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Irma Loredana Galgano

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Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

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I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


© 2018 – 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

22 giovedì Dic 2016

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LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, PierreJeanLuizard, recensione, RosenbergSellier, saggio, terrore, Terrorismo

Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’histoire di Pierre-Jean Luizard è pubblicato in Italia da Rosenberg&Sellier a novembre 2016 nella versione tradotta da Lorenzo Avellino con prefazione di Alberto Negri e introduzione di Franco Cardini.

Pierre-Jean Luizard afferma che «lo Stato islamico prospera là dove gli stati hanno fallito», ma per capire i meccanismi che hanno portato al fallimento di questi stati e alla conseguente nascita di movimenti ribelli bisogna analizzare la Storia almeno degli ultimi cento anni. Ed è esattamente ciò che l’autore fa nel testo.

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura impegnativa che l’autore della introduzione alla versione italiana, Franco Cardini, sostiene non possa essere compresa fino in fondo se non la si fa precedere dallo studio di una serie di titoli che si premura di elencare.

In realtà, anche se a un lettore non esperto della materia può sfuggire qualche passaggio, il messaggio che Luizard vuole diffondere arriva forte e chiaro.

Le vecchie potenze mandatarie hanno difficoltà ad accollarsi il proprio passato coloniale. Non è facile ammettere che la “missione colonizzatrice” dell’Europa è servita «da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Non volendo riconoscere «il passato e soprattutto gli errori e le responsabilità» si ha molta difficoltà a vedere «un futuro “diverso” per il Medio Oriente». Non riuscire a vedere un “futuro diverso” per il Medio Oriente significa che difficilmente si troverà uno soluzione efficace al “problema terrorismo”.

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Quella offerta da Luizard non è una visione catastrofica o complottistica della realtà. Semplicemente l’autore analizza i fatti storici succedutisi a partire dal primo conflitto mondiale, ponendo in risalto quelli più o meno consciamente tralasciati o ignorati da parte di storici e giornalisti, per regalare al lettore una panoramica abbastanza ampia delle crisi:

  • Israelo-palestinese.

  • Israelo-siriana.

  • Sirio-libanese.

Della guerra irano-irachena, di quella “malintesa” combattuta in Afghanistan, dei conflitti confessionali, della genesi del terrorismo di matrice islamica, del ruolo delle diplomazie occidentali… Un modo efficace per cercare di far capire a noi occidentali “il resto del mondo”.

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La sconfitta militare del Califfato, molto reclamizzata dai media e dai politici occidentali, viene volutamente indicata come l’unica strada percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica. Luizard sostiene che «anche se il califfato perderà tutta la sua base territoriale, si diffonderà come tante metastasi in zone escluse dall’attuale territorializzazione». È una storia già nota, quella che ci raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basta ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

Dopo l’uccisione di Osama bin Laden Al-Qã’ida «si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria» dove ha dato vita al «fronte Jabhat al-Nuşra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato».

Alberto Negri, nella prefazione al libro, sottolinea come il Califfato gli sia apparso in questi anni «una sorta di mostro provvidenziale per cambiare le frontiere del Medio Oriente» e aggiunge che è un po’ «come lo fu Al-Qã’ida dopo l’11 settembre per intervenire prima in Afghanistan e poi in Iraq». Bisognerebbe interrogarsi su come nascono questi “mostri” del terrorismo internazionale e su quali siano in realtà i legami con le diplomazie occidentali.

Una storia che per Negri ha inizio con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, allorquando americani e sauditi avevano creato a Peshàwar «il più grande centro jihãdista del mondo», con il sostegno del Pakistan e dei pashtun della zona tribale. Allora gli jihãdisti erano considerati «i nostri eroi», erano quelli che combattevano contro «l’Impero del Male». Solo in seguito sono diventati i «barbari» che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Due anni prima della rivolta del 2011 Nibras Kazimi, un ricercatore arabo, affermava che la Siria era «il terreno ideale per una guerra santa». Era il nemico perfetto, come sottolinea lo stesso titolo del saggio – Syria through jihadist eyes: a perfect enemy – pubblicato negli Stati Uniti. Un Paese pieno di «difetti agli occhi degli occidentali»:

  • Non intendeva fare la pace con Israele se non con un patto che prevedesse la restituzione del Golan (al-Jawlãn) occupato dall’esercito ebraico nel 1967.

  • Continuava ad avere rapporti con Mosca.

  • Era alleato da decenni con la repubblica islamica sciita dell’Iran e sosteneva gli Hezbollah, «l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006».

  • Appartiene a quell’ «asse della resistenza» che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo.

La Siria confina con «paesi ribollenti» – Turchia, Libano, Iraq, Israele, Giordania -, ha una popolazione a maggioranza sunnita ma comandata da una minoranza, gli alauiti, ritenuta eretica.

Quando Al-Asad ha rifiutato l’offerta degli Emirati Arabi, che offrivano «il triplo del bilancio statale (circa 150 miliardi di dollari) per rompere l’alleanza con l’Iran», nelle cancellerie occidentali si diffuse «la convinzione che il regime avrebbe avuto vita breve», come Ben’ Alĩ in Tunisia, Mubãrak in Egitto e Al-Qadhdhãfĩ in Libia. L’ambasciatore statunitense in Siria e quello francese «andarono in visita a Hamã dai ribelli», presumendo che Al-Asad barcollasse e fosse opportuno «guadagnare credito con l’opposizione islamista». Per Negri ciò ha rappresentato un esplicito via libera per far affluire in Siria migliaia di «combattenti islamici» provenienti da ogni parte del Medio Oriente e del Nord-Africa.

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Ibrãhĩm ‘Awed Ibrãhĩm ‘Alí al-Badrĭ, il vero nome di Al-Baghdãdĩ nato a Sãmarrã nel 1971, «si è vantato di essere un imam con dotti studi sufi e un’origine che affonda nella tribù di Maometto», ma nel suo «oscuro percorso» di davvero notevole c’è che gli americani lo arrestarono nel 2004 per rilasciarlo nel 2009 «in maniera inspiegabile»: l’anno dopo era il capo di Al-Qã’ida. «Questi sono i fatti che ognuno può interpretare come preferisce» ma Negri avanza il sospetto che questa guerra allo Stato islamico sia soltanto il primo tempo della vicenda: «nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra».

I media, le cancellerie occidentali e di conseguenza anche l’opinione pubblica diffusa preferiscono, in genere, far partire il racconto dei fatti relativi al terrorismo estremista di matrice islamica dall’attacco alle Twin Towers e Washington dell’11 settembre 2001, ma per comprendere una «storia da conoscere» è certamente utile «un breve sguardo al passato».

Al-Qã’ida in Iraq «ha scavato nel desiderio di rivincita dei sunniti», una minoranza che prima deteneva tutto il potere ma che con «l’occupazione americana» è diventata un gruppo di reietti trattati come paria. L’Isis ha saputo «sfruttare il profondo malcontento sunnita». Con la fusione tra sunniti di «due nazioni frantumate» si colmava il divario demografico in Iraq e «si costruiva il califfato».

La Storia di Iraq e Siria «appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalistici» che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente «conosciuto fino a oggi».

Leggerlo o affermarlo oggi può risultare molto strano o addirittura provocatorio ma c’è stato un tempo in cui «l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente». Con «l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi», il ministro delle Colonie Winston Churchill mise a capo degli stati sotto mandato britannico «i monarchi arabi del clan hashemita degli Husayn», sovrani della Mecca. «Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania». Emiri e sceicchi allora erano «al servizio del piano coloniale» per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. «La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico» di Abũ Bakr al-Baghdãdĩ sono adesso «funzionali a un progetto completamente diverso»: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto «la bandiera nera di un nuovo califfato».

Sia la Siria che l’Iraq oggi sono «degli ex-stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografia» e nessuno, né in Occidente né in Medio Oriente, ha un piano politico alternativo «al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale». Per l’autore siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, «evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale», oppure si deve affrontare la «balcanizzazione del Medio Oriente». Gli europei, che hanno assistito «senza fare nulla di positivo» alla disintegrazione della Jugoslavia e ora «appaiono impotenti» di fronte all’Ucraina, «sono in materia degli esperti».

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L’ascesa del califfato tra Iraq e Siria «non è stata esattamente una buona notizia» per le monarchie assolute del Golfo «sostanzialmente antidemocratiche», che l’Occidente si ostina ad appoggiare «rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti». Il presidente americano Barack Obama in otto anni di presidenza «ha venduto a Riad, impegnata nella guerra in Yemen, circa 100 miliardi di dollari di armamenti e firmato un contratto per 38 miliardi con Israele».

La Siria è stata per decenni una sorta di «kombinat militare-mercantile sostenuto dall’Unione Sovietica» che ha consolidato una «classe di privilegiati favorendo i cristiani e le dinastie sunnite». Prima dell’ascesa del partito Ba’th, gli alauiti erano fermi al gradino sociale più basso, erano fellah, contadini, uomini di fatica. «Il colpo di stato di al-Asad li portò nelle accademie militari, negli apparati pubblici, in mezzo alla borghesia urbana» e così si sono presi «la rivincita su secoli di emarginazione».

Al-Baghdãdĩ ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena, ma le vere e profonde cause della rivolta sono state «la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad», rivelatesi una «formidabile propaganda per l’Isis». Non a caso infatti i periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza, inoltre una delle prime misure degli jihadisti è stata «la promozione di azioni emblematiche contro la corruzione».

Più che una versione «pura» dell’Islam «gli jihadisti forniscono un franchising», che in Europa dà «un’etichetta al malessere individuale e di gruppo» e «riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento». La strategia dello Stato islamico consisterebbe per l’autore nel passare rapidamente da una logica di “etichettamento” di circostanza a quella di un’adesione reale a uno “Stato di diritto islamico”, «certo estraneo alle pratiche occidentali e al diritto internazionale, ma che si vuole comunque uno stato di diritto». Il solo bottino di guerra di Mosul, «stimato in 313 milioni di euro», conferisce allo Stato islamico una potenza finanziaria senza precedenti, eppure i paesi occidentali e gli stati arabi «continuano a considerarlo al pari di una semplice organizzazione terrorista».

Interpretazioni inspiegabili, al pari della reazione dei media occidentali dal 2014 in poi che hanno trattato lo Stato islamico come una sorta di «Ufo politico, un esercito di jihadisti spuntati non si sa dove che nessuno sembrava poter fermare».

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Lo scopo del libro, dichiarato nell’introduzione dallo stesso Luizard, è quello di spiegare il rapido successo dello Stato islamico e di capire come e perché le potenze occidentali sono cadute «nella trappola che è stata tesa loro coinvolgendole nella sua guerra».

Come è possibile che una coalizione talmente ampia da abbracciare «tutta la società civile del mondo intero» spiegata contro quello che viene indicato il “Pericolo Pubblico Numero Uno” non riesca ad avere la meglio su una realtà politico-militare che in fondo si è dimostrata abbastanza labile? Davvero bisogna credere che manchi o non si riesca a trovare un valido e comune disegno politico oppure «l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno o a qualcosa?»

Gli arabi, o comunque i musulmani sunniti, sono i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo «hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso». Non potrebbero mai farlo «né i crociati occidentali né gli eretici sciiti iraniani» senza trasformare, agli occhi «del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo», gli adepti del califfo in altrettanti martiri della fede perché, come affermava Tertulliano, «il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli».

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna di Pierre-Jean Luizard è come una sorgente in piena per un disperso nel deserto, un libro necessario per sedare la “sete” di conoscenza su una delle vicende storiche e geopolitiche solo in apparenza tra le più discusse: la nascita del terrorismo estremista di matrice islamica e il ruolo giocato dall’Occidente.

Pierre-Jean Luizard: Storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). Ha vissuto per lunghi periodi in diversi paesi del Medio Oriente ed è membro del Gruppo di sociologia delle regioni e della laicità (Gsrl) a Parigi.

Source: Si ringrazia il contatto dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale

 

 

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