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Irma Loredana Galgano

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Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia. Intervista a Pino Aprile

26 giovedì Mag 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Carnefici, intervista, Italia, italiani, Piemme, PinoAprile, saggio

 

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia

Come è nata l’Italia e soprattutto perché? Garibaldi è un eroe nazionale o un mito costruito per giustificare una storia pensata a tavolino? Ne abbiamo parlato in un’intervista con Pino Aprile, autore di Carnefici (Piemme, 2016), un libro con il quale prosegue la sua instancabile volontà di ricostruire una storia più vera e aderente ai fatti di quella raccontata dalla storiografia ufficiale al pari di una bella fiaba studiata per rabbonire ed “educare”.

La storiografia ufficiale ha sempre descritto l’azione dell’esercito sabaudo come la liberazione del Sud dalla dominazione spagnola volta all’unificazione dell’Italia, ma questa è la versione ricostruita in seguito. Cosa è accaduto realmente tra il 1860 e il 1861 nell’attuale Sud-Italia?

Tutte le grandi imprese e la nascita dei Paesi hanno bisogno di quelli che vengono chiamati “miti fondanti”, ovvero delle belle favolette, delle fiabe. Non raccontano la verità. Indicano la direzione del racconto.

La Spagna moderna nasce grazie alle imprese del Cid Campeador, ma questi non è mai esistito. La Svizzera moderna origina dalla sfida di Guglielmo Tell che centra la mela con la balestra, ma è scientificamente provata l’esistenza solo della balestra e della mela, lui non è mai esistito. Il più grande impero, per estensione, della storia dell’umanità, quello sovietico, è nato sul mito della conquista del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo. Ma il palazzo era vuoto, ci sarebbe potuto entrare chiunque.

Noi abbiamo il mito dei Mille di Garibaldi. In realtà questi erano 60.000. Con circa 22.000 soldati piemontesi che figuravano come disertori e colpevoli di aver rubato agli arsenali militari del Piemonte cannoni, esplosivo, armi varie… molti combattevano addirittura con le loro divise, altri con delle decorazioni della guerra di Crimea. Normalmente i disertori vengono fucilati, invece loro vennero ripresi nell’esercito e qualcuno fece anche una bella carriera.

Tutto questo per dire intanto che non c’era nessuno da liberare al Sud perché l’Italia da redimere era quella occupata dagli austriaci, ovvero il Triveneto. Ma al Sud non c’erano gli “spagnoli”, c’erano i meridionali, che non erano meridionali di nessuno. I Borbone erano una dinastia napoletana da 127 anni, parlavano napoletano. In Turchia vige un’espressione: «Storia costruita ufficiale». E, in Italia, viene giustificata la costruzione di questa storia “molto educativa”, affermando che il compito della storia non è di raccontare i fatti ma di servire a creare gli italiani, uno spirito nazionale, unitario.

In Carnefici lei afferma che pochi Paesi hanno fatto uso politico della storia come il nostro. Si riferisce a qualcosa in particolare? Ci sono episodi di vera e propria censura?

Non solo veri e propri casi di censura ma un’intera storia costruita a tavolino, calpestando la realtà concreta degli eventi. Quando pubblicai Terroni (Piemme, 2013) raccontavo di massacri, come quelli di Pontelandolfo e Casalduni. La prima reazione fu il silenzio. In seguito mi accusarono di aver inventato tutto. Va da sé che non è così: i documenti sulla strage di Pontelandolfo sono numerosi; grazie al lavoro extra-accademico svolto da ricercatori volontari fuori dall’Università è diventato uno degli eventi più documentato della storia. La terza reazione fu l’affermare: «Noi lo sapevamo». Allora mi è venuto naturale chiedermi: «E perché non ne avete parlato per un secolo e mezzo?». Quello che fecero i nazisti è niente se confrontato con le azioni dei bersaglieri al Sud.

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia

Non è che noi siamo peggiori degli altri. Con la rivoluzione industriale sorgeva l’esigenza di creare gli Stati nazionali. Ovvero le Nazioni dovevano costituirsi in Stati. Questo avvenne ovunque con un bagno di sangue. Basti pensare alla guerra di secessione degli Stati Uniti che loro, più onesti di noi, non hanno mai etichettato “di liberazione”. Si è trattato di una guerra che ha fatto più vittime statunitensi delle due guerre mondiali. In Francia la Vandea è stata letteralmente rasa al suolo perché contraria alla rivoluzione. Un esercito guidato dal generale Westermann, in poco tempo, sterminò tutti. Però oggi, in Francia, c’è un Istituto di Stato con un’immensa biblioteca e un centro studi che finora ha prodotto 850 volumi sul massacro della Vandea. Dov’è in Italia il centro studi sul genocidio dei meridionali? Sta nascendo fuori dallo Stato. Quello che stiamo facendo in tanti. Una costruzione collettiva di una memoria vera che possa unire e non dividere.

La guerra condotta dall’esercito sabaudo contro l’esercito borbonico durò pochi mesi. Quella combattuta contro i cittadini e i ribelli durò all’incirca dieci anni. Perché di tutto questo non si fa menzione nei testi e nei saggi della storiografia ufficiale?

Ora viene anche detto esplicitamente: la paura che sapere come è stata unita l’Italia potesse distruggere questa costruzione così fragile. L’Italia, a differenza di altri Paesi, è una comunità molto ricca di culture diverse. Può essere relativamente facile dare uno Stato a una Nazione, ma quando devi dare una Nazione a uno Stato dove sono già presenti più Nazioni non hai altra possibilità che eliminarne alcune. È la ragione per cui in Turchia hanno eliminato gli armeni, massacrano i curdi, sono stati eliminati gli assiri di montagna, sterminati i greci dell’Asia Minore. Una sola Nazione si deve prendere lo Stato.

È un’ideologia molto radicata e potente, che ha fatto centinaia di migliaia di morti, nata già sul finire del Settecento ma è l’Ottocento il secolo della sua massima espressione. In Italia, lo Stato più grande dell’epoca, il più solido economicamente, il primo a essersi avviato verso la rivoluzione industriale era il Regno delle due Sicilie. Se i vinti avessero ricordato come al Sud sono state distrutte le fabbriche tra le più grandi d’Italia, il modo in cui sono stati sottratti i depositi d’oro delle banche – che equivarrebbero oggi a un valore nominale pari a 1.500 miliardi di euro –, se qualcuno ricorda tutto questo prende un’arma e protesta. E così è stato fatto per anni, al Sud. Perciò l’unico rimedio era l’amnesia. Sterminare chi voleva ricordare e chiedere di render conto, e far dimenticare agli altri. E questo è stato fatto.

«L’Italia è un Paese nato sulla menzogna e sull’assassinio della verità». Lo diceva Sciascia, non Pino Aprile.

Il Sud è stato annesso o conquistato?

Lo dicevano loro: «Il Sud è stato annesso e conquistato, non unificato». Tant’è che un parlamentare siciliano, Giuseppe Bruno, nel 1861 in Parlamento protesta contro i giornali e gli stessi colleghi parlamentari del Nord e afferma: «Onorevoli colleghi basta parlare di province conquistate, il Paese è stato unito! Siamo italiani!». Quanto riportato si trova negli atti parlamentari, chiunque può andare a leggerli.

Nel 1866 ci fu un dibattito, sempre in Parlamento, generato dall’elezione di Mazzini a Messina, per dispetto ai Savoia. Lui era un condannato ma siccome era nato un nuovo Stato, l’Italia appunto, tutte le giurisprudenze degli Stati precedenti non avevano più valore. Eppure la risposta del capo del Governo in Parlamento fu: «Mazzini resta condannato perché è vero, signor capo dell’opposizione, che le legislazioni di tutti i Paesi preunitari non valgono più, tranne che per il Piemonte, perché noi non abbiamo fatto l’Italia ma abbiamo allargato il Piemonte». E l’impresa partì con l’ordine di Cavour: «Non perdete tempo a fare prigionieri, fucilate».

Perché la Repubblica di San Marino è rimasta esclusa dal processo di unificazione?

La risposta è: «Boh!». Se tutti gli Stati preunitari vennero invasi, annessi e derubati, perché la Repubblica di San Marino no? Ci sono delle ipotesi. Nella Repubblica di San Marino nascevano banche. Crispi e i figli di Garibaldi, ovvero i duci della spedizione in Sicilia, coloro che portarono via l’oro dei depositi del Banco di Sicilia, potrebbero aver pensato a un porto franco dove depositare il “bottino di guerra”. È esagerato sospettare che un paradiso fiscale non lontano da casa facesse comodo?

Se non c’è un’altra spiegazione plausibile, uno è autorizzato a sospettarlo, a maggior ragione in quanto Garibaldi era un evasore fiscale. In una sua lettera manoscritta si legge: «Signor esattore non sono in grado di pagare le imposte». Poi, sempre lui, fa da garante a un enorme prestito chiesto dal figlio al Banco di Napoli, senza garanzie, e non pagano né lui né il figlio. Come ha fatto a costruire a Caprera le case, le strade, la stalla per 500 capi di bestiame, e ancora comprare un’intera flottiglia di imbarcazioni, compreso un panfilo da 42 tonnellate? Si racconta che dopo aver consegnato il Regno a Vittorio Emanuele si sia ritirato a Caprera con un sacco di fagioli. Forse non erano solo fagioli. È documentato che prendesse soldi da Vittorio Emanuele. Nei documenti è pure testimoniato che prese una grossa somma prima di andare a Caprera.

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia

Nel libro lei entra nel merito anche dei rapporti tra Garibaldi, i Sabaudi, Inghilterra e Stati Uniti. Perché inglesi e statunitensi avevano così a cuore il processo di unificazione dell’Italia?

Da una parte per via dell’ideologia degli Stati nazionali. Gran parte del pianeta è stato disegnato a tavolino da inglesi e americani, vedi il Medio Oriente o l’Africa, per esempio. Dall’altra perché questa ideologia ha origine in ambiente massonico. E loro erano i capi della massoneria mondiale. La nascente civiltà industriale aveva bisogno di Stati nazionali incubatori della stessa industria, che la facessero crescere fin quando non fosse stata in grado di competere alla pari con le altre e a quel punto sarebbero cadute le frontiere. Così è nata l’Europa, che si è unita quando i livelli di industrializzazione sono diventati equiparabili. Un’Italia grande faceva comodo, rappresentava un pugnale sotto la Francia, serviva a schiacciarla, con l’Inghilterra che stava sopra. In più in Italia c’era un Paese, come il Piemonte, che aveva un disperato bisogno di rubare i soldi a qualcuno perché, di fatto, era fallito e diventato di proprietà dei Rochelle di Parigi.

Buoni rapporti però Garibaldi sembra averli avuti anche con Cosa Nostra, il cui patriarca Joe Bonanno narra «[…] che il nonno e i suoi picciotti seguirono Garibaldi perché fu loro garantito di poter condurre più liberamente i propri affari». La trattativa Stato-Mafia è nata con la stessa Italia?

Esatto. Quella fu la prima trattativa Stato-Mafia. Grazie anche ai buoni uffici del barone Sant’Anna della Massoneria inglese, che mise al servizio di Garibaldi i suoi picciotti.

A chi come lei cerca un’altra verità viene spesso chiesto quale sia il senso di tanto rivangare. Invece io le domando perché, secondo lei, a tanta gente spaventa poter conoscere una verità diversa da quella ufficiale?

Perché tocca rivedere tutto quello che si sa, che si è. La propria identità. Tocca ricostruire, letteralmente, la propria anima. Le ragioni per stare insieme. Ormai, in un certo senso, un equilibrio, sia pure malato, è stato raggiunto. Io ritengo che gli equilibri malati portino brutte cose, meglio affrontare, come in una cura psicoanalitica, la verità e ripartire da basi più vere e più solide.

Lei dedica un capitolo, in Carnefici, anche all’interpretazione di Matteo Simonetti del Piano di Kalergi, indicato dalla Merkel come «il padre dell’Europa», dove si prospetterebbe, prima della seconda guerra mondiale, «[…] la trasformazione dell’Europa in un continente meticcio, con l’invasione di migranti, specie dal Sud». Era stata prevista o predetta anche l’emigrazione interna italiana verso il Nord?

È stata organizzata. Dopo la seconda guerra mondiale il Sud, contrariamente al Nord, ne uscì devastato. Gli alleati risarcirono l’Italia. L’allora presidente di Confindustria Costa impose che il risarcimento dato per il Sud venisse investito al Nord, per finanziare la ripresa industriale. Peppino di Vittorio protestò e la risposta fu: «Se vogliono mangiare, vengano al Nord».

http://www.sulromanzo.it/blog/quanti-erano-i-mille-di-garibaldi-la-vera-storia-dell-unita-d-italia

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“I giorni della Cagna”, come le mafie si sono prese Roma e l’Italia (Rizzoli, 2016). Intervista a Daniele Autieri

11 lunedì Apr 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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DanieleAutieri, Igiornidellacagna, Italia, italiani, mafia, Rizzoli, romanzo

 

“I giorni della Cagna”, come le mafie si sono prese Roma e l'Italia

È uscito a febbraio di quest’anno con Rizzoli I giorni della Cagna. La presa di Roma del giornalista investigativo Daniele Autieri.

Un romanzo che racconta del momento in cui piccole e grandi organizzazioni criminali hanno stretto un patto: unirsi e diventare «la Bestia più feroce che l’Italia abbia mai conosciuto». Nasce così la Cagna, «il patto segreto che in questi ultimi dieci anni mafia autoctona, mafia siciliana, camorra e ‘ndrangheta hanno siglato per prendersi Roma. E lo Stato».

Un libro intense, quello di Autieri, che trasforma la cronaca nera in fiction perché convinto sia l’unico modo per non perdere il contatto con la realtà, per mantenere viva la capacità della letteratura di esplorare l’animo umano. Un libro che spiega e aiuta a comprendere meglio i meccanismi che muovono la grande macchina del crimine attraverso le azioni quotidiane degli attori e delle comparse, dei burattini e dei burattinai e dello Stato, nella sua componente buona, che è costretto a diventare invisibile per combattere la malavita, perché i tentacoli neri di quest’ultima arrivano davvero dove sarebbe inimmaginabile anche solo pensarli.

Daniele Autieri è autore anche di Professione Lolita (Chiarelettere, 2015). Sua è l’inchiesta sullo scandalo delle baby squillo dei Parioli. Attualmente si interessa degli sviluppi di Mafia Capitale.

Abbiamo parlato con Autieri de I giorni della Cagna, della criminalità organizzata che opera a Roma e anche degli effetti di Mafia Capitale nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Come in Professione Lolita anche ne I giorni della cagna lei trasforma tristi vicende di cronaca in storie romanzate. Quali sono i motivi della scelta di questo registro narrativo? Perché preferisce la fiction al reportage?

Rimanere aggrappati alla vita. Questo per me è il romanzo, la narrativa. La possibilità di raccontare la realtà in modo differente. Se perdiamo il contatto con la realtà, rendiamo orfana la letteratura della sua incredibile capacità di affondare nell’animo umano. La realtà ci aiuta a capire, la letteratura a sognare. Insieme ci permettono di vivere.

LEGGI ANCHE – “Professione Lolita” di Daniele Autieri: cosa accade ai nostri adolescenti?

La “Cagna” ha unito tutti i malavitosi nella brama di raggiungere il comune obiettivo: trasformare l’Italia in uno Stato criminale. La Storia della criminalità organizzata quanto è intrecciata a quella della capitale e dell’Italia intera?

La Roma di oggi è un esperimento criminale, il luogo dove camorra, ‘ndrangheta, mafia e mafie autoctone hanno stretto un patto di conquista. Per prendersi la città. E da lì prendersi lo Stato. Negli ultimi anni gli uomini delle mafie hanno messo le mani nelle aziende pubbliche, tantissime inchieste giudiziarie lo dimostrano. Ma soprattutto c’è un filo rosso che unisce alcuni degli scandali industriali degli ultimi anni, facendo pensare che dietro molti fatti accaduti ci sia un’unica organizzazione.

“La Cagna”, che si ispira alla Lupa di Dante, è il simbolo di tutto questo e nasce proprio dal patto siglato tra le organizzazioni criminali.

A Roma tutto è stato fatto in “silenzio”. Perché qui i criminali tendono a diventare invisibili più che altrove?

Perché si confondono con la gente per bene. È questo l’inganno eterno di questa città. Il ferro, il piombo entrano in gioco solo quando tutte le altre mediazioni falliscono. E così i criminali si vestono da persone comuni, si confondono, frequentano i migliori ristoranti e condividono amicizie influenti.

Gli ideali e le ideologie non sembrano sopravvivere a lungo, avidità di soldi e potere sì. I criminali si stanno trasformando in uomini di affari e viceversa?

Alle spalle di tutto c’è il denaro, l’avidità. Ed ecco che si ritorna a Dante. I criminali moderni, quelli più pericolosi, hanno capito che il denaro non si fa solo trafficando cocaina, ma anche controllando lo Stato, le sue aziende, i suoi appalti, le sue poltrone. Meglio quindi indossare un abito scuro, vestirsi da uomini d’affari e ottenere uno strapuntino dal quale è più facile mettere le mani sulla cassaforte.

Per sfamare la Cagna vengono preferite teste di legno, facili da comandare e indirizzare. Vale lo stesso per la politica?

Negli ultimi anni a Roma, ma in tutto il resto dell’Italia, sono state costituite migliaia di società di comodo necessarie solo per ottenere commesse dalle aziende pubbliche e per stornare una buona percentuale di tangenti a chi quelle commesse le aveva assegnate. La testa di legno classica si è evoluta e anche alcune istituzioni “malate” hanno cominciato a beneficiarne.

“I giorni della Cagna”, come le mafie si sono prese Roma e l'Italia

A Roma non si spara perché ci sono i figli di tutti. In base a quali accordi riescono a convivere nello stesso territorio camorra, ’ndrangheta, mafia siciliana, criminalità albanese, rom, russa e delinquenti di varie nazionalità?

Gli accordi sono di due tipi. A livello più basso, quello legato al traffico di droga e all’usura, la divisione è territoriale. Gli albanesi controllano alcune zone di Ponte Milvio in accordo con gli uomini di Mafia Capitale; la camorra ha messo le mani su Tor Bella Monaca e altre periferie, e di tanto in tanto si serve di alcune famiglie rom per fare il lavoro sporco; la ‘ndrangheta si occupa prevalentemente del narcotraffico e gestisce i locali del centro.

A livello più alto, il patto viene siglato tra le famiglie mafiose più importanti, quelle che possono mettere sul tavolo i loro legami con politici e manager. Nulla di teorico, anzi. Di tanto in tanto questi uomini si incontrano in uno studio prestigioso di qualche noto avvocato o commercialista romano. Sono riunioni riservatissime e servono per stabilire la linea di comportamento per il futuro. E soprattutto per spartirsi gli affari che contano.

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Quanti “fighetti” come Max Sanna e Claudio Accardi, in bilico tra il bianco e il nero, ci sono in giro per Roma?

Il grigio è il colore dominante. Claudio Accardi, uno dei protagonisti del libro, lo indossa alla perfezione. È un uomo qualunque, che senza aver mai preso una pistola in mano è stato capace di entrare nelle confidenze dei principali boss della Capitale. Lo ha fatto perché aveva un talento: andare per mare e trasportare centinaia di chili di polvere bianca.

Come lui, in tanti camminano in bilico lungo questa zona grigia: notai, avvocati, commercialisti, prestati agli interessi e agli affari del crimine. Questi uomini oggi rappresentano l’anello tra il mondo criminale e le persone comuni.

Il personaggio di Vento invece, spietato, che fa combattimenti clandestini e anche il sicario per guadagnare denaro ma è al contempo un padre attento e premuroso, che sogna per la figlia una vita diversa, migliore della sua vuole indicare che la strada della delinquenza non è per tutti una scelta?

Vento è uno dei miei personaggi preferiti perché è in grado di ribaltare il paradigma, il luogo comune. Dov’è il bene e dov’è il male? A quale tipo di persone ci sentiamo più vicini e quali invece ci sembrano lontanissime dai nostri valori? Forse è la vita che ci rende uomini o belve. Vento è una di quelle persone che non si aspetta risposte e non si aspetta favori. Semplicemente vive. Solo per sé e per sua figlia. E questo lo rende diverso da tanti altri.

Quartieri a cui si accede da un’unica via. Vedette che controllano il traffico e batterie di criminali e spacciatori a spartirsi il territorio. La mente rimanda subito alla Napoli raccontata in Gomorra di Roberto Saviano o alla Sicilia di Sbirritudine di Giorgio Glaviano. Cosa accomuna e cosa divide Roma dalle altre “capitali” della malavita?

Nei metodi di gestione dello spaccio e di controllo del territorio, ormai certe zone di Roma sono del tutto simili a quelle raccontate da Saviano. Di notte, le piazze di spaccio di Tor Bella Monaca o San Basilio non hanno nulla da invidiare al Parco Verde di Caivano. Roma in più ha la caratteristica di ospitare una “criminalità multietnica”, dove il camorrista convive con l’ex-Nar, con l’uomo delle cosche calabresi o con il killer della mafia albanese. Tutto si mischia e si confonde. E quando gli equilibri sballano, allora torna a parlare il piombo.

Cos’è cambiato a Roma dallo scandalo cui è seguita l’inchiesta denominata Mafia Capitale?

Molto in termini di consapevolezza, molto poco in termini di gerarchia criminale. Grazie a Mafia Capitale abbiamo tutti capito che esistono alcune organizzazioni in grado di controllare vaste zone della città e di arrivare con i loro tentacoli fino alla politica. Ma sono le stesse organizzazioni che non hanno mai smesso di fare affari e continuano a farli ancora adesso, durante il processo. Il crimine non si ferma con un’inchiesta. Si ferma con una battaglia culturale di consapevolezza e sensibilizzazione.

A questo servono i libri, capaci di tenere il lettore ancorato alla realtà. Per non dimenticare. E per evitare di rimanere inconsapevolmente schiavi.

http://www.sulromanzo.it/blog/i-giorni-della-cagna-come-le-mafie-si-sono-prese-roma-e-l-italia

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’Italia infuocata dai rifuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo (Sperling&Kupfer, 2016)

31 giovedì Mar 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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L'Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo

Nel libro di Gaetano Vassallo una mappa dei rifiuti che attraverso l’Italia intera giungono nella Terra dei Fuochi e non solo. Il racconto di una vicenda personale, l’ascesa criminale del quarto figlio di una famiglia povera della provincia di Napoli, ma anche la storia di un Paese nel quale tutti, o quasi, sono bravi a chiudere un occhio e pagare una mazzetta.

Così vi ho avvelenato (Sperling&Kupfer, 2016) si apre con l’introduzione di Daniela de Crescenzo, giornalista de «Il Mattino», la quale scrive nei ringraziamenti un intenso messaggio: «La mia riconoscenza più profonda va però a tutti quelli che, magari anche leggendo le mie pagine, decideranno di fare qualcosa per cambiare. Finalmente».

La via più facile, intrapresa dopo lo scandalo rifiuti nella Terra dei Fuochi, come ricorda anche lo stesso Vassallo nel testo, è stata quella di liquidare il tutto come un fatto legato alla camorra e alla Campania. Comprensibile. Non è facile ammettere che, potenzialmente, l’Italia è un’intera Terra dei Fuochi. Eppure il collaboratore di giustizia ha spiegato nei dettagli il meccanismo che consentiva a tutte le aziende, grandi e piccole, pubbliche e private, di mentire sullo smaltimento dei rifiuti, anche di quelli più tossici e pericolosi. «Ceneri, fanghi e amianto che continuate a cercare in Campania e che invece non hanno mai lasciato le regioni del Nord».

Bastava possedere il certificato di smaltimento, che Vassallo vendeva per 10 milioni di lire, e tutti gli obblighi di legge erano adempiuti. Anche se i rifiuti erano altrove, anche se i veleni finivano negli irrigatori o sparsi tra i campi coltivati. La scandalosa situazione della Terra dei Fuochi ha messo nell’ombra anche i disastri ambientali di Liguria e Toscana, per esempio. Senza pensare che è stato proprio per far fronte a queste emergenze che Vassallo e gli altri hanno cominciato a importare l’immondizia di tutti in Campania.

Ci vorranno anni per mappare i siti, ammesso che si riesca a farlo, e tanti ce ne vorranno anche per sapere se i terreni potranno rinascere, ma il motivo per cui tutto ciò è stato fatto è sempre stato chiaro. «Ingordigia di denaro». E aggiungerei, anche, per la sete di potere che vi è strettamente collegata. Vassallo, pur essendo indifendibile, su una cosa ha ragione: «Ho sbagliato, ma non da solo. La nostra terra l’abbiamo guastata in tanti: chi doveva controllare me e quelli come me è stato nostro complice».

L'Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo

Gaetano Vassallo in Così vi ho avvelenato descrive nel dettaglio, con tanto di nomi, la fitta rete di legami, a tutti i livelli, che gli hanno consentito di diventare il “manager dell’immondizia” avvelenando il territorio e chi lo abita e accontentando chi ci ha guadagnato come lui ma forse non pagherà mai per ciò che ha fatto. «Non è un caso se io sono finito in galera e lui in Parlamento», dice Vassallo parlando di uno dei tanti “onorevoli” a cui ha stretto la mano o per il quale ha svolto campagna elettorale. Lui, che prima di passare a Forza Italia è stato tesserato del PSI e ha frequentato la sezione centrale a Roma, in via del Corso, dove ha incontrato «molti esponenti di punta dei socialisti».

«La politica per me è sempre stata questo: una serie di comitati d’affari da finanziare. Allo stesso modo la pensavano tutti i casalesi, che hanno saputo utilizzare la politica, le sue vanità e il suo bisogno di denaro». Vassallo afferma che la camorra crea il politico e poi lo utilizza. Questi forse pensa di poter fare lo stesso, quando in campagna elettorale accetta l’appoggio e il pacchetto di voti gentilmente offerto durante le cene e gli incontri. Ma poi scopre qual è la posizione da seguire e la volontà da assecondare, pena la vita, e si “accontenta” del denaro.

Negli anni in cui Vassallo ha costruito la sua fortuna lavorare con i rifiuti era più conveniente, dal punto di vista legale, che trattare droga o armi. Non erano previste pene se non irrisorie e molti reati non erano proprio contemplati dal codice e anche quando il governo ha provato a fare la voce grossa, sequestrando e commissariando, per il “manager dell’immondizia” e per i suoi soci la pacchia è continuata. Provvedimenti che facevano acqua da tutte le parti, leggi aggirabili con facilità e agevolazioni di cui hanno potuto usufruire gli stessi per cui la macchina del commissariamento si era mossa. «I nostri affari continuavano a lievitare, eppure lo Stato ci aveva dichiarato ufficialmente guerra».

Lo Stato, quello stesso che a ogni occasione elargisce fiumi di fondi pubblici che seguono sempre la stessa direzione e finiscono sempre nelle stesse tasche. Mafiosi, criminali, onorevoli, tecnici e imprenditori pronti a ricevere e amministrare soldi e potere a qualunque costo. «Oggi, quando leggete che un imprenditore ride di una disgrazia, inorridite: pensate che sia un mostro, un’eccezione. Non è così: i guai degli altri hanno sempre portato denaro a chi ne sa approfittare».

L'Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo

“I guai degli altri hanno sempre portato denaro a chi ne sa approfittare” e il 23 novembre del 1980 la terra tremò, in Irpinia, con migliaia di vittime e di sepolti vivi che per ore, per giorni addirittura, sprigionavano flebili lamenti nella speranza che la terra che li aveva inghiottiti sibilasse la loro voce e indicasse ai soccorritori la via per liberarli. Solo che ad ascoltarli non c’erano i soccorritori ma solo i loro parenti, stremati dalla paura e dal dolore, che hanno scavato a mani nude, spesso invano. E mentre ciò accadeva in Irpinia, da Roma giungevano le scuse per non aver capito la gravità dell’accaduto. «Dalle nostre parti non ci furono vittime: i nostri morti vennero dopo, quando si trattò di dividere quella magnifica torta chiamata “ricostruzione”. 60 miliardi (di lire, ndr) da dividere tra costruttori, politici e clan».

In appendice al testo viene riportata anche la consulenza tecnica del geologo Giovanni Balestri, datata Firenze, 1° giugno 2010, che riporta la classificazione e la datazione degli sversamenti di rifiuti effettuati nelle località Masseria del Pozzo, Schiavi, San Giuseppiello (Giugliano); nei terreni siti lungo la SP Trentola-Ischitella (Trentola) e a Torre di Pacifico (Lusciano); nei siti posti sotto sequestro a Castel Volturno e nei precedenti sequestri effettuati in località Scafarea (Giugliano). Il geologo Balestri ha calcolato che, se non si provvede per tempo a sminare il territorio dai veleni sepolti, entro il 2064 saranno compromesse anche le falde acquifere. «E allora non ci sarà più niente da fare».

L'Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo

“E allora non ci sarà più niente da fare”. Una ragione in più per fare tutto il possibile affinché le falde acquifere vengano preservate dalla contaminazione. Questo potrebbe essere il cambiamento di cui parla la De Crescenzo, potrebbe essere il segnale, reale e tangibile, di uno Stato che ha deciso di cambiare, di abbattere l’impunità e la corruzione. Di salvare la nazione partendo dal territorio. Di aiutare la popolazione donandole il giusto ambiente in cui vivere. Utilizzare denaro e potere per qualcosa che sia di pubblica utilità. Perché se i veleni sparsi nei terreni “infuocati” dell’Italia intera bruciano le falde acquifere neanche il potere e il denaro potranno servire e il nostro sarà un Paese vinto dall’immondizia.

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«Dai rifiuti veniva un miliardo (di lire, ndr) al mese e nessuno voleva rinunciare alle azioni della “Monnezza SpA”». Se non fosse stato costretto, forse neanche Gaetano Vassallo lo avrebbe fatto eppure, da un giorno all’altro, la sua vita è cambiata e da “manager dell’immondizia” si è ritrovato collaboratore di giustizia prima e carcerato poi, messo alle strette dalle accuse che si era fatto da solo. Neanche lui forse aveva mai immaginato di diventare autore di un libro dove racconta tutto ciò che aveva fatto per lasciarsi la povertà alle spalle. Così vi ho avvelenato di Gaetano Vassallo, con Daniela de Crescenzo, è un libro urticante ma è necessario leggerlo. Conoscere per capire. Forse questo è l’unico modo per non sbagliare, ancora.

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Perché la sinistra ha fallito? Ecco i motivi… Intervista a Maurizio Pallante

25 giovedì Feb 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Perché la sinistra ha fallito? Ecco i motivi

Per Maurizio Pallante siamo in una fase di chiusura di un’epoca storica, cominciata 250 anni fa con la Rivoluzione industriale. La crisi attuale è la somma della crisi ecologica, di quella climatica, morale, occupazionale… Quando un’epoca storica si chiude cominciano a vacillare la cultura, il sistema dei valori, i modelli di interpretazione della realtà che la società ha sviluppato e sui quali ha conquistato il consenso delle popolazioni. In questo momento nasce l’esigenza di iniziare a costruire un paradigma culturale diverso.

Destra e sinistra addio (Lindau, 2016) ha nel titolo la definizione della crisi, ma c’è nel sottotitolo la parte del construens, “per una nuova declinazione dell’uguaglianza”. La sconfitta storica della sinistra non è la sconfitta dell’idea di uguaglianza ma il fallimento dell’interpretazione che la sinistra ne ha dato. Per recuperare questa idea occorre declinarla in maniera diversa, estendendola a tutti i viventi, perché tutte le forme di vita sono in relazione tra di loro. L’uguaglianza inoltre non può essere limitata a un reddito monetario ma deve coinvolgere nel loro complesso gli stili di vita delle persone.

«Anche le persone meno interessate alla politica si sono rese conto che nei Paesi democratici le differenze tra i partiti più rappresentativi della destra e della sinistra si sono progressivamente attenuate fino a scomparire quasi del tutto.»

Destra e sinistra addio è il nuovo saggio di Maurizio Pallante, ne abbiamo parlato con l’autore in un’intervista.

Fin dalle prime pagine del libro, lei afferma con chiarezza che la destra è rimasta ferma sulle sue posizioni e la sinistra le si avvicina sempre più. Quali sono, a suo avviso, le ragioni di questo slittamento della sinistra?

La sconfitta storica che ha subito, testimoniata dall’abbattimento del muro di Berlino nel 1989 e dovuta al fatto che la sinistra si poneva gli stessi obiettivi di fondo della destra, ovvero la crescita economica, con delle finalità diverse. Per la sinistra lo scopo era una più equa redistribuzione della ricchezza tra le classi sociali. Ma la Storia ha dimostrato che l’economia di mercato, sostenuta dalla destra, era in grado di far crescere l’economia più delle scelte della sinistra. Per cui la sinistra si è trovata a sostenere lo stesso tipo di obiettivo con degli strumenti meno efficaci per raggiungerlo.

Questo ormai rende molto esigua la differenza tra partiti politici di destra e di sinistra. Perché allora sembra tanto difficile da accettare? E per quali ragioni si continua a fomentare nell’opinione pubblica l’idea di una differenza tra destra e sinistra al punto che l’appartenenza politica viene intesa e vissuta come tifo da stadio?

Perché ormai la politica è gestione di posti di lavoro, di appalti, di attività economiche… e ci sono dei gruppi di potere che cercano di conquistare il consenso della popolazione per poter gestire le somme legate ai posti di lavoro, agli appalti, alle attività economiche, ai privilegi che hanno i politici… Ormai la distinzione tra destra e sinistra è più formale che sostanziale e la politica ha perso completamente la carica etica e di ricerca del bene comune ed è diventata uno strumento per intervenire nelle attività economiche e produttive gestite dalla collettività, dallo Stato e dagli Enti locali.

A proposito di opinione pubblica, lei nota come le scelte di politica interna ed estera di destra, se gestite dalla sinistra, registrano meno opposizione sociale. È solo una diffidenza quasi atavica verso la destra, oppure ci sono altre ragioni?

Nell’immaginario collettivo è ancora radicata l’idea che la sinistra sia quella parte politica che fa gli interessi di una più equa redistribuzione delle risorse. Se una politica di destra viene gestita dalla destra, che ha sempre amministrato le risorse in maniera meno equa, le classi popolari possono essere spinte dalla sinistra a protestare. Ma se è la sinistra che fa la stessa politica economica della destra, manca la spinta alla protesta. Lo prova ad esempio il fatto che le Riforme costituzionali, proposte dal governo attuale, non suscitano la stessa reazione negativa avuta a suo tempo dalle medesime Riforme proposte dal precedente governo di centro-destra.

Cosa rappresentano Siryza, Podemos e Movimento Cinque Stelle nell’attuale scenario politico europeo?

Io farei una distinzione tra Siryza e Podemos, espressione politica di una sinistra non convenzionale, non legata alla storia del Novecento, e Movimento Cinque Stelle, che fin dall’inizio ha dichiarato di non essere né di destra né di sinistra.

Siryza, presentatosi come una reincarnazione diversa della sinistra, oggi sta facendo delle politiche di destra per cui sta suscitando l’opposizione popolare.

Podemos non sappiamo ancora cosa farà, per ora ha avuto buoni risultati elettorali, si vedrà se sarà in grado di gestire una politica di sinistra andando al governo ma, se ciò non accadesse, l’alleanza con i socialisti gli imporrà di portare avanti una politica di centro-destra e allora a quel punto in Spagna andranno di nuovo alle elezioni.

I Cinque Stelle invece stanno, in questo momento, rendendosi conto di tutto il malcontento che la popolazione ha accumulato nei confronti della casta politica, stanno cavalcando la carta morale, della politica gestita nell’interesse della collettività. Il consenso da loro ottenuto sembra derivare più che dalle proposte che fanno, dall’insoddisfazione della popolazione riguardo la gestione del potere da parte dei partiti tradizionali.

Perché la sinistra ha fallito? Ecco i motivi

Secondo lei, per superare la crisi e lo stallo in cui versano i Paesi sviluppati e quelli in via di sviluppo, bisogna riscoprire una finalità più ragionevole da assegnare alle attività produttive. Cosa intende?

Oggi il fine dell’attività economica e produttiva è la crescita della produzione di merci, e gli esseri umani sono il mezzo per raggiungere questo fine. Bisogna invertire questo rapporto. Il fine deve tornare a essere il benessere degli esseri umani e le attività produttive il mezzo per raggiungere questo scopo. Questo è il cambiamento che va fatto per superare la crisi.

Il Capitalismo si è servito anche della spiritualità trasformando i fedeli in consumatori?

Sì. E questo è stato uno degli elementi di fondo. La sinistra è stata sconfitta anche perché la sua posizione nei confronti della Chiesa e della religione le ha alienato il favore e la simpatia delle masse. Mentre il Capitalismo ha usato, strumentalmente, la religiosità della popolazione per cambiare il sistema dei valori in senso materialistico. Da questo punto di vista ha avuto anche un appoggio, in Italia, da parte della Chiesa cattolica. Questa, da una parte, continuava a predicare che bisognava non essere succubi del materialismo e del consumismo, dall’altra sostenendo, attraverso il partito della Democrazia Cristiana, la crescita economica, dicendo che era un bene, si è posta in una posizione di grande contraddizione.

Mantenendo l’attuale sistema economico, anche se dovesse registrarsi una reale ripresa i problemi ambientali persisterebbero. E ciò come può essere visto come un bene?

I problemi ambientali si aggraverebbero. Questi sono causati dal fatto che la crescita economica prevede un consumo crescente di risorse ed è arrivata a esaurire molte delle risorse non rinnovabili, a consumare le risorse rinnovabili di un intero anno entro la metà di agosto. Per cui la crescita economica mette in discussione la capacità dell’ecosistema terrestre di fornirgli le risorse di cui ha bisogno. Vengono inoltre immesse nell’ambiente di sostanze non metabolizzabili dai cicli biologici o perché sono troppe, come l’anidride carbonica e quelle derivanti dall’effetto serra, o perché sono sostanze di sintesi chimica o non biodegradabili, come la plastica. In tutti gli oceani ormai galleggiano masse di rifiuti di plastica grandi come dei continenti. L’aumento della produzione, ammesso che possa avvenire, comporterebbe un aumento delle emissioni e del consumo delle risorse. E questo sicuramente non è un bene.

http://www.sulromanzo.it/blog/perche-la-sinistra-ha-fallito-ecco-i-motivi

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città. Intervista a Roberto Ferrucci

11 mercoledì Nov 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Feltrinelli, intervista, Italia, italiani, racconto, RobertoFerrucci, Venezia, Veneziaelaguna

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

La laguna non è mare. È questo il grido, uno dei tanti, che Roberto Ferrucci rivolge al mondo intero, ma ai veneziani in particolare, affinché venga arginato e pian piano scongiurato il rischio di compiere uno scempio irreparabile alla città di Venezia e alla sua laguna.

«Nel 2015 Venezia, città d’arte mondiale, patrimonio dell’Unesco, non ha un assessore alla Cultura».

Ferrucci, nell’introduzione di Venezia è laguna, non manca di ricordare quanto la cultura «per certi politici, per certi uomini di potere, è un nemico assoluto, in grado di marcarli stretti, di ostacolarli, di smentirli e, alla fine, di smascherarli» e che Venezia non è solo «città della cultura, Venezia è cultura». Il rischio, che egli sottolinea, è che «forse oggi Venezia è in mano a qualcuno che la vuole trasformare in un grande contenitore commerciale, di consumo».

Ciò che Ferrucci teme, quasi quanto il passaggio delle grandi navi lungo i canali della laguna veneziana, è l’apatia dei suoi abitanti. Nutre forte il timore che i veneziani si abbandonino agli accadimenti, smettano di combattere o peggio si lascino abbindolare dalla politica dei posti di lavoro.

«Solo se si ritornerà a pensarla e a rispettarla come città di laguna, accettando la sua preziosa e unica fragilità, Venezia potrà continuare a essere la città più bella e amata al mondo».

È da pochi giorni disponibile in ebook Venezia è laguna (Zoom Feltrinelli, 2015). Un racconto breve che riesce a rendere comunque un’idea precisa di cosa significhi per la città, per il paesaggio, per l’arte e per i residenti il transito delle grandi navi lungo i canali.

Abbiamo rivolto all’autore, Roberto Ferrucci, alcune domande su Venezia è laguna ma anche sui recenti accadimenti che hanno visto incontrarsi e scontrarsi «potere e indignazione, politica e rassegnazione».

Il passaggio delle grandi navi per i canali di Venezia diventa un racconto che lascia al lettore una profonda amarezza. Tra le righe del testo invece si percepisce una grande rabbia propositiva. Cosa pensa accadrà alla Serenissima se non si ferma tutto ciò?

Mi sono accorto che nessuno si era mai avventurato a raccontarla da dentro, la violazione delle grandi navi dentro la laguna di Venezia. Lo avevo già fatto nel romanzo Sentimenti sovversivi (Isbn, 2011) e in Venezia è laguna ho approfondito il percorso narrativo di allora, cercando di raccontare attraverso dei personaggi veneziani che cosa provoca quella violenza non solo alle fragili acque e alle delicate pietre di Venezia, ma anche nell’intimo più profondo di quei cittadini che – come il resto del mondo intero – credono che la scelta di perseverare con questa violenza sia una scelta criminale. I “truffatori del buon senso” e i “sabotatori del paesaggio”, come definisco nel libro le lobby che lucrano su queste crociere, provocano sconquassi non soltanto ambientali, ma anche intimi, sentimentali. Solo la poesia, la narrativa, possono provare a raccontare queste emozioni tanto profonde, invisibili ma dolorose.

Non so se dal libro traspaia una rabbia propositiva. Se è così ne sono soddisfatto, perché in realtà la mia visione è del tutto pessimista. La città è in mano ad affaristi senza scrupoli, alcuni dei quali già protagonisti dello scandalo del Mose (che tratterò in un nuovo libro). Ma ai veneziani non è bastata quella pagina orrenda e vergognosa, e pochi mesi fa hanno votato per un imprenditore. Sia chiaro, lui non c’entra nulla con quello scandalo. Ma ho sempre pensato e scritto, fin dal 1994, che gli imprenditori in politica siano una sciagura. Una sciagura tutta italiana, perché altrove, giustamente, è impedito loro di far politica per via degli inevitabili conflitti di interesse che la storia recente ci ha già detto dove possono portare.

Il nuovo sindaco non ha alcuna intenzione di opporsi o quanto meno di arginare l’ingresso di questi mostri in laguna, al contrario, il suo obiettivo è di aumentarne le entrate, in piena contraddizione con l’altra sua “visione”, cioè quella di limitare, giustamente e ovviamente, il turismo di massa. Idee poche e confuse, direbbe qualcuno. E se nel racconto di Venezia è laguna lascio aperte delle speranze di ravvedimento, se in quelle pagine si respira qua e là un sano ottimismo, io, cittadino e non scrittore, sono del tutto pessimista. Lo dico senza giri di parole: la fine di Venezia è già incominciata, ed è sotto gli occhi di tutti.

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

In Venezia è laguna lei compie una sorta di parallelismo/gemellaggio tra la città lagunare e Saint-Nazaire con il suo estuario e il suo cantiere navale. Vuol rappresentare una sorta di destini incrociati o più un sentiero circolare che viene chiuso?

Volevo semplicemente sottolineare un’assurdità assoluta. Le grandi navi, i paquebot, come le chiamano i francesi, di una compagnia italiana sono costruite a Saint-Nazaire, dove, di fronte al porto, c’è una residenza per scrittori dove anni fa sono stato invitato. È stata un’esperienza davvero istruttiva ed emozionante visitare quei cantieri, parlare con alcuni ingegneri e operai che ci lavorano. E, soprattutto, con i nazairien, che vivono collettivamente la costruzione dei paquebot, ne seguono le tappe passo passo e ne celebrano il risultato finale. Un rituale meraviglioso, condiviso da tutti, in particolare il giorno del varo finale, durante il quale tutta la città saluta il prodotto di anni di lavoro, e lo guarda dalle rive avviarsi in direzione dell’oceano. L’oceano, il mare, non la laguna.

La saggezza e l’amore dei nazairien si trasforma nella scelleratezza e nel cinismo di alcuni veneziani privi di scrupoli, che ci abbindolano con la demagogia dei posti di lavoro. Che non subirebbero alcun ritocco quando e se un giorno si decidesse di fare entrare in laguna solo navi da crociera dalle dimensioni ridotte. I francesi – ma non soltanto loro – non si sognerebbero mai di far entrare quei mostri dentro una delle loro lagune.

Raccontando dei piccoli gesti quotidiani del protagonista e di Teresa sembra voler rendere partecipe il lettore del profondo cambiamento che comporta per Venezia anche se appare impercettibile, al pari dell’acqua smossa dalle balene bianche di acciaio. I veneziani sono consapevoli di ciò che sta accadendo?

Attraverso i personaggi del mio racconto ho voluto far passare l’indignazione, il dolore, la rabbia, l’incredulità e – ahimè – la rassegnazione dei veneziani di fronte a questo scempio. La maggior parte dei veneziani non ha idea di quel che sta accadendo o, peggio, lo sa ma se ne infischia, perché troppi dei veneziani rimasti sono connessi in un modo o nell’altro nel grande business delle crociere e del turismo in generale. E porta schei, e con questo mettono quel che resta del loro animo in pace.

Nell’introduzione cerca di focalizzare l’attenzione del lettore sulle decisioni politiche prese dal sindaco e sulle scelte che lei indica motivate «dagli schei, dai soldi». C’è realmente il rischio di vedere Venezia «trasformarsi come l’interno di una nave da crociera»?

Venezia è già e da tempo una slot machine diffusa. I veneziani proprietari di appartamenti preferiscono affittare per brevi periodi ai turisti, e a prezzi folli, anziché a qualche famiglia. Anche per questo lo spopolamento è incessante, e i politici non fanno che assecondare questa attitudine suicida e moralmente sudicia. Bar e ristoranti spesso si guardano bene dal rilasciare scontrini e ricevute, oltre a proporre due listini prezzi: uno per i turisti e uno per i veneziani. Una discriminazione in atto da molto tempo. Da troppo tempo è presente un commercio incontrollato e quasi selvaggio, che viene edulcorato ultimamente attraverso la repressione degli ambulanti nordafricani e indiani, facendo credere all’opinione pubblica che quello e solo quello sia il male.

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

Per chi non è veneziano, resta l’immagine stridente di un mostro enorme di ferro che si staglia contro la delicatezza della città. Ma, per un veneziano come lei, cosa rappresenta tutto questo?

Rappresenta l’idiozia umana. Presente in ciascuno di noi. La mia mi sforzo di incanalarla in direzioni più innocue, che danneggino il meno possibile gli altri, come le mie risposte a questa intervista, magari. Loro la utilizzano contro un tesoro inestimabile dell’umanità e della storia passata presente e futura. Senza scrupoli. Per far schei.

Nel suo intervento agli Stati generali del turismo sostenibile, il ministro Franceschini ha detto: «Il turismo delle grandi navi è benvenuto ma va governato». Mentre per il governatore Zaia questa è una decisione «parente della politica e non del buon senso e dell’economia. Migliaia di posti di lavoro e il 20% del Pil della città di Venezia ringraziano il Partito democratico per questa scelta che uccide un pezzo di economia sana». Ma se c’è il rischio che il passaggio delle grandi navi a Venezia arrechi anche un danno economico alla città lagunare perché, secondo lei, si insiste in questa direzione?

Perché è un arricchimento di pochi, pochissimi, e però potenti, potentissimi. Inoltre vorrei fosse chiara una cosa provata scientificamente: non c’è il rischio che il passaggio provochi danni alla città e alla laguna e ai suoi cittadini. No, c’è la certezza assoluta.

Franceschini, nel già citato intervento, ipotizzava un possibile dirottamento delle grandi navi al porto di Trieste. Potrebbe essere una valida alternativa a parer suo?

È la sola alternativa saggia, intelligente e da praticare al più presto prima che sia troppo tardi. Prima che magari si inizi a scavare un nuovo canale, che comprometterebbe definitivamente il fragilissimo equilibrio delle acque lagunari. Il governo si dia una mossa e prenda una decisione radicale e coraggiosa.

Venezia e le grandi navi, l’inesorabile distruzione di una città

Due anni fa Gabriele Muccino con una lettera indirizzata a Matteo Renzi lanciava una petizione online per fermare il transito delle grandi navi a Venezia. Iniziativa sostenuta da oltre 110.000 firme e chiusa al grido di “Vittoria!”. Il 1 novembre 2014 fu approvato dal governo un piano che stabiliva tra l’altro «precluso il transito delle navi crocieristiche superiori a 96.000 tonnellate di stazza lorda e una riduzione del 20% del numero di navi da crociera di stazza superiore alle 40.000 tonnellate abilitate a transitare per il canale della Giudecca». Cosa è successo in quest’anno?

Ovviamente non è successo nulla. Quelle firme sono state del tutto ignorate. Ma Gabriele Muccino è anche quello che in questi giorni ha avuto la bella pensata di dire che i film di Pier Paolo Pasolini hanno impoverito la sua epoca, che ha girato dei film inutili. E lo dice lui, Muccino, che ha diretto pellicole “memorabili” di bacetti e altri sentimentalismi al rosolio. Lo lascerei perdere, sinceramente. Non saranno certo i Muccino o i Celentano a salvare Venezia. Solo noi veneziani abbiamo la possibilità di farlo, ma tutti i segnali vanno in senso contrario, com’è sotto gli occhi di tutti. Allora, toccherà alle istituzioni internazionali, l’Unione Europea, l’Unesco, che è già molto attenta e dura nei confronti della gestione della città più bella e amata del mondo. E la meno rispettata da noi stessi.

In Venezia è laguna esordisce parlando delle azioni intraprese dal «nuovo sindaco che, appena insediato, ha censurato la mostra fotografica Mostri a Venezia di Gianni Berengo Gardin» motivando la decisione come un tentativo di evitare «una brutta immagine della città». La mostra fotografica di Berengo Gardin a suo parere danneggiava l’immagine di Venezia?

Certo che la danneggia. Ma non nel senso banale e assurdo cui faceva riferimento il sindaco. La danneggia perché mostra lo scempio in atto a Venezia, condiviso anche dal nuovo sindaco. Quella di Berengo Gardin è una visione impietosa e vera, che quotidianamente è sotto gli occhi di tutti quelli che la vogliano vedere anziché fingere per difendere gli interessi di cui ho già parlato. È lo sguardo di un grande maestro che soffre nell’assistere impotente a uno degli atti più distruttivi in atto a Venezia.

Cosa che del resto il sindaco ha implicitamente ammesso quando ha proposto che le navi paghino per entrare in laguna. Vuol dire che anche lui prende atto dei danni che provoca il loro ingresso. Solo che al contempo dice al mondo che Venezia è in vendita. Fatene quel che vi pare, dice, basta che paghiate. Come si fa in certe pratiche che vi lascio immaginare. Questa è Venezia, oggi. E viene da piangere, perché Venezia è laguna, fragile e meravigliosa.

http://www.sulromanzo.it/blog/venezia-e-le-grandi-navi-l-inesorabile-distruzione-di-una-citta

 

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Società o barbarie. Il risveglio della politica tra responsabilità e valori

05 mercoledì Ago 2015

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IlSaggiatore, Italia, italiani, PierfrancoPellizzetti, recensione, saggio, Societaobarbarie

“Società o barbarie. Il risveglio della politica tra responsabilità e valori” di Pierfranco Pellizzetti

Società o barbarie. Il risveglio della politica tra responsabilità e valori di Pierfranco Pellizzetti, edito nell’aprile di quest’anno da Il Saggiatore nella collana La Cultura, è un testo corposo, ben strutturato che sembra voler inquadrare il “problema della politica” con un’analisi ad ampio spettro spazio-temporale.

Pierfranco Pellizzetti, genovese di nascita, scrive per «Il Fatto Quotidiano», «MicroMega», «Critica Liberale» cercando di raccontare e al contempo motivare la sua ormai profonda consapevolezza, ovvero che la «politica quale l’abbiamo conosciuta è in profonda crisi».

Già nell’introduzione di Società o barbarie Pellizzetti dichiara qual è lo scopo del libro: «un invito a trasformare l’espressione denigratoria “antipolitica” nel suo contrario “altrapolitica”». Per l’autore gli ultimi quaranta anni sono stati il periodo in cui l’Economico ha marginalizzato il Politico e la corsa al benessere del singolo ha soppiantato ogni forma di solidarietà collettiva. Nel testo vengono analizzate le origini storiche, i risvolti socio-economici e le tecniche propagandistiche di questo “sistema” ormai in crisi. Conseguenze dirette di tutto ciò: le disuguaglianze, la recessione, la disoccupazione, la disgregazione sociale.

Il problema non riguarda solo l’Italia ma l’intera Europa e potrebbe essere valido per tutte le democrazie occidentali.

Nell’analisi condotta da Pellizzetti saltano all’occhio se non vere e proprie contraddizioni, piccole falle che lasciano perplessi. Per l’autore il declino è cominciato quando gli ex-sessantottini hanno deposto striscioni e baluardi e sono diventati parte integrante di questo sistema politico in crisi ma un attimo dopo cita le «cinque regole auree» che Richelieu eleggeva a fondamento dell’agire politico: «simula, dissimula, loda tutti, non dire mai la verità, non credere a nessuno» e leggendo ci si ritrova a pensare che o l’autore vede o vedeva nei sessantottini l’unica espressione possibile della “altrapolitica” oppure che ha preso un abbaglio e il “degrado politico” in realtà c’è sempre stato, considerando anche ciò che poi riferisce egli stesso riguardo l’evoluzione di questi “rivoluzionari mancati”, le illusioni e le disillusioni, le ribellioni di allora e la conformazione di oggi.

“Società o barbarie. Il risveglio della politica tra responsabilità e valori” di Pierfranco Pellizzetti

Gli interrogativi che il libro pone sono molteplici, primo fra tutti quello della scelta direzionale della politica che potrebbe essere orientata verso un discorso pubblico deliberativo che abbracci la «savia follia» propugnata da Erasmo oppure destinata alla dimensione di tecnologia del potere professata da Machiavelli. Si chiede poi Pellizzetti quali saranno le forme organizzative che dovranno assumere gli “attori del cambiamento” e come dovranno orientare gli sforzi volti alla comunicazione di idee, pensieri, speranze e valori nell’era del digitale, della “Rete”.

Il testo si apre al lettore con una citazione di Artur Schlesinger Jr. «Ci è stato spesso detto che la politica è potere, e naturalmente questo è vero. Più recentemente ci è stato detto che la politica nell’epoca dei mass media è immagine: ho paura che ci sia qualcosa di vero anche in questo. Ma in una democrazia la politica è qualcosa di più che la lotta per il potere e la manipolazione dell’immagine. È soprattutto ricerca dei rimedi. Nessuna somma di potere e pubbliche relazioni servirà se, alla fine della giornata, la politica non funziona».

Ormai è chiaro a tutti che la politica così com’è proprio non funziona e verrebbe da aggiungere che il suo ruolo più che di «ricerca di rimedi» dovrebbe essere quello di “impedimento di danni”, nel senso che chi amministra e chi governa dovrebbe fare in modo di evitare danni e conseguenze negative, non limitarsi a cercare solo i rimedi soprattutto perché per la gran parte di questi danni ne è stato anche l’artefice.

Il simbolico viaggio che Pellizzetti compie nella “politica” dell’Europa e del mondo ritorna spesso «tra i palazzi e i carruggi» della sua città, Genova, «un luogo che in queste pagine funge sovente da punto di osservazione specifico per ricavare considerazioni e valutazioni generali». Queste considerazioni e valutazioni sembrano essere ben condensate nella citazione di Pasquino, riportata a margine del libro: «Più di duemila anni dopo Aristotele, mezzo millennio dopo Machiavelli, il nostro rapporto con la politica è diventato simile a quello con una persona che abbiamo molto apprezzato e molto amato e che ci ha infine delusi», tuttavia rimane in chi legge un senso di incompiutezza che potrebbe essere generato dal fatto che l’autore tende un po’ troppo a “personificare” la Politica, indicandola come responsabile della situazione, della crisi, parla del suo ‘decadimento’ ma così facendo sembra renderla però troppo impersonale, in fondo questa non è un’entità indefinita bensì il frutto di azioni e scelte concrete. Sarebbe più corretto affermare che non è la Politica ad aver deluso ma i Politici, cioè le persone che hanno rivestito cariche pubbliche lavorando solo per il proprio tornaconto, che hanno sacrificato il benessere collettivo, l’ambiente, la salute, l’istruzione, l’informazione, l’educazione… barattandoli con denaro e potere. Non è la Politica a dover cambiare ma l’atteggiamento e il comportamento delle persone. La Politica come l’Economia non sono entità a sé, rappresentano e le ritroviamo in ogni quotidiana azione compiuta o scelta effettuata e non è possibile scinderle dall’agire di tutti e di ognuno. Anche scegliere di fare la spesa al mercato piuttosto che al supermercato è una scelta politica che influenza l’economia ed è di fondamentale importanza comprendere che l’altrapolitica propugnata da Pellizzetti in Società o barbarie non si potrà mai raggiungere continuando a scegliere amministratori e governanti come si sceglie una squadra di calcio.

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Istituzioni e sistema politico in Italia: bilancio di un ventennio

10 domenica Mag 2015

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IlMulino, IstituzioniesistemapoliticoinItalia, Italia, italiani, MauroVolpi, recensione, saggio

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Istituzioni e sistema politico in Italia: bilancio di un ventennio, edito da Il Mulino (febbraio 2015) e curato da Mauro Volpi, raccoglie gli interventi del Convegno su «Istituzioni e politica in Italia: bilancio di un ventennio e prospettive» tenutosi a Perugia l’8-9 novembre 2013. Le relazioni sono state riviste dagli autori e in alcuni casi attualizzate essendo l’argomento trattato indiscutibilmente contemporaneo e in continuo divenire.

Volpi, apre con il suo ‘Bilancio’ sugli ultimi venti anni di Repubblica, sul passaggio dalla prima alla seconda e la chiusura di quest’ultima fissandone anche i limiti temporali nelle elezioni politiche del 1993 e quelle del 2013. L’unico parallelo che si sente di avanzare è con la vicina Francia, che per numero di ‘Repubbliche’ è andata ben oltre il due, pur rimarcandone le differenze.

«In Italia invece sono venuti meno tutti i partiti che avevano caratterizzato la vita della Repubblica nella lotta antifascista, nella fase costituente e nel dopoguerra e sono nate nuove forze politiche, alcune delle quali non avevano alcun rapporto con quelle “costituenti” o derivavano da partiti che avevano contestato la Costituzione repubblicana.»
Un ‘Bilancio’ quello di Volpi che tiene in considerazione il rapporto tra gli effetti auspicati e quelli realmente prodotti. «I primi sono stati in larga misura “effetti immaginari”, basati sui miti fondativi del ventennio che non si sono realizzati o si sono realizzati solo in misura contenuta.»

Il più inflazionato tra questi “miti fondativi” è quello della governabilità, intesa come stabilità e capacità di durata dei governi. In conclusione comunque un ‘Bilancio’, quello di Volpi, che non sembrerebbe tanto positivo, al punto che lo stesso per chiarire la situazione cita Diamanti «sulla nostra democrazia rappresentativa tira una brutta aria, derivante dalla assuefazione all’anormalità politica e istituzionale che alimenta il disincanto se non l’indifferenza verso la democrazia».

Mario Dogliani, esordisce evidenziando la discrasia esistente tra la «enorme quantità di scritti che hanno ad oggetto la giurisprudenza costituzionale» e la «molto minore quantità di scritti dedicati alla forma di governo e ai singoli organi costituzionali politici».

Senza entrare nel merito della necessità o della bontà delle riforme costituzionali, Dogliani focalizza l’attenzione del lettore sulla ‘originalità’ di quanto accaduto. «Che un governo chiedesse un mandato pieno per chiudere una discussione di merito in realtà mai aperta per pilotare con i poteri governativi, e con quelli di disciplinamento di partito, una serie di revisioni costituzionali ed elettorali fondamentali per la forma di governo e per l’equilibrio dei poteri, non lo si era francamente mai visto.»

Massimo Villone concentra le sue riflessioni sull’evoluzione della forma di governo e sul ruolo svolto dal Capo dello Stato «chiamato più o meno affettuosamente dalla stampa nazionale e da quella estera King George. […] La nomina di Monti, la mancata nomina di Bersani, la formazione di governi delle larghe intese, l’anticipazione esplicita del suo orientamento sullo scioglimento anticipato delle Camere, la convocazione al Quirinale di forze politiche della sola maggioranza, l’insistenza sulle “necessarie” riforme, l’iniziativa del Comitato di “saggi”, le esternazioni su temi propri dell’indirizzo di governo, hanno segnato un intenso protagonismo del Presidente della Repubblica» che per Villone è iniziato forse in precedenza, con la sollecitazione a rinviare il voto sulla mozione di sfiducia di Franceschini presentata il 16 novembre 2010.  Con Fini fuori dalla maggioranza, la dilazione diede a Berlusconi il tempo di «recuperare una manciata di voti».

Cesare Pinelli ritorna sul problema della formazione e della stabilità di governo analizzando la situazione italiana con occhi europei e adducendo spunti di riflessione molto interessanti. «Dopo le ultime elezioni tedesche sono passati molti mesi prima che si sia formato il governo e non mi risulta si sia gridato allo scandalo. Perfino nel Regno Unito i partiti che avevano deciso di coalizzarsi hanno lavorato per un po’ di tempo prima di raggiungere un accordo, e anche lì non vi sono state affatto proteste da parte dei cittadini. Il problema, dal punto di vista democratico, non è di sapere quanto tempo occorra per varare una coalizione all’indomani delle elezioni, ma di porre i cittadini in condizione di capire, alla fine della legislatura, come il Governo e la maggioranza parlamentare che lo sostiene hanno esercitato il potere di cui sono stati investiti dai cittadini stessi.»

Oreste Massari invita il lettore a riflettere su quale sia effettivamente lo scopo primario di un buon sistema elettorale. Secondo la dottrina è quello di assicurare un giusto equilibrio tra rappresentatività e governabilità, tra voto alla lista e voto alla persona, tra rappresentanza nazionale e rappresentanza territoriale, tra potere dei partiti e potere degli elettori. Almeno secondo quanto riportato da Massari e Pasquino già nel 1994, mentre «se guardiamo alla finalità insita nella logica di funzionamento di tutti i sistemi elettorali, maggioritari, proporzionali o misti, nei paesi occidentali o perlomeno europei, troviamo che la finalità è di ridurre la frammentazione partitica sul versante rappresentanza-governabilità».

Anche gli interventi di Massimo Luciani, Mauro Calise e Carlo Galli vertono sui temi della Legge elettorale, sul ruolo del Presidente del Consiglio e su quello del Presidente della Repubblica cercando di rispondere o almeno chiarire alcuni dei tanti interrogativi al riguardo. La Costituzione deve essere oggetto di una «manutenzione» che ne faccia salvo l’impianto di fondo o va radicalmente modificata? La forma di governo più adeguata è quella parlamentare o quella incentrata su un capo dell’esecutivo eletto direttamente dal popolo? Il sistema elettorale attualmente in discussione è innovativo o ripercorre strade discutibili volte a produrre maggioranze certe ma artificiali? Quale può essere la via d’uscita da questa situazione?

Alfio Mastropaolo allarga lo sguardo, nella sua relazione, ai concetti di politica, iperpolitica e populismo, alla critica della politica e all’opinione diffusa che della politica si ha. «Com’è dunque accaduto che la reputazione della politica sia così vistosamente decaduta e che tale decadenza non abbia finora conosciuto alcun rallentamento? La spiegazione di senso comune rinvia a una sopravvenuta – o intrinseca, ma in precedenza sottovalutata – immoralità e inadeguatezza della classe politica.»

“Istituzioni e sistema politico in Italia: bilancio di un ventennio” – di Mauro Volpi

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Professione Lolita” di Daniele Autieri (Chiarelettere, 2015)

05 martedì Mag 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Chiarelettere, DanieleAutieri, Italia, italiani, mafia, ProfessioneLolita, recensione, romanzo

Daniele Autieri, Professione Lolita

Lo scorso gennaio è uscito per Chiarelettere Professione Lolita, del giornalista di «Repubblica» Daniele Autieri, le cui inchieste hanno condotto all’arresto di Furio Fusco, il cosiddetto “fotografo delle minorenni”, e permesso ai carabinieri di sventare un giro internazionale di produzione di materiale pedopornografico.

Professione Lolita non è il “racconto giornalistico” dello scandalo delle baby squillo dei Parioli che ha interessato la capitale e sconvolto la nazione, bensì un romanzo di fantasia nel quale i riferimenti a luoghi e persone sono casuali e complementari alla narrazione. Quello che sembra un desiderio di occultarsi del giornalista, a favore dell’autore, si rivela un espediente vincente perché riesce a penetrare nel lettore con maggiore irruenza che non la semplice lettura di un reportage giornalistico. Perché Lalla, Jenny, Chicca, Fairy, Trilly, Malphas e Je Na potrebbero essere chiunque. I figli di qualcun altro ma anche i nostri figli.

«Perché un sito di professioniste dovrebbe scegliere proprio noi?!»

«Perché siamo carne fresca»

In questo modo si chiude il proscenio curato dal vignettista Vincenzo Bizzarri e si apre il libro di Autieri. Carne fresca, adolescenti che pensano di aver capito come funziona il mondo ma soprattutto che vogliono conquistarlo questo mondo fatto di successo, di potere e di denaro che li circonda e li schiaccia da quando erano in fasce. Un universo nel quale sono cresciuti o dentro il quale vogliono entrare a ogni costo. Vengono da famiglie disagiate, hanno genitori separati, problemi di inserimento, oppure sono viziati fino all’inverosimile e comunque insoddisfatti e alla continua ricerca di uno sballo che faccia dimenticare le paure, le incertezze, le delusioni che vengono annegate in modo sistematico nell’alcol, fumo, droghe di vario genere e piccoli approcci alla delinquenza di strada.

Quando non è una questione di soldi ma di rivalsa, il solo scopo è quello di ferire i propri genitori assenti, silenziosi, distratti, per attirare la loro attenzione. Quando invece alla base di tutto c’è il denaro, quello che non si ha e che si vorrebbe possedere, allora si ricorre ai metodi più antichi ma anche più brutali: delinquenza e prostituzione. Ragazzini che si ritrovano al baretto o all’incrocio, in piccoli o grandi gruppi, sotto gli occhi di tutti, passanti e turisti, adulti e anziani che vedono solo la loro adolescenza, non i loro demoni, ben nascosti dietro la pelle liscia, i capelli lunghi, la visiera di un casco o le lenti scure di un occhiale alla moda. Eppure scalpitano, questi demoni, insistenti più che mai, rendendo i ragazzi e le ragazze sempre più vulnerabili, disponibili a farsi sopraffare o a infliggere violenza e auto-infliggersela, a diventare, alla fin fine, i peggiori nemici di se stessi.

Foto di Gustavo Gomes

Fairy ha trascorso gran parte degli ultimi mesi in bagno a vomitare anche l’anima, fino a quando non si è sentita finalmente pronta a guardare e apprezzare la sua immagine riflessa in quello specchio che comunque non riesce a frenare l’inquietudine dei suoi pensieri, il vortice dei suoi tormenti e finisce nelle mani di un fotografo di mezza età che, promettendo successo, regala vergogna.Jenny e Lalla vogliono a tutti i costi riuscire a comprarsi le borse migliori, le scarpe più belle, la bamba più forte, l’accesso ai locali più in. Un posto d’onore in quel mondo dorato di chi ce l’ha fatta ed è “arrivato”. Per farlo pensano di sfruttare il proprio giovane e bel corpo e solo quando è ormai troppo tardi realizzano di essere solamente state fottute.

«E se bastasse urlare? Se la sua gola fosse in grado di emettere un solo grido capace di risvegliare tutte le coscienze addormentate, forse non servirebbe altro. Neanche vendere se stessa».

Foto di Gustavo Gomes

Dietro ogni ragazzo o ragazza inquieta c’è una famiglia problematica o assente che con le urla o i silenzi spinge a imboccare un tunnel buio ma pieno di abbagli, dove pronti ad accoglierli ci sono altri adulti, urlanti o silenti ma molto più pericolosi. E allora ci si domanda: “In quale futuro possono mai credere questi ragazzi che hanno imparato a proprie spese che dei grandi non ci si deve fidare?”

Daniele Autieri

Ragazzi e adulti della capitale che, con in tasca qualche piotta o in banca molto di più, si sentono pronti ad affrontare e vincere contro il mondo intero. Politici, giudici, professionisti, borghesi che pensano di essere imbattibili e furbi. Tutti crollano miseramente di fronte alla paura, quella vera, che viene dal sentirsi una pistola alla tempia o la vita che sfugge. Il terrore generato da chi non si lascia impressionare dai vestiti di sartoria, dalle scarpe lucenti o promesse da marinaio. Davanti ai criminali seri crollano tutti, grandi e piccini, e lo fanno perché si rendono conto che il tempo degli inganni è finito, che non possono cavarsela con scuse a buon mercato come quelle accampate, per esempio, dai politici in campagna elettorale per giustificare il non fatto o il malfatto. Quando ti trovi dinanzi a un boss o un affiliato capisci che il “codice d’onore” vale più di ogni altra cosa e che la parola data, se non mantenuta, non fornisce vie d’uscita.

Per salvare la vita al figlio, il padre di Malphas è costretto a scavare nel suo passato da militante di estrema destra, per ritrovare compagni di fila che possano aiutarlo nell’intento. All’incontro porta anche il ragazzo, il quale ha smesso ormai gli abiti da “duro” per assumere un atteggiamento più remissivo. Entrambi, padre e figlio, si ritrovano a sedere, da principianti, a un tavolo da poker per professionisti, con il terrore di non uscirne vivi, col ricordo ancora caldo di Je Na steso sull’asfalto, con un proiettile nel petto. Così Malphas vende il segreto di Jenny e Lalla al Camaleonte, che gradisce molto l’informazione perché siamo nella Capitale e se un mafioso scopre un giro di prostituzione minorile, in uno dei quartieri più esclusivi di Roma, non pensa a ricavarci denaro bensì grossi favori, la possibilità di tenere in pugno, ricattandola, la gente che conta. Politici, giudici e professionisti diventano suoi burattini all’interno delle Istituzioni. «La conosci la teoria del mondo di mezzo, compa’? Ci stanno, come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. […] E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano. Tu mi dici cazzo come è possibile che quello… com’è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi? […] È impossibile tu mi dici… capito? E invece no, perché secondo la teoria del mondo di mezzo c’è un mondo invece dove tutto si incontra».

In Professione Lolita di Daniele Autieri tutto si consuma tra le vie e i palazzi di una «città che si concede a tutti, ma non ama davvero nessuno», una capitale dove convive di tutto: spettacolo, potere, politica, affare e malaffare. Ogni categoria, ogni persona, anche i ragazzini e le ragazzine sono convinti di poter fregare gli altri e conquistarsi il tanto agognato posto nel “mondo che conta”, sono tutti illusi di aver le giuste carte in mano che gli consentiranno di chiudere la partita, e tutti sono destinati a schiantarsi o contro il muro della paura o contro quello della giustizia. Sia nel primo che nel secondo caso capiranno che hanno nuotato in un mare dove a vincere è la regola che il pesce più grande mangia quello più piccolo. Stop. La giustizia segue regole diverse, il denaro e il potere ritornano a contare di nuovo. Jenny e Lalla finiscono con gli assistenti sociali, il fotografo in prigione, insieme con i mafiosi, mentre i giudici, i politici, i professionisti immischiati a vario titolo nella vicenda si ritrovano liberi di vivere le proprie vite, illudendosi di poter ripulire la propria anima comprando, per esempio, vestiti e auto nuove.

Foto di Gustavo Gomes

«Abbiamo venduto l’anima al diavolo e quello non ce la restituirà».

Per tutte le trecento pagine, per ogni singola pagina, il testo porta il lettore a conoscere un mondo ai più sconosciuto, oppure ignorato, e lo fa con un linguaggio colloquiale, ricco di citazioni dialettali che comunque non disturbano la lettura essendo termini di un romanesco noto praticamente a tutti. Un libro che lascia un grande amaro in bocca ma che aiuta a guardare il mondo con occhi nuovi, sicuramente diversi, Professione Lolita di Daniele Autieri.

http://www.sulromanzo.it/blog/professione-lolita-di-daniele-autieri-cosa-accade-ai-nostri-adolescenti

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La Repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi” di Marco Damilano (Rizzoli, 2015)

09 giovedì Apr 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Italia, italiani, LaRepubblicadelselfie, MarcoDamilano, recensione, Rizzoli, saggio

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Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? Sembra essere la domanda che si è posto Marco Damilano quando ha iniziato ad analizzare la situazione politica e sociale dell’Italia contemporanea, che è l’argomento principale de La Repubblica del selfie (Rizzoli, 2015). E per trovare le risposte è partito dalle origini, da quando la nostra Italia repubblicana è nata, apparentemente risorta dalle ceneri devastanti di una guerra e di una monarchia che si è cercato di scacciare e tenere lontane il più possibile dal ‘Nuovo Stato’.

«Il mio ideale politico è l’ideale democratico. Ciascuno deve essere rispettato nella sua personalità e nessuno deve essere idolatrato. Per me l’elemento prezioso dell’ingranaggio dell’umanità non è lo Stato ma è l’individuo creatore e sensibile, è insomma la personalità. È questa che crea il nobile e sublime, mentre la massa è stolida nel pensiero e limitata nei suoi sentimenti». Così Albert Einstein definisce il suo ideale politico e il come i politici sfruttino la massa stolida nel pensiero e limitata nei suoi sentimenti per affermare la propria personalità ben lo descrive Damilano ne La Repubblica del selfie. Per il fisico tedesco nessuno deve essere idolatrato invece la storia politica della Repubblica italiana è piena zeppa di ‘idoli’ i quali indistintamente hanno cercato di captare i bisogni e i malesseri della massa per propagandarli come obiettivi e finalità. Destra, sinistra, centro-destra e centro-sinistra senza distinzione alcuna e se c’è un punto in cui tutte le forze politiche si sono sempre incontrate è proprio nell’aver ‘sfruttato’ il popolo per le personali scalate ai vertici del potere.

Damilano in più punti e per più personaggi evidenzia le analogie come le differenze dei vari leader ma ciò che tristemente emerge dal suo resoconto è la reazione pressoché invariata della gente che immancabilmente ha finito con il credere alle parole del Ciceronedi turno, piena di speranze e aspettative, immancabilmente deluse. E succede anche questa volta con un vero e proprio assalto alla diligenza nel tentativo di salire quanto prima sul carro del vincitore e ciò accade non solo tra gli elettori.

«Dall’uno contro tutti, come appariva Renzi nel 2012, al tutti per uno attuale, quando nella Roma dei palazzi è diventato impossibile trovare un emergente, o un consumato gattopardo, che non si dichiari preventivamente renziano.»

Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? «La Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. Con l’ossessione della rappresentanza. Nessuno doveva sentirsi escluso dal gioco: nessuna ideologia, nessuna categoria. Tutti dovevano sentirsi coinvolti nella partita. […] La Seconda Repubblica è stata la Repubblica della rappresentazione. Il suo simbolo è stata la tv commerciale che già negli anni Ottanta, prima che il berlusconismo prendesse forma politica, proponeva modelli di vita, rappresentazioni cui uniformarsi. […] La Terza Repubblica, la Repubblica di Renzi, sarà la stagione dell’auto-rappresentazione. Saltare i canali di comunicazione del passato. La Prima Repubblica aveva la Rai, la Seconda la tv commerciale, la Terza Twitter.»

Damilano riprende e ripercorre la storia delle ‘origini politiche’ di Matteo Renzi, dei suoi amici, collaboratori, dei presunti finanziatori e presumibili recruiter. Passaggi importanti, determinanti per analizzare ciò che è stato e soprattutto ciò che sarà, tappe fondamentali della sua ascesa politica che sembrano non interessare alcuno dei suoi fan o followerimmancabilmente pronti a ritwittare ogni cinguettio del selfie-made-man nazionale, come lo ha definito il giornalista Marco Travaglio scrivendo la prefazione a L’Intoccabile. Matteo Renzi. La vera storia di Davide Vecchi (Chiarelettere, 2014).

«Il renzismo è figlio del berlusconismo? Per provare a rispondere bisogna recuperare un documento destinato a restare segreto e rivelato dall’Espresso nell’estate 2012. Il progetto denominato “Rosa tricolore” era stato preparato da esponenti del cerchio magico che circonda Berlusconi vicini al toscano Denis Verdini, il potente padrone dell’apparato forzista. Si prevedeva in breve tempo l’azzeramento di tutto il gruppo dirigente del Pdl (Verdini escluso) e l’ingresso sulla scena di un nome nuovo. Il solo giovane uomo che ci fa vincere: Matteo Renzi, si leggeva nel titolo.»

D’altronde che Renzi sia ben visto e ben voluto dalla cerchia filo-berlusconiana ben lo si evince dalle dichiarazioni di Giuliano Ferrara: «E volete che un vecchio berlusconiano pop, come me, non si innamori del boy scout della Provvidenza?». Un ‘amore’ così forte da sopravvivere anche al ‘tradimento del Patto’ perché, scrive Damilano, «Renzi per Ferrara è qualcosa di più del semplice prediletto del berlusconismo: è il discendente di una cultura che vede l’essenza della politica nella Realpolitik, nell’analisi feroce e spietata dei rapporti di forza, nel cinismo dei patti traditi e dei capovolgimenti di pensiero».

Non dovrebbero stupire e trovare largo consenso a questo punto le accuse di chi punta il dita sul ‘vuoto’ creatosi negli ideali tanto professati dalla Sinistra italiana, la mancanza pressoché assoluta di politiche che rimandano al welfare, al sociale, al collettivo, le accuse di chi vede completamente svuotati di valori e di ideali questi partiti diventati a tutti gli effetti degli uffici di collocamento del business della politica e invece sono veramente pochi gli italiani che ammettono il fallimento e ancor di meno sono gli operatori del settore dell’informazione che scrivono o dicono esattamente come stanno le cose e perché, quelli che il Presidente del Consiglio in carica chiama i “gufi”. Meglio non dire, meglio non riflettere, senza analisi e senza critiche profonde si va avanti a colpi di tweet e selfie che sono o sembrano dei veri e proprio lanci pubblicitari. «Un selfie moltiplicato per milioni di italiani. Auto-scatto, auto-promozione sui social network, auto-identità, auto-referenzialità. Auto-rappresentazione, appunto».

Ne La Repubblica del selfie Marco Damilano scava a fondo nella storia politica contemporanea illuminando quei personaggi o quegli eventi apparentemente distanti, lontani, volutamente o casualmente passati nel dimenticatoio collettivo e li riporta in prima fila, allineando pensieri e riflessioni e regalando al lettore uno spaccato della nostra Repubblica che invita molto alla riflessione e perché no all’autocritica, come italiani ma soprattutto come elettori e, nella «Repubblica di Renzi», anche come follower. L’autore non manca di ricordare che alle scorse elezioni europee il partito democratico ha superato il 40% e ottenuto un consenso che neanche Berlusconi aveva raggiunto, eguagliando la popolarità dei tempi d’oro della Democrazia cristiana.

Per tutte le 270 pagine che compongono il libro Damilano racconta, da giornalista e narratore, una considerevole mole di fatti, accadimenti, riportando dati, informazioni, nomi e luoghi ma lo fa con un linguaggio molto discorsivo, non pesante che, unitamente alla curiosità che nasce nel voler saperne ancora, conduce il lettore voracemente fino alla conclusione che in realtà rappresenta solamente l’inizio di un qualcosa che, nonostante tutto, non si è riusciti a definire fino in fondo.

«“Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retro pensieri: basta una sera alla tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia” scrive mentre sta guardando Piazza Pulita. “Dobbiamo cambiare modo di raccontare l’Italia e la politica” aggiunge. Cambiare il modo di raccontare l’Italia per cambiare l’Italia. Proposito vagamente inquietante, se a esprimerlo è il presidente del Consiglio.»

Mahatma Gandhi sosteneva che «l’uomo si distrugge con la politica senza princìpi, col piacere senza la coscienza, con la ricchezza senza lavoro, con la conoscenza senza carattere, con gli affari senza morale, con la scienza senza umanità, con la fede senza sacrifici».

Marco Damilano, “la repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi”

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