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Irma Loredana Galgano

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L’essere umano è una mera creatura economica?

17 mercoledì Ago 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EulaBiss, LeCoseCheAbbiamo, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Cosa ci dice del capitalismo il fatto che abbiamo dei soldi e vogliamo spenderli ma non riusciamo a trovare nulla che valga la pena comprare?

Eula Biss parte dalla narrazione di semplici e ordinari episodi di vita vissuta per elaborare considerazioni di carattere più generale. In procinto di arredare la loro nuova casa, l’autrice e il marito sono in difficoltà perché, pur avendo disponibilità economica, non riescono a trovare oggetti e mobili di qualità. Tutto sembra loro industriale, ordinario, oggettistica in serie ed estremamente commerciale. Nulla su cui valga davvero la pena investire. 

Il consumismo, che va a braccetto con il capitalismo, ha trasformato le produzioni e fors’anche le persone, che sembrano divenute ormai solo dei consumatori.

Le cose che abbiamo è uno studio sugli esseri umani come creature economiche, un saggio letterario e politico in cui torna centrale il tema, caro a Biss, dell’essere comunità. 

Per Lewis Hyde, il desiderio di consumare è una forma di avidità. Ma i beni di consumo lusingano soltanto questa avidità, non la appagano. Il consumatore di merci è invitato a un pranzo privo di passione, a una consumazione che non conduce né alla sazietà né all’entusiasmo.

Gli ex proprietari della casa acquistata da Biss arrotondavano affittando la proprietà come set pubblicitario. Bisognava solo lasciare l’abitazione per tre giorni e si incassavano 8.000 dollari. La pubblicità è per la Walmart, la corporation che ha fatto la fortuna di quattro delle venti persone più ricche d’America. Eula Biss si meraviglia della proposta, perché loro non posseggono nulla della Walmart ma ciò non ha importanza. I mobili di Walmart saranno trasportati in casa. Le tende Walmart saranno sistemate alle finestre. Delle stampe Walmart appese alle pareti in cornici Walmart. Uno scenografo bianco e un regista bianco si metteranno al lavoro per creare un autentico interno afroamericano. Lo spot, infatti, prevede una nonna afroamericana che prepara un tacchino per le feste, in un classico bungalow di Chicago. 

Nell’abitazione accanto alla casa di Biss e ad essa perfettamente uguale, vive una vera nonna afroamericana. Ma sono Eula Biss e suo marito ad essere pagati per far riarredare la loro casa in modo che somigli il più realisticamente possibile a quella reale ma ignorata dei vicini afroamericani. 

Secondo Elizabeth Chin, le persone sono alienate in modo così totale e potente da essersi ridotte a oggetti; nel frattempo gli oggetti che producono e quelli che comprano hanno acquisito tutta la vitalità che le persone hanno perduto. Una delle cose principali che ha osservato Marx riguardo al capitalismo, è che induce le persone ad avere relazioni con gli oggetti anziché con le altre persone. 

Solo così si può spiegare quanto accade nell’abitazione di Biss, trasformata in un set pubblicitario grazie a oggetti e attori, allo scopo di invogliare all’acquisto e al consumo di oggetti, ignorando le persone e considerandole solo delle creature economiche.

Consumare deriva dal latino consumere, che significa impossessarsi e divorare. Una persona può consumare del cibo o essere consumata dalla rabbia. Nel suo utilizzo più antico, quindi, il consumo implicava sempre distruzione. 

Quello che viene distrutto quando pensiamo a noi stessi come meri consumatori, suggerisce David Graeber, è la possibilità di fare qualcosa di produttivo al di fuori del lavoro. Il consumo era già indicato come l’opposto della produzione nell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Adam Smith. 

I Greci non attribuivano al lavoro il valore che gli diamo noi oggi. Il lavoro era per gli schiavi e le donne. Tenevano invece in grande considerazione lo studio. Il tempo libero era quello trascorso a riflettere e interrogarsi. Essere a proprio agio, condurre una vita di studio e contemplazione, significava godere di una vera libertà. Oggi il tempo libero è quello da dedicare al riposo o al divertimento, allo svago. E, in linea di massima, non gli viene riconosciuto molto valore perché non gliene si dà dal punto di vista economico. 

Si pensava che la modernizzazione avrebbe riempito il mondo di posti di lavoro. Impieghi standard con salari fissi e benefit. Ma questi lavori ormai sono rarissimi, la gran parte delle persone vive con entrate molto più irregolari. 

Eula Biss si chiede se sia la precarietà la condizione caratterizzante i tempi di oggi, ovvero se la nostra epoca è matura per percepire la precarietà. 

Interrogativo difficile perché la precarietà è innegabilmente la condizione che rende tutti e ognuno vulnerabile.

Oggi chi può diventare precario? Tutti. Chiunque.

La malattia o la disabilità possono costringere una persona a entrare nel precariato, così come il divorzio, la guerra o un disastro naturale. 

Con un esercito di lavoratori instabili, con impieghi incerti, con salari non adeguati, con scarse o inesistenti reti di protezione sociale uno Stato e i suoi cittadini quali certezze e garanzie offrono o hanno circa il proprio futuro?

Davvero tutto questo non interessa fino a quando si riesce a spremere comunque le persone nel loro essere creature economiche che continuano, nonostante tutto, a consumare beni e servizi?

La nostra interpretazione del valore, osserva Mariana Mazzucato, è circolare: i redditi sono giustificati dalla produzione di qualcosa che è di valore. Ma come misuriamo il valore? In base al fatto che produce reddito. E quindi il concetto di reddito non guadagnato scompare. Se riuscissimo a pensare al valore in modo diverso, potremmo modificare il nostro sistema economico in modo che una cosa che ha valore per tutta la società, come il benessere dei nostri figli o la tutela dell’ambiente, avrebbe anche un valore economico.

L’investimento è essenziale, ma bisogna domandarsi su cosa si vuol investire e soprattutto per ottenere cosa.

La lettura del libro di Eula Biss è strana, molto strana. In molti passaggi si ha la percezione di “entrare” nella vita dell’autrice, nella sua intimità familiare e ciò “imbarazza” il lettore. Nel senso che egli non vorrebbe mai ritrovarsi a fare i conti in tasca a Biss o giudicare le sue personali riflessioni. Ma poi, andando avanti con la lettura, si realizza che lo scopo del libro non è indagare la vita dell’autrice o le sue scelte, bensì riflettere sulla società in generale, sulla comunità che va a comporre quella società, sulle scelte economiche e politiche che incidono in maniera diretta e indiretta sulla comunità e sulla società. Ed ecco allora che appare in tutto il suo splendore la grandezza di un libro qual è Le cose che abbiamo.

Il libro

Eula Biss, Le cose che abbiamo. Essere e avere alla fine del capitalismo, Luiss University Press, Roma, 2022.

Traduzione di Chiara Veltri.

Titolo originale: Having and being had, Riverhead Books, Penguin Random House LLC, Stati Uniti d’America, 2020.

L’autrice

Eula Biss: scrittrice americana già docente alla Northwestern University.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

“Less is more. Sull’arte di non avere niente” di Salvatore La Porta (il Saggiatore, 2018)

Rendere la natura inutile: come crescere di più spendendo meno risorse. “Di più con meno” di Andrew McAfee (Egea, 2020)

“Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” di Shoshana Zuboff (Luiss University Press, 2019)

“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Nell’era della memoria storica può diventare necessario l’elogio dell’oblio?

30 giovedì Set 2021

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DavidRieff, Elogiodelloblio, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Negli ultimi anni si è assistito a un sempre crescente interesse verso la costituzione di una solida memoria storica, necessaria garanzia di pace in quanto è grazie ad essa che gli uomini possono non solo tramandare usanze e costumi ma anche evitare che tragedie e sciagure, e tutto il male fatto, tornino a ripetersi. 

È questa l’idea che David Rieff sfida apertamente nel libro Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica. Un libro che va letto con molta calma e attenzione, proprio in virtù del fatto che l’autore lo ha scritto con la precipua volontà di sfidare il lettore. Il quale è allora chiamato a non cadere nel tranello delle facili e quasi certamente errate conclusioni. 

Rieff non è contrario alla memoria storica o collettiva, come non è fautore dell’oblio indiscriminato. Il suo pensiero si muove lungo un sentiero tortuoso e accidentato, pieno di insidie e facili fraintendimenti, volto a mantenere o ricercare un equilibrio tra la memoria a ogni costo e la dimenticanza indistinta, soprattutto quando entrambi i fronti divengono strumento di una cultura e di una politica che tentano di strumentalizzarli a proprio vantaggio. A volte riuscendoci anche, purtroppo. 

Nietzsche diceva che «non ci sono fatti, solo interpretazioni», ed è proprio seguendo questa linea che l’autore vuole mettere in guardia il lettore dagli autoinganni e dalle manipolazioni che, spesso, si frappongono tra noi e il ricordo storico. Autoinganni e manipolazioni che contribuiscono a tenere viva la fiamma rovente e distruttiva dell’odio e della vendetta, a volte unici motivi per cui si tende ad esaltare l’importanza del ricordo e della memoria storica. È successo tante volte. Numerosi sono gli esempi riportati da Rieff nel testo. 

Jacques Le Goff riteneva che «la memoria mira a salvare il passato soltanto per servire al presente e al futuro». Ed è da posizioni come queste che, per Rieff, bisogna stare lontani per evitare che, visioni strumentali degli accadimenti del passato, condizionino il presente e il futuro. 

Naturalmente non tutta la storia va dimentica. L’importante è una buona documentazione sulle fonti, sui dati, sulle testimonianze, sulla neutralità e centralità dei fatti. In generale, gli estremismi e le estremizzazioni non sono mai fonte di saggezza. 

Non è solo il troppo oblio quindi a rappresentare un rischio, lo è anche la troppa memoria. E, per Rieff, in questo Ventunesimo secolo, ora che le persone di tutto il mondo, ma soprattutto del Nord del globo, sembrano ossessionate dal culto della memoria, è proprio l’eccesso di memoria che può diventare un rischio. La memoria può essere alleata della giustizia, ma può non esserlo della pace, divenendo al contrario incubatrice di odio e desiderio di vendetta. E, conclude l’autore, quando la memoria collettiva condanna una comunità a sopportare il dolore per le proprie ferite e la rabbia per i torti subiti, non dovrebbe essere onorato il dovere di ricordare, ma quello dell’oblio.

Per certo le tesi avanzate da Rieff nel testo sono una voce fuori dal coro in questo periodo in cui tanto si insiste sulla necessità di creare una solida memoria storica e collettiva che aiuti, soprattutto, a evitare il ripetersi degli errori del passato. Ma non sono in contraddizione con la tendenza generale. Vanno piuttosto intese come un differente modo di affrontare il ricordo, affrancandolo dal livore dell’odio e dalle mistificazioni. E, in quest’ottica, non si può non essere concordi con lui.

Il libro

David Rieff, Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Gabriella Tonoli. Prefazione di Marta Boneschi. Pagg. 136, €18.00

Originariamente pubblicato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito da Yale University Press con il titolo In praise of forgetting, nel 2016.

L’autore

David Rieff: scrittore e giornalista americano. Esperto di conflitti internazionali, immigrazione e questioni umanitarie, è autore di numerosi libri. 


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018)

Costruire una solida memoria storica dei mali causati dall’odio umano per non dimenticare neanche “Le verità balcaniche” (Andrea Foffano, Kimerik 2018)


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“Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” di Shoshana Zuboff (Luiss University Press, 2019)

08 domenica Nov 2020

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Ilcapitalismodellasorveglianza, LuissUniversityPress, recensione, saggio, ShoshanaZuboff

«Il capitalismo si evolve in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati»

È questo uno dei concetti base da cui Shoshana Zuboff fa partire la sua analisi a tutto tondo dell’attuale evoluzione del capitalismo, una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma che non coincide con esso. Il capitalismo della sorveglianza infatti non è una tecnologia, è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione.

Il messaggio delle aziende del capitalismo della sorveglianza non è molto dissimile da quello che veniva celebrato nel motto, ricordato dall’autrice, della Esposizione universale di Chicago del 1933: La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta.

Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti. I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto e sfruttato che i dati predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto.

Il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, gli operatori di quello della sorveglianza sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il loro potere strumentalizzante.

Per Shoshana Zuboff, il capitalismo della sorveglianza rimanda alla vecchia immagine di Karl Marx del capitalismo come un vampiro che si ciba di lavoro. Solo che non è più il lavoro il cibo dei capitalisti, lo è ogni aspetto della vita umana.

I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza non sono oggetto di uno scambio di beni. Non pongono un rapporto di reciprocità costruttivo tra produttore e consumatore. Sono, al contrario, esche che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze personali vengono estratte e impacchettate per gli scopi di altre persone.

Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e ora minacciano di distruggere la Terra, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza e dal nuovo potere strumentalizzante prospererà a discapito della natura umana e minaccerà di distruggerla.

Nel capitalismo della sorveglianza, i mezzi di produzione sono al servizio dei mezzi di modifica del comportamento. Il vero potere infatti risiede nella capacità di modificare le azioni in tempo reale nel mondo reale.

Come tutti i capitalisti, anche quelli della sorveglianza vogliono una libertà senza limiti. La concorrenza tra capitalisti della sorveglianza li spinge alla ricerca della totalità. La totalità dell’informazione si avvicina alla certezza, e pertanto a esiti sicuri. Il capitalismo della sorveglianza, pertanto, mette la certezza al posto del mistero, e la renderizzazione in primo piano, al pari della modifica del comportamento e della previsione al posto del vecchio schema insondabile. Si tratta di un’inversione fondamentale dell’ideale classico secondo cui il mercato era intrinsecamente inconoscibile.

Il capitalismo della sorveglianza spinge le persone verso una forma nuova di collettivismo, nel quale è il mercato e non lo Stato a detenere conoscenza e libertà.

Come i manager del primo Ventesimo secolo appresero che per gestire i sistemi gerarchici delle grandi aziende dovevano assumere un “punto di vista amministrativo”, così i sommi sacerdoti applicano l’arte dell’indifferenza radicale, un modello di conoscenza profondamente asociale. Grazie all’indifferenza radicale, essi giudicano i contenuti in base a volume, varietà e profondità del surplus, con criteri anonimi quali clic, like e durate, senza curarsi del fatto evidente che ogni situazione ha un significato diverso.

Sottolinea quindi Shoshana Zuboff come il capitalismo della sorveglianza, appropriandosi di libertà e conoscenza, distaccandosi dalle persone, con le sue ambizioni collettiviste e la sua indifferenza radicale, spinge in realtà verso una società nella quale il capitalismo non è sottoposto a istituzioni politiche o economiche inclusive.

L’autrice elenca il parere di numerosi studiosi i quali parlano di recessione democratica e disgregazione delle democrazie occidentali, un tempo ritenute al sicuro da minacce. La portata e la natura di tali minacce non è ben definita, ma è evidente la saudade causata dai rapidi cambiamenti sociali e la sensazione che le nuove generazioni si troveranno a dover affrontare sempre maggiori difficoltà. Come preoccupante è l’indebolimento dell’amore per la democrazia negli Stati Uniti e in molti Paesi europei.

Il capitalismo della sorveglianza è entrato in scena quando la democrazia era già in difficoltà, ed è cresciuto grazie alle cure del neoliberismo, che chiedendo sempre maggiore libertà lo allontanava dalle vite delle persone. I capitalisti della sorveglianza hanno capito ben presto come approfittare della situazione, e hanno svuotato di forza e significato la democrazia. Malgrado le sue promesse democratiche, ha dato vita a un’Età dell’oro segnata da grandi diseguaglianze economiche e a nuove forme di esclusione imprevedibili, separando chi regola gli altri e chi viene regolato.

Shoshana Zuboff auspica che in ogni società democratica il dibattito e il contesto garantito dalle istituzioni ancora solide possa orientare l’opinione pubblica contro forme inattese di oppressione e ingiustizia, per mostrare la strada a leggi e giurisprudenza. È proprio in questa società dell’informazione che le notizie devono essere o diventare una risorsa non per capitalisti e capitalismo della sorveglianza, bensì per gli stessi cittadini e costituire la nuova potente “arma” in difesa didiritti, libertà e conoscenza nonché della democrazia.

È un libro impegnativo, Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, che “costringe” il lettore a pensare e ripensare forme e atteggiamenti oramai considerati fin troppo naturali per poterli analizzare sotto la giusta prospettiva. Eppure necessario per non smarrire quell’imprescindibile desiderio di conoscenza e libertà che deve caratterizzare ogni cittadino e cittadina, non solo del mondo democratico occidentale.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti. Titolo originale: The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs, Stati Uniti d’America, 2019


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Per le immagini tranne la copertina libro credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie” 

“Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale” di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo (ilMulino, 2020) 

L’Italia e “L’illusione del cambiamento” nella metamorfosi della Tecnica. Recensione al testo di Alessandro Aleotti (Bocconi Editore, 2019) 

“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Rivoluzione digitale sì, ma “Non essere una macchina”

09 sabato Mag 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ControRivoluzione, lavoro, LuissUniversityPress, NicholasAgar, Nonessereunamacchina, recensione, rivoluzionedigitale, saggio

Una guida per orientarsi nel dibattito sul tema, per comprendere in cosa consista in realtà la cosiddetta Rivoluzione digitale, su come vada collocata nella prospettiva di lungo corso della storia dell’umanità e, sopratutto, per conoscere più da vicino le IA – intelligenze artificiali – e il valore dei dati. È in questo modo che Andrea Prencipe, rettore della Luiss University, definisce il libro di Nicholas Agar, docente di etica al MIT.
Un testo che di sicuro si rivela essere tutt’altro che una lettura scontata sul tema della Rivoluzione digitale che interessa la contemporaneità ma la cui percorrenza determinerà quello che sarà il futuro prossimo e remoto dell’intero pianeta.

La Rivoluzione digitale sta trasformando le vite umane. Buona parte dello sconvolgimento provocato dalla Rivoluzione industriale fu dovuta all’automazione della forza muscolare. La Rivoluzione digitale invece, sottolinea Agar, sta automatizzando il lavoro mentale umano. Rappresenta perciò una minaccia per le occupazioni il cui contenuto intellettuale è alto, ovvero quelle occupazioni che di norma richiedono lunghi anni di studi e riservano salari elevati.
I progressi nell’intelligenza artificiale paiono condurre a una progressiva polverizzazione dell’agentività umana. Sembra proprio che dovremo affrontare un futuro nel quale il controllo sulle società e sulle vite umane sarà sempre più e inesorabilmente ceduto alle tecnologie digitali “con poteri decisionali palesemente superiori”.

Agar ritiene che gli uomini, in generale, hanno la tendenza a supporre che le cose continueranno esattamente come adesso. Si tende a sottovalutare la minaccia all’agentività umana – human agency – da parte delle macchine. Questo accade anche perché molte delle odierne intelligenze artificiali non sembrano rappresentare una reale minaccia per il nostro posto di lavoro. Così facendo si ignora però il rapido ritmo di miglioramento che esse hanno in assoluto e in confronto a quello umano.
Gli uomini manifestano quindi un pregiudizio verso le capacità delle macchine future e, parallelamente, una visione alterata delle reali abilità umane. Agar sostiene che questo bias a favore degli esseri umani sia tanto insostenibile quanto il geocentrismo precopernicano.

Lo scopo che Agar si è prefisso scrivendo il saggio Non essere una macchina è descrivere ciò che è indispensabile fare per salvaguardare l’agentività umana nell’Era digitale. Salvaguardare il contributo umano non significa di certo respingere le meraviglie tecnologiche che la Rivoluzione digitale ha portato, richiederà piuttosto un’attenta considerazione degli ambiti dell’attività umana che cederemo alle macchine.

Le società che emergeranno dalla Rivoluzione digitale dovrebbero essere strutturate intorno a quelle che Agar chiama economie sociodigitali.
Il valore principale dell’economia digitale è l’efficienza.
Il valore principale dell’economia sociale è l’umanità.
In un’economia sociale completamente allargata dovremmo essere liberi di scegliere il lavoro che si desidera svolgere. Questo tipo di economia, per l’autore, potrebbe costituire una risposta a uno dei mali tipici della nostra epoca: l’isolamento sociale.
Spodestati dalle posizioni lavorative basate sull’efficienza, dovremmo essere liberi dunque di dedicarci a “nuove tipologie di lavoro che soddisfino le esigenze sociali degli esseri umani”. Lavori che dovremo anche essere in grado di inventarci ex-novo in quanto, con ogni probabilità, “se non le creeremo, quelle mansioni non esisteranno”.

Alcuni sostengono che dovremmo reagire ai progressi digitali offrendo agli uomini un reddito universale di base. Ma per Agar senza il collante sociale del lavoro si dovrebbe trovare un altro modo per evitare che le nostre società si disgreghino in sotto-comunità definite da appartenenza etnica, affiliazione religiosa e altre caratteristiche apprezzabili a livello sociale. Quando lavoriamo insieme, in un certo senso, superiamo i confini tra razza, religione, genere e capacità. Agar definisce il lavoro come il collante sociale che aiuta a trasformare gli estranei in società coese che si fidano l’una dell’altra. Quando avalla la regola del lavoro però Agar lo fa su concetti che esulano molte delle forme che il lavoro assume in questi tempi di incertezza economica. Egli ritiene infatti che “buona parte del lavoro odierno è insoddisfacente”.
Un altro contesto nel quale bisogna lavorare con gli altri per ottenere risultati e successo è lo sport.
Altre visioni sul futuro vedono tutta la ricchezza generata dalle macchine digitali nelle mani dei pochi che le posseggono.

La visione del futuro secondo Agar vedrebbe un’Era digitale nella quale saremo circondati da favolose tecnologie digitali ma riusciremo ancora a godere di esistenze intensamente sociali.
Sia nel caso del cambiamento di clima, sia in quello della minaccia all’agentività umana proveniente dalla Rivoluzione digitale, le ricompense per il successo e le sanzioni per il fallimento sono talmente alte da obbligarci a compiere gli sforzi più grandi.

Più volte l’autore ritorna sul tema dei dati, da considerare come la vera forma di ricchezza che contraddistingue la Rivoluzione digitale: “Noi abdichiamo al controllo dei nostri dati a favore di Google, Facebook e 23andMe, proprio come all’inizio del XX secolo i coltivatori texani furono felici di accettare misere somme di denaro in cambio del diritto di altri a sondare i loro terreni alla ricerca di petrolio, inutile per la loro attività di coltivatori o allevatori”. E invece sono proprio questi dati il nuovo oro che sembra dettare le regole della “borsa digitale”.

Si potrebbe anche scegliere di non realizzare l’ideale dell’economia sociodigitale, chiosa Agar, e continuare a considerare le tecnologie come influenze di principio sull’esperienza umana collettiva, però dovremmo allora attenderci o temere un futuro disumanizzato, dominato in tutto e per tutto dal valore dell’efficienza. Una vera e propria scelta di estinzione programmata con consapevolezza, avendo volutamente optato per “cedere le nostre occupazioni alle versioni robotiche e migliori di noi stessi”.
Del resto, in un mondo dove sono le macchine a farla da padrone, rischiamo davvero di diventare una sorta di nuovi gladiatori, e Prencipe nella prefazione al libro di Agar si chiede se arriveremo a dipendere da “un algoritmo-imperatore che deciderà della nostra vita e della nostra morte con un pollice verso”.
I gladiatori facevano appello alla pietas degli imperatori, ma sembra davvero arduo poter contare su un sentimento così umano quando si ha a che fare con le macchine. E conviene anch’egli con l’autore che “conservare l’umanità anche nell’era digitale, o almeno rendere quest’ultima più umana, può allora essere l’unica via di uscita da questo apparente vicolo cieco”.

Bibliografia di riferimento

Nicholas Agar, Non essere una macchina. Come restare umani nell’era digitale, Luiss University Press, Roma, 2020.
Traduzione di Anna Bissanti dal testo originale in lingua inglese How to be human in the digital economy, MIT Press (Massachusetts Institute of Technology Press), Stati Uniti d’America, 2019.
Edizione italiana con prefazione di Andrea Prencipe


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


Articolo originale qui


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La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi? 

“Le dipendenze tecnologiche. Valutazione, diagnosi e cura” di Giuseppe Lavenia (Giunti, 2018) 


© 2020 – 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“A che prezzo” di Michel Martone (Luiss University Press, 2019)

02 lunedì Mar 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Acheprezzo, LuissUniversityPress, MichelMartone, recensione, saggio

Non è più possibile fare a meno di una perimetrazione degli ambiti di efficacia contrattuale all’interno dei quali misurare la capacità rappresentativa degli agenti negoziali.

È questa, in estrema sintesi, la conclusione del lavoro di indagine svolto da Michel Martone sull’emergenza retributiva nel nostro Paese.

Molte le domande che attendono una risposta, tante le riflessioni dell’autore il quale, a conclusione del testo, avanza anche dei suggerimenti in modo da riuscire, finalmente, a progredire e snodare un po’ questa querelle tra la riforma della contrattazione collettiva e il salario minimo legale che si trascina da decenni ormai.

Si chiede Martone come sia possibile che, nell’Italia del Terzo Millennio:

  • Un giovane studente per mantenersi all’Università recapiti pizze a domicilio, magari in bicicletta e sotto la pioggia, per un compenso che a malapena sfiora i 3.5euro a consegna.
  • Un operaio pur lavorando a tempo pieno non riesca più, nell’arco di una vita, a mettere da parte quanto necessario ad acquistare una casa.
  • I pubblici dipendenti abbiano dovuto subire un blocco della contrattazione collettiva, e quindi degli stipendi, durato oltre sette anni.
  • Un immigrato che raccoglie pomodori guadagni poco più di 2euro l’ora.
  • Una coppia di trentenni non possa permettersi, sommando gli stipendi, di mantenere più di un figlio.
  • Negli ultimi 10 anni oltre 244mila giovani, di cui il 64per cento con titolo di studio medio-alto, abbiano abbandonato il Paese e a questo fenomeno migratorio non venga dato il giusto risalto.

La liberalizzazione degli scambi internazionali, l’adozione dell’euro, la creazione del mercato unico hanno posto fine alle politiche economiche protezionistiche, basate sulle svalutazioni competitive, sui dazi doganali e sul debito pubblico, che per decenni hanno preservato il sistema produttivo nazionale dalle conseguenze più dure della concorrenza internazionale.

E cosi oggi nel mercato globale, per soddisfare un consumatore sempre più esigente, si finisce per “sacrificare le retribuzioni dei lavoratori in un circolo vizioso reso ancor più duro dall’autorità imposta dai mercati finanziari e dalle spregiudicate politiche di quelle multinazionali che comprano aziende sane con problemi finanziari per chiuderle e riaprirle in Paesi limitrofi”.

Per Martone ciò rappresenta la preoccupante conseguenza di una politica liberista in campo economico ma sovrana e chiusa in tema di diritti sociali.

Basti considerare, rammenta al lettore l’autore, che, mentre nel corso degli ultimi 30anni i Trattati internazionali riuscivano a unificare i mercati e le monete per affermare la nuova Lex mercatoria, ancora oggi mancano regole cogenti di diritto sovrannazionale in grado di incidere sulla determinazione del salario e che l’ultima convenzione Oil in materia retributiva risale al 1970.

Stesso errore commesso anche a livello europeo. Una volta unificati il mercato e la moneta, dovevano contemporaneamente essere avvicinati anche i livelli salariali per evitare che si scatenasse la competizione al ribasso tra lavoratori di diversi paesi europei.

Preso atto di questo chiaro indirizzo di politica economica, “i paesi più forti, avanzati e lungimiranti” hanno cominciato a contenere i salari per potenziare gli investimenti in innovazione tecnologica e aumentare la produttività delle imprese, come è accaduto “all’economia tedesca ormai prossima alla piena occupazione”. Dal canto loro invece i paesi economicamente più arretrati hanno continuato a praticare le politiche di bassi salari per attrarre investimenti. I Paesi mediterranei, compresa l’Italia, con i loro debiti pubblici insostenibili, “sono stati costretti ad adottare politiche salariali fortemente restrittive con misure anche più drastiche di quelle praticate dai Paesi che si erano mossi per tempo e solo dopo aver perso significative quote dei mercati di riferimento”.

Nell’Unione europea si passa dagli oltre 10euro di salario minimo legale in Lussemburgo ai 2euro scarsi praticati in Lituania, Romania o Slovenia.

Una situazione evidentemente insostenibile, denunciata anche dalla nuova Commissione europea presieduta da Ursula Von der Lyen.

Nel testo Michel Martone sottolinea come l’attuale sistema italiano, nonostante l’elevato numero di contratti, non riesca più a rappresentare milioni di outsider. Il medesimo sistema nel quale la definizione dei livelli retributivi degli insider è frutto di un processo di continua negoziazione a livelli diversi e tra molteplici attori che devono, “nell’esercizio della loro autonomia, convenire sulle politiche economiche da attuare e sulle caratteristiche del sistema contrattuale necessarie per realizzarle”.

Dall’inizio della Grande Crisi, le retribuzioni dei lavoratori italiani, che già erano significativamente più basse di molti dei loro colleghi stranieri, sono state travolte da una vera e propria ondata di impoverimento che ha ulteriormente aumentato le disuguaglianze tra i pochi che traggono profitto dalla globalizzazione dei mercati e dalla finanziarizzazione dell’economia e tutti gli altri. E ciò per l’autore ha avuto conseguenze negative anche sotto il profilo della crescita economica, in virtù del fatto che, in tempi di austerità, il modo migliore per favorire la ripresa è la riduzione delle disuguagliane, non il contrario, per permettere di aumentare la propensione al consumo di un maggior numero di persone, come dimostrato anche dall’andamento della curva di Philips.

Questa resiliente crisi economica invece rischia di inghiottire per intero tutto il ceto medio, in particolare quelle professionalità mediane svolte in larga misura da trentenni le cui retribuzioni hanno risentito più di tutte gli effetti della crisi. Basti ricordare il numero sempre crescente dei cosiddetti working poor, ovvero coloro che, pur lavorando, non riescono ad arrivare alla fine del mese. Martone afferma di essere consapevole si tratti di una verità scomoda e difficile da affrontare, che richiede impegno e soluzioni complesse, ma che non per questo debba continuare a essere rimandata, ignorata, sminuita. Per l’autore infatti, gran parte dei partiti politici semplicemente hanno cercato di rimuoverla, scaricando sugli immigrati, i mercati finanziari o l’Europa le colpe della crescente incertezza che ormai si diffonde tra i lavoratori italiani. Anche peggiori forse Martone ritiene gli interventi posti in essere con l’intento dichiarato di migliorare la situazione ma che, a suo dire, non faranno altro che sottrarre ulteriori risorse economiche all’emergenza retributiva. In particolare egli fa riferimento a quota100 e reddito di cittadinanza.

Nonostante gli sforzi profusi nel corso degli ultimi venticinque anni, “il nostro sistema economico sta perdendo la sfida della produttività del lavoro”. Assumendo infatti il costo del lavoro per unità di prodotto quale parametro di misurazione della competitività del sistema produttivo, Martone invita a riflettere sul fatto che, dalla nascita del mercato unico, l’Italia ha perso quasi 30 punti percentuali rispetto alla Germania e quasi 15 punti rispetto alla media dell’area Euro. Naturalmente ciò è dipeso da molteplici fattori (investimenti in innovazione dei prodotti e dei processi, cuneo fiscale, investimenti pubblici in infrastrutture, energia…), ma è altrettanto vero che i governi e le parti sociali “non sono riusciti a ristrutturare tempestivamente il sistema contrattuale per promuovere la produttività del lavoro attraverso il decentramento contrattuale”.

Se, infatti, l’ordinamento intersindacale continua a considerare la contrattazione collettiva di secondo livello un complemento, quasi esclusivamente, migliorativo del più ampio processo di negoziazione salariale che avviene a livello nazionale, l’ordinamento statale, con l’avallo decisivo della giurisprudenza, sembra volerle assegnare, in ragione della “prossimità”, un ruolo autonomo e paritetico nella disciplina della flessibilità, salariale e gestionale, anche in deroga alla legge e al contratto collettivo nazionale, al fine di consentirle di promuovere un più competitivo costo del lavoro per unità di prodotto.

Una differenza che Martone sottolinea essere di non poco conto. Di matrice soprattutto culturale, destinata a dividere le organizzazioni sindacali e a pesare soprattutto se non avverrà il tanto auspicato ricambio generazionale dei quadri sindacali.

Una cultura nuova che dovrebbe prendere atto delle specificità funzionali della contrattazione collettiva di secondo livello, per valorizzarne le potenzialità, “piuttosto che castrarne lo sviluppo”.

Perché, se la contrattazione aziendale rappresenta l’ambito elettivo per la disciplina della produttività e della correlata premialità, quella territoriale si presta ad assolvere efficacemente funzioni simili a quella nazionale e potrebbe rivelarsi un utile strumento per cercare di adattare le retribuzioni in relazione al costo della vita di un determinato territorio ad alta disoccupazione per attrarre investimenti produttivi e perfino per contrastare il dumping salariale praticato tra realtà geograficamente limitrofe.

Per l’autore è inutile nascondersi: la questione retributiva è eminentemente economica, perché riguarda anzitutto l’ammontare delle risorse che i governi riescono a destinare alla riduzione del carico fiscale e contributivo che grava sulle retribuzioni.

Con l’arrivo della recessione economica e l’aumento degli spread, “il gioco della redistribuzione diventa a somma negativa” che, a causa degli interessi sul debito, riduce le risorse economiche pubbliche al punto che, se si vogliono sostenere le pensioni o il reddito di cittadinanza, “è necessario aumentare la tassazione, diretta o indiretta, sia essa sui consumi, sui redditi, sui profitti o sui patrimoni”.

In questo contesto, preso atto della crescente difficoltà a reperire risorse pubbliche per ridurre strutturalmente l’elevato livello di pressione fiscale e contributiva, si moltiplicano le proposte a favore dell’istituzione di un salario minimo legale che, sostituendo quello contrattuale, “rimetterebbe sul sistema produttivo in crisi la responsabilità di proteggere le retribuzioni dei lavoratori”. Anche per questa ragione, secondo Martone, sta parallelamente maturando, tra i lavoratori come all’interno delle imprese, la consapevolezza che, se si vuole scongiurare una legge sul salario minimo legale, è quanto meno necessario procedere a una effettiva ricostruzione del sistema contrattuale, anche attraverso l’emanazione di una legge di sostegno alla contrattazione collettiva più rappresentativa.

L’esperienza post costituzionale cui l’autore fa riferimento avrebbe insegnato che, specialmente nei momenti di emergenza economica, la strategia rivelatasi più efficace è quella del sostegno legislativo al sindacato più rappresentativo, “che è in genere anche il più responsabile, come peraltro rileva l’ampio dibattito dottrinale ormai favorevole a una legge sindacale”.

Non esistono ostacoli costituzionali a un intervento legislativo di riforma del sistema retributivo. Nondimeno è facile prevedere che eventuali interventi legislativi in materia, se non dovessero essere supportati da una efficace concertazione sociale, rischierebbero di veicolare nel sistema più problemi che soluzioni. Anche per questo motivo, sottolinea l’autore, sembrano raccogliere maggiori consensi i progetti di riforma del sistema retributivo che invece propongono di assumere a parametro valevole ai fini dell’art. 36 Cost. i minimi retributivi individuati dai contratti collettivi nazionali più rappresentativi.

Come, ad esempio, propone il disegno di legge 658/2018 a prima firma Catalfo che stabilisce, tra l’altro, che:

  • La retribuzione, proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato, non può essere inferiore al trattamento economico complessivo individuato dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentativi ai fini della nomina dei rappresentanti presso il Cnel.
  • Il trattamento economico complessivo previsto dai contratti così individuati non può essere inferiore a nove euro l’ora al lordo dei contributi previdenziali.

Tuttavia, per Martone, neanche queste proposte riescono a dare soluzione “all’atavico problema della perimetrazione dell’ambito entro cui misurare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, dei lavoratori e dei datori di lavoro”, e quindi selezionare il contratto collettivo cui si accorda “la responsabilità, o il privilegio, di individuare il parametro retributivo valido erga omnes”.

L’analisi condotta ha indotto l’autore a concludere nel senso che non è più possibile fare a meno di una perimetrazione degli ambiti di efficacia contrattuale all’interno dei quali misurare la capacità rappresentativa degli agenti negoziali, e rappresentato l’occasione per registrare alcune significative convergenze che potrebbero essere poste alla base di una possibile riforma del sistema retributivo che:

  • Assuma il trattamento economico minimo previsto dal contratto collettivo più rappresentativo a parametro della giusta retribuzione per tutto il settore, secondo il modello già considerato costituzionalmente legittimo per quello delle cooperative.
  • Recepisca per via legislativa il sistema delineato nel Testo unico sulla rappresentanza del 2014, per misurare all’interno dei perimetri di efficacia della contrattazione collettiva la capacità rappresentativa delle diverse organizzazioni sindacali, delle imprese come dei lavoratori, secondo lo schema di recente proposto dal d.d.l. 788/2018.
  • Perimetri i settori di efficacia della contrattazione collettiva nazionale, quanto meno in materia salariale.
  • Recuperi, pur con tutti i necessari adattamenti, il modello disciplinato dall’art. 2070 c.c., al fine di consentire alla giurisprudenza di presidiare quei perimetri scongiurando la concorrenza tra imprese sul costo del lavoro.
  • Strutturi la contrattazione collettiva, potenziando, sulla scorta del modello del decentramento organizzato, quella di secondo livello, anche in deroga alla legge, al fine di evitare che le tensioni al ribasso sul costo del lavoro, ad esempio determinate dall’esplosione delle crisi aziendali, rifluiscano su quella nazionale.
  • Introduca un salario minimo orario, attorno ai nove euro, che funzioni sia da pavimento per la contrattazione collettiva che da parametro applicabile nei settori in cui quest’ultima non dispiega i propri effetti.
  • Preveda che tale soglia minima sia derogabile (opting out) in determinati settori economici.
  • Riduca il cuneo fiscale che grava sulle retribuzioni al fine di dare sollievo a quella classe media che, con il proprio lavoro, ha dovuto sopportare il peso di una crisi economica che ha reso insostenibile il terzo debito pubblico del mondo.

Non è più possibile agire in ordine sparso, secondo la logica del si salvi chi può. Per Martone è invece necessario che la contrattazione collettiva, quantomeno in materia salariale, si svolga all’interno di un sistema di regole che, contrastando la concorrenza al ribasso sul costo del lavoro, imponga anche alle imprese di agire sul terreno dell’innovazione di processo e di prodotto, piuttosto che non su quello della riduzione del costo del lavoro.

Martone si augura che i tempi in Italia siano maturi in quanto, molto spesso, in tema di riforme la tempistica si rivela essere un fattore determinante.

Bibliografia di riferimento

Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, dicembre 2019


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Recensione a “La società non esiste. La fine della classe media occidentale” di Christophe Guilluy (Luiss University Press, 2019)

12 martedì Nov 2019

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ChristopheGuilluy, Lasocietanonesiste, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Su LeFigaro ogni lavoro di Christophe Guilluy viene definito “un evento”. Nell’accezione più comune evento è un accadimento, fasto o nefasto, foriero di novità, di cambiamento, e genera quasi sempre uno scossone, fisico o emotivo. In tal senso il saggio La società non esiste va inteso come un grande evento.
Da geografo Guilluy osserva, studia e descrive il mondo non dal punto di vista politico, economico, sociale, umano… ma nel suo essere complesso e completo, raccontando al lettore la morfologia intrinseca ed estrinseca della società odierna o meglio, per utilizzare una sua espressione, della a-società attuale.

Il libro si apre al lettore con le parole pronunciate nell’ottobre 1987 dall’allora Primo ministro del Regno Unito Margaret Thatcher, allorquando neanche ella poteva immaginare quanto sarebbero state profetiche, perfette, secondo l’autore, per descrivere la crisi che ha colpito tutti i Paesi occidentali.

«There is no society: la società non esiste»

Nell’analisi di Guilluy, la visione della Thatcher fu sposata da tutte le classi dirigenti d’Occidente, non solo dai conservatori. Il progetto liberista della Iron Lady è andato ben oltre le proprie intenzioni, nel senso che le riforme economiche addotte nel tempo non hanno sacrificato soltanto la classe contadina e operaia prima e gli operatori del terziario poi “sull’altare della globalizzazione” ma l’intera società, giungendo così ad oggi che potremmo definire “l’epoca della a-società”.

Un’epoca caratterizzata dalla rottura del legame tra il mondo di sopra e il mondo di sotto che non passa attraverso la lotta frontale tra le classi sociali, ma attraverso la sua negazione. La “nuova borghesia” abbandona le classi popolari occidentali e, con loro, anche la lotta di classe. Per la prima volta nella Storia, la classe dominante e i suoi portavoce nel mondo dei media, della cultura e dell’università non parlano né a nome né contro le classi popolari, perché ormai le considerano “fuori dalla Storia”. Dopo essersi autoproclamate rappresentanti della società aperta e della convivenza, le classi dominanti del Ventunesimo secolo hanno realizzato in pochi decenni quello che nessuna borghesia era mai riuscita a fare prima: “prendere le distanze dalle classi popolari senza scatenare conflitti o violenza”.
Da parte loro, le classi popolari sono consapevoli di questo fenomeno e reagiscono non riconoscendo più alcuna legittimità a un mondo di sopra che si sottrae alle sue responsabilità.

L’ondata populista che attraversa oggi il mondo occidentale è per Guilluy solo la punta dell’iceberg di un soft power delle classi popolari, che presto metterà il mondo di sopra di fronte all’alternativa di tornare a far parte del movimento reale della società oppure scomparire del tutto.
Dalla Francia agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Italia, dalla Germania alla Scandinavia, “la dinamica populista” mostra sempre la stessa geografia (le periferie urbane e rurali) e la stessa sociologia (le categorie umili che rappresentavano la maggioranza della classe media). Per l’autore ci troviamo dinanzi a un vero e proprio terremoto che scuote le società occidentali non in modo isolato e irrazionale, ma come un vero e proprio movimento tettonico iniziato ormai quasi mezzo secolo fa.

Operai, contadini, impiegati, lavoratori autonomi… categorie che fino a ieri si trovavano su fronti politici opposti a poco a poco si sono riunite in un’unica contestazione, accomunati dallo stesso senso di isolamento culturale e geografico. Guilluy, in base anche ai dati raccolti con uno studio condotto in Francia nel 2004 insieme al geografo Christophe Noyé sui voti per il Front National, sottolinea come il consenso populista aumenti man mano che ci si allontani dal centro, dalle metropoli globalizzate e gentrificate. A risultati simili sono giunti anche indagini sul voto per le elezioni del presidente Trump e per il referendum sulla Brexit, per l’FPO in Austria e per il PVV in Olanda.
La dinamica populista sarebbe dunque trainata dalla combinazione di due forme di precarietà: quella sociale, derivante dal modello economico, e quella culturale, effetto della nascita della società multiculturale.

Questa reazione populista è la risposta del mondo di sotto al “grande disegno sociale” della vecchia classe media occidentale, un progetto che ha portato di fatto “alla scomparsa delle stesse società a cui si è applicato”. Spiegare questi risultati con le interferenze dei servizi segreti russi o con il moltiplicarsi delle fake news è, per Guilluy, nel migliore dei casi disonesto. L’ondata populista non è il risultato di qualche manipolazione ma delle riforme economiche avviate già negli anni Ottanta.

Per la classe dominante, il massacro della classe operaia era il prezzo da pagare per adattare le economie occidentali alla globalizzazione, e sarebbe stato compensato sul lungo periodo dalla terziarizzazione dell’economia, dall’aumento della scala di produzione e quindi dalla crescita di posti di lavoro più qualificati e meglio retribuiti. Invece, dopo la dismissione dell’industria, è cominciata quella del comparto agricolo. Siccome operai e contadini sono figure di un modello economico ritenuto ormai superato si è preferito pensare che la loro scomparsa non avrebbe pregiudicato il pattern dominante. Quando poi è arrivato il turno del terziario, che ha cominciato a indebolirsi fortemente nei venti anni a cavallo tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo, con la polarizzazione dell’occupazione e la diffusione di lavori precari il gioco delle tre carte condotto fino a quel momento ha tristemente svelato la sua mendace natura.

L’analisi di Christophe Guilluy si riferisce in particolare alla Francia, che egli ha studiato nel dettaglio, ma può essere facilmente estesa a gran parte dei Paesi europei e occidentali in genere, Stati Uniti inclusi, dove facilmente si riscontrano eventi e dati simili a quelli riportati dall’autore nel testo.

Se è vero che in Cina, in India e più in generale nei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), sta nascendo una nuova classe media, in Occidente quest’ultima sta scomparendo.
Operai e agricoltori. Impiegati, i “piccoli colletti bianchi” che non sono stati in grado di adattarsi alle esigenze della rivoluzione digitale. I giovani che non hanno acquisito le competenze per accedere ai lavori altamente qualificati della nuova economia. Gli anziani, i pensionati, non abbastanza produttivi e troppo costosi per la collettività… Tutti indicati come “marginali”. Il problema, sottolinea Guilluy, è che sommando tutti questi marginali si ottiene un insieme completo: quello della vecchia classe media occidentale.

Le categorie che fino a ieri costituivano la base della classe media non possono essere considerate come un mero agglomerato di lavoratori e/o consumatori. Costituivano il cuore pulsante della classe media occidentale perché ne incarnavano lo stile di vita. Per Guilluy ne erano il referente culturale, ed è la perdita di questo status che mina alla base il modello e i valori dell’intera società.
La sfida non è più gestire il regresso sociale, ma rifare daccapo la società. Reinventarla. Riadattarla ai tempi, ai cambiamenti. Riassettare il paradigma culturale prima ancora di quello politico, economico e finanziario.

Il populismo non è un’ondata di febbre irrazionale, ma l’espressione politica di un processo economico, sociale e culturale fondamentale. Guilluy ritiene doveroso e necessario smettere di considerarlo un fenomeno sporadico e transitorio, anch’esso marginale. O peggio ancora sbeffeggiarlo accomunandolo a manifestazioni politco-culturali estremiste con l’intento di riuscire ad arginarlo facendo leva su antirazzismo e antifascismo “da operetta”.
È bene precisare che l’autore si mostra pienamente convinto della necessità di mantenere sempre alta la resistenza contro il fascismo e il razzismo, lotta che egli considera lodevole. Il punto è che quando tutto questo diventa retorica funzionale alla classe dominante per vietare o sviare qualsiasi diagnosi della realtà sociale e culturale delle classi popolari diventa molto controproducente. Al pari di una lotta alla corruzione e al malaffare da passerella.

La società non esiste di Christophe Guilluy è un saggio molto ben strutturato. L’autore utilizza un linguaggio chiaro e preciso a cui conferisce una modulazione ciclica, ritorna più volte sullo stesso concetto ma partendo da punti di origine differenti. Ciò favorisce per certo la comprensione da parte del lettore. È un testo che fornisce delle risposte ovvio, ma agevola il lettore anche nel ragionamento proprio. Invitandolo, in maniera indiretta e consequenziale alla lettura, a formulare degli interrogativi e ricercare egli stesso delle risposte. A guardarsi intorno. Osservare il proprio mondo da una diversa prospettiva e con una maggiore consapevolezza, frutto anche delle nozioni apprese leggendo il libro.
Una lettura che può stordire o stupire. In ogni caso molto interessante.


Bibliografia di riferimento

Christophe Guilluy, La società non esiste. La fine della classe media occidentale, Luiss University Press, Roma, prima edizione in lingua italiana aprile 2019. Traduzione di Riccardo Antoniucci. Libro originariamente pubblicato in Francia da Éditions Flammarion, 2018, col titolo No Society. La fin de la classe moyenne occidentale.



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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


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La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018)

L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018) 

Lo sbandamento dell’Occidente e “Il futuro contro” di Andrea Graziosi (ilMulino, 2019) 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018)

21 lunedì Gen 2019

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AlfonsoGiordano, Limiti, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Limiti. Frontiere, confini e la lotta per il territorio di Alfonso Giordano, edito da Luiss University Press in prima edizione a luglio 2018, è un testo scritto per analizzare i concetti basilari di frontiera limite confine e sovranità, nonché la loro evoluzione nel tempo e rappresentazione cartografica.
Si tratta di un libro che, analizzando l’evoluzione di queste nozioni, come del resto dello stesso mondo fisico cui vengono applicate, riesce a far comprendere al lettore numerosi e nodosi aspetti della più stretta attualità. Per esempio le lotte civili e intestine ancora presenti in varie parti del pianeta, le guerre di conquista, di potere o economiche, gli attacchi terroristici di varia matrice, il fenomeno delle migrazioni di popoli.

Alfonso Giordano è docente universitario e il suo libro equivale a una lectio magistralis posta per iscritto. Per comprenderne appieno il senso e gli insegnamenti bisogna avere la pazienza di leggerlo fino in fondo. Solo allora infatti si chiariranno anche quelle parti che erroneamente, nel leggerle, sono potute sembrare divagazioni o pedanti approfondimenti. In realtà sono dei chiarimenti, a volte anticipati, che aiutano il lettore a non lasciare zone d’ombra all’interno del ragionamento portato avanti dall’autore. Sono spiegazioni propedeutiche alla tesi enunciata.

In questo mondo globalizzato e iperconnesso, «in cui si comincia a guardare allo spazio come luogo di prossima colonizzazione umana», confini e frontiere tradizionali sembrano non avere più l’importanza di un tempo. Eppure, a meglio guardare, è piuttosto vero il contrario. Il ritorno del sovranismo «sottolinea con forza l’importanza delle identità nazionali» e in molti «auspicano un ritorno a confini più rigidamente demarcati e a frontiere chiuse».
Mai come oggi «la percezione stessa del limite convive con l’aspirazione dell’illimitato». Gli Stati continuano a mostrare molta attenzione al controllo del loro territorio dando vita a quel fenomeno che Michel Foucher ha definito «ossessione per le frontiere». Gli spazi geografici del pianeta Terra, tranne poche aree soggette a convenzioni internazionali, sono totalmente occupati dagli Stati e, proprio dalla «limitatezza degli spazi da acquisire o rivendicare, emerge una competizione tra gli Stati», principale oggetto di analisi del testo di Giordano.

L’autore ricorda che, sebbene l’impatto della globalizzazione venga associato a nozioni quali “la fine dello Stato”, le attività umane continuano ad avvenire dentro confini ben definiti. Una condizione di borderlessness «è un discorso che ha riguardato negli ultimi decenni soprattutto l’Europa», ma che è entrato in crisi con i recenti sviluppi della crisi migratoria nel Mediterraneo.
I conflitti cruenti interni ad alcune aree del mondo e le disuguaglianze economiche tra aree ricche e povere che alimentano i continui flussi di migranti mostrano quanto «sia illusorio pensare che dei confini, per quanto sempre più fortificati e controllati, possano efficacemente contrastare la spinta del bisogno, della paura o anche solo dei sogni di un futuro migliore».

In questo mondo interconnesso e globalizzato permangono forti attriti di tipo culturale, «che alcuni hanno chiamato di civiltà». Conflitti gravi permangono dove ancora «i confini, piuttosto che lo Stato, vengono rappresentati come fattori di identità e sicurezza». I confini finiscono per stabilire «una gerarchia: la posizione di un individuo nello spazio sociale è condizionata dai confini all’interno dei quali lo stesso individuo risiede», al punto da contribuire a determinare la sua identità.
Solo poche ideologie e pochi uomini hanno saputo «immaginare un mondo senza confini», senza essere preda della paura «di un inevitabile bagno di sangue, il tristemente noto homo homini lupus».

Nelle regioni dove i confini sono tracciati senza tener conto del fattore etnico, «o dove esiste una forte migrazione internazionale», molto spesso le culture varcano i confini e pongono un problema di coabitazione. Gli Stati che hanno in corso contese, a «diverso livello di conflittualità, con uno o più paesi per la sovranità su regioni, isole o territori frontalieri, sono più di centottanta». Le soluzioni a questi conflitti, «che spesso dietro la parola “territoriali” nascondono sofferenze umane», non potranno «essere ricercate nel solo sistema anarchico delle relazioni internazionali», ma dovranno sempre più essere «tese a una maggiore cooperazione internazionale nell’ambito di regole condivise».

Dopo aver elencato e analizzato le maggiori dispute territoriali nelle varie parti del mondo, Giordano si sofferma sul conflitto che potrebbe ripresentarsi al confine tra Irlanda del Nord – facente parte del Regno Unito – e Repubblica d’Irlanda come conseguenza di eventuali modifiche allo status quo allorquando la Brexit sarà ultimata. A rendere possibile l’accordo di pace del 1998 fu proprio «la prospettiva che il confine tra le due Irlande sarebbe in sostanza scomparso».

Il territorio è «un elemento che concettualmente si crede inamovibile» e si tende a indicarlo come un “limite fisso”, tuttavia mostra «la sua elasticità nella geografia politica contemporanea del mondo». Il fenomeno della globalizzazione, infatti, ha fornito come esito «una serie di potenti processi di sconfinamento» che pongono continuamente in tensione «partizioni consolidate come quella tra Nord e Sud e tra centro e periferia del mondo». Mai come oggi «la conoscenza geografica si rivela, dunque, ancor più necessaria» anche per evitare che tutto diventi una sorta di “gioco virtuale”, pericoloso quanto deleterio.
Giordano ha ricordato che visualizzazioni da paesi diversi di Google Maps danno come risultato carte geografiche con “limiti” differenti. «Google, spesso finita nei guai per le rappresentazioni soggettive delle sue carte», ha deciso, “semplicemente”, di mostrare «a ogni Paese l’idea del mondo che esso vuole».

Viene da sé a questo punto considerare una approfondita e seria conoscenza geografica di notevole importanza, anche e soprattutto nell’era di Google Maps. Come lo è la consapevolezza dell’importanza di libri come Limiti di Alfonso Giordano.


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Gli elettori devono assumersi la propria responsabilità civile e civica per riuscire a risolvere i problemi delle loro famiglie e del loro Paese. “La conoscenza e i suoi nemici” di Tom Nichols (Luiss University Press, 2018) 

L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018) 

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016) 


 

© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Gli elettori devono assumersi la propria responsabilità civile e civica per riuscire a risolvere i problemi delle loro famiglie e del loro Paese. “La conoscenza e i suoi nemici” di Tom Nichols (Luiss University Press, 2018)

15 lunedì Ott 2018

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Laconoscenzaeisuoinemici, LuissUniversityPress, recensione, saggio, TomNichols

Solo gli elettori possono risolvere le questioni che riguardano le loro famiglie e il loro Paese, e solo loro «devono assumersi la responsabilità ultima di queste decisioni». Ma «gli esperti hanno l’obbligo di contribuire». Per questo motivo Tom Nichols ha scritto The death of expertise. The campaign against established knowledge and why it matters, pubblicato negli Stati Uniti d’America nel 2017 da Oxford University Press e in Italia in prima edizione a febbraio 2018 da Luiss University Press nella versione tradotta da Chiara Veltri con il titolo La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia.

Oggi l’America è un Paese «ossessionato dal culto della propria ignoranza». Il punto non è soltanto che la popolazione non ne sa molto di scienze, di politica o di geografia, «il problema più grande è che siamo orgogliosi di non sapere le cose». Per gli americani rifiutare l’opinione degli esperti significa «affermare la propria autonomia», un metodo per «isolare il proprio ego sempre più fragile» e non sentirsi dire che stanno sbagliando qualcosa.

Sicuramente non è un azzardo affermare che in Italia si assiste a un fenomeno molto simile. Basti pensare, per fare un esempio, alle discussioni mediatiche relative alle vaccinazioni obbligatorie dei minori. Considerazioni e decisioni che spetterebbero alla comunità medico-scientifica date in pasto alla e dalla stampa a una intera popolazione. Riuscendo in questo modo a trasformare il tutto in una serrata quanto assurda competizione tra i pro-vax e i no-vax su chi detenga o meno lo scettro della ragione.

«Tutte le cose sono conoscibili e ogni opinione su un qualsiasi argomento vale quanto quella di chiunque altro» sembra essere diventato un mantra o un imperativo categorico anche in Italia dove si assiste, nella Rete, sui social ma anche nei classici luoghi fisici di scambio di idee e opinioni, a una vera e propria esplosione dei cosiddetti laureati alla Google University. In linea teorica, dare peso e valore all’opinione o alle idee di tutti e di ognuno è di per sé una bella cosa. Il problema si fa serio e grave quando veramente si diventa convinti che una semplice ricerca fatta con un qualsiasi motore di ricerca online sia sufficiente non solo a formarsi un’opinione in merito anche ad argomenti che riguardano la salute e la sicurezza pubbliche, ma acquisti, o debba farlo, il peso di una conoscenza acquisita con un lungo e articolato percorso di studio, di ricerca o professionale.

Il sapere di base medio è ormai talmente basso da essere crollato prima a livello di disinformazione, poi di cattiva informazione e ora «sta sprofondando nella categoria errore aggressivo». La gente non solo crede alle sciocchezze, si oppone anche attivamente a imparare di più, «pur di non abbandonare le proprie errate convinzioni». Si è passati, nel giro di pochi decenni, da una fiducia totale e incondizionata, spesso anche mal riposta, negli esperti e nei leader politici, a un atteggiamento rabbioso e di sfida, alla convinzione che esperti e leader politici sbaglino sempre, in quanto tali. È necessario però che la gente acquisti o riacquisti la consapevolezza che il giudizio degli esperti, anche laddove venga richiesto dai governanti, è un mero consulto, un parere non una decisione. Quella spetta ai rappresentanti eletti. Ecco perché la responsabilità è e ricade sugli elettori. Sono loro che, tramite voto, eleggono coloro che prendono le decisioni. Ed ecco perché è importante che le persone continuino a informarsi, a studiare, a istruirsi nel migliore dei modi possibile. Perché le loro scelte elettorali ricadranno inevitabilmente su di loro, sulle loro famiglie e sull’intero Paese.

Isaac Asimov, citato da Nichols nel testo, sosteneva che vige la falsa convinzione che democrazia significhi che «la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza». Non è certo su questo genere di eguaglianza che si basa o debba basarsi una democrazia. Sull’eguaglianza dei diritti, questo sì. Il rischio è di «gettare via secoli di sapere accumulato». Pensiamo a quanto accaduto nel nostro Paese, alle lotte condotte solamente sul limitare del secolo appena concluso per ottenere un accesso facilitato all’istruzione, a tutti i suoi livelli, per i giovani provenienti da ogni ceto sociale. E oggi si è costretti ad assistere a una generale e generica, quanto allarmante, demotivazione verso l’istruzione, l’apprendimento e la cultura in generale che tanto non paga e non ripaga degli sforzi compiuti. Nulla di più deleterio. E falso. E sbagliato. E pericoloso.

Per Tom Nichols il cerchio sembra essersi chiuso e nel peggiore dei modi possibili. Partendo dall’età premoderna, in cui la saggezza popolare colmava inevitabili lacune nella conoscenza umana, attraverso un periodo di rapido sviluppo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino ad arrivare a un mondo postindustriale e orientato all’informazione, dove i cittadini si ritengono esperti in qualsiasi cosa. E anche laddove è palese che non lo sono, si astengono dal porvi rimedio con un’accurata e profonda documentazione e preferiscono di gran lunga scegliere la strada della noncuranza, colmando i vuoti di conoscenza con l’indifferenza o, peggio, con l’aggressività. «Questo è l’opposto dell’istruzione, il cui obiettivo dovrebbe essere che le persone, non importa quanto siano intelligenti o abili, apprendano per tutta la vita». Ormai si pensa invece che l’acquisizione di un sapere anche minimo sia il punto di arrivo dell’istruzione e non l’inizio. È questa è innegabilmente e assolutamente una cosa pericolosa.

Gli esperti piuttosto che addentrarsi in aride discussioni, pregiudizi e preconcetti hanno quasi sempre preferito trincerarsi all’interno della linea sicura e confrontarsi tra di loro.
In una società realmente libera, i giornalisti sono i maggiori arbitri nella grande mischia tra ignoranza e cultura. Qual è invece il ruolo da essi svolto nelle democrazie occidentali? Cosa succede quando i cittadini chiedono di essere intrattenuti anziché informati? «In questo ambiente mediatico ipercompetitivo, direttori e produttori non hanno più la pazienza – né il lusso economico – di lasciare che i giornalisti sviluppino le proprie competenze o approfondiscano la conoscenza di un argomento».

La gente sa poco e si interessa ancor meno di come viene governata o di come funzionano davvero le strutture economiche, scientifiche o politiche. Tuttavia, a mano a mano che tutti questi processi diventano più incomprensibili, «i cittadini si sentono più alienati» e così, sopraffatti, si allontanano dallo studio e dall’impegno civile e si rifugiano in altre attività. Ciò li rende a loro volta cittadini meno capaci, e il circolo vizioso si rafforza, soprattutto quando «la fame pubblica di fuga viene alimentata dall’industria del tempo libero». E così, «inondati di gadget e comodità in passato inimmaginabili, gli americani (e molti altri occidentali, a essere onesti) oppongono un rifiuto quasi infantile a un apprendimento sufficiente a governarsi da sé o a guidare le politiche che influiscono sulle loro esistenze». I cittadini, ovvero gli elettori, sembrano essere più interessati ai candidati e alle loro personalità che alle loro idee o politiche. Come se in cabina elettorale dovessero scegliere il proprio attore o cantante o showman preferito e non il rappresentante incaricato di tutelare e garantire i propri diritti, quelli della propria famiglia e dell’intero Paese.

Interessante l’analisi delle interviste condotte dal comico statunitense Jimmy Kimmel in prossimità delle ultime presidenziali americane. Ai passanti veniva chiesto quale riforma delle tasse preferissero tra quella proposta da Donald Trump e l’altra di Hillary Clinton. Dati che erano stati preventivamente e segretamente invertiti. Gli esiti dell’indagine hanno mostrato e dimostrato, purtroppo, che gli elettori scelgono in base ai candidati e ai pregiudizi ideologici, non in base al merito delle proposte nella loro concretezza. Ed è stato più o meno in base allo stesso criterio di scelta che in Italia, per esempio, si è consentito a governi di centro-sinistra, o che tali si definivano, di portare a compimento riforme, come quella del lavoro, che neanche i governi di centro-destra, o che tali si dichiaravano, erano riusciti a portare avanti.

Gli esperti non sono infallibili, «hanno commesso errori terribili, con conseguenze spaventose». Ragione in più per cui i profani devono «diventare consumatori più consapevoli dei loro pareri». I cittadini devono assumersi «la propria responsabilità civica». Gli esperti devono, naturalmente, assumersi quella relativa ai pareri e ai consigli elargiti. Che però, va bene ricordarlo, sono semplicemente questo, ovvero non sono vincolanti su quelle che poi saranno le decisioni ultime prese dai politici che li hanno interpellati. Il crollo del rapporto tra esperti e cittadini «è una disfunzione della democrazia» e va risolto perché i politici non smetteranno mai di affidarsi agli esperti ma, se viene meno il controllo vigile dei cittadini, «cominceranno ad affidarsi a esperti che diranno loro – e ai profani arrabbiati che bussano con forza alle porte dei loro uffici – tutto quello che vogliono sentirsi dire».

Jan Vermeer, “Astronomo”, olio su tela 1668

È stato scritto del testo di Nichols che è un libro necessario a ridare la giusta voce agli esperti, unico modo per contrastare l’avanzata degli inesperti incompetenti, i quali altro non farebbero che diffondere fake news. Notizie false e allarmismi vari che sono la base dei pericolosi populismi che spopolano nel mondo occidentale. La situazione in realtà è un tantino meno semplicistica e riduttiva e l’analisi condotta da Tom Nichols ne La conoscenza e i suoi nemici molto più complessa, articolata e obiettiva.

Il fine ultimo dello studio di Nichols non è fare in modo che la voce degli esperti sia o diventi l’unico faro a illuminare le democrazie di tutto il mondo. Piuttosto che gli elettori, vero ago della bilancia di ogni sistema democratico che funzioni, imparino sempre più, e bene, e meglio, in modo tale che possano effettuare scelte più ponderate e motivate in cabina elettorale prima e siano in grado di meglio comprendere le decisioni politiche poi, nonché i pareri degli esperti interpellati dai politici che essi stessi hanno eletto. Il tutto per poter svolgere con nozione di causa il ruolo di controllo e vigilanza sulle politiche governative che ricadono, inevitabilmente, sugli elettori e sulle proprie famiglie.

James Madison, citato dallo stesso Nichols, affermava che «un popolo che vuole governarsi da sé deve armarsi del potere che dà la conoscenza». Lo stile di vita adottato dai cittadini delle democrazie occidentali però sembra essere dettato dalla sempre più ferrea e diffusa volontà di riservarsi «il diritto di essere ignorante». E ciò è una pericolosa caduta libera senza imbracatura né rete di protezione che reggano all’impatto, o meglio allo schianto.

I profani non possono fare a meno degli esperti e devono accettare questa realtà senza rancore. Ingegneri, avvocati, medici, ricercatori, scienziati… non possono cessare di esistere solo perché ora c’è internet con i suoi motori di ricerca. Gli esperti, dal canto loro, devono accettare il fatto che i loro pareri, che a loro potranno sembrare ovvi e giusti, non vengano sempre seguiti. Questa l’opinione dell’autore, il quale ammette che potrebbe anche sbagliarsi. Certo, potrebbe anche sbagliarsi. Oppure potrebbe avere ragione.

La libertà, inalienabile, di maturare opinioni diverse, differenti, addirittura opposte purché basate su dati, conoscenze, esperienze e il più obiettive possibili. In fondo una repubblica democratica funziona solo laddove vi sia rispetto reciproco ed equilibrio nei ruoli che ognuno sceglie e accoglie per sé. Equilibrio e rispetto che, purtroppo, vacillano in tutte le democrazie occidentali, non solo in quella americana. Ed é su questi principi che Nichols invita ad approfondire, a profondere impegno e sforzi. Non, come si è letto, sulla sedicente rivolta che gli esperti starebbero finalmente per attuare. La loro fantomatica rivoluzione contro i “nemici” della conoscenza.

Questo è il mio parere sul testo di Nichols. Ma anche io, come l’autore, potrei sbagliare. Oppure no.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


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L’epistocrazia per contrastare lo strapotere degli hooligan politici. “Contro la democrazia” di Jason Brennan (Luiss University Press, 2018)

19 mercoledì Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Controlademocrazia, JasonBrennan, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Apprendendo grossolanamente la teoria di Brennan sull’epistocrazia e la sua classificazione dei cittadini-elettori è facile incappare in un sentimento/risentimento molto ostile. In effetti è proprio quello che è successo, negli Stati Uniti prima e anche in Italia poi. Il che, per inciso, non fa che confermare la teoria stessa di Brennan.
È innegabile infatti che in Usa, come in Italia, la categoria più ampia di cittadini è composta dai così definiti hooligan. Basta leggere i giornali, i blog degli opinionisti, i post e i commenti sui vari social, ascoltare i discorsi della gente per strada, nei bar… per trovarne conferma.
Parimenti innegabile è il fatto che alla categoria dei vulcaniani, in Usa come in Italia, appartengono solo una sparuta quantità di cittadini. Il che non significa che questi siano ricchi, benestanti, bianchi… neanche Jason Brennan lo pensa.

Esce in prima edizione a febbraio 2018 per Luiss University Press Contro la democrazia di Jason Brennan, con la prefazione di Sabino Cassese e un saggio introduttivo di Raffaele de Mucci, nella versione tradotta da Rosamaria Bitetti e Federico Morganti del libro originariamente pubblicato negli Stati Uniti d’America nel 2016 con il titolo Against Democracy da Princeton University Press.

Brennan suddivide i cittadini in tre categorie: gli hobbit, che hanno poco o nessun interesse per la politica e livelli molto bassi di conoscenza politica; gli hooligan, portati a sapere più degli hobbit ma fortemente distorti nella valutazione delle informazioni, con una spiccata tendenza a respingere tutte le tesi opposte alle proprie; i vulcaniani che combinano una vasta conoscenza e una buona raffinatezza analitica con un’ampia apertura mentale.
Invece di agire come «cercatori di verità», gli elettori si comportano come «fan politici», facendo il tifo per una o per l’opposta squadra al pari dei tifosi sportivi. «L’ignoranza e la polarizzazione degli elettori li lasciano in balìa di politici senza scrupoli, ideologi e gruppi di interesse».

Un analfabetismo politico e istituzionale che si trascina fin dalla gioventù. Basta ascoltare i giovani alle prese con le loro prime visite ai seggi elettorali o anche solo nelle discussioni politiche che diventano, inevitabilmente, meri attacchi e contrattacchi partitici. Come gli adulti del resto.
La scelta di chi deve rappresentare i cittadini in Parlamento e in tutti gli altri organi ed enti rappresentativi non può e non dovrebbe mai essere motivata dalle sole ideologie o, peggio, sul pregiudizio di chi ne professa di diverse. Le scelte dei rappresentanti eletti si riflettono poi, inevitabilmente, su tutta la cittadinanza e sarebbe quindi opportuno iniziare a selezionare i governanti sulla base di progetti concreti per la collettività.

«Se ci rifiutiamo di tollerare una pratica medica o il lavoro dell’idraulico privi di conoscenza e competenza, dovremmo trattare con lo stesso metro il votare inconsapevolmente». Brennan sottolinea come il voto non sia semplicemente una scelta individuale ma «l’esercizio di un potere sugli altri» che dovrebbe essere sempre utilizzato in modo responsabile non fosse altro appunto perché le scelte politiche ricadono su tutti i cittadini indistintamente.
Coloro che si astengono «sono mediamente hobbit», mentre gli elettori «sono, in media, hooligan». «Il problema è che molte teorie filosofiche sulla democrazia presumono che i cittadini si comportino come vulcaniani».

Negli Stati Uniti gli immigrati regolari che non superano un test di educazione civica non hanno il permesso di andare a votare. Il medesimo test che, per Jason Brennan, «la maggior parte della popolazione di origine americana fallirebbe». Ci sono buone possibilità che accadrebbe anche in Italia. L’elettore medio, «è male informato o ignorante su informazioni politiche di base», e sa ancora meno su argomenti che richiedono «nozioni di scienze sociali più avanzate».

Lo scopo di Jason Brennan nello scrivere un libro sull’epistocrazia non sembra quello di avallare questo tipo di governo, piuttosto quello sottolineato da Raffaele de Mucci, ovvero essere «come una roccia precipitata in un immenso specchio d’acqua che altrimenti correrebbe il rischio di diventare una palude stagnante». L’autore si dichiara al contempo un critico e un fan della democrazia, la quale sappiamo avere «difetti sistemici», e per questo motivo bisognerebbe «essere aperti all’idea di studiare e sperimentare nuove alternative». Nuove forme di governance che, riuscendo egualmente o anche meglio a garantire le libertà economiche e soprattutto civili che promette la democrazia, offrano la possibilità di valorizzare competenze e conoscenze a discapito, finalmente, di opportunismo e corruzione.
In buona sostanza, il fulcro del ragionamento di Brennan sta nella considerazione che la democrazia altro non è che uno strumento, «se riuscissimo a trovarne uno migliore, allora dovremmo sentirci liberi di utilizzarlo».

Gli individui decidono per sé stessi sulla base dei loro incentivi e interessi individuali. «Acquisire informazione ha un costo», richiede tempo e sforzi che potrebbero essere impiegati «per promuovere altri nostri obiettivi». Gli economisti chiamano questo fenomeno «ignoranza razionale». Razionalmente infatti si preferisce dedicarsi ad altro. Le politiche che le persone difendono però sono strettamente correlate a ciò che esse sanno.
In politica, come del resto in quasi tutti gli altri contesti, «soffriamo l’in-group/out-group bias», o altrimenti detto «favoritismo di gruppo». Siamo inclini cioè a fare gruppo e a identificarci fortemente con esso. Tendiamo a sviluppare animosità verso gli altri gruppi, anche laddove non ce ne sarebbe motivo. Abbiamo il pregiudizio di assumere che il nostro gruppo sia buono e giusto e che i membri degli altri gruppi siano cattivi, stupidi e ingiusti. «La nostra dedizione al gruppo può spesso scavalcare il nostro impegno verso la verità e la morale», tendendo ad accettare le prove che supportano le nostre posizioni precedenti e a rifiutare o ignorare le prove che le smentiscono.
«Il nostro tribalismo politico si riversa sul nostro comportamento al di fuori della politica, corrompendolo».

Esemplare a tal proposito l’esperimento condotto da Shanto Iyengar e Sean Westwood riportato nel testo. È stato chiesto a mille soggetti di valutare i curricula di potenziali candidati di cui era stato evidenziato l’orientamento politico. «I risultati sono deprimenti: l’80.4% dei soggetti democratici sceglie di dare lavoro al candidato democratico, mentre il 69.2% dei soggetti repubblicani sceglie il repubblicano». I due ricercatori hanno verificato che «i meriti del candidato non hanno alcun effetto significativo sulla selezione del vincitore». Non si può che condividere l’opinione di Brennan quando afferma che «questo è un comportamento irresponsabile, corrotto».

Si tende a vedere gli avversari politici come «stupidi e malvagi» anziché, semplicemente, come «persone ragionevolmente in disaccordo». Se vogliamo che la gente guardi ai propri concittadini come amici, come persone impegnate in un’impresa cooperativa volta a ottenere benefici reciproci, e non come nemici, «dobbiamo desiderare che stia il più possibile alla larga dalla politica», o almeno dalla politica così com’è attualmente intesa.

Informazione, documentazione, ricerca. Interrogarsi sulle cose, sui fatti, sui problemi. Cercare soluzioni, alternative. È questa l’evoluzione che sembra indicare Brennan, il quale ammette che, più volte, si è trovato a ricredersi, a cambiare opinione, ad abbracciare teorie che mai avrebbe pensato di prendere in considerazione. In fondo è sempre lo spirito critico, unitamente alle conoscenze e a una sana curiosità, che hanno prodotto o condotto alle nuove scoperte in tutti i campi del sapere, preludio imprescindibile alle piccole e grandi rivoluzioni.

Emerge dalla lettura di Contro la democrazia di Jason Brennan non tanto la volontà dell’autore di condurre la ristretta cerchia dei vulcaniani al governo del Paese, quanto piuttosto quella di stimolare azioni e progetti che rendano hobbit e hooligan meno tali e quanto più vulcaniani possibile. In fondo, come sosteneva Herbert Spencer e come ricorda lo stesso Brennan: «un uomo non è meno schiavo se, ogni certo numero di anni, gli si permette di scegliersi un nuovo padrone».


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


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