Dopo aver tentato, invano, di tenere a freno la lingua, o meglio la penna, ritorna oggi in libreria Livio Romano con una nuova turbinante commedia all’italiana intitolata Per troppa luce (Fernandel) che tenta di illuminare molti lati bui della società contemporanea e, per farlo, rispolvera e tira a lucido il meglio del suo personalissimo stile di scrittura. Periodi lunghi e articolati che sembrano avvilupparsi su sé stessi come i rami di uva spina, dolce amaro e pungente che si stringono in un unico fraseggio.
Un romanzo, Per troppa luce, che induce il lettore a continui saltelli spaziali tra il Nord e il Sud Italia evidenziando una volta gli uni una volta gli altri difetti. Innumerevoli sono i casi umani, le vicende e gli scandali, che possono o potrebbero esistere e svilupparsi nella realtà, descritti con abilità nel libro di Romano, dopo averli passati attraverso la centrifuga del suo turbinoso pensiero.
Lo abbiamo raggiunto per un’intervista proprio sulla linea di partenza di questa sua nuova avventura letteraria.
Esce oggi con Fernandel il suo nuovo romanzo o, come si suol dire, la sua nuova fatica letteraria. Qual è l’aspetto più faticoso della scrittura e dell’uscita di un nuovo libro?
Intorno all’aspetto della composizione del romanzo, che ho impiegato un paio d’anni a finire, fra prima stesura e successive riscritture, la maggior fatica è stata, francamente, quella di provare ad appianare la lingua che avevo scelto di utilizzare, a renderla meno pirotecnica sia sintatticamente che dal punto di vista del lessico. Un altro sforzo che ho fatto è montare, esattamente come si fa con i film, il “girato”. I primi lettori erano davvero disorientati da queste analessi a incastro, che si rimandavano a vicenda.
Quel che è venuto fuori è una commedia grottesca, a volte erotica, a volte di riflessione teologica, e senza contare gli aspetti sentimentali e quelli di denuncia civile. Spesso è anche un gran divertissement di costume, una parata di maschere umane tragiche, comiche, straniate e stranianti.
L’idea era di fotografare il Caos di questo scorcio di secolo osservandolo da una provincia corrotta, e libertina, ed emancipata, ma anche tantissimo vitale. Ora dovrò fare i conti con la fortuna di quest’opera che, in tutta onestà, considero la mia più riuscita, il sunto di vent’anni di esperimenti, sia linguistici che tematici. Si sa: la fortuna di un libro oggigiorno va stimolata, sollecitata. E da quando esordii, diciotto anni fa, le cose son moltissimo cambiate: nessuno più offre gettoni di presenza per le presentazioni, e spesso neppure rimborsi spese.
Ogni scrittore vorrebbe che i suoi libri camminassero da sé. Sì, conosco qualcuno che gode moltissimo a stare al centro dell’attenzione, a parlare a sale più o meno affollate, ma non è il mio caso. Anche i media son totalmente cambiati. Le testate tradizionali, i grandi giornali sono in crisi profonda e ho l’impressione che funzioni di più la recensione o l’intervista sul web che il pezzo, per dire, su «Repubblica». Quello che tutte le volte mi stupisce è, invece, quanto la critica accademica resti attenta ai fenomeni sotterranei, alla produzione indie, come oggi si dice, quando è di qualità. Mi capita di scrivere un libro, se ne parla quel po’ sui media, qualche apparizione tv. Poi a distanza di anni trovi che tal ricercatore ti cita in un saggio e questo, insieme agli apprezzamenti che ricevo dai lettori, è l’unico motivo per il quale continuo a dedicarmi a quest’attività un po’ folle del raccontare storie.
Il titolo del libro è Per troppa luce ma all’interno sono narrate tante zone d’ombra della società e dei protagonisti. È un dualismo apparentemente contraddittorio e voluto?
È del tutto voluto, ovviamente. Antonio e Simona, i due protagonisti, sono, come si dice, due angeli caduti dal cielo. Ciascuno a modo suo, non partecipano del generale impazzimento cui sono esposti soprattutto gli esponenti della mia generazione. Son loro a possedere una luce interiore. Son loro, alla fine, e in maniera del tutto inconsapevole, senza essere animati da fervori salvifici, che “mettono a posto le cose”, catarticamente. Volevo che la loro purezza, il loro candore, le contraddizioni del loro amore rifulgessero dentro a un turbine di avvenimenti che mette a nudo, derisoriamente, l’humus culturale, sociale, economico e politico dentro al quale viviamo.
Lei è pugliese e anche i protagonisti del romanzo lo sono. Loro tendono sempre a confrontarsi con quelli del Nord. Anche lei lo fa? E se sì perché?
È la mia ossessione narrativa da sempre, fin da quell’esordio einaudiano in cui dei “vitelloni” di provincia vanno e vengono dal Nord. Il Sud esporta da cinquant’anni cervelli e talenti: si sa. Ma ogni meridionale sente prima o poi il suo richiamo della foresta. Ogni tanto mi capita di trovare quarantenni che fino a ieri lavoravano e prosperavano, chessò, a Londra. Li ritrovo che campicchiano male destreggiandosi fra progetti europei, chimere di turismo ecosostenibile, eventi culturali in un’epoca da Bambole, non c’è una lira.
Io personalmente vivo male il mio esser tornato. Ci son dei momenti in cui guido e mi chiedo: “Ma cosa ci sto a fare qua?” e mi viene voglia di tornarmene al Nord, in una (ormai) mitica terra in cui i talenti sono riconosciuti e favoriti. Ma mi rendo conto che attorno a questa contraddizione si sviluppa la mia poetica. Che non potrei scrivere più se non vivessi questo equilibrio precario fra l’esser tornato e la voglia di scappare via.
I suoi personaggi sembrano aver assorbito in pieno le cattive abitudini e le nevrosi dell’era moderna. Con la scrittura vuol regalare al lettore più uno spaccato irriverente o una denuncia sociale?
Salomonicamente, ma neppure tanto, risponderei che voglio fare denuncia sociale accendendo un faro di irriverenza sulle molte brutture della nostra Italia.
Anni fa scrissi un reportage narrativo, una non-fiction novel, come si dice oggi, su una battaglia civile contro la costruzione di un porto turistico in una zona di bellezza incontaminata. Fui assalito da molti dubbi. Sembrai a me stesso moralista, giudicante, un castigamatti dalla spada spuntata. In effetti, a fronte dei fatti gravissimi, e veri, che raccontai, se si trascura il grandissimo favore da parte dei lettori e di molta stampa, da parte dei poteri la reazione fu il muro di gomma. Il non parlarne, il far finta di niente. Un moralista che non moralizza neppure sé stesso. Però, ecco, io non posso non divertirmi quando scrivo.
In Per troppa luce l’ironia scorre spesso lungo uno strato di beffa tragica, ed è il mio modo di lavare onte subìte, il mettere in scena, esasperandoli, personaggetti da quattro soldi detentori di poteri variegati. Sovente ridono anche i lettori e, mi creda, è in assoluto l’osservazione più bella mi possan fare: “Mi son sbellicato fino a cadere a terra”. Era proprio quel che volevo. Il riso e il pianto creano un rapporto molto intimo fra autore e lettore.
In Per troppa luce c’è molto della frattura italiana e dell’annosa questione meridionale. Leggendo il suo libro emerge a gran voce un Sud che cerca un progresso che spesso equivale a corruzione e cementificazione e gli strani che tentano di ostacolare ciò perseguitati e schiacciati dal Sistema. Dove sta andando il nostro Paese secondo lei?
Io mi son laureato con una tesi sull’illuminista Norberto Bobbio, un pessimista che soleva ripetere: «L’ottimismo comporta pur sempre una certa dose d’infatuazione, e l’uomo di ragione non dovrebbe essere infatuato». Ecco, io credo che questo sia il Paese più bello del mondo, ma mi coglie in un periodo di profondissimo pessimismo sulle nostre sorti.
Due anime italiane si contrappongono e sempre lo faranno, come in una commedia di Virzì. I cialtroni, gli arraffoni e arruffoni, i populisti, gli amanti degli slogan, i salvatori della patria da un lato, e i razionali, i colti, i ponderati dall’altro (quest’ultima categoria è predominante, ma la narrazione mediatica del nostro Paese tende a mostrarci che siamo preda della prima tribù).
Non è più solo una questione meridionale. Giorni fa è calato tal Briatore (mi creda, ho dovuto informarmi su chi fosse costui) e ha proclamato: voi pugliesi siete troppo legati a questa natura, a queste bellezze culturali e architettoniche, non capite che noi ricconi vogliamo alberghi lussuosi a picco sul mare e del resto ci importa zero. Un personaggio che sembra spuntato fuori da Per troppa luce…
Di formazione giuridica, poi, invecchiando sto diventando cinico anche nei confronti di un potere che reputavo piuttosto sano: la magistratura. Ecco, quando ti viene meno pure la fiducia nei confronti dei guardiani della legge il tuo pessimismo costruttivo comincia ad assumere sfumature inquietanti, apocalittiche. Poi, d’altro canto, le mie frequenti incursioni in Svizzera, Olanda, Inghilterra, e gli ospiti che da colà ricevo mi fanno capire che sono impastato di Meridione e Omero, di spropositato senso dell’accoglienza e spirito errabondo, di vento e sole e mare che lassù mi mancherebbero troppo.
Come si evince dal romanzo, lei ha molto da dire al lettore ma nel farlo sceglie la via più difficile, ovvero uno stile di scrittura complesso e articolato. Quali sono le ragioni di questa scelta?
Sì, lo scrisse qualcuno già al mio secondo libro: questo è un autore che ha moltissime storie da raccontare. Quando credi di aver declinato la commedia umana in tutte le forme possibili, ecco che ti bussa alla porta un personaggio, uno scorcio, un’atmosfera, una sensazione che chiedono di entrare in scena.
Questa faccenda della lingua è la mia croce e la mia delizia. L’ha detto Giulio Mozzi, cui devo quasi tutto: «Livio Romano è un eccellente scrittore. Malmenato dall’editoria, che lo trova troppo difficile, troppo artista, troppo troppo scrittore. I suoi libri meriterebbero pubblicazioni in pompa magna. Ma l’establishment culturale lo respinge».
Dopo quell’esordio in cui sperimentavo un mio pastiche, tutto funambolismi lessicali e sintattici, tutto giocato sull’avanguardismo, presi coscienza che ciò che volevo non era mostrare quanto fossi abile a giocare con gli stili, bensì, semplicemente, raccontare delle storie. Ho imparato a gestire gli intrecci, i dialoghi, a delineare i personaggi. E però, pur avendo fatto uno sforzo titanico per render la mia lingua più piana, che non significa piatta, anche il mio romanzo più popular, che deve tutto alla mia ammirazione per i nuovi narratori inglesi, Niente da ridere, da molti era considerato di difficile lettura (sia detto per inciso: un brano di quel romanzo, tradotto in inglese e declamato allo Smoke Alley Theatre di Dublino, ha suscitato l’ilarità sfrenata e il gradimento delle centinaia di persone accorse: non sarà che noi italiani siam diventati così pigri che pure le cose vagamente più elaborate ci paiono ostiche, anche nella narrativa?, e parlo soprattutto degli editori).
Per quest’ultimo romanzo, così, mi son detto (ero reduce dalla rilettura del mio amato Gadda, e qua e là dovrebbe notarsi anche qualche riflessione di tipo metaletterario, del tipo “ma guarda un po’ come siamo costretti a parlare”, tipiche dell’Ingegnere): hai fatto quattro libri in cui ti sei sforzato di diventare leggibile ai più, e ti han letto i soliti quattro gatti, dunque perché mai non far tornare, fra i personaggi, anche la tua Voce più autentica, iperletteraria, forse, o solo leggermente più raffinata della media della roba che si legge oggidì, alla fine dei conti. È quel che ho fatto. E ho trovato di nuovo il meraviglioso editore Giorgio Pozzi disponibile ad assecondarmi.
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