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Irma Loredana Galgano

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“Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

18 domenica Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DavidBidussa, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, GiuliaAlbanese, JacopoPerazzoli, politica, recensione, saggio, Siamostatifascisti

Per riuscire a comprendere fino in fondo cosa è stato il fascismo in Italia è necessario studiare, analizzare, comprendere l’humus politico e sociale nel quale esso ha avuto origine, quella “nuova stagione politica” che ha avuto inizio prima della Grande Guerra, prima della costituzione del Partito fascista, prima del consolidamento della “dittatura a viso aperto”.

Studiare quella che Philippe Burrin ha definito la “preistoria” del fascismo e farlo per mezzo di un’indagine che evidenzi non le differenze bensì le analogie, volta cioè a mettere a fuoco i molti volti di una “famiglia politica” di cui il fascismo italiano è parte.

Ed è esattamente ciò che hanno fatto Giulia Albanese, David Bidussa e Jacopo Perazzoli nel saggio Siamo stati fascisti, composto a partire dalle testimonianze scritte dirette di personaggi protagonisti del tempo e legate insieme dai contributi introduttivi degli stessi autori.

Scritti di Pascoli, Papini, Tolomei, Salvemini, Tamaro, Nenni… e dello stesso Mussolini inducono il lettore a riflettere sul periodo storico oggetto di indagine, sulla mentalità del tempo, sulle idee politiche ma anche sulle azioni poste in essere, sul malessere diffuso e il malcontento generale della popolazione. Focalizzano l’attenzione sulle rivolte e le ribellioni, sulle repressioni, tentate o poste in essere, e sulle azioni intraprese o auspicate.

Il quadro che emerge dalla lettura del testo è uno spaccato dell’Italia di inizio Novecento, la narrazione che di essa si faceva e l’immaginario intorno al quale il fascismo ha rafforzato le sue basi.

Un immaginario costruito in risposta a un rinnovamento profondo del rapporto tra società e istituzioni. Un primo aspetto di questa trasformazione coincide con la progressiva sfiducia nei confronti della democrazia come luogo e come pratica di cittadinanza. Un secondo aspetto, legato al primo, è conseguenza del processo di democratizzazione giunto a un punto di svolta con la Prima guerra mondiale e con il varo del suffragio universale maschile. Un terzo aspetto è raffigurato dal ruolo di costruzione dell’opinione e del discorso antiparlamentare e antidemocratico che assumono e svolgono le avanguardie artistiche e culturali nell’Italia giolittiana.

Molto interessante risulta l’indagine condotta da Giulia Albanese volta al racconto di come il fascismo abbia determinato e cambiato la vita della minoranza socialista costretta all’esilio, interno o esterno, all’adattamento oppure alla rivoluzione. Una storia che si lega a quella, più generale, della trasformazione degli italiani da afascisti o antifascisti a fascisti.

Sottolinea infatti Albanese che, se la maggior parte degli italiani si adeguò progressivamente al fascismo, in gradi e con modalità diverse, o evitò di guardare in faccia ai vinti del fascismo, il fascismo agì però in maniera profonda nella comunità socialista (o comunista) – e in un pezzo del mondo popolare – disarticolandoli grazie ai bandi che colpirono capi lega e singoli esponenti.

L’intervento di Jacopo Perazzoli è focalizzato su quello che doveva essere lo stato d’animo degli italiani nel decennio compreso tra il 1911 e il 1921, cittadini di uno stato che, seppur annoverato tra i vincitori, era uscito decisamente sconfitto e provato dal Primo conflitto mondiale. Difficoltà che andavano a sommarsi a un quadro generale già gravato da profondi squilibri interni (sviluppo industriale non sistemico, alta disoccupazione, gestione latifondista delle terre da coltivare…).

D’altra parte, evidenzia Perazzoli, fu proprio il conflitto a trasfigurare la società italiana che, a guerra conclusa, ambiva a divenire protagonista, superando le rigidità di uno Stato, plasmato dalla classe dirigente liberale a partire dal 1861, incapace di includerla appieno nei suoi meccanismi e nei suoi processi decisionali.

L’attivismo dei ceti popolari si risolse in una risposta da parte della classe dirigente non declinabile in senso forzatamente reazionario; essa cercò di dare soluzioni a quelle inquietudini, a quelle insoddisfazioni, non ricorrendo alla democrazia parlamentare, bensì all’uomo forte, l’unico capace, per lo meno secondo i sostenitori di questa tesi, a dare ordine e speranza al Paese, così da trasformare l’«italietta liberale» in una potenza globale.

David Bidussa riprende le considerazioni di George L. Mosse su quel “nuovo” modo di fare politica di cui il fascismo fu iniziatore. Una politica che si riconosce per il fatto che segna un passaggio: più importante della parola scritta è la parola parlata. Più precisamente: la parola gridata, o forse ancora più precisamente la parola amplificata. Quel linguaggio ha molti autori, vive di molte fonti e del loro intreccio, e si forma nel corso della crisi italiana che non coincide con la guerra o con i turbamenti successivi, no è un qualcosa di precedente, che nasce prima, come ampiamente illustrato nel testo.

Lo scopo del libro è un invito a riflettere sul fatto che quello del fascismo non è ovviamente una parentesi o una deviazione. Ma non è, neppure, un luogo di per sé irripetibile, con forme rinnovate, nella storia italiana.

Bibliografia di riferimento

Giulia Albanese, David Bidussa, Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2020


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt” a cura di Jacopo Perazzoli (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019)

29 lunedì Giu 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DomenicoRomano, FernandoDAniello, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, JacopoPerazzoli, JosephStiglitz, KishoreMahbubani, ordinemondiale, Perunmodellodisviluppoalternativo, recensione, saggio, WillyBrandt

Riscoprire il Rapporto Brandt, a distanza di quarant’anni dalla sua pubblicazione, può diventare molto utile per gli attuali attori politici come per la sfera pubblica in generale.

È questo lo scopo per cui Jacopo Perazzoli, ricercatore presso la Fondazione Feltrinelli e docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano, ha curato il volume Per un modello di sviluppo alternativo che raccoglie gli scritti di Fernando D’Aniello e Domenico Romano oltre alle parole dello stesso Willy Brandt.

Un libro che non vuole essere un mero esercizio agiografico né tantomeno un tentativo di ricercare elementi di attualità in quel documento. Il quarantesimo anniversario dalla pubblicazione deve essere, nelle intenzioni del curatore, un momento per comprendere che le grandi proposte possono essere realizzate se basate su solide analisi empiriche del quadro a cui si riferiscono. E che dette proposte possono avere un futuro concreto soltanto se la sfera politica se ne fa carico in maniera convinta. Ovvero il contrario esatto di ciò che è accaduto dopo la pubblicazione del Rapporto North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, nel febbraio del 1980 e del secondo memorandum del 1983, Common crisis. North-South: cooperation for world recovery.

Oggi, esattamente e forse ancora più di allora, persiste la necessità di trovare un nuovo modello di sviluppo globale capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo e di quelli poveri, anche di materie prime. Ovvero, come sintetizza Perazzoli, connettere prospettive differenti con l’obiettivo di individuare una crescita equilibrata.

Un dibattito che impegna economisti e studiosi, di oggi e di ieri. Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald, convinti sostenitori della necessità di abbandonare, in economia, il neoclassicismo imperante e puntare su un modello di crescita economica basato sull’apprendimento, riprendono e sposano le teorie economiche di Kenneth Arrow.

Un maggiore innalzamento degli standard di vita potrebbe indurre una società dell’apprendimento molto più di quanto fanno e hanno finora fatto piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in società dell’apprendimento li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa. 1

Se un insegnamento può trarsi dal lungo lavoro della commissione presieduta da Willy Brandt, Perazzoli lo individua nella capacità di analizzare a fondo e senza pregiudizi lo stato dell’arte globale, rifuggendo dalla “pericolosa inclinazione ad individuare coloro che, a torto o ragione, possono essere ritenuti i responsabili delle complicate condizioni dell’oggi”.

La via da percorrere era ispirata dalla Ostpolitik, portata avanti dallo stesso Brandt durante il periodo in cui era stato cancelliere della Germania Federale (1969-1974), con la quale egli riteneva di aver dimostrato la possibilità di far emergere aree di interesse comune anche in presenza di irreversibili divergenze ideologiche. Se era stato possibile applicare questo principio al dialogo tra mondo capitalista e mondo comunista allora sarebbe stato possibile applicarlo anche alla negoziazione tra i vari paesi, sviluppati o meno che fossero.

James Bernard Quilligan, già policy advisor e press secretary della commissione, lavorando nel 2001 a un aggiornamento dei risultati prodotti, aveva individuato dodici capitoli su cui il gruppo Brandt si era espresso: lotta a fame e povertà, politiche per famiglia, donne, aiuti, debito, armamenti, energia e ambiente, tecnologica e diritto societario, commercio, monete e finanza, negoziazioni globali.

Le soluzioni a questi problemi, ricorda nel suo intervento Domenico Romano, sarebbero dovute arrivare tramite quattro tipi di intervento:

  • Riforme cooperative dell’ordine economico internazionale.
  • Un trasferimento di risorse economiche e tecnologiche molto intenso dal nord verso il sud, attraverso le multinazionali e tramite un aumento della quota Pil destinata agli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi del nord.
  • Supporto al processo di disarmo e nuovi meccanismi di peace keeping internazionali, non tanto e non solo per ragioni etiche ma per liberare spazio per investire risorse nella crescita del sud del mondo.
  • Un programma energetico internazionale che tenesse stabili a un livello comunemente soddisfacente i prezzi e la fornitura di petrolio, in connessione con la ricerca di nuove fonti e forme di energia.

Il tutto sarebbe dovuto avvenire per il tramite di negoziazioni globali tra i protagonisti.

Romano sottolinea che, al di là delle singole soluzioni, l’aspetto centrale del Rapporto Brandt è individuabile in una coppia concettuale: interdipendenza e interesse comune.

L’interdipendenza creava lo spazio per l’interesse reciproco tra nord e sud. Il principale degli interessi comuni è “semplicemente” la sopravvivenza dell’umanità.


«È concreto il rischio che, nel 2000, gran parte della popolazione mondiale continui a vivere in condizioni di povertà. Non è escluso che allora il mondo risulti sovraffollato (e indubbiamente sarà iperurbanizzato), né che l’inedia di massa e i pericoli di distruzione aumentino inesorabilmente.»

Willy Brandt


Nell’attuale contesto economico dei paesi industrializzati, colpito anche da una disoccupazione elevata e vasti processi di trasformazione, è fuor di dubbio forte la volontà di voler proteggere l’economia nazionale a prezzo di uno squilibrio dell’economia internazionale. Ma Fernando D’Aniello ricorda che questo errore è stato commesso da Stati Uniti ed Europa già cinquant’anni or sono, allorquando “il mondo coloniale andò in bancarotta, il Nord America si rovinò, l’Europa fu avvolta dalle fiamme”.

Per Willy Brandt, un mutamento di carattere fondamentale non può essere frutto di carteggi bensì il risultato di ciò che, in un processo storico, prende forma o si abbozza nella mente degli uomini. Mutamenti e riforme non possono aver luogo a senso unico: devono essere favoriti da governi e popoli, sia delle nazioni industrializzate che di quelle emergenti. E, a tal proposito, egli riteneva doveroso invitare a collaborare in maniera più intensa la Repubblica Popolare Cinese, per dar modo anche ad altri di beneficiare della sua esperienza di massimo paese in via di sviluppo.

Solo tramite una vera democrazia globale, che riesca ad ascoltare e far partecipare anche le nazioni del Sud del mondo, quest’ultime accetteranno di sostenere la propria parte di responsabilità globale e non si sentiranno solo pedine su uno scacchiere.

Anche Kishore Mahbubani afferma sia giunto il momento, per l’Occidente tutto, di abbandonare molte delle sue politiche miopi e autodistruttive e perseguire una strategia completamente nuova nei confronti del Resto del Mondo. Una strategia che egli sintetizza con tre parole chiave e definisce appunto delle 3M: minimalista, multilaterale, machiavellica.

  • Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente poi non ha bisogno di esserne bombardato. L’imperativo minimalista dovrà essere fare meno ma fare meglio.
  • Le istituzioni e i processi multilaterali forniscono la migliore piattaforma per ascoltare e comprendere le diverse posizioni a livello mondiale. Il Resto del Mondo conosce molto bene l’Occidente, ora questo deve imparare a fare altrettanto. Il miglior luogo, per Mahbubani, è l’Assemblea Generale dell’ONU, il solo forum dove tutti i 193 Paesi sovrani possono parlare liberamente.
  • Nel nuovo assetto mondiale la strategia servirà più della forza delle armi, per questo l’Occidente deve imparare da Machiavelli e sviluppare maggiore scaltrezza per proteggere i propri interessi a lungo termine. 2

Di solito, continuava Brandt nella relazione introduttiva al Rapporto, si pensa alla guerra in termini di conflitto militare se non di annichilimento. Ma sempre più si diffonde la consapevolezza che un pericolo non minore potrebbe essere costituito dal caos, frutto di fame diffusa, disastri economici, catastrofi ecologiche e terrorismo.

Tutti aspetti con i quali sono quotidianamente costretti a confrontarsi non solo e non soltanto più i paesi meno o a-sviluppati bensì sempre più anche quelli maggiormente sviluppati.

Le tensioni continue che agitano le società occidentali sembrano inarrestabili a causa di guerre e terrorismo che incidono in maniera diretta e indiretta per il tramite di attentati o migrazioni, crisi finanziarie ed economiche e, non da ultimo per ordine di importanza, pandemie che attaccano l’intero sistema. Eppure, ancora una volta, sembra assistere a un atteggiamento che è l’opposto di quanto hanno voluto indicare Brandt, Kishmore o Stiglitz. I più forti o i meno colpiti che stentano ad andare incontro ai meno forti o più colpiti.

Basti citare, a titolo di esempio, cosa sta accadendo in Europa all’idea di attuare un Recovery Fund che dovrebbe aiutare le nazioni più colpite dal Covid-19 a uscire dalla crisi. Paesi come Austria e Olanda si sono mostrati contrari fin da subito a qualsiasi forma di condivisione del debito, mentre tale prospettiva sarebbe ben accolta dai paesi più colpiti, come Italia e Spagna. Da Francia e Germania invece è stata avanzata una proposta di concessioni di denaro a fondo perduto.

Quest’ultima posizione in particolare è stata caldeggiata anche dal Premio Nobel per l’Economia 2001 nonché docente alla Columbia University Joseph Stglitz il quale ha pubblicamente dichiarato di trovare preoccupante il fatto che ancora ci siano paesi in Europa che vogliono imporre condizioni all’assistenza, preferendo erogare prestiti piuttosto che ragionare in termini di trasferimenti o comunque di altre e differenti forme di aiuto.

Lo stesso Brandt nel Rapporto del 1980 sottolineava come la mera concessione di prestiti per lo sviluppo non farebbe che aumentare il carico di debiti delle nazioni del terzo mondo, qualora essi servano a crearvi industrie senza contemporaneamente assicurare i mezzi di rimborso.

Per la gran parte è esattamente quello che poi è successo. Un ulteriore aumento del debito non è certo auspicabile, e non solo per i cosiddetti paesi del terzo mondo. In generale per tutti i paesi del Sud, anche europeo.

Bibliografia di riferimento

Fernando D’Aniello, Domenico Romano, Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019.

1Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Torino, Einaudi, 2018.

2Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi vince e chi perde, Milano, Bocconi Editore, 2019


Articolo disponibile anche qui


LEGGI ANCHE

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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