• Bio
  • Contatti
  • Curriculum

Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

Archivi tag: Longanesi

“Per amor proprio. Perché l’Italia deve smettere di odiare l’Europa” di Federico Fubini (Longanesi, 2019)

05 mercoledì Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

FedericoFubini, Longanesi, Peramorproprio, recensione, saggio

Due fazioni decisamente contrapposte e ostili. Da un lato gli europeisti convinti, di tutto, incapaci anche solo di osservare con maggiore criticità le scelte e le decisioni dell’europarlamento. Dall’altro gli euroscettici, su tutto, convinti che la soluzione a gran parte dei problemi attuali sia un ritorno perentorio a serrati nazionalismi.
La ragione, questa volta, forse non sta neanche nel mezzo. Perché le politiche o si fanno bene oppure è meglio non farle proprio. Soprattutto quando vanno a incidere su cittadini appartenenti a realtà economiche e sociali differenti. Perché l’Unione Europea non ha automaticamente creato cittadini europei. Perché i cittadini europei forse ancora non si sono mai visti. Ognuno si sente tuttora italiano, inglese, francese, tedesco… solamente in seconda istanza, forse, ci si ricorda di essere anche cittadini europei.

Sempre attribuito a Massimo d’Azeglio ma in realtà formulato da Ferdinando Martini nel 1896, secondo quando si legge nell’enciclopedia Treccani, il proverbio che meglio di tanti discorsi sintetizza la situazione del nostro Paese all’indomani dell’unificazione: “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”. Parafrasandolo si adatta benissimo anche all’Unione Europea.
Si è poi riusciti a fare gli italiani? In realtà non molto. Lo stesso Fubini sembra essere ancora molto lontano dal considerare gli italiani un popolo unico laddove, parlando di Sanità, sottolinea come quella italiana sia tra le migliori e per trovare forti criticità bisogna arrivare “alle regioni più arretrate del Mezzogiorno”.

Si riuscirà a fare gli europei?

Federico Fubini, nel suo provocatorio saggio Per amor proprio. Perché l’Italia deve smettere di odiare l’Europa edito da Longanesi, esorta gli italiani a superare l’attuale crisi identitaria e lottare per vedere riconosciuti, finalmente, i propri diritti di cittadini italiani ed europei, ma di farlo dopo aver liberato l’Europa dai sovranisti e dagli “europeisti di professione”. Analizzando i dati delle recenti elezioni europee sembra che i cittadini, italiani o europei che siano, sembrano intenzionati a seguire tutt’altra via.

Fubini analizza le fasi attraversate dagli italiani nei vari processi di creazione dell’Unione Europea. Dalla speranza di aver trovato finalmente l’ancora di salvezza per i nostri conti pubblici alla globalizzazione, dalla moneta unica alla crisi economica del 2008. Ed è proprio su quest’aspetto che si sofferma l’autore, indicandolo come l’origine del malcontento, dovuto soprattutto al tentato processo di “germanizzazione” che dall’Europa hanno ripetutamente suggerito ai Paesi, come l’Italia, che non riuscivano a tenere il passo. Alle economie deboli indicate dalla potenziale ancora di salvezza come le zavorre dell’economia dell’intera Unione. Da ciò si origina la crisi d’identità degli italiani, compresi quelli nelle istituzioni europee, che cercano di far dimenticare con ogni mezzo l’onta di appartenere a uno di questi Paesi-zavorra.

Leggendo il saggio di Fubini si denota chiaramente quanto l’autore sia fermo nella volontà di considerare l’Unione Europea una svolta decisamente positiva e necessaria, nonostante tutto. Afferma di essere stato un europeista convinto fin dalle origini, che ha seguito come corrispondente improvvisato alle prime armi. Ammette le criticità ma permane nelle sue parole la volontà di rimanere attaccato all’ancora di salvezza, evidentemente ritenuta unica soluzione possibile per mantenere a galla l’Italia nell’era dalle globalizzazione, delle superpotenze mondiali e dell’economia finanziaria planetaria.
Per Fubini tutto ciò è possibile, eliminando le posizioni estremiste di entrambe le fazioni, euroscettici ed europeisti di professione, facendo valere i propri diritti e mantenendo alto il livello di identità nazionale anche in Europa. Ma ciò vale anche per i cittadini delle “regioni più arretrate del Mezzogiorno”?


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

“Euroinomani: Come l’euro ha ucciso l’Europa. Il risveglio dei popoli contro le élite” di Alessandro Montanari (UnoEditori, 2018) 

The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo? 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

È la fine del ‘sogno americano’? “Trump” di Sergio Romano (Longanesi, 2017)

09 martedì Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Longanesi, monocolooccidentale, recensione, saggio, SergioRomano, Trump

“Trump” di Sergio Romano: è la fine del sogno americano?

Uscito con Longanesi, il saggio di Sergio Romano Trump e la fine dell’american dream sembra raccontare in realtà la fine delle speranze che il mondo occidentale per intero ha riposto nella più grande potenza mai esistita che non dei sogni degli stessi americani, da sempre parti opposte di una nazione al contempo «puritana e liberale, bigotta e spregiudicata, isolazionista e internazionalista, protezionista e liberoscambista».

Si è liberi di pensarla come si vuole ma resta il fatto che il neo-presidente degli Stati Uniti d’America è stato democraticamente eletto con un’elezione in cui a premiarlo è stato proprio l’elettorato, ovvero la parte reale dell’America, disseminata nei cinquanta stati tra praterie, deserti, città e campagne, centri e periferie… non solo geograficamente ma anche socio-culturalmente parlando. I suoi elettori lo hanno votato perché le sue dichiarazioni e le sue promesse «erano esattamente quelle che volevano sentire dal loro presidente».

Il saggio di Romano è una sorta di biografia non autorizzata di Donald Trump come personaggio pubblico attratto dalla politica, anche se restatone formalmente fuori fino al momento della candidatura a presidente. Un libro che ripercorre le tappe che lo hanno portato a diventare prima molto ricco poi molto famoso, poi ancora, credibile agli occhi di una gran fetta degli americani, visti i risultati delle elezioni presidenziali. La parte più interessante del testo, comunque, risulta essere Un proscritto europeo nel quale l’autore elenca una serie di «domande che gli europei dovrebbero fare a se stessi». Ad esempio la prima chiede se sia «ancora utile affidare la propria sicurezza a un consorzio militare in cui il principale socio è, dallo scorso novembre, un personaggio contraddittorio, stravagante e imprevedibile».

“Trump” di Sergio Romano: è la fine del sogno americano?

Interrogativi che, in realtà, bisognava porsi da tempo per eventi e situazioni che con Trump hanno trovato un più ampio margine di dibattito ed estensione ma che prima non erano di certo del tutto assenti. Romano stesso ammette che «esiste una stampa che ha rinunciato a qualsiasi pretesa di obiettività per scalzarlo dal potere», la medesima che in altri punti del libro definisce “la migliore americana”. Mezzi di informazione che hanno inevitabilmente influenzato gli altri nel resto del mondo. È lecito raccontare malefatte e cattive intenzioni ma quando si perde di obiettività non è mai un buon segno per la qualità e la credibilità stessa dell’informazione.

Alcuni esempi.

  • La notizia più clamorosa del viaggio di Trump in Arabia Saudita fu la firma di impegni per la fornitura al Regno dei Saud di armi per la somma di 110 miliardi di dollari. Per correttezza andava sottolineato che «erano trattative avanzate durante la presidenza di Obama». Immediatamente divennero «un tassello della politica estera che il nuovo presidente avrebbe fatto nella regione». Se la trattativa si fosse conclusa durante la presidenza Obama avrebbe ingenerato lo stesso clamore mediatico?
  • Grande eco ha suscitato anche la dichiarazione del presidente Trump di voler costruire un muro lungo la frontiera messicana per fermare gli ingressi irregolari. Poco risalto venne invece dato alla precisazione che, in realtà, il muro esisteva già dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Una sequenza di muri e recinti, fari e sensori. Trump voleva solo «che la cinta fosse completata a spese del Messico».

LEGGI ANCHE – “Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS”, intervista a Sergio Romano

“Trump” di Sergio Romano: è la fine del sogno americano?

Il saggio di Romano si presenta al lettore come un lungo articolo di giornale, un reportage di dati e fatti in cui spesso l’autore inserisce, come in un’antica tragedia, i suoi personali cori. Opinioni e considerazioni espresse secondo il suo personale gusto e la sua esperienza o formazione. Nella quasi totalità in opposizione alla figura, all’operato e alle dichiarazioni del presidente Trump.

Un saggio, Trump e la fine dell’american dream di Sergio Romano, che si rivela molto interessante soprattutto per le conclusioni cui l’autore giunge e vuol far giungere il lettore ne Un proscritto europeo. Nella volontà di guardare e far guardare oltre gli eventi e le semplici dichiarazioni, oltre l’informazione o la disinformazione. Nella speranza di raggiungere e coltivare un più elevato spirito critico, arma necessaria per contrastare l’avanzata non solo di singoli personaggi ambigui ma di intere potenze e organizzazioni.


Per la prima foto, copyright: Samantha Sophia.


Articolo originale qui 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Riflessioni sparse sul sistema giudiziario italiano in “La tua giustizia non è la mia” di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo (Longanesi, 2016)

14 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

Comunicazione, corruzione, GherardoColombo, giustizia, istruzione, Latuagiustizianonelamia, Longanesi, mafia, PiercamilloDavigo, politica, sistemagiudiziarioitaliano

1

È uscito a settembre 2016 con Longanesi il libro di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Un testo che rimanda a una amichevole discussione/dissertazione tra due colleghi, trascritta poi e diventata così un libro. Molto interessanti i contenuti mentre è proprio la struttura che a tratti infastidisce il lettore il quale, volendo esser certo di attribuire al giusto interlocutore questa o quella affermazione, è costretto più volte a ritornare al capoverso dove, di volta in volta come nei dialoghi, viene indicato il titolare delle dichiarazioni. Un dialogo di oltre cento pagine. Per il resto il libro risulta sin da subito molto utile per apprendere sfumature e misteri del sistema giudiziario italiano visto nel suo insieme e confrontato con altri stranieri, in particolare il norvegese, l’americano, il francese e l’inglese.
Dodici punti elaborati nel corso della discussione e una conclusione volta a chiarire se e quanto sia davvero differente il concetto di giustizia dei due autori. Non si chiarisce del tutto quanto effettivamente la giustizia di Colombo sia lontana da quella di Davigo ma leggendo il testo nel lettore vige costante l’impressione che mentre Gherardo Colombo sembra perdersi nei suoi ideali Piercamillo Davigo mantenga sempre attivo un certo pragmatismo. Per leggerli in accordo bisogna attendere il capitolo sulla corruzione, uno dei mali peggiori del nostro Paese, tutt’altro che risolto. Per Davigo «il problema principale è che mentre prima (di Tangentopoli, ndr), pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici» adesso «si usano altri sistemi» che al momento non è ancora chiaro quali siano perché «i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti». Per Colombo prima di Tangentopoli «la corruzione, a livelli elevati, era un sistema» mentre ora «è diffusa a qualsiasi livello» e così tanto «che è praticamente impossibile riuscire a contrastarla attraverso strumenti di controllo».
Se la “élite” politica mostra ai cittadini questo volto non ci si può stupire quando Davigo afferma che «l’Italia è un paese nel quale la regola principale di comportamento verso l’autorità è la slealtà». Sono atteggiamenti, comportamenti, stili di vita che si apprendono quasi inconsciamente. Esattamente come quando a scuola si apprende la «apologia dell’omertà contro l’autorità, che è uno dei pilastri fondanti della cultura mafiosa». La scuola italiana, che Davigo considera «una delle peggiori fucine di illegalità che esistano in questo paese», è in prevalenza incentrata sul confronto/scontro tra i buoni e cattivi, i bravi e i somari, il rigore e le “spie”… E non si può non concordare con Davigo quando sostiene che «bisogna fare in modo che sia conveniente comportarsi bene e sconveniente comportarsi male. Altrimenti l’educazione non serve a niente».
Un ottimo modo per cominciare sarebbe quello di cominciare a “punire” dall’alto, nel senso che i primi a pagare per errori e crimini dovrebbero essere i cosiddetti colletti bianchi. «In Italia i ricchi rubano più dei poveri» eppure «non li prendono mai» e quando succede «gridano all’ingiustizia». Certo. Non ci sono abituati. La soluzione che viene cercata è peggiore di una beffa, è davvero un’ingiustizia considerando che «si cambiano le leggi, si fa di tutto perché non siano puniti». Un sistema talmente marcio che un governo viene indicato come “buono” se abbonda in condoni edilizi e voluntary disclosure. Il che, tradotto in parole più semplici, equivale a dire viva l’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia e i conti nei paradisi fiscali.
«Dopo la stagione di Mani Pulite, stracciato il velo dell’ipocrisia, i politici disonesti sono diventati di singolare improntitudine. Non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi». Viene da chiedersi se l’obiettivo è che smettano di farlo anche gli abusivi e gli evasori. Ammesso che non l’abbiano già fatto.
In La tua giustizia non è la mia Colombo e Davigo affrontano anche il tema dei lunghi processi, delle pene inique, della riforma del sistema giudiziario e carcerario, dell’indulto che rischia di diventare il “condono” giudiziario, delle operazioni sotto copertura, un azzardo secondo Davigo perché va a finire che non si riesce più a capire «se la polizia giudiziaria ha infiltrato qualcuno nella criminalità organizzata o viceversa» e su tanti altri aspetti della giustizia che quotidianamente combatte “il male” e deve farlo qualunque ne sia l’origine. Metaforicamente Colombo si interroga sul perché «da diecimila anni ci diciamo sempre le stesse cose e cerchiamo di risolvere gli stessi problemi». La soluzione va ricercata nell’idea errata «secondo la quale il bene e il male si distinguono per paternità» invece vanno distinti «oggettivamente».
Un libro originale La tua giustizia non è la mia, molto interessante per i contenuti e molto utile per il lettore che apprenderà informazioni e nel contempo sarà invogliato a riflettere su aspetti del sistema giudiziario italiano e suoi suoi operatori che vengono presentati in un modo mentre nascondono dell’altro. Sui politici, sui governi, sugli insegnanti e sugli alunni, sui cittadini, sui criminali…

Gherardo Colombo: è entrato in magistratura nel 1974. È stato consulente delle commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo e sulla mafia. Ha condotto o collaborato a inchieste divenute celebri, tra cui la scoperta della Loggia P2, l’omicidio Ambrosoli, i cosiddetti fondi neri dell’IRI, Mani Pulite. Dal marzo 2005 è stato giudice presso la Corte di Cassazione. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole. È attualmente presidente della casa editrice Garzanti. Nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità.

Piercamillo Davigo: è presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, in servizio alla Seconda sezione penale dal 2005. Entrato in magistratura nel 1978, è stato assegnato al Tribunale di Vigevano con funzioni di giudice, poi dal 1981 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con funzioni di sostituto procuratore. Dal 1992 ha fatto parte del pool di Mani Pulite, trattando procedimenti relativi a reati di corruzione e concussione ascritti a politici, funzionari e imprenditori. Dall’aprile 2016 è presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Fonte biografia autori http://www.longanesi.it

Articolo originali qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’Isis”, intervista a Sergio Romano

19 giovedì Nov 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

intervista, Laquartasponda, Longanesi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, saggio, SergioRomano, terrore, Terrorismo

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

A meno di un anno dall’assalto alla redazione della rivista satirica «Charlie Hebdo», il 13 novembre 2015 Parigi subisce un nuovo attacco terroristico, questa volta diffuso. Sei volte in 33 minuti, almeno129 morti e oltre 300 feriti. Questi i numeri della carneficina di venerdì notte.

Perché Parigi? Perché la Francia? Tutto l’Occidente si interroga, chiedendosi se la scelta caduta su la Ville Lumière sia motivata oppure se il commando kamikaze abbia agito all’impazzata, a caso, e questo significa che potrebbero colpire chiunque, dovunque, in qualsiasi momento. Minacce vere o presunte all’Italia e alla sua capitale mettono in allerta anche gli italiani alla soglia del Giubileo.

Il presidente Hollande ha così indicato lo schema d’attacco: «ideato in Siria, pianificato il Belgio, eseguito in Francia. Un modello usato in precedenza su scala minore che ora rischia di essere riprodotto anche in altre parti d’Europa e non solo».

Ne abbiamo parlato con Sergio Romano, già ambasciatore NATO e a Mosca, attualmente editorialista del «Corriere della Sera» e di «Panorama», in occasione della pubblicazione, per Longanesi, nella nuova edizione, aggiornata, de La quarta sponda. Quella compiuta dall’autore è un’attenta analisi volta a capire i conflitti tra Occidente e Islam, gli scontri interni al mondo islamico nonché gli errori strategici dei Paesi europei e degli Stati Uniti.

Gli attentati di Parigi confermano il tentativo dell’ISIS di portare la guerra in Occidente, concretizzando un obiettivo ampiamente dichiarato. Come s’inserisce questo all’interno dell’attuale scenario geopolitico internazionale?

Credo che l’attacco di Parigi sia un contrattacco, provocato dalle difficoltà in cui si trova l’Isis nei territori di Iraq e Siria. In queste ultime settimane, l’Isis ha subito una serie di disfatte, alcuni suoi leader sono stati uccisi, sta perdendo una parte del territorio che aveva conquistato… la coalizione che si è formata nel corso degli ultimi mesi sta quindi producendo dei risultati piuttosto positivi. I bombardamenti aerei sembrano funzionare. Ed è questa la ragione per cui io credo che l’Isis, a un certo punto, abbia deciso di cercare di rovesciare la situazione colpendo il fronte interno.

Ha colpito la Francia perché questa è, da un certo punto di vista, il Paese più vulnerabile. Ha la maggiore comunità musulmana in Europa, con l’eccezione della Russia naturalmente, dove i musulmani sono molto più numerosi ma il Paese è più lontano.

Questa comunità musulmana agli occhi dell’Isis è un serbatoio di volontari. Sono le comunità musulmane nei Paesi occidentali che possono maggiormente fornire quelli che sono stati definiti foreign fighters.

Credo che la tattica, o strategia, dell’Isis vada vista sotto questa luce: sta combattendo, o sta cercando di combattere in Francia perché sta perdendo terreno in Iraq e in Siria dove ha il suo territorio. La debolezza dell’Isis in questo momento offre alla coalizione la possibilità di agire con maggiore efficacia, soprattutto se riuscisse a diventare più omogenea e più organica.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

In molti sostengono che quella dell’Isis sia una guerra interna all’Islam. Fino a quale misura possiamo ritenere fondata una tale affermazione?

L’Isis è un movimento sunnita e noi sappiamo che in questi ultimi anni la destabilizzazione del Medio Oriente ha provocato il risveglio di un vecchio conflitto religioso tra le due anime dell’Islam, i sunniti e gli sciiti. Non c’è dubbio che questa vecchia ruggine fra le due maggiori componenti dell’Islam ha in qualche modo contribuito a rendere il conflitto ancora più aspro.

Il principale obiettivo dell’Islam sono i Paesi occidentali ma non escludo effettivamente che questa sorta di guerra civile e religiosa tra sunniti e sciiti esplosa nuovamente sia diventata importante, soprattutto per i grandi Paesi come l’Arabia Saudita e l’Iran, vale a dire i Paesi che sono la maggiore espressione delle due grandi anime dell’Islam.

Oggi, in molti rimpiangono il regime di Gheddafi, quasi fosse l’unica soluzione possibile ad arginare l’avanzata dell’Isis. Lei stesso sottolinea i danni generati dall’interventismo francese. Quali sono le conseguenze più significative?

Anzitutto la spedizione anglo-francese fu sbagliata perché non avevano preso in considerazione quale sarebbe stato l’assetto politico-costituzionale della Libia dopo la scomparsa di Gheddafi. Quando si vuole eliminare un regime, bisognerebbe sempre avere delle idee abbastanza chiare su ciò che dovrà accadere il giorno dopo, e questo non è accaduto. In quel momento, nel 2011, l’Isis non rappresentava un problema. Non avevano preso in considerazione il fatto che la struttura della società libica è tribale, con conflitti interni che sarebbero, come è accaduto, riesplosi.

Poi l’Isis ha approfittato di questa situazione caotica in Libia dopo il fallimento dell’operazione anglo-francese per intervenire. È così che in genere il radicalismo, l’integralismo islamico appare sulla scena. È già accaduto nel caso di Al-Qaeda.

Non c’era Al-Qaeda in Iraq nel 2003 quando gli Stati Uniti invasero e occuparono il Paese, apparve nel momento in cui, avendo disintegrato il regime di Saddam Hussein, trovarono spazio per le loro ambizioni, per i loro piani strategici.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Ne La quarta sponda, inquadra la questione libica anche all’interno del contesto delle rivolte di Tunisia ed Egitto del 2010. Queste rivolte rappresentano la “primavera araba” come indicato dalla stampa internazionale? E come s’inseriscono nel processo di diffusione dell’Isis?

Credo che non dovremmo più parlare di “primavera araba”, piuttosto constatare che quei movimenti, quelle piazze piene di gente che protestava contro il regime di Ben Ali in Tunisia e contro quello di Mubarak in Egitto erano il segno di una protesta reale, non c’è dubbio che c’era una grande insoddisfazione, soprattutto generazionale. Nuove generazioni che avevano in qualche modo ambizioni suscitate anche dal fatto che potevano, a differenza dei loro padri e dei loro nonni, vedere meglio grazie alle nuove tecnologie quello che stava accadendo altrove, quello che la modernità rappresentava in altri Paesi.

Però in quelle piazze non c’erano movimenti o partiti politici quindi sono certamente riusciti a cacciare Ben Ali e far dimettere Mubarak ma non sono stati in grado poi di istituire un regime nuovo, creare nuove stabilità basate su progetti organici e quindi i paesi sono in modo diverso precipitati nel caos.

Le rivolte arabe, se vogliamo continuare a chiamarle così, non furono vere rivoluzioni, bensì manifestazioni di disagio economico e sociale. Riuscirono a distruggere il regime esistente ma quel regime venne poi sostituito da altri e, nel caso dell’Egitto, abbiamo un regime di carattere militare.

Lei sottolinea il filo diretto che lega «lo sbarco a Tripoli e il colpo di pistola sparato a Sarajevo il 28 giugno 1914» ma precisa che questo legame si «intreccia con altri più antichi che imprigionano l’Europa in una fitta trama». A cosa si riferisce in particolare?

La tesi secondo cui la guerra libica ebbe l’effetto di provocare le guerre balcaniche e una serie di avvenimenti che si conclusero sì con quel colpo di pistola sparato a Sarajevo, ma le cause furono altre e numerose. Anzitutto vi era il declino di tutti gli imperi, che già da molto tempo davano segni di grande malessere.

Il primo, l’impero ottomano, che stava declinando ormai da molto tempo. L’altro, l’impero austro-ungarico, che proprio per salvare se stesso volle trasformare l’attentato all’arciduca nell’occasione per regolare i conti con la Serbia e ricostituire la propria influenza nei Balcani.

Quindi la Libia giocò la sua parte, come tanti altri eventi, ma non possiamo stabilire un rapporto diretto di causa-effetto.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Lei paragona quanto sta accadendo in Libia ora a quanto accaduto in Iraq nel 2003. Alcuni ritengono che l’idea di Stato islamico sia sorta proprio dai deposti membri dello sconfitto esercito di Saddam. Dobbiamo aspettarci qualcosa di simile anche in Libia?

La Libia è molto più frammentata, è un Paese tribale. In Iraq la situazione non è così. Esistono dei grandi gruppi etnico-religiosi che sono per l’appunto la maggioranza sciita e la minoranza sunnita, i curdi nel Nord, ma non credo che sia facile e giusto stabilire un confronto troppo stretto tra gli avvenimenti libici e quelli iracheni. In Iraq le strutture statali preesistenti non sono mai state completamente distrutte. Ancora oggi rimane traccia di strutture statali importanti: le università, i tribunali, la gestione politico-amministrativa delle varie province. In Libia non c’è nulla. Quel poco che c’era è praticamente scomparso. Il Paese è in preda a una sorta di caos, di anarchia.

Nel caso dell’Iraq è certamente vero che il corpo degli ufficiali e dei sotto-ufficiali dell’esercito iracheno, l’esercito di Saddam Hussein per intenderci, quando è stato licenziato, congedato dalla primissima amministrazione americana, dopo la fine del conflitto, ha in qualche modo cercato di ricollocarsi, sia per ragioni di disoccupazione professionale sia anche per ragioni politiche, all’interno di un’altra organizzazione.

L’estremismo religioso di Al-Qaeda prima e dell’Isis dopo si è servito di queste competenze professionali, erano ufficiali e sotto-ufficiali che conoscevano il loro mestiere. Per otto anni avevano combattuto contro l’Iran quindi erano eserciti, non all’altezza di quelli europei, ma avevano una loro struttura che poteva tornare utile a qualcun altro, come poi effettivamente è accaduto.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Rispetto alla crisi siriana, lei individua nell’atteggiamento dei Paesi europei e degli Stati Uniti un elemento di debolezza, dovuto al loro essere «tormentati e paralizzati da opposti sentimenti». In che modo, secondo lei, si sarebbe potuta affrontare la questione siriana?

Nel regime di Bashar al-Assadvi erano componenti di opposizione di grande importanza.Era un regime clientelare però basato sulla fedeltà di un grande gruppo, l’alauita, e quindi già dagli anni del padre di Bashar al-Assad esisteva un’opposizione sunnita, che era stata repressa sanguinosamente da Hafiz al-Assad. Il regime aveva una sua intrinseca instabilità ma era anche in grado di difendersi e lo ha dimostrato e lo sta dimostrando con una guerra che si è protratta per molto tempo.

Non farei confronti troppo stretti tra Siria e Libia. Dopotutto Bashar al-Assad sta sempre lì e può sempre contare su sostegni internazionali importanti, che sono quelli dell’Iran e della Russia.

Il regime di Bashar al-Assad, come quello di Saddam Hussein, era un regime laico; entrambi avevano cercato di fondare la loro esistenza su principi desunti dall’Occidente. Il partito al potere, sia in Iraq che in Siria, era il partito Ba’th, nazionalista e socialista, con una forte componente laica. Saddam Hussein non ha mai avuto rapporti con Al-Qaeda, anche se questa era l’accusa da parte degli Stati Uniti, l’argomento o il pretesto per cui hanno deciso di fargli la guerra.

Paradossalmente era più simile a uno stato europeo quello di Bashar al-Assad, ma anche quello di Saddam Hussein insieme all’Egitto, di quasi tutti i Paesi arabo-musulmani.

«Gli attentati di Parigi sono il contrattacco dell’ISIS», intervista a Sergio Romano

Alcuni schieramenti politici italiani richiedono a gran voce l’adozione di due soluzioni: il bombardamento della Siria e la chiusura delle frontiere bloccando il flusso migratorio in entrata. Questa può essere una soluzione per difenderci dagli attacchi dell’Isis in Europa, oppure presenta pericoli ancora peggiori?

Chi ha questi obiettivi? C’è di sicuro un desiderio turco di creare delle zone di interdizione aerea che se decise su scala internazionale, nell’area occidentale, avrebbero significato naturalmente aiutare, sostenere Erdogan e la Turchia a meglio colpire il regime di Bashar al-Assad.

I turchi continuano a proporre questa soluzione ma mi sembra con minore insistenza, anche perché si sono resi conto che il nemico non è più veramente Bashar al-Assad, il nemico adesso è l’Isis.

http://www.sulromanzo.it/blog/gli-attentati-di-parigi-sono-il-contrattacco-dell-isis-intervista-a-sergio-romano

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Intervista a Marco Buticchi per “Il segno dell’aquila” (Longanesi, 2015)

28 venerdì Ago 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

≈ Lascia un commento

Tag

Ilsegnodellaquila, intervista, Longanesi, MarcoButicchi, romanzo, romanzostorico

“Il segno dell’aquila”, intervista a Marco Buticchi

È uscito ieri Il segno dell’aquila (Longanesi) di Marco Buticchi. Il testo si schiude con una citazione di Salvador Allende «Noi vivremo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri», scelta presumibilmente dallo stesso Buticchi per “aprire” il lettore alla sua storia, all’avventura e alla suspense. La narrazione si articola su due livelli temporali: la contemporaneità e il 500 a.C. con i protagonisti che sembrano rincorrersi attraverso il tempo e lo spazio e ricongiungersi proprio attraverso i ‘doni’ lasciati o ricevuti.

Vel, Ramtha, Ati Nacma e i loro “compagni di avventura”, etruschi vissuti nel 520 a.C. che sembrano rivivere non solo nel racconto delle loro vicende ma anche attraverso le ricerche dei restauratori di opere d’arte antica Toni e Sara, che indagano sul loro operato. E la realtà si tinge ogni volta di giallo per i ricordi, che ancora celano il mistero di Laura e della sua “sparizione”, o per i presagi, fasti o nefasti, tanto cari alle culture precristiane, come gli etruschi e i romani.

Su tutti domina incontrastata la forza e la bellezza dell’aquila, simbolo della legione romana che diventa nel libro di Buticchi la sua maggiore antagonista.

«In certe anime c’è un’aquila […] che può egualmente precipitarsi nei burroni più oscuri e tornare a librarsi in alto e scomparire negli spazi solari. E anche ove essa voli per sempre nel burrone, questo burrone è tra i monti, e così, nella sua più bassa discesa, l’aquila montana è sempre più in alto degli uccelli della pianura, anche quando questi salgono» (Herman Melville).

E mentre i lettori attendono di leggere le avventure di Vel e della sua aquila noi abbiamo incontrato Marco Buticchi, il quale ha acconsentito a rispondere a qualche domanda sul suo nuovo romanzo d’avventura (che sarà presentato domani alle ore 18.00 a La Spezia, presso la Festa della Marineria della Spezia – Molo Italia, Nave Scirocco) ma anche su alcuni temi di attualità in esso trattati.

Il segno dell’aquila: un’avventura lunga quasi tremila anni. Un libro nel quale racconta e al contempo indaga gli uomini e le donne della Terra. Dietro un pirata si nasconde un animo buono e nobile, dietro il Moderatore di una Fondazione religiosa un criminale. È lo specchio delle ipocrisie e delle immagini stereotipate della società?

Sarei presuntuoso se fossi convinto di analizzare i mali delle società (quella corrente e quelle più antiche) in un “semplice romanzo d’avventura”. Ancor più presuntuoso se fossi convinto che i miei scritti possano riuscire a porre un freno ai mali di vivere della nostra società. Riporto però, per dovere di chiarezza, quanto scrivo nella nota d’autore in appendice del romanzo: «… ogni iniziativa tesa a instillare anche un solo dubbio sulla correttezza di ciò che accade attorno a noi è benvenuta. Anche quando la riflessione scaturisce da un semplice romanzo d’avventura».

La sede della Confraternita di Denagua si trova a Roma in via della Conciliazione. La mente rimanda subito allo “scandalo dei frati minori”. La realtà supera sempre la fantasia?

Ma non solo ai ‘frati minori’: via della Conciliazione è lunga poco più di 300 metri e, penso che, analizzando gli scandali scoppiati dietro le sante mura in 2000 anni, potremmo trovare uno scandalo a centimetro per la via monumentale che conduce a Piazza san Pietro. La sede della Confraternita è solo frutto delle necessità di monsignor Denagua, che sono spiegate nel romanzo: essere più vicino alle stanze che contano.

Ne Il segno dell’aquila lei esplora anche un campo “minato” come l’Isis che si nutre dei proventi del commercio del petrolio, del traffico di preziosi, dei sequestri di persona a scopo di estorsione, delle donazioni dei fiancheggiatori… insomma mancano il traffico di armi e droga, il contrabbando di sigarette e sembra la descrizione esatta di ciò che facciamo noi occidentali da secoli, non trova?

Non banalizziamo così un problema grave come il sedicente Califfato Islamico. Sono molti secoli che gli occidentali non mozzano istituzionalmente il capo senza processo a chi crede in un Dio diverso. Se il campo è diventato “minato”, forse perché le connivenze con governi e organizzazioni “parallele” hanno concesso ai genieri di depositare le mine. Adesso, però, che quella zona tanto ricca ma interdetta fa paura, difficile sarà sminarlo in tempi brevi.

Il maggiore Oswald Breil viene rapito da un commando per utilizzarlo come controfferta di scambio per liberare il tesoriere dell’Isis. I media di tutto il mondo riportano la notizia della “rocambolesca fuga del re del narcotraffico” salvo poi ritrarlo come un eroe una volta liberato. Possiamo considerarlo come la rappresentazione di un problema serio come quello della disinformazione o della carenza di una corretta informazione?

Anche qui mi torna difficile fare di ogni erba un fascio: nel romanzo (e di romanzo si tratta) le prove sono schiaccianti e le controprove tardano a venire. Ma non vorrei raccontare troppo…

“Il segno dell’aquila”, intervista a Marco Buticchi

«Senza tema di smentita si poteva affermare che quelle cinque persone reggessero da sole una buona parte dei destini del mondo». Si legge a proposito dei consiglieri della Confraternita della Santa Resurrezione. Persone che non solo si arricchiscono ma si “curano” anche con il traffico illegale di organi. Il segno dell’aquila è frutto della sua fantasia di scrittore ma anche di cittadino che osserva il mondo. E nella realtà purtroppo la situazione non sembra essere molto distante da quella da lei descritta. Perché si è giunti a questo punto?

Non si tratta di fantasie da scrittore, ma di triste realtà denunciata dalla massima autorità mondiale in tema di sanità: l’OMS dichiara che, dei 22.000 trapianti di fegato, 66.000 di rene e 6.000 di cuore eseguiti ogni anno nel mondo, almeno il 5 per cento è effettuato clandestinamente per un controvalore dal miliardo ai due miliardi di dollari. E la mia convinzione è che, ad alimentare questo mercato, non siano i comuni cittadini alle prese con le problematiche quotidiane, ma potenti privi di scrupoli capaci di rifarsi il maquillage espiantando un cuore sano dal petto di un innocente.

Nella realtà, al pari di quanto descritto ne Il segno dell’aquila, chi finge di combattere il terrorismo è il medesimo che lo arma e che lucra con le missioni umanitarie per “aiutare” profughi e rifugiati. Qual è a parer suo la molla che spinge i burattinai a far muovere il sistema?

Non c’è bisogno di andare troppo lontano. Pensi alla strategia della tensione che ha insanguinato l’Italia e che ancora è in attesa di conoscere manovali e mandanti di stragi e omicidi. Dietro alla ricerca armata di destabilizzazione, si muovono sempre interessi e ideali. Spesso i primi sono preminenti rispetto ai secondi.

In diversi punti del testo viene citato Hitler, le cui azioni sono assimilate al comportamento dei combattenti dell’Isis. Il protagonista del libro è israeliano ma non sembra sia solo questo il motivo che fa pendere l’ago della bilancia da quella parte. Stando a quanto si legge nel rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sono «credibili le accuse di crimini di guerra commesse sia da Israele che dai gruppi armati palestinesi» a Gaza. Perché secondo lei anche il mite popolo ebreo che ha subito l’olocausto si è piegato ai crimini di guerra perpetrati contro civili, donne e bambini?

Non sono un giudice e non ho elementi tali da giudicare comportamenti tenuti da ebrei o palestinesi in una zona calda e precaria come il Medio Oriente. Il modo di avanzare, la devozione alla causa, l’impeto, le guerre lampo dei miliziani dell’Isis, mi ricordano le avanzate dei nazisti. Così come l’indifferenza del mondo di fronte alle epurazioni etniche e alla giustizia sommaria, mi fanno tornare alla mente quei momenti oscuri che, oggi, abbiamo il dovere di combattere.

«Provate solo a pensare a chi fa comodo che il cattivo sia oggi l’islamico feroce…». A chi fa comodo?

Provate a pensarci… in gioco ci sono: il petrolio, interessi planetari, equilibri nella regione più a rischio… ci siete arrivati? Purtroppo io non posso andare oltre. Provate a leggere quello che ho scritto…

http://www.sulromanzo.it/blog/il-segno-dell-aquila-intervista-a-marco-buticchi

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Il confine del silenzio” di C.L. Taylor (Longanesi, 2015)

23 giovedì Lug 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

≈ Lascia un commento

Tag

CLTaylor, Ilconfinedelsilenzio, Longanesi, recensione, romanzo, thriller

Il confine del silenzioThe Accident, romanzo d’esordio di C.L. Taylor esce quest’anno in Italia per Longanesi col titolo Il confine del silenzio, nella versione tradotta da Elisa Banfi. Nel Regno Unito il libro ha riscontrato un notevole successo nelle vendite e ora inizia a essere pubblicato in diversi paesi europei.

Non stupisce il favore del pubblico e non meraviglierebbe scoprire che sia dovuto in gran parte al passaparola. La scrittura della Taylor, abilmente riprodotta dalla Banfi, cattura il lettore e lo tiene sospeso come in apnea per tutte le oltre duecento pagine che compongono il testo.  Una capacità che è propria del grande Wulf Dorn e che si ritrova in pochi altri autori.

Quella sensazione di essere spiati, controllati, di essere in costante pericolo, al pari dei protagonisti delle vicende che si stanno leggendo. La paura che ti assale ogni volta che apri il libro e ricominci dal punto in cui avevi lasciato, una paura che ti tiene incollato alla sedia e ti fa credere che l’unico modo di sconfiggerla sia andare fino in fondo nella lettura, scoprire il mistero e mettersi in salvo, come i personaggi.

Ma è sul finale che Il confine del silenzio delude un po’: troppo scontato, con una struttura troppo studiata e trasparente, a tratti anche prevedibile.

Il registro narrativo si articola su due livelli temporali: il presente, con la narrazione delle vicende in corso di svolgimento, e il passato, quando Sue ricorda i suoi trascorsi giovanili rivissuti attraverso le pagine di un diario. Donna emotivamente instabile e insicura al capezzale di sua figlia, in coma da settimane, Sue ritrova il coraggio di combattere perdendo la lucidità e, mentre il marito crede stia avendo un’altra delle sue ‘crisi’, riesce a mettere in salvo la vita di Charlotte, di Brian e la propria. A morire sarà il cattivo, per una serie di coincidenze e casi fortuiti mentre fino a quel punto ogni frase e ogni azione erano state ponderate e premeditate fino all’inverosimile. Esattamente come era accaduto venti anni prima, quando in piena confusione mentale Sue era riuscita a salvarsi e, liberandosi di ‘pesi e ricordi’, a ricominciare.

«Forte? Non avrei potuto essere più debole. Avevo passato due anni della mia vita con un mostro, a farmi torturare da un odio mascherato da amore.»

Provata e combattuta riesce comunque a ripartire, lontano, e col tempo imparerà di nuovo ad amare. Si scoprirà poi che vittima della furia assassina indirizzata a lei è stata un’altra donna, una prostituta, e la storia stava per ripetersi anche venti anni dopo, con Keisha.

I temi e gli argomenti trattati dalla Taylor sono numerosi e spaziano dalla violenza di genere alla prostituzione minorile, dalle malattie mentali alla ribellione adolescenziale. Ne emerge il quadro di una società, quella inglese, che incarna alla perfezione i mali della contemporaneità. Ragazzine cresciute a pane e social network che farebbero qualsiasi cosa pur di possedere un guardaroba di ‘tutto rispetto’.  Ragazzi poco più che adolescenti ascesi al limbo dello show business convinti che a loro tutto sia dovuto. E insieme finiscono col vivere vite parallele al limite degli eccessi e dello sballo inconsci del fatto che le prime vittime di tutto ciò sono e rimangono loro stessi. Il motivo propulsore è per la maggior parte di loro il medesimo: tentare di nascondere le fragilità e le insicurezze con trasgressioni e spavalderia.

Il tarlo del dubbio sul presunto ‘incidente’ di Charlotte si insinua fin da subito nella mente di Sue, sua madre, che pensa di conoscere la sua bambina e invece indagando nella sua vita scopre una persona diversa da come la credeva… o forse no. Sue e Brian, genitori costretti a trovare il coraggio e la forza per andare avanti, ogni giorno, incoraggiati dalla speranza di assistere al ‘risveglio’ della propria figlia.

«Nei suoi occhi leggo la compassione, anche se a volte usa un tono brusco. La vedo negli occhi di tutte le infermiere, soprattutto le madri. Ringraziano Dio che non sia capitato a loro.»

E ciò che capita negli anni a Sue metterebbe a dura prova chiunque, difficile biasimarla per le  insicurezze, per il bisogno di coltivare un ‘amore malato’, di trascurare la figlia da cui non si è separata, di abbandonarsi al sospetto… leggere Il confine del silenzio induce alla riflessione su molti aspetti e problemi della società attuale, sui mali che la affliggono e sui malesseri delle persone di ogni fascia di età.

Il confine del silenzio – Carol Louise Taylor

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Translate:

Articoli recenti

  • Teoria e pratica del lavoro sociale: “Intercultura e social work”
  • “Tattilismo e lo splendore geometrico e meccanico” di Filippo Tommaso Marinetti (FVE, 2020)
  • “Daphne Caruana Galizia. Un omicidio di stato”
  • “La terra del sogno” di Mariana Campoamor (Mondadori, 2020)
  • “Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)

Archivi

Categorie

  • Articoli
  • Interviste
  • Recensioni
  • Senza categoria

Meta

  • Accedi
  • Feed dei contenuti
  • Feed dei commenti
  • WordPress.org

Proudly powered by WordPress

Questo sito utilizza i cookie per migliorarne l'esperienza d'uso. Continuando la navigazione l'utente ne accetta l'uso in conformità con le nostre linee guida.OKMaggiori informazioni sui cookie