principale, da assumere e da sostanziare con contenuti seri» se l’intenzione è «capire cosa sta succedendo, tra le comunità islamiche presenti in Europa e nelle società che le ospitano». E questo naturalmente è un discorso valido per tutte le comunità, non solo quelle islamiche.

Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna si rivela una lettura molto interessante. Si tratta di un saggio breve ben articolato e con un’ottima struttura narrativa in grado di presentare al lettore una panoramica di ampio raggio sul fenomeno delle migrazioni e indurlo in profonde riflessioni sulla società, attuale e passata, su quelli che devono o dovrebbero esserne i principi fondativi (l’inalienabilità dei diritti e l’universalità della loro applicazione), sulle politiche e sull’informazione globalizzate ma neanche poi tanto, sui concetti per niente astratti di inclusione e divisione. Un libro che merita senza dubbio alcuno di essere letto.

Stefano Allievi: è professore di Sociologia e direttore del Master sull’Islam in Europa presso l’Università di Padova.

Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso.

Gianpiero Dalla Zuanna: è professore di Demografia presso l’Università di Padova.

Ha studiato il problema dell’equilibrio demografico nazionale e internazionale e l’integrazione delle seconde generazioni nella società italiana.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Editori Laterza per la disponibilità e il materiale.

Disclousure: Fonte biografia autori quarta di copertina.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Italia: Tortura, G8, Diaz, Bolzaneto. La condanna della Corte europea e l’iter infinito di una legge che tarda ad arrivare

10 lunedì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

 

Sono trascorsi quasi 16 anni dall’irruzione nella scuola Diaz da parte della Polizia a Genova e dal trasferimento nella caserma di Bolzaneto, 2 dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo ma la legge italiana sul reato di tortura non è stata ancora approvata in via definitiva.

La notte del 21 luglio 2001 in conseguenza degli scontri avvenuti durante tutto il giorno a Genova la Polizia fece irruzione nella scuola Diaz giustificando il gesto come una «perquisizione ad iniziativa autonoma» compiuta allo scopo di cercare armi e black bloc. I testimoni hanno raccontato tutt’altra versione, parlando di «cosa indegna in un sistema democratico». In tutti questi anni tanto è stato detto raccontato e denunciato ma ogni cosa sembra essersi arrestata dinanzi al muro di gomma dell’inadeguatezza delle leggi italiane che non hanno consentito equi processi in primis perché gli agenti, a viso coperto, erano sprovvisti di numero identificativo e secondo poi perché anche chi è stato processato non ha scontato alcuna pena per decorrenza dei termini. In un Paese democratico ciò non sarebbe mai dovuto accadere.

Il fatto poi che solo oggi, dopo quasi 16 anni, il governo riconosca pubblicamente che «durante il G8 di Genova sono stati commessi abusi e violenze contro i manifestanti» mentre ancora la legge sul reato di tortura rimbalza tra le due Camere sembra quasi una beffa, oltre al danno che innegabilmente c’è stato.

Il Guardasigilli Orlando ha dichiarato nei giorni scorsi, in merito ai tempi di approvazione del ddl, «siamo nella fase degli emendamenti, finalmente mi pare che ci sia la corsa libera in Senato per arrivare in fondo», sottolineando che «il ministro Finocchiaro è al lavoro su questo fronte e credo che potremmo adempiere a un impegno che a questo punto non è soltanto di carattere generale ma anche specifico su quella vicenda».

La relativizzazione alla vicenda della scuola Diaz è certamente doverosa ma un’adeguata legge sul reato di tortura è e sarebbe stata comunque necessaria, anche se quanto accaduto la notte del 21 luglio 2001 non fosse mai successo.

Nel nuovo testo di legge vengono introdotti anche i termini «reiterate violenze», l’agire «con crudeltà» e il «verificabile trauma psichico». Contestualizzazioni che possono far scattare la pena a dieci anni. Sulle violazioni commesse da esponenti delle forze dell’ordine invece si fa un passo indietro e i 15 anni proposti dalla Camera vengono di fatto annullati dall’emendamento approvato in Senato secondo cui «se tali fatti sono commessi da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni o da un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio del servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni». Sfatando così ancora una volta il mito che funzionari amministratori e governanti pubblici devono rappresentare il corretto esempio ed esemplare deve o meglio dovrebbe essere la pena per coloro che violano la legge, trasgrediscono o commettono reato mentre svolgono e ricoprono il loro incarico ufficiale e pubblico. Se poi parliamo di ‘pubblica sicurezza’ ecco riaffacciarsi l’ombra della beffa che grava su questa come su troppe altre vicende.

Gravissima l’accusa rivolta dai giudici di Strasburgo all’Italia, rea di «aver sottoposto ad atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti» le persone condotte nella caserma di Bolzaneto sempre in quella tragica notte del luglio 2001 e di «non aver condotto un’inchiesta penale efficace» complice anche la mancanza di un’adeguata legge sul reato di tortura. Ragazzi e ragazze tra i 18 e i 28 anni subirono insulti e minacce sessuali, furono costretti a denudarsi davanti ai poliziotti, nelle loro celle furono spruzzati gas orticanti, un testimone-vittima affermò di essere stato costretto a inginocchiarsi e abbaiare. Viene da chiedersi cosa esattamente pensavano di ottenere gli agenti che  hanno messo in scena questo squallido teatrino dell’orrore e della perversione. Loro che sono i fautori dell’ordine pubblico quale assetto di civiltà e giustizia intendevano raggiungere?

Con 6 dei 65 cittadini, italiani e stranieri, ricorrenti è stata firmata, lo scorso 7 aprile, una «risoluzione amichevole» in base alla quale il governo italiano si impegna a colmare la lacuna legislativa e predisporre corsi di formazione specifici «sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine», e risarcire ciascuna vittima con «45mila euro per danni morali e materiali e per le spese processuali». L’Italia quindi 16 anni dopo ammette le proprie responsabilità ma non può riconoscere che è stata tortura perché ancora non esiste una legge per questo tipo di reato.

In un articolo scritto nel 2011, in occasione dei dieci anni dai fatti del G8 di Genova, Amnesty International evidenziava i ritardi e gli errori del governo italiano, iniziati ancor prima che il vertice dei ‘grandi’ avesse luogo. Due giorni prima che «oltre 200.000 persone si ritrovassero a Genova per protestare contro il vertice del G8» Amnesty International «chiedeva alle autorità italiane di proteggere i manifestanti, garantendo un uso legittimo della forza da parte degli agenti della polizia». Un appello rimasto evidentemente inascoltato visto che tra il 19 e il 22 luglio del 2001 «Genova divenne teatro di aggressioni indiscriminate da parte degli agenti di polizia verso manifestanti pacifici e giornalisti durante i cortei, violenze ingiustificate nel raid alla scuola Diaz, arresti arbitrari e maltrattamenti nel carcere provvisorio di Bolzaneto». Amnesty  cita minacce «di stupro e di morte, schiaffi, calci, pugni, privazione del cibo, dell’acqua, del sonno e posizioni forzate per tempi prolungati».

Ad aggravare ulteriormente un quadro drammatico e sconcertante è il fatto che nei 10 anni intercorsi dai fatti di Genova all’articolo di Amnesty International «altri episodi hanno chiamato in causa la responsabilità dei corpi di polizia per l’uso delle armi e della forza»:

  • La morte di Federico Aldrovandi durante un fermo (2005).
  • La morte di Gabriele Sandri, raggiunto da un colpo di pistola sparato da un agente della stradale (2007).
  • La morte in custodia di Aldo Bianzino (2007), Giuseppe Uva (2008) e Stefano Cucchi (2009).
  • L’aggressione e gli insulti razzisti denunciati da Emmanuel Bonsu, fermato da agenti della municipale (2008).

La speranza o forse l’ingenuità nel voler credere che siano gli unici.

«Le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani. Perché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza».

Che sia sempre chiaro il ruolo degli agenti e dei funzionari delle forze dell’ordine, che l’esistenza e/o la presenza di frange estreme non diventi una giustificazione o la regola per la prevaricazione dei diritti umani di cittadini e manifestanti, compreso il diritto alla esternalizzazione del proprio dissenso. Affinché sia sempre chiaro e definito e mai si superi il confine che porta dalla Polizia di Stato allo Stato di Polizia.

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