• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi tag: JosephStiglitz

È tempo di “Riscrivere l’economia europea”

02 martedì Feb 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

economia, Europa, IlSaggiatore, JosephStiglitz, Occidente, recensione, Riscrivereleconomiaeuropea, saggio

Bassi livelli di crescita, aumento della disuguaglianza, crescente insicurezza economica per vasti settori: sono solo alcune delle conseguenze dei problemi che non potranno mai essere risolti con piccoli cambiamenti politici. Per migliorare i risultati dell’economia e creare un benessere condiviso occorre riscrivere le regole dell’economia europea, intese nel senso più ampio, che comprende anche le politiche di fondo per il governo dell’Unione europea.

Dopo aver analizzato a fondo i problemi dell’economia statunitense, Joseph Stiglitz, in collaborazione con Carter Dougherty e la Foundation For European Progressive Studies, indirizza la sua ricerca verso l’economia europea e i suoi difetti sistemici, dovuti a errori strutturali ma anche al fatto che, ormai, la visione dei fondatori risale a oltre sessanta anni fa. Servono nuove istituzioni e nuove regole di governo dell’economia e della politica, che a loro volta devono basarsi su nuove idee.

Stiglitz, come anche gli altri economisti che hanno condotto l’indagine, si rivela fin da subito consapevole di quanto possa essere in realtà complesso apportare cambiamenti radicali al quadro economico di base, pertanto si è preferito concentrare l’attenzione su ciò che è realmente possibile fare pur mantenendo pressoché invariati i vincoli attuali imposti dall’Unione a se stessa come ai singoli paesi membri.

Un aspetto peculiare dell’economia europea è il modello sociale, il cosiddetto welfare state. Quest’ultimo ha pagato, nei vari paesi europei, un prezzo altissimo all’austerità, proprio in una fase in cui l’Europa avrebbe dovuto invece rinnovarlo e incrementarlo per renderlo adeguato alle realtà economiche del Ventunesimo secolo.

Oggi i cittadini europei hanno, rispetto a prima della crisi del 2008, meno possibilità di lavorare, istruirsi, curarsi e andare in pensione, e in alcuni paesi queste possibilità sono scese a livelli decisamente inaccettabili.

Gli autori affermano che la gran parte dei risultati deludenti dell’Unione europea sia riconducibile al quadro di politica macroeconomica. E i risultati, particolarmente deludenti, dell’Eurozona dipendono in parte proprio dalla sua struttura.

L‘euro ha eliminato i principali meccanismi correttivi, amplificando così le conseguenze di eventi come la crisi finanziaria del 2008 e provocando la successiva crisi del debito sovrano.

L’economia europea ha evidenziato anche un altro problema, ancor più preoccupante: i benefici di quel poco di crescita che c’è stato sono andati in gran parte a chi stava già meglio di tutti gli altri.

Le regole e le regolamentazioni economiche europee risalgono agli anni Novanta, che era decisamente un momento di trionfalismo capitalista. Però sostenere che a far crollare i regimi autoritari, da Varsavia a Bucarest fino a Mosca, sia stata l’economia di mercato significa travisare la storia: quel crollo fu il risultato del fallimento di un sistema comunista profondamente sbagliato, spinto sull’orlo del precipizio dalla determinazione americana nella corsa al riarmo tecnologico e dall’anelito umano alla libertà.

Se l’Eurozona fosse stata creata pochi anni dopo, allorquando le economie dell’est asiatico furono investite da una serie di shock economici, i rischi di quella formula, per Stiglitz e colleghi, sarebbero stati molto più evidenti.

Quei paesi non erano riusciti a evitare una crisi grave pur avendo rispettato alla lettera le stesse ricette macroeconomiche di contenimento del disavanzo, del debito e dell’inflazione confluite nei vincoli dell’Unione europea. Ma anche i precedenti successi di quei paesi per gli autori vanno interpretati come una smentita del credo ultracapitalista. Per anni, infatti, i loro altissimi tassi di crescita erano stati favoriti da un interventismo pubblico ben più sistematico di quello consentito dalle regole europee.

Molti europei guardavano con ammirazione all’aumento del Pil americano, ma trascuravano il ristagno, anzi il calo in termini reali, del reddito di larghe fette della popolazione statunitense, e ignoravano sia la precarietà dei redditi, sia la mediocrità dei servizi sanitari, che si rifletteva in un’aspettativa di vita inferiore a quella di tutti gli altri paesi sviluppati.

Con ogni probabilità, se le regole fossero state scritte dopo la crisi e la recessione, i loro estensori sarebbero stati ben più scettici sulla capacità dei mercati – soprattutto finanziari – di funzionare da soli.

Tutte le crisi prima o poi passano, ma, nel valutare un sistema economico, ciò che conta non è che la crisi sia finita o semplicemente superata, bensì il tempo impiegato per arrivare a una completa ripresa, le sofferenze inflitte ai cittadini, e la durata delle stesse, e la vulnerabilità del sistema a un’altra crisi.

In Europa le conseguenze della crisi finanziaria e della recessione sono state inutilmente gravi, lunghe e dolorose. Il divario tra la condizione attuale dell’economia e quella in cui si sarebbe trovata in assenza di crisi si misura ormai in trilioni di euro. E ancora oggi, oltre un decennio dopo lo scoppio della crisi, la crescita rimane incerta.

I problemi di fondo della struttura economica e del quadro delle politiche europee sono ancora gli stessi che hanno condotto alla crisi, e ciò rende l’Europa vulnerabile a una nuova crisi.

Le sfide da affrontare sono, in sintesi:

  • Scelte di politica economica (politica macroeconomica, politica monetaria, investimenti pubblici).
  • Regolamentazione dei mercati (riforme della corporate governance, dei mercati finanziari, della proprietà intellettuale, della concorrenza e del fisco).
  • Creazione di uno Stato sociale all’altezza del Ventunesimo secolo.
  • Definizione concordata di nuove regole globali che gestiscano meglio la globalizzazione, in modo da non aggravare i problemi di disuguaglianza.

L’Europa ha la tendenza a orientarsi verso i paesi maggiori eppure per Stiglitz, a volte, sono i paesi minori a creare modelli esportabili. Per esempio, il Portogallo ha dimostrato che la strada giusta è la crescita non l’austerità.

All’epoca in cui fu sottoscritto il Patto di Stabilità e Crescita, il mondo era appena uscito da una fase di inflazione galoppante. Ma oggi il problema non è più l’inflazione ma la disoccupazione. Per offrire lavoro a tutti occorre abbandonare l’austerità, correggere il disallineamento dei tassi di cambio in modo da renderli più equi ed efficienti e investire di più e con intelligenza.

Si può fare di meglio anche restando nell’ambito del Patto di Stabilità e crescita. Un paese può ad esempio rispettare il quadro di bilancio in pareggio (o il deficit entro il tre per cento) e contemporaneamente aumentare sia le tasse che le spese, in modo da stimolare l’economia. Ovvero impiegare il cosiddetto moltiplicatore di bilancio in pareggio. Va da sé però che bisogna scegliere con oculatezza le voci giuste, sia per le entrate che per le uscite.

Attualmente una delle economie ritenute più forti e stabili, all’intero dell’Unione, è quella tedesca. Tuttavia, ricordano gli autori, anche la Germania ha interesse ad abbandonare il proprio modello economico fondato sulle esportazioni se si guarda al medio periodo.

Man mano che le imprese cinesi impareranno a fabbricare, e non più acquistare, beni strumentali (soprattutto macchine industriali), questa vorace domanda si trasformerà in concorrenza per l’industria tedesca. Per cui, un maggior dinamismo della domanda interna e un’economia europea in buona salute possono aiutare la Germania ad attutire lo shock inevitabile che l’attende.

La politica monetaria è un altro grande strumento da cui partire per riscrivere l’economia europea.

L’Unione ha concepito la Bce per affrontare un problema del passato (l’inflazione) senza darle flessibilità sufficiente per affrontare i problemi del Ventunesimo secolo (occupazione e stagnazione).

La principale riforma della Bce dovrebbe prevedere l’estensione del suo mandato a un obiettivo di occupazione, basandosi su idee che potrebbero dare alla stessa e alle politiche monetarie europee quella flessibilità di cui c’è estremo bisogno:

  • Usare i margini di discrezionalità consentiti da Maastrich.
  • Fare riferimento all’inflazione di fondo.
  • Spostare l’attenzione sui rischi di inflazione troppo bassa e di deflazione.
  • Riorganizzare il programma di ricerca della Bce.
  • Definire obiettivi d’inflazione simmetrici, o addirittura sbilanciati verso la prevenzione della deflazione, poiché le fasi di alta disoccupazione sono associate a pressioni deflazionistiche.
  • Utilizzare vigilanza e regolamentazione bancaria per promuovere crescita e stabilità, incentivando gli investimenti produttivi e scoraggiando i rischi speculativi.
  • Gestire la vigilanza in modo da non accentuare la contrazione dell’economia.
  • Favorire il credito alle piccole imprese.
  • Accrescere il controllo del Parlamento europeo.
  • Accrescere l’efficacia di vigilanza del Consiglio europeo.
  • Accrescere la trasparenza.

(l’elenco è solo a titolo esemplificativo e non riporta in maniera esaustiva tutte le proposte discusse nel testo)

Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) del 2012 è apparso come il primo approccio verso un cambio di rotta delle direttive economiche europee. Attualmente ritenuto in grado di gestire la crisi di un paese minore ma molto al di sotto di ciò che sarebbe necessario per affrontare una crisi bancaria in un paese maggiore. Oggi, chiedere assistenza sul Mes significa sottoporsi formalmente alla supervisione della troika per tutta la durata della crisi. Per ricevere assistenza i paesi devono accettare specifiche regole di bilancio e diverse modifiche alle proprie politiche.

Durante una videoconferemza organizzata dal think tank europeo Feps, Joseph Stiglitz ha parlato della necessità di prestiti e sovvenzioni da parte dell’Europa ai paesi membri, degli eurobond nel breve periodo, in quanto molti paesi hanno un livello di debito troppo alto per riuscire a reperire autonomamente le risorse necessarie, mentre per il lungo periodo auspica una maggiore tassazione comune dell’Unione europea (web tax, carbon tax, corporate tax).

E, all’interno del Feps Covid Response Papers nuomero dieci di ottobre 2020, Stiglitz parla in dettaglio della situazione attuale con commenti ai provvedimenti presi e quelli calendarizzati nonché dei vari scenari possibili.

Bibliografia di riferimento

Joseph E. Stiglitz, Riscrivere l’economia europea. Le regole del futuro dell’Unione, con Carter Dougherty e Foundation For European Progressive Studies, ilSaggiatore, Milano, 2020.

Titolo originale: Rewriting the rules of european economy.

Traduzione di Marco Cupellaro.

Joseph E. Stiglitz: capo economista e senior fellow del Roosevelt Institute, Premio Nobel per l’Economia 2001.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilSaggiatore Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

“Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020) 

La lotta per salvare la classe media è la nostra lotta? “Questa lotta è la nostra lotta” di Elizabeth Warren (Garzanti, 2020) 

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale 


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt” a cura di Jacopo Perazzoli (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019)

29 lunedì Giu 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

DomenicoRomano, FernandoDAniello, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, JacopoPerazzoli, JosephStiglitz, KishoreMahbubani, ordinemondiale, Perunmodellodisviluppoalternativo, recensione, saggio, WillyBrandt

Riscoprire il Rapporto Brandt, a distanza di quarant’anni dalla sua pubblicazione, può diventare molto utile per gli attuali attori politici come per la sfera pubblica in generale.

È questo lo scopo per cui Jacopo Perazzoli, ricercatore presso la Fondazione Feltrinelli e docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano, ha curato il volume Per un modello di sviluppo alternativo che raccoglie gli scritti di Fernando D’Aniello e Domenico Romano oltre alle parole dello stesso Willy Brandt.

Un libro che non vuole essere un mero esercizio agiografico né tantomeno un tentativo di ricercare elementi di attualità in quel documento. Il quarantesimo anniversario dalla pubblicazione deve essere, nelle intenzioni del curatore, un momento per comprendere che le grandi proposte possono essere realizzate se basate su solide analisi empiriche del quadro a cui si riferiscono. E che dette proposte possono avere un futuro concreto soltanto se la sfera politica se ne fa carico in maniera convinta. Ovvero il contrario esatto di ciò che è accaduto dopo la pubblicazione del Rapporto North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, nel febbraio del 1980 e del secondo memorandum del 1983, Common crisis. North-South: cooperation for world recovery.

Oggi, esattamente e forse ancora più di allora, persiste la necessità di trovare un nuovo modello di sviluppo globale capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo e di quelli poveri, anche di materie prime. Ovvero, come sintetizza Perazzoli, connettere prospettive differenti con l’obiettivo di individuare una crescita equilibrata.

Un dibattito che impegna economisti e studiosi, di oggi e di ieri. Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald, convinti sostenitori della necessità di abbandonare, in economia, il neoclassicismo imperante e puntare su un modello di crescita economica basato sull’apprendimento, riprendono e sposano le teorie economiche di Kenneth Arrow.

Un maggiore innalzamento degli standard di vita potrebbe indurre una società dell’apprendimento molto più di quanto fanno e hanno finora fatto piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in società dell’apprendimento li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa. 1

Se un insegnamento può trarsi dal lungo lavoro della commissione presieduta da Willy Brandt, Perazzoli lo individua nella capacità di analizzare a fondo e senza pregiudizi lo stato dell’arte globale, rifuggendo dalla “pericolosa inclinazione ad individuare coloro che, a torto o ragione, possono essere ritenuti i responsabili delle complicate condizioni dell’oggi”.

La via da percorrere era ispirata dalla Ostpolitik, portata avanti dallo stesso Brandt durante il periodo in cui era stato cancelliere della Germania Federale (1969-1974), con la quale egli riteneva di aver dimostrato la possibilità di far emergere aree di interesse comune anche in presenza di irreversibili divergenze ideologiche. Se era stato possibile applicare questo principio al dialogo tra mondo capitalista e mondo comunista allora sarebbe stato possibile applicarlo anche alla negoziazione tra i vari paesi, sviluppati o meno che fossero.

James Bernard Quilligan, già policy advisor e press secretary della commissione, lavorando nel 2001 a un aggiornamento dei risultati prodotti, aveva individuato dodici capitoli su cui il gruppo Brandt si era espresso: lotta a fame e povertà, politiche per famiglia, donne, aiuti, debito, armamenti, energia e ambiente, tecnologica e diritto societario, commercio, monete e finanza, negoziazioni globali.

Le soluzioni a questi problemi, ricorda nel suo intervento Domenico Romano, sarebbero dovute arrivare tramite quattro tipi di intervento:

  • Riforme cooperative dell’ordine economico internazionale.
  • Un trasferimento di risorse economiche e tecnologiche molto intenso dal nord verso il sud, attraverso le multinazionali e tramite un aumento della quota Pil destinata agli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi del nord.
  • Supporto al processo di disarmo e nuovi meccanismi di peace keeping internazionali, non tanto e non solo per ragioni etiche ma per liberare spazio per investire risorse nella crescita del sud del mondo.
  • Un programma energetico internazionale che tenesse stabili a un livello comunemente soddisfacente i prezzi e la fornitura di petrolio, in connessione con la ricerca di nuove fonti e forme di energia.

Il tutto sarebbe dovuto avvenire per il tramite di negoziazioni globali tra i protagonisti.

Romano sottolinea che, al di là delle singole soluzioni, l’aspetto centrale del Rapporto Brandt è individuabile in una coppia concettuale: interdipendenza e interesse comune.

L’interdipendenza creava lo spazio per l’interesse reciproco tra nord e sud. Il principale degli interessi comuni è “semplicemente” la sopravvivenza dell’umanità.


«È concreto il rischio che, nel 2000, gran parte della popolazione mondiale continui a vivere in condizioni di povertà. Non è escluso che allora il mondo risulti sovraffollato (e indubbiamente sarà iperurbanizzato), né che l’inedia di massa e i pericoli di distruzione aumentino inesorabilmente.»

Willy Brandt


Nell’attuale contesto economico dei paesi industrializzati, colpito anche da una disoccupazione elevata e vasti processi di trasformazione, è fuor di dubbio forte la volontà di voler proteggere l’economia nazionale a prezzo di uno squilibrio dell’economia internazionale. Ma Fernando D’Aniello ricorda che questo errore è stato commesso da Stati Uniti ed Europa già cinquant’anni or sono, allorquando “il mondo coloniale andò in bancarotta, il Nord America si rovinò, l’Europa fu avvolta dalle fiamme”.

Per Willy Brandt, un mutamento di carattere fondamentale non può essere frutto di carteggi bensì il risultato di ciò che, in un processo storico, prende forma o si abbozza nella mente degli uomini. Mutamenti e riforme non possono aver luogo a senso unico: devono essere favoriti da governi e popoli, sia delle nazioni industrializzate che di quelle emergenti. E, a tal proposito, egli riteneva doveroso invitare a collaborare in maniera più intensa la Repubblica Popolare Cinese, per dar modo anche ad altri di beneficiare della sua esperienza di massimo paese in via di sviluppo.

Solo tramite una vera democrazia globale, che riesca ad ascoltare e far partecipare anche le nazioni del Sud del mondo, quest’ultime accetteranno di sostenere la propria parte di responsabilità globale e non si sentiranno solo pedine su uno scacchiere.

Anche Kishore Mahbubani afferma sia giunto il momento, per l’Occidente tutto, di abbandonare molte delle sue politiche miopi e autodistruttive e perseguire una strategia completamente nuova nei confronti del Resto del Mondo. Una strategia che egli sintetizza con tre parole chiave e definisce appunto delle 3M: minimalista, multilaterale, machiavellica.

  • Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente poi non ha bisogno di esserne bombardato. L’imperativo minimalista dovrà essere fare meno ma fare meglio.
  • Le istituzioni e i processi multilaterali forniscono la migliore piattaforma per ascoltare e comprendere le diverse posizioni a livello mondiale. Il Resto del Mondo conosce molto bene l’Occidente, ora questo deve imparare a fare altrettanto. Il miglior luogo, per Mahbubani, è l’Assemblea Generale dell’ONU, il solo forum dove tutti i 193 Paesi sovrani possono parlare liberamente.
  • Nel nuovo assetto mondiale la strategia servirà più della forza delle armi, per questo l’Occidente deve imparare da Machiavelli e sviluppare maggiore scaltrezza per proteggere i propri interessi a lungo termine. 2

Di solito, continuava Brandt nella relazione introduttiva al Rapporto, si pensa alla guerra in termini di conflitto militare se non di annichilimento. Ma sempre più si diffonde la consapevolezza che un pericolo non minore potrebbe essere costituito dal caos, frutto di fame diffusa, disastri economici, catastrofi ecologiche e terrorismo.

Tutti aspetti con i quali sono quotidianamente costretti a confrontarsi non solo e non soltanto più i paesi meno o a-sviluppati bensì sempre più anche quelli maggiormente sviluppati.

Le tensioni continue che agitano le società occidentali sembrano inarrestabili a causa di guerre e terrorismo che incidono in maniera diretta e indiretta per il tramite di attentati o migrazioni, crisi finanziarie ed economiche e, non da ultimo per ordine di importanza, pandemie che attaccano l’intero sistema. Eppure, ancora una volta, sembra assistere a un atteggiamento che è l’opposto di quanto hanno voluto indicare Brandt, Kishmore o Stiglitz. I più forti o i meno colpiti che stentano ad andare incontro ai meno forti o più colpiti.

Basti citare, a titolo di esempio, cosa sta accadendo in Europa all’idea di attuare un Recovery Fund che dovrebbe aiutare le nazioni più colpite dal Covid-19 a uscire dalla crisi. Paesi come Austria e Olanda si sono mostrati contrari fin da subito a qualsiasi forma di condivisione del debito, mentre tale prospettiva sarebbe ben accolta dai paesi più colpiti, come Italia e Spagna. Da Francia e Germania invece è stata avanzata una proposta di concessioni di denaro a fondo perduto.

Quest’ultima posizione in particolare è stata caldeggiata anche dal Premio Nobel per l’Economia 2001 nonché docente alla Columbia University Joseph Stglitz il quale ha pubblicamente dichiarato di trovare preoccupante il fatto che ancora ci siano paesi in Europa che vogliono imporre condizioni all’assistenza, preferendo erogare prestiti piuttosto che ragionare in termini di trasferimenti o comunque di altre e differenti forme di aiuto.

Lo stesso Brandt nel Rapporto del 1980 sottolineava come la mera concessione di prestiti per lo sviluppo non farebbe che aumentare il carico di debiti delle nazioni del terzo mondo, qualora essi servano a crearvi industrie senza contemporaneamente assicurare i mezzi di rimborso.

Per la gran parte è esattamente quello che poi è successo. Un ulteriore aumento del debito non è certo auspicabile, e non solo per i cosiddetti paesi del terzo mondo. In generale per tutti i paesi del Sud, anche europeo.

Bibliografia di riferimento

Fernando D’Aniello, Domenico Romano, Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019.

1Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Torino, Einaudi, 2018.

2Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi vince e chi perde, Milano, Bocconi Editore, 2019


Articolo disponibile anche qui


LEGGI ANCHE

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018)

08 martedì Gen 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

BruceGreenwald, Creareunasocietadellapprendimento, cultura, economia, Einaudi, Globalizzazione, JosephStiglitz, monocolooccidentale, recensione, saggio

Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale è un testo che guarda all’economia globale in modo differente rispetto al neoclassicismo imperante. Che focalizza il ragionamento sul concetto di apprendimento come elemento cruciale per la crescita dell’economia di un paese e per superare il divario tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo.
Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald decidono di rendere omaggio a Kenneth Arrow e alle sue teorie economiche organizzando una serie di conferenze annuali negli Stati Uniti e di trasformare le relazioni in un libro, tecnico, che impiega la matematica per spiegare il rigore scientifico delle tesi avanzate. In seguito viene pubblicata una versione meno impegnativa del titolo, dal quale vengono estrapolate le formule matematiche. Un’edizione divulgativa che viene tradotta in Italia da Maria Lorenza Chiesara per la casa editrice Einaudi.

Per Stiglitz e Greenwald nessuno come Arrow, a livello individuale, ha fatto tanto per cambiare il nostro modo di guardare all’economia e alla società al di là dell’economia, negli ultimi sessant’anni. Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie ben al di qua della frontiera, che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. I governi dovrebbero concentrarsi su cosa crei una società dell’apprendimento. Mentre alcune delle politiche che gli economisti hanno sostenuto in passato l’hanno di fatto ostacolata.
Negli ultimi decenni è diventato usuale descrivere l’economia verso cui ci stiamo dirigendo come una “economia della conoscenza e dell’innovazione”. Minore attenzione viene invece data a cosa ciò significhi per l’organizzazione dell’economia e della società.

Gli autori citano Solow allorquando affermano che la maggior parte dei miglioramenti relativi agli standard di vita sono il risultato di incrementi di produttività, ossia l’aver imparato a fare le cose meglio. Se è vero quindi che la produttività è frutto di apprendimento e che gli aumenti di produttività, ovvero l’apprendimento, sono endogeni, allora uno dei punti focali della politica dovrebbe essere quello di incrementare l’apprendimento all’interno dell’economia. Incrementare la capacità di imparare e gli incentivi a farlo. Imparare a imparare. Dunque, colmare i divari di conoscenze che separano le imprese più produttive dalle altre.
Creare una società dell’apprendimento dovrebbe quindi essere uno degli obiettivi principali della politica economica. Se si crea una società dell’apprendimento ne risultano un’economia più produttiva e uno standard di vita migliore. Nel testo, Stiglitz e Greenwald mostrano come molte delle politiche concentrate sull’efficienza statica – allocativa – possano invece ostacolare l’apprendimento e come di fatto politiche alternative possano portare a superiori standard di vita, visti nel lungo periodo.

Seguendo le teorizzazioni di Arrow, Stiglitz e Greenwald avanzano l’ipotesi del maggiore innalzamento degli standard di vita che potrebbe indurre una società dell’apprendimento rispetto a quanto riescano invece a farlo piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto per i paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in “società dell’apprendimento” li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa.
La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, infatti sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.

Al centro dell’indagine condotta dagli autori vi sono due interrogativi fondamentali:
– I mercati, di per sé, portano a un livello e a un modello di apprendimento e innovazione efficienti?
– E se no, quali sono gli interventi governativi desiderabili?
Per Stiglitz e Greenwald non esiste alcuna presunzione di efficienza dei mercati rispetto alla produzione e alla disseminazione di conoscenze e apprendimento. Piuttosto il contrario. I mercati sono “efficienti in senso paretiano”, ovvero non possono migliorare ulteriormente le condizioni di qualcuno senza che quelle di un altro peggiorino. Arrow aveva già riconosciuto la pervasività dei fallimenti del mercato nella produzione e disseminazione di conoscenze, sia come risultato dell’allocazione di risorse alle attività di ricerca e sviluppo sia come effetto dell’apprendimento.
Nel testo si insiste molto sul ruolo decisivo che ha il governo nel proporre e mettere in atto decisioni che diano l’indirizzo corretto al potenziamento dell’apprendimento nell’economia come in tutta la società.

I governi svolgono un ruolo centrale nell’ambito di istruzione, salute, infrastrutture e tecnologia; e le politiche per ciascuna di queste aree, così come le spese e il loro equilibrio, contribuiscono senz’altro a plasmare l’economia. Le politiche di aggiustamento strutturale hanno finito per soffocare la crescita dei paesi, soprattutto di quelli con un’economia emergente.
Invece di promuovere i settori di apprendimento, le politiche imposte ai paesi in via di sviluppo dalle istituzioni economiche internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno scoraggiato il comparto industriale di molti di essi, soprattutto in Africa. Il risultato è che, negli ultimi trent’anni, l’Africa ha sofferto di un processo di deindustrializzazione. Focalizzando l’attenzione sull’efficienza statica, queste istituzioni internazionali trascurano del tutto l’apprendimento e le dinamiche a esso associate. Spesso – o anche tipicamente – la creazione di posti di lavoro non ha tenuto il passo con la loro distruzione, cosicché i lavoratori si sono spostati da settori protetti a bassa produttività a condizioni di disoccupazione, dichiarata o nascosta, a produttività ancora più bassa. Una delle critiche che si possono rivolgere al Washington Consensus (ovvero al blocco di politiche di aggiustamento strutturale condotte in Africa) è di aver tentato di imporre politiche corrispondenti alla convinzione che un’unica cosa vada bene per tutti. Ovvio che così non è, come non lo è il credere possa essere di aiuto osservare quanto fatto in passato da paesi con livelli di reddito pro-capite similari o leggermente superiori. Oggi il mondo è diverso da quello di un tempo sia in termini di geoeconomia e geopolitica globale sia di tecnologia.Le differenze tra i paesi aiutano a spiegare anche perché in alcune economie le imprese pubbliche funzionino bene mentre in altri no.

Aiutano anche a spiegare i limiti della globalizzazione: le imprese locali hanno un vantaggio competitivo sul piano della conoscenza delle situazioni locali. Buona parte delle informazioni di natura finanziaria è reperibile principalmente a livello locale. Un impiego efficace del capitale richiede il ricorso a istituzioni finanziare del posto. Purtroppo, le politiche del Washington Consensus, che spingevano per la liberalizzazione del mercato finanziario e del capitale, non considerarono l’importanza di questa concorrenza locale.
Le banche straniere riuscivano a sottrarre correntisti alle banche locali perché venivano percepite come più sicure, ma si trovavano in svantaggio informativo rispetto alle banche locali riguardo alle aziende locali piccole e mediopiccole. E fu quindi naturale che i prestiti venissero dirottati verso il governo, i consumatori e le grandi aziende nazionali, compresi i monopoli e oligopoli locali: in tal modo l’apprendimento e l’imprenditorialità locali potrebbero esserne stati danneggiati e la crescita esserne uscita indebolita.

Le politiche industriali devono seguire una strategia che tenga conto non soltanto delle circostanze presenti in un paese, ma anche della sua probabile situazione futura. Sia nei paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo i governi devono plasmare la direzione dell’innovazione e dell’apprendimento. Buona parte dell’innovazione nelle economie industriali avanzate è stata diretta a risparmiare lavoro; ma in molti paesi in via di sviluppo esiste un’eccedenza di lavoro, e il problema è la disoccupazione. Le innovazioni che risparmiano lavoro esasperano questa sfida sociale cruciale. E anche quando le innovazioni che consentono di risparmiare lavoro non portano disoccupazione, hanno comunque conseguenze negative dal punto di vista della ricchezza, perché abbassano i salari.

Le regole e le regolamentazioni adottate nel processo di “liberalizzazione e deregolamentazione dei mercati finanziari” negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno portato, secondo l’analisi di Stiglitz e Greenwald, a istituzioni finanziarie arroganti, sostenute dalle implicite garanzie delle autorità monetarie e in ultima istanza dal contribuente. Molti governi non hanno fatto buon uso della politica di regolamentazione monetaria e finanziaria, e in alcuni casi questo cattivo uso può essere ricondotto a un problema di governance. Ma questo non è un valido motivo perché i governi rifuggano dall’impiego di una politica di regolamentazione monetaria e finanziaria. Il capitale e i servizi finanziari interni a un paese possono sostenere l’apprendimento; al contrario, i servizi finanziari forniti da soggetti stranieri possono far sì che gli investimenti e l’apprendimento vengano ridiretti all’esterno del paese, ostacolando in tal modo di fatto la creazione di una società dell’apprendimento. I governi occidentali (in modo diretto e attraverso le istituzioni finanziarie internazionali) hanno esercitato forti pressioni sui paesi in via di sviluppo affinché deregolamentassero e liberalizzassero i rispettivi mercati finanziari. Tali raccomandazioni non tenevano in considerazione i fallimenti del mercato finanziario che avevano condotto proprio alla realizzazione della necessità di una regolamentazione del settore finanziario, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Guidando la finanza verso i settori di apprendimento si può potenziare la crescita totale.

In via conclusiva, Stiglitz e Greenwald sottolineano la necessità non solo di identificare le politiche che potrebbero portare alla creazione di una società dell’apprendimento ma, soprattutto, che queste politiche vengano applicate. Il modello neoclassico ignora questo fattore, perché non soltanto non presta attenzione all’importanza di allocare risorse ad apprendimento, ricerca e sviluppo, ma anche perché presuppone che tutte le imprese seguano le pratiche migliori e dunque non abbiano niente da imparare.
Molte delle politiche discusse nel testo comportano o comporterebbero una perdita nel breve periodo ma un guadagno a lungo termine. Si parla molto oggi di economia dell’innovazione o di economia della conoscenza, e molti progressi sono stati registrati, ma le piene implicazioni del loro lavoro per il modello neoclassico, cruciale per esempio nell’analisi di Solow, non hanno ancora trovato il posto che meritano.
Le innovazioni sociali sono egualmente importanti rispetto alle innovazioni tecnologiche, sulle quali gli economisti si concentrano di solito: il progresso della società umana dipende da tali innovazioni così come dipende dai miglioramenti della tecnologia.

Bibliografia di riferimento

Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, 2018 (traduzione di Maria Lorenza Chiesara dal titolo originale Creating a learning society: A new approach to growth, development, and social progress. Reader’s edition, Columbia University Press, 2014 e 2015)


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Giulio Einaudi Editore per la disponibilità e il materiale


LEGGI ANCHE

Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016) 

“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016) 

Gli elettori devono assumersi la propria responsabilità civile e civica per riuscire a risolvere i problemi delle loro famiglie e del loro paese. “La conoscenza e i suoi nemici” di Tom Nichols (Luiss University Press, 2018) 

L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018) 

The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo? 

PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo 

“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018) 

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell’analisi di Noam Chomsky 

 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Sostieni le Attività di Ricerca e Studio di Irma Loredana Galgano

Translate:

Articoli recenti

  • “Giovani del Sud: Limiti e risorse delle nuove generazioni nel Mezzogiorno d’Italia”
  • Superare le disuguaglianze di genere è anche una responsabilità intellettuale
  • La Grande guerra africana: dallo Zaire al Congo
  • “Sbirri e culicaldi” di Stefano Talone (Ensemble, 2020)
  • Quanto incide la scuola su crescita ed economia?

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Recensioni
  • Senza categoria

Meta

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.OKMaggiori informazioni sui cookie