Restarsene in disparte, isolarsi. Scegliere di rimanere volontariamente segregati in casa, nella propria stanza, piuttosto che socializzare, frequentare la scuola o il lavoro. Nessun contatto con il mondo reale ma intensa e protratta attività in quello virtuale, dei giochi e delle chat. Hikikomori è il nome, di origine giapponese, designato per indicare questo triste fenomeno che in Italia, secondo stime riportate sul sito hikikomoriitalia.it, interesserebbe almeno 100mila casi.
Il mondo virtuale, digitale non è però la causa dell’isolamento, bensì un rifugio contro il proprio malessere, che ha origini diverse e svariate. Quali sono allora le cause di questo fenomeno pericolosamente in aumento?
Laura Calosso in Due fiocchi di neve uguali pur raccontando una storia inventata, specificando che il suo libro è un’opera di fantasia, compie un’attenta ed elaborata analisi del fenomeno come delle cause e delle conseguenze.
Nel testo vengono raccontate le storie di tanti adolescenti e, di rimando, quelle dei genitori, protagonisti carnefici e vittime, più o meno consapevoli, più o meno in parti uguali, di quanto accade ai propri figli. E di quello che diventano negli anni che li trasformano da bambini in ragazzi e poi in adulti.
Ragazzi apparentemente così diversi eppure, in fondo, tanto simili, accomunati da quell’insidioso malessere, che è proprio mal di vivere, e che li rende taciturni, melanconici, rabbiosi o addirittura frenetici ed euforici.
Margherita, Carlo, Marta, Gabriele, Umberto… sono tutti “sbandati”, anche se ognuno a modo proprio. Non hanno punti di riferimento, né solide e valide linee guida lungo cui scorrere per crescere e maturare la propria esistenza. Sono tutti “ragazzi ritirati”, anche se agli occhi degli altri solamente Carlo lo è, perché lui lo è fisicamente. Dal momento in cui si è chiuso nella sua stanza nella speranza, vana, di lasciare il resto del mondo fuori è apparso chiaro a tutti il suo ‘problema’. Ma il suo isolamento, il tempo trascorso al computer a chattare o a disegnare non è la malattia, è un sintomo. È la manifestazione di un problema. E sarà proprio la sua visibilità, forse, a salvarlo. Contrariamente a Margherita, il cui malessere invece se l’è portato sempre dentro, ben nascosto da un’apparente calma e determinazione.
E poi ci sono i genitori nella storia raccontata dalla Calosso. Adulti che hanno più problemi esistenziali dei figli. Insoddisfatti, depressi, smaniosi di trasfondere loro i propri desideri, incuranti del fatto che queste giovani esistenze non rappresentano lo sfogo delle proprie frustrazioni o l’incarnazione di una seconda opportunità per i propri desideri irrealizzati. I figli sono persone che hanno sogni, desideri, aspirazioni, emozioni, sentimenti… indipendenti e autonomi, a qualunque età.
Genitori che non sanno più fare i genitori, così presi dai loro problemi personali o dalla smania di apparire, di sembrare il successo cui tanto ambiscono, che dimenticano di educare i propri figli alla vita. La vita quella vera.
Il registro narrativo scelto da Laura Calosso in Due fiocchi di neve uguali è molto intimistico, introspettivo, profondo, intenso. Lo stile della scrittura si adatta perfettamente al narrato. L’ambientazione assume un significato quasi evanescente rispetto alle storie che si stanno ivi consumando. I luoghi sono ben descritti e definiti, scelti con cura meticolosa e altrettanto attentamente raccontati attraverso gli occhi dei protagonisti, in particolare quelli incuriositi di Margherita. Eppure sembrano rimanere sempre nell’ombra. Come fossero fragili ologrammi che si spengono in batter di ciglia, scompaiono per poi riapparire sotto nuove forme e colori. La scena si sposta senza alcun intralcio per il lettore da una camera semibuia e disordinata ai paesaggi incantevoli della Costa azzurra, dalle aule di un liceo torinese alla camera di un ospedale. Ed è proprio in quest’ultimo luogo che il tempo, come lo spazio, sembrano dilatarsi oltremisura, esattamente come il dolore di una madre che realizza di non conoscere affatto la propria figlia. Di aver sempre erroneamente pensato che, siccome si comportava come le sue coetanee, dovesse per forza essere come loro. Che i problemi risiedessero altrove, lontano. Magari in quelle storie di droga e altro raccontate alla televisione. Non in sua figlia. Non dentro di lei. Pensava che il male potesse giungere solo da fuori e mai dall’interno.
Il malessere invece nasce dal sentirsi diversi. Diversi e incompresi. Soprattutto quando i genitori, la scuola e la società non chiedono altro che vedere la “normalità”, quella falsa che non ammette possano esistere due fiocchi di neve che non siano perfettamente uguali.
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