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Irma Loredana Galgano

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“Donne di mafia. Vittime. Complici. Protagoniste” di Liliana Madeo (Miraggi, 2020)

30 giovedì Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Donnedimafia, LilianaMadeo, mafia, Miraggi, recensione, saggio

Vittime. Complici. Protagoniste recita il sottotitolo del libro di Liliana Madeo. Ma le donne che il lettore incontra nel testo non sono né vittime, né complici, né protagoniste. Non solo questo almeno. E non sono neanche numeri, dati, statistiche. Sono narrazioni. Di vita. Di vite. Di esistenze dominate dal punto interrogativo, all’interno delle quali formulare una domanda può essere, a volte, anche più complesso del cercarne la risposta.
Esistenze evanescenti che appartengono a un mondo fatto di ombre, di confini mai ben definiti. Un mondo di contrapposizioni, Quasi all’incontrario.
Una realtà che non è lontana da quella in cui credono di vivere tutti, che con essa si fonde e si confonde. Un mondo nel quale le scelte non le detta il coraggio ma la mancanza di alternative. Perché quando lo Stato fa un passo indietro, il territorio non resta a guardare e l’anti-Stato diventa Stato e inizia a governare, a suo modo, e a comandare, a volte anche sullo stesso Stato.

E le donne che appartengono a questo mondo sono addestrate, esattamente come dei soldati. Solo che non stanno in trincea, o meglio la loro trincea è nascosta e si plasma seguendo l’ombra proiettata dal proprio uomo o dalla famiglia. Spesso è l’unica realtà che conoscono e che vogliono conoscere.
Il libro di Liliana Madeo racconta la vita delle donne di mafia che vivono in Sicilia. È uscito in prima edizione ventisei anni fa. Le storie che narra descrivono una realtà antica, maschilista. Un mondo la cui cultura però non sembra essere cambiata più di tanto in tutti questi anni trascorsi.
Le regole dell’Onorata Società, come veniva anticamente chiamata Cosa Nostra, riguardo le donne non sono state di certo stravolte. Restano inferiori all’uomo nella piramide del comando.
Eppure le donne di mafia si muovono in maniera completamente diversa rispetto al passato. Sono istruite, competenti nei più svariati settori, viaggiano, si curano nell’aspetto, partecipano sempre più e sono attive anche in ambito operativo eppure l’affiliazione vera e propria a loro rimane preclusa.

A ben riflettere e con una certa amarezza si possono riscontrare dei parallelismi tra l’evoluzione di ruolo delle donne di mafia, dagli anni Novanta ai nostri giorni, e quella delle donne italiane in generale. Anche nella società civile o normale, oppure in qualsiasi altro modo si preferisce indicarla, i comportamenti e le azioni delle donne sono cambiati rispetto al passato. Un cambiamento che forse è iniziato prima, con i movimenti femministi degli anni Settanta, o forse no. Ma ciò che fa riflettere davvero sono le limitazioni, le preclusioni, il maschilismo tutt’ora imperanti, riscontrabili nei più svariati settori, anche se spesso si tende a mascherarli o sminuirli.
Ed ecco allora che viene da chiedersi se sia l’Onorata Società ad adattarsi ai tempi che cambiano, pur restando fedele ai principi fondanti, oppure se nella Società che per comodità chiameremo civile albergano, magari inconsciamente, tratti comuni alla prima sul ruolo sociale che devono ricoprire le donne?
È triste anche solo pensarlo, me ne rendo conto. Ma ignorando la realtà non la si cambia di certo, Piuttosto si tende ad avallare determinati comportanti.

Donne di mafia parte da un’inchiesta giornalistica realizzata dall’autrice a partire dal 1992 e diventata un libro nel 1994. Nasce dalla curiosità dell’autrice di scoprire cosa pensavano le donne di mafia di quanto stava accadendo, quale fosse il loro ruolo, quali erano i sentimenti che accompagnavano i principali eventi delle loro vite, vite scandite da potere, prestigio, denaro ma anche da violenza, morte, dolore.
Sono anni molto particolari per la Storia d’Italia. Scandali, corruzione, attentati, inchieste, processi, pentitismo… vicende che si intrecciano e si mescolano cui non è possibile attribuire una univoca chiave di lettura che sia al contempo universalmente chiarificatrice. L’indagine svolta da Madeo contribuisce a far luce su alcuni dei tanti misteriosi aspetti di quelle vicende, in particolare narra di quelli che si potrebbe definire i retroscena, ovvero gli sviluppi privati, interni a famiglie e coppie, le azioni poste in essere da queste tante donne di mafia per salvare la posizione, il potere, la famiglia oppure la vita, propria o dei propri affetti.

Un libro, Donne di mafia, già pubblicato e che ha ispirato anche una miniserie televisiva, eppure si conferma un testo di un’attualità sconvolgente e di un interesse notevole. Leggerlo o rileggerlo, anche dopo averne visto la trasposizione cinematografica, rimane un’esperienza impressionante.


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Perché in Italia fa così paura il concorso esterno in associazione mafiosa? Davvero “La Giustizia è Cosa nostra”?

15 sabato Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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AttilioBolzoni, GiuseppeDAvanzo, giustizia, GlifoEdizioni, LaGiustiziaèCosanostra, mafia, recensione, saggio

Il 20 aprile 2015 Panorama pubblica online un articolo a firma Maurizio Tortorella titolato Concorso esterno in associazione mafiosa: il reato che “non c’è”. L’autore entra nel merito della discussione che, a suo dire, va avanti in Italia da ben 30 anni su questo presunto reato che in realtà nel Codice penale «non esiste».

Tale impasse, secondo la redazione di diritto.it e non solo, sarebbe stata superata già a partire dall’ottobre del 1994, allorquando una sentenza delle Sezioni Unite affermava la «configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa per quei soggetti che, sebbene non facciano parte del sodalizio criminoso, forniscano occasionalmente un contributo all’ente delittuoso», annullando in questo modo tutte le obiezioni mosse all’esecuzione dei dettami dell’art. 416 c.p. per cui necessita il far parte in maniera stabile dell’organizzazione mafiosa.

Nel libro La Giustizia è Cosa nostra di Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo (Glifo Edizioni, 2018), si parla in maniera approfondita della sentenza Demitry della Corte di Cassazione a sezioni unite del 5 ottobre 1994, «proprio l’anno in cui la nozione di “concorso esterno” in associazione mafiosa ha cominciato a prendere una forma definita».
Demitry era un avvocato indagato per concorso esterno e colpito da un’ordinanza di custodia cautelare con l’accusa di aver svolto «attività di intermediazione, tra un giudice e un capomafia di rilievo».
Sono poi seguite a ruota le incriminazioni per concorso esterno in associazione mafiosa «di alcuni magistrati, relativamente a ipotesi di processi aggiustati».

Nel già citato articolo di Panorama, l’autore sottolinea come fosse stato Giovanni Falcone nel 1987 a evidenziare la necessità «di una ‘tipizzazione’ capace di reprimere le condotte grigie» e di come i magistrati hanno continuato a fare «un uso pieno e disinvolto del reato-che-non-esiste».

In realtà basta una scorsa veloce ai risultati forniti dal motore di ricerca online per rendersi conto che il fenomeno è molto più esteso e preoccupante di come lo si vuol dipingere.

Un ex pubblico ministero del Tribunale di Trani, ora giudice del Tribunale di Roma, e un suo collega pm a Roma, in precedenza gip a Trani e magistrato all’ispettorato del Ministero della Giustizia, sono stati arrestati con l’accusa di «associazione per delinquere, corruzione in atti giudiziari e falso». Arrestato anche un ispettore di polizia in servizio al commissariato di Corato (Bari). Misura interdittiva (al momento dell’articolo in corso di notifica) per un imprenditore di Firenze. Interdetti dalla professione per un anno due avvocati del Foro di Trani. Alcuni degli accusati rispondono di «associazione per delinquere finalizzata a una serie di delitti contro la pubblica amministrazione, corruzione in atti giudiziari, falso ideologico e materiale», altri di «millantato credito, calunnia e corruzione in atti giudiziari».

Agli arresti domiciliari un magistrato del Tribunale di Salerno, poi di Reggio Calabria, che si sarebbe adoperato per «favorire imprenditori ai quali era legato da consolidati rapporti di amicizia, trattando cause riferibili a tali amici con esito favorevole» e «ricevendo dagli imprenditori utilità varie». Ai domiciliari un funzionario giudiziario. Divieto di dimora per quattro imprenditori, obbligo di dimora per un consulente fiscale.

Il collaboratore di giustizia Antonio Valerio «ha parlato di presunti intrecci giudiziari-massonici su cui farebbe affidamento la ‘ndrangheta per ‘aggiustare’ i processi in Corte di Cassazione». Egli stesso sarebbe stato avvicinato, mentre era nella “gabbia di sicurezza” dell’aula-bunker di Reggio Emilia, «da un avvocato che gli avrebbe detto molto esplicitamente che nei giudizi di merito di Aemilia sarebbero scaturite diverse condanne, ma che, grazie alle sue conoscenze, avrebbe potuto aggiustare il processo in Cassazione».

La notizia è del febbraio 2018. Arrestate 15 persone, tra cui l’ex pm di Siracusa, due avvocati e due imprenditori. Le accuse: «frode fiscale, reati contro la pubblica amministrazione e corruzione in atti giudiziari».

A darne inizialmente notizia è stato Il Resto del Carlino, ma le conferme sono poi arrivate anche da «ambienti investigativi». Il giudice potrebbe aver «aggiustato i processi dietro il pagamento di somme di denaro, veicolate attraverso professionisti compiacenti».

Anche il presidente del Tar Basilicata tra i magistrati che sarebbero stati in contatto con l’imprenditore arrestato insieme all’avvocato.

Gli esempi, purtroppo, abbondano da Nord a Sud della penisola. A riportarli è quasi sempre la stampa locale, tranne i casi più “eclatanti”, ovvero quelli che vedono coinvolti nomi e volti noti. Ed è allora che si fa strada il paradosso più becero. Si cerca di non associare tali comportamenti scorretti e criminali con le associazioni malavitose, come se queste fossero delle entità astratte e certamente chiuse in se stesse e non invece riconducibili a tutta una serie di azioni, comportamenti e scelte che vanno dal crimine di strada alla corruzione nei pubblici uffici.
Perché spaventa così tanto parlare di concorso esterno in associazione mafiosa? Perché addirittura si fa fatica ad ammetterne l’esistenza trincerandosi dietro cavilli e formalità legislative?

Attilio Bolzoni e Giuseppe D’Avanzo ne La Giustizia è Cosa nostra hanno parlato in maniera approfondita dei processi aggiustati, del ruolo che svolgono taluni avvocati, delle azioni di alcuni magistrati o giudici e ricostruiscono nel dettaglio alcune storie di «giustizia aggiustata». Un libro edito a dicembre 2018 da Glifo Edizioni ma uscito in prima edizione con Arnoldo Mondadori nel 1995 e passato inspiegabilmente in sordina, sia allora che oggi.

Negando o tentando di ridimensionare il fenomeno si pensa forse di riuscire a nasconderlo, lo si fa anche per l’esistenza delle stesse organizzazioni mafiose. Spiazzano e indignano le parole dell’ex magistrato ed ex presidente del Senato Pietro Grasso allorquando scrive: «Se Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tanti altri avessero gettato la spugna, se si fossero piegati alla legittima frustrazione, avrebbe vinto chi non voleva cambiare il nostro Paese e sconfiggere la mafia. Per fortuna hanno vinto loro, abbiamo vinto noi».

Hanno vinto loro? Abbiamo vinto noi? La mafia è stata sconfitta?

Nel libro Le Trattative (Imprimatur, 2018), scritto a quattro mani con il giornalista Pietro Orsatti, Antonio Ingroia afferma: «Non esito a definire Grasso la più grande delusione professionale della mia carriera. Tutte le indagini e le notizie di reato considerate politicamente scomode finivano, in un modo o nell’altro, nel cestino della procura, e la classe politica, di destra come di sinistra, gliene è sempre stata grata».
Si può anche scegliere di vedere, credere e tentare di far credere ciò che meglio piace e non ciò che realmente è. Affermare che la mafia non esiste come non esiste il reato di concorso esterno in associazione mafiosa con tale convinzione da riuscire anche a convincere gli interlocutori. Si può fare e lo si fa. Ma la realtà, beh quella è un’altra cosa.

Del resto ognuno sceglie di credere in ciò che è più in linea con i propri principi e ideali, oppure con la mancanza di questi.
Nel secondo libro della trilogia Silo (Wool, Shift, Dust) edito in Italia da Fabbri Editore nel 2014, Hugh Howey in un dialogo tra un giovane aspirante politico e un senatore ormai navigato del Congresso americano fa dire a quest’ultimo: «La negazione è l’ingrediente segreto da queste parti. È il sapore che tiene insieme tutti gli altri. Ecco cosa dico sempre ai nuovi eletti: la verità salterà fuori – salta sempre fuori – ma sarà mescolata a tutte le bugie. Devi negare ogni menzogna e ogni verità con lo stesso vigore. Lascia che siano i siti web e gli spacconi che frignano di continuo sulle malefatte del governo a confondere il pubblico al posto tuo».

Molto più realistico l’intervento di Alfonso Sabella, magistrato già sostituto procuratore nel pool antimafia di Palermo, nel libro di Bolzoni e D’Avanzo. Egli, pur riconoscendo l’immenso lavoro svolto dal team Falcone e Borsellino e da tanti suoi onesti colleghi, sottolinea come poi ci sia stato «un lento ritorno al passato» e di come oggi si è costretti ad assistere alla celebrazione e all’auto-celebrazione di «inutili professionisti dell’antimafia» che «sbucano come funghi nei talk show e nelle stanze del potere».

In un lungo articolo per penalecontemporaneo.it, rivista online di Diritto edita in collaborazione con le Università Degli Studi di Milano e Bocconi, l’avvocato e magistrato Piergiorgio Morosini entra nel vivo della discussione sulla legittimità o meno del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
«Non condivido l’ostentato scetticismo verso l’istituto del “concorso esterno”. Soprattutto lo “scetticismo” gridato da noti esponenti del mondo politico. […] A mio avviso, è proprio grazie al concorso esterno e all’investimento di fior di risorse investigative, che molte procure hanno potuto, finalmente, esercitare un controllo di legalità più incisivo anche sul versante antimafia».

È con queste inchieste sul concorso esterno che la magistratura «ha dimostrato di non volersi fermare sulla soglia del potere». In effetti, il concorso esterno consente di indagare più efficacemente e agevolmente «sulle alleanze ombra fra clan e classe dirigente», riuscendo così a far luce «sul ‘capitale sociale’ delle cosche, in cui ritroviamo i complici nelle istituzioni, nella società, nel circuito economico-finanziario».
I punti critici della materia non possono essere inquadrati in «una inesistente prospettiva in cui si confrontano “il metodo Falcone” e il “metodo Carnevale”, secondo una sbrigativa proposizione. […] Certe affermazioni, destinate a un pubblico di non addetti ai lavori, risultano giuridicamente inutili e, per lo più, foriere di polemiche che incrinano la credibilità delle istituzioni giudiziarie».

La seconda parte di La Giustizia è Cosa Nostra di Bolzoni e D’Avanzo è interamente dedicata al giudice Corrado Carnevale e alle centinaia di processi di mafia, camorra e ‘ndrangheta cancellati dalla I sezione penale della Cassazione.
Relativamente a ipotesi di processi aggiustati, l’incriminazione di Corrado Carnevale si risolse in una condanna in Corte d’Appello nel 2001, poi annullata senza rinvio in Corte di Cassazione nel 2002. Già negli anni Ottanta «Carnevale stava per essere messo sotto procedimento disciplinare da parte del ministro della Giustizia Rognoni, cosa che non avvenne perché era intervenuto personalmente il presidente Andreotti dicendo che Carnevale non si tocca».

Si legge nel prologo del libro: «L’avvocato può avere un ruolo importante per “aggiustare” i processi ma, com’è ovvio, è il giudice che è tutto. […] Se è un giudice popolare, uno di quei cittadini estratti a sorte per far parte delle Corti d’Assise o d’Appello, allora è un gioco da ragazzi “addomesticarlo”. […] Se il giudice è massone, il lavoro viene meglio. Non si sta a perdere troppo tempo. Per questo, anche per questo, capi famiglia e capi mandamento si sono iscritti alla massoneria».

Nel corso di una video-intervista rilasciata al giornalista Sandro Ruotolo e pubblicata sul canale Youtube di Fanpage.it, l’ex Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Giuliano Di Bernardo parla proprio dei legami tra massoneria, politica e mafia.
Il Grande Oriente d’Italia è la maggiore organizzazione massonica in Italia con oltre 23mila fratelli divisi in 850 logge e Di Bernardo ne è stato Gran Maestro per un breve periodo, tra il 1990 e il 1993, prima di decidere di dimettersi proprio a causa dell’ambiente compromesso ivi trovato.
Descrivendo la situazione di Calabria e Sicilia afferma: «Ettore Loizzo dichiara che non c’è solo infiltrazione della n’drangheta nelle logge. Ma che, addirittura, la ‘ndrangheta controlla le logge. […] Io avevo saputo più dei siciliani che dei calabresi».
Ettore Loizzo è stato «Gran Maestro Onorario e reggente, con Eraldo Ghinoi, del Grande Oriente d’Italia nel 1993».

Ancora nel prologo del libro di Bolzoni e D’Avanzo sono riportate le parole di Leonardo Messina, collaboratore di giustizia: «È nella massoneria che si possono avere contatti totali con le istituzioni, con gli imprenditori con gli uomini che amministrano il potere, il potere diverso da quello di Cosa nostra».
Ma sono solo i mafiosi a chiedere favori?
«Quando la cosa è fatta, è logico che il giudice chieda qualche favore».
Ma sono solo i giudici, o parte di essi, a chiedere qualche cosa in cambio del favore fatto?

“Uno scandalo della giustizia italiana”, così viene indicato dalla redazione de Il Foglio l’iter giudiziario che ha visto coinvolto l’ex dirigente del Sisde (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, agenzia di intelligenza fondata con lo scopo dichiarato di protezione degli interessi politici, militari, economici, scientifici e industriali dell’Italia).

Il 25 febbraio 2006 la Corte di appello di Palermo aveva emesso sentenza di condanna per Contrada per «concorso esterno in associazione mafiosa», sentenza diventata irrevocabile il 10 maggio 2007. Nell’aprile del 2015 la Corte europea per i diritti dell’uomo di Strasburgo giudica la sentenza illegittima in quanto considera l’accusa «non sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione». In buona sostanza, all’epoca dei fatti (ovvero gli anni Ottanta) il reato di concorso in associazione mafiosa «non era chiaro né prevedibile» e per questo motivo la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a risarcire il poliziotto.

Marcello Dell’Utri nella sentenza di I grado che lo condanna a nove anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa è considerato «l’ambasciatore, il mediatore degli interessi della mafia nel grande impero economico-finanziario lombardo, il tramite tra Cosa Nostra e uno degli imprenditori ai quali Cosa Nostra si sarebbe affidata per investire, riciclare e far fruttare il proprio denaro: Silvio Berlusconi».

È su Contrada, Dell’Utri e su gli altri nomi e volti noti che si divide l’opinione di stampa e pubblico. Ma il tema o problema del concorso esterno in associazione mafiosa non è personale o soggettivo, riguarda atteggiamenti, comportamenti e azioni che appartengono a una cultura sbagliata ma radicata al punto che in tanti faticano a riconoscerla come tale. Consuetudine che diventa abitudine, normalità. Un abisso della società che si nutre e cresce attingendo dal marcio e mascherandosi di buono. Al punto da creare una sorta di realtà parallela, invisibile ai più ma che condiziona, direttamente o indirettamente, l’esistenza di tutti e di ognuno. Quello che Massimo Carminati ha definito “il Mondo di mezzo”, «in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile […] il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra […] anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno».

È un sistema di scambio. Un do ut des dove richiedenti ed esecutori vivono un perenne scambio di ruoli, favori e interessi. Il Mondo di mezzo non è solo quello di cui parla e vissuto da Massimo Carminati, è tutta la zona grigia dove si incontrano persone che appartengono a qualsiasi ceto sociale, per così dire, e svolgono qualsiasi lavoro, in qualunque parte dell’Italia o del mondo. Braccio armato, manovalanza, criminali, uomini che si appellano d’onore, colletti bianchi, commercialisti, medici, avvocati, funzionari, ingegneri, architetti, commercianti, imprenditori, finanzieri, banchieri e bancari, poliziotti, magistrati, giudici, agenti dei servizi, politici, militari… un vero e proprio esercito di persone grigie che danno origine e mantengono in vita un sistema borderline dai contorni non ben definiti, ed è proprio su questa incertezza che si vuol far perno per allontanare da sé lo spettro del concorso esterno in associazione mafiosa. Perché lo sanno tutti che questa non è una buona cosa, anche laddove dovesse mancare una legge scritta a inquadrarla come crimine mafioso.

Durante il seminario Antimafia italo-argentino, tenutosi a marzo 2019 presso la Camera dei Deputati della Repubblica Argentina, il pm Antonino Di Matteo ha evidenziato i caratteri peculiari della mafia italiana, in particolare di Cosa nostra, come riportato in un articolo pubblicato su antimafiaduemila.com a firma di Giorgio Bongiovanni. Di Matteo ha ricordato anche le motivazioni della sentenza Andreotti, «in cui si certifica come il sette volte presidente del consiglio (il cui reato è stato prescritto) abbia avuto rapporti organici con Cosa nostra almeno fino al 1980», e quella «definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa contro l’ex senatore, fondatore di Forza Italia con Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri». Sottolineando inoltre come «il potere di Cosa nostra derivi proprio dai rapporti con l’esterno, con le istituzioni deviate ed i grandi poteri».

Secondo quanto riportato dai collaboratori di giustizia, Salvatore Riina diceva sempre: «Se noi non avessimo avuto il rapporto con la politica noi eravamo solo una banda di sciacalli e lo Stato con un’azione di normale repressione ci avrebbe schiacciato». Sottolinea il pm Di Matteo che le istituzioni, in Italia ma non solo, devono comprendere che «per poter sconfiggere le mafie non è sufficiente reprimere negli aspetti più violenti ma bisognerebbe recidere ogni possibilità di rapporto con i poteri politici e istituzionali».
Riguardo il reato di concorso esterno, che deve necessariamente essere ricondotto alla categoria dei reati di durata, Nino Di Matteo precisa che «al di là dell’evoluzione giurisprudenziale è la decisiva importanza di colpire adeguatamente quelle manifestazioni criminali che, pur non apparendo immediatamente riconducibili all’associazione mafiosa, in realtà costituiscono la chiave d’accesso che le mafie utilizzano per condizionare a loro favore la politica e le attività di tutte le pubbliche amministrazioni».

«Mafia e corruzione, ne sono convinto, sono due facce della stessa medaglia: aspetti operativi distinti, ma non diversi, di un sistema criminale integrato.»

Nei commenti ai tanti articoli letti sull’argomento, tratti da testate giornalistiche nazionali e locali, di ogni colore politico possibile, ricorre una frase che fa molto riflettere: “uno o è mafioso o non lo è, che significa concorso esterno in associazione mafiosa?”. Al di là della semplicità di un simile pensiero, che può nascondere molta ingenuità oppure molta malizia, si evince il grande problema di fondo, che è culturale prima ancora che giuridico. Sono gli altri a essere dei criminali, dei mafiosi, dei delinquenti, anche se io chiedo un favore oppure lo faccio, se prendo una bustarella o se la passo a qualcuno, se infrango le regole, le leggi, i regolamenti… non sono certo un criminale, un delinquente o un mafioso. I mafiosi, quelli veri, quelli pungiuti lo sono.
La legge andrà sicuramente migliorata, meglio definita, ma questo per certo non basterà a risolvere il problema o arginarlo.
Il procuratore Franco Roberti, nella prefazione a Guardare la mafia negli occhi (Rizzoli 2017) di Elia Minari, scrive che «la forza delle mafie è fuori dalle mafie». Per Minari riuscire a contrastare la criminalità organizzata significa innanzitutto «scalfire la “mentalità mafiosa” partendo da ciascuno di noi, senza delegare agli altri, senza aspettare che arrivino leggi migliori, perché di certo non diventeremo onesti per decreto legge».


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Glifo Edizioni per la disponibilità e il materiale


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12 martedì Mar 2019

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AntonioNicaso, Italia, mafia, Mondadori, NicolaGratteri, recensione, saggio, Storiasegretadellandrangheta

Uscito in prima edizione a ottobre 2018, con la casa editrice Mondadori, Storia segreta della ‘ndrangheta di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso è un testo corredato e arricchito di riferimenti a fonti certe e documentali. Un resoconto storico che ahinoi forse non entrerà mai a far parte dei libri di storia, maggiormente se scolastici. Con il rischio, o meglio la certezza che i ragazzi continueranno ad apprendere delle mafie secondo stereotipi aridi e inutili o, peggio ancora, in maniera mitizzata attraverso tv, cinema e videogame.

Nel testo vengono descritti con dovizia di particolari i legami che hanno unito, fin dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, i boss calabresi con quelli siciliani, della “Nuova Camorra organizzata” di Napoli e la banda della Magliana a Roma.

Gratteri e Nicaso dedicano quasi un intero capitolo alla descrizione del radicamento della ‘ndrangheta in varie e numerose regioni italiane (Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia-Romagna, NordEst e Centro Italia), nonché l’espansione in Europa e nel resto del mondo. A smontare, o almeno tentare di farlo, i luoghi comuni che vogliono la corrispondenza perfetta tra mafie e Sud Italia, tra Terra dei fuochi e Campania.
Sono ormai disparate e diffuse le inchieste che hanno portato ad arresti e processi per mafia al Nord ma quella «destinata a rimanere nella storia» è Crimine-Infinito, scattata nel 2010. Un’indagine sviluppatasi su un doppio fronte: lombardo e calabrese. Servita a «individuare e colpire decine di ‘ndranghetisti radicati in Lombardia» e a cambiare «la percezione della ‘ndrangheta».

Tra passato e presente, in sostanza, c’è una sola differenza: «ieri la ‘ndrangheta era ritenuta forza eversiva, oggi è sempre più governo del territorio». Un tempo era il boss ad andare a casa del politico a chiedere assunzioni o favori, oggi «è il politico che va a casa del boss a chiedere pacchetti di voti». I consigli comunali calabresi sciolti per mafia sono stati «3 nel 2016, 12 nel 2017 e 8 nei primi otto mesi del 2018».

Ciò che colpisce durante la lettura di Storia segreta della ‘ndrangheta, oltre la grande capacità di narrazione e sintesi degli autori, è il ritrovare delle sconcertanti somiglianze con quanto accade nel tempo, nella storia appunto, come anche nell’attualità della cronaca.
A seguito del terremoto del 28 dicembre 1908, che ferisce duramente Reggio Calabria e Messina, il Parlamento stanzia un finanziamento di 100milioni di lire per la ricostruzione. «Subito dopo il terremoto, molti calabresi annusano l’affare della ricostruzione».
E poi arrivano gli anni in cui «si ricorre al tritolo per taglieggiare le imprese che si aggiudicano i lavori dell’ultimo tratto dell’Autostrada Salerno-Reggio Calabria». Del resto, sono oltre 170 i miliardi previsti per la realizzazione dell’opera. Una cifra enorme, «alla quale si aggiungono i fondi della legge Pro-Calabria», 345miliardi stanziati dal governo per opere di sistemazione idraulico-forestale.

Nell’intento degli autori c’è la volontà di raccontare la storia della ‘ndrangheta per conoscerne gli aspetti più reconditi, per capire quanto sia in realtà necessario «combatterla, spezzando quel grumo di potere che continua ad alimentarla». Perché la ‘ndrangheta è «una sorta di mostruoso animale giurassico» che non si estingue perché «sono ancora in tanti a proteggerla, a tutelarla, a cercarla e a legittimarla». Non si può non convenire con Gratteri e Nicaso allorquando, nelle conclusioni del libro, affermano che servirebbe un «nuovo sentimento etico-politico», in grado di coinvolgere individui e gruppi, élite e popolo su obiettivi comprensibili «per rendere sconveniente la scelta dell’illegalità».


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della casa editrice Mondadori per la disponibilità e il materiale.


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28 giovedì Feb 2019

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Chiarelettere, IlPattosporco, mafia, NinoDiMatteo, paura, recensione, saggio, SaverioLodato

«Era un processo che faceva paura».

Così chiosa Saverio Lodato nell’appendice al libro, scritto con il pm Antonino Di Matteo, che racconta per esteso e nel dettaglio quel “Patto sporco” tra Stato e anti-Stato che mai avrebbe dovuto esserci. A spaventare l’Italia e gli italiani, molti di essi, sembrava però più l’azione investigativa prima e giudiziaria poi e che ha portato al processo noto come “sulla Trattativa” e alla relativa condanna degli imputati, rei di minaccia a corpo politico dello Stato, un «terribile reato», come lo definisce lo stesso Lodato.
La sentenza del 20 aprile 2018 della seconda Corte di assise di Palermo sancisce il reato e la condanna e decreta, indirettamente, che la vera “boiata pazzesca” non è stato il processo, che aveva un valido e solido impianto accusatorio, bensì il tentativo di chi ha cercato di sminuire il lavoro della magistratura e il tentativo di far luce sui tanti punti scuri e oscuri che hanno sancito la nascita della seconda Repubblica, ne hanno accompagnato il corso e velano tutt’ora la storia e la cronaca del nostro Paese.

«Era un processo che faceva paura».

Non è certo facile ammettere che lo Stato si è piegato, ha accettato il compromesso con l’anti-Stato che ufficialmente dichiara sempre di combattere. E, soprattutto, che non lo ha fatto per fermare morti e stragi.
Gli ufficiali del Ros non hanno lasciato alcuna traccia scritta della esistenza e della evoluzione dei loro rapporti con Vito Ciancimino. «È assolutamente grave e oltremodo significativo il fatto che, nel lungo periodo dei loro contatti con Vito Ciancimino, gli ufficiali del Ros non adottarono alcuna iniziativa investigativa» e invece, «a dimostrazione che la loro era una iniziativa “politica”, si siano rivolti e abbiano riferito dei loro contatti con Ciancimino a esponenti del governo e del Parlamento».

In questi lunghissimi venticinque anni, man mano che il racconto dei collaboratori di giustizia si è unito alle prove investigative raccolte, il puzzle è apparso sempre più completo, e chiaro. Dal resoconto di coloro che lo hanno vissuto in prima linea emerge un ulteriore aspetto che deve davvero “fare paura”. Quella che Nino Di Matteo, nella sua requisitoria finale al processo “sulla Trattativa” definisce «omertà istituzionale». Un paradosso che è tale solo in apparenza. Lo Stato che collabora alle indagini e all’inchiesta meno dell’anti-Stato.

Il Patto sporco, di Nino Di Matteo e Saverio Lodato, edito da Chiarelettere è un libro «scritto da entrambi con passione e rabbia». Perché se in tutti questi anni la stampa, i giornali, i telegiornali, i grandi opinionisti avessero offerto all’opinione pubblica «un minimo sindacale di informazione» sull’argomento, «difficilmente questo libro avrebbe avuto un senso». Sarebbero notizie già note. Invece così non è stato.

*****

“Gli attentati a Lima, Falcone, Borsellino, le bombe a Milano, Firenze, Roma, gli omicidi di valorosi commissari di polizia e ufficiali dei carabinieri. Lo Stato in ginocchio, i suoi uomini migliori sacrificati. Ma mentre correva il sangue delle stragi c’era chi, proprio in nome dello Stato, dialogava e interagiva con il nemico.
La sentenza di condanna di Palermo, contro l’opinione di molti “negazionisti”, ha provato che la trattativa non solo ci fu ma non evitò altro sangue. Anzi, lo provocò. Come racconta il pm Di Matteo a Saverio Lodato in questa appassionata ricostruzione, per la prima volta una sentenza accosta il protagonismo della mafia a Berlusconi esponente politico, e per la prima volta carabinieri di alto rango, Subranni, Mori e De Donno, sono ritenuti colpevoli di aver tradito le loro divise. Troppi i non ricordo e gli errori di politici e forze dell’ordine dietro vicende altrimenti inspiegabili come l’interminabile latitanza di Provenzano, la cattura di Riina e la mancata perquisizione del suo covo, il siluramento del capo delle carceri, Nicolò Amato, la sospensione del carcere duro per 334 boss mafiosi.
Anni di silenzi, depistaggi, pressioni ai massimi livelli (anche dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), qui documentati, finalizzati a intimidire e a bloccare le indagini. Ora, dopo questa prima sentenza che si può dire storica, le istituzioni appaiono più forti e possono spazzare via per sempre il tanfo maleodorante delle complicità e della convivenza segreta con la mafia.”

*****

Il testo si presenta come una lunga e articolata intervista che, in realtà, somiglia più a una memoria a due voci nella quale Lodato irrompe con più impeto nelle parti ufficiali e professionali della narrazione, lasciando maggiore adito al pm quando questi racconta i risvolti e le conseguenze di tutto ciò sulla sua vita privata. Laddove Di Matteo parla delle inchieste e dei processi, Lodato dimostra la sua grande esperienza e determinazione in merito. Le sue sono le parole di chi non si è mai arreso, nonostante tutto, e ha sempre continuato a svolgere il proprio lavoro.
Egual ragionamento va fatto per le parole, per le azioni, il comportamento e il lavoro tutto svolto da Antonino Di Matteo. In maniera amplificata, visto che da oltre cinque anni vive secondo i dettami e le regole di quello che in gergo viene definito “primo livello di protezione eccezionale”.

C’è poi la parte di narrazione nella quale il pubblico ministero abbandona per alcuni attimi gli abiti ufficiali e professionali per vestire, “semplicemente”, quelli di uomo, di padre, di marito. Brevi racconti che aiutano il lettore a meglio comprendere il reale significato nonché le conseguenze di scelte che sono per certo coraggiose, ammirevoli e che non possono e non devono, o meglio non dovrebbero mai andare incontro a critiche e facili opinioni da parte di chi non sa, non comprende o finge di non farlo perché pur predicando l’antimafia di facciata in realtà ne è poi attratto o, peggio, coinvolto a vario titolo, molto più di quanto non vorrebbe ammettere neanche con se stesso.
E questo accade tra i cittadini, tra i colleghi, tra le forze dell’ordine e i servizi segreti, tra gli operatori dell’informazione e della comunicazione, tra i politici e gli imprenditori. In quella parte dello Stato che è in qualche modo legata a doppio filo all’anti-Stato.

In uno scenario del genere, di queste dimensioni, «non si può parlare di un merito della magistratura», bensì del «demerito di chi ha volutamente ignorato che, per lunghi tratti di strada, Stato e mafia hanno camminato di pari passo».

Un libro, Il Patto sporco di Di Matteo e Lodato, che si legge con l’adrenalina in circolo e il battito del cuore in accelerazione.
Con la voglia di conoscere fin dove la bravura di magistrati come Di Matteo, eredi professionali e morali di Falcone e Borsellino, li ha portati a svelare i tanti, troppi misteri e segreti dei legami marci tra Stato e anti-Stato.
Con il desiderio di una diffusione e condivisione sempre maggiore di questi traguardi.
Con la speranza che l’Italia della terza Repubblica sia o diventi davvero altro rispetto a quello che, purtroppo, è stata la nascita e la storia della seconda appena conclusa.
Un libro, Il Patto sporco di Di Matteo e Lodato, assolutamente necessario. Da leggere. Da comprendere. Da condividere.


Biografia degli autori

Sostituto procuratore della Repubblica a Caltanissetta e poi a Palermo, Nino Di Matteo è ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Ha indagato sulle stragi dei magistrati Chinnici, Falcone, Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Saetta. Pm in processi a carico dell’ala militare di Cosa Nostra, si è occupato anche dei processi a Cuffaro, al deputato regionale Mercadante, al funzionario dei servizi segreti D’Antone, e alle “talpe” alla procura di Palermo. Diverse amministrazioni comunali (tra queste Roma, Milano, Torino, Bologna, Genova) gli hanno conferito la cittadinanza onoraria per il suo impegno nella ricerca della verità. È autore dei libri “Assedio alla toga” (con Loris Mazzetti, Aliberti) e “Collusi” (con Salvo Palazzolo, Rizzoli).

Saverio Lodato è tra i più autorevoli giornalisti italiani in materia di mafia, antimafia e Sicilia. Per trent’anni è stato inviato de “l’Unità” in Sicilia e oggi scrive sul sito antimafiaduemila.com. Ha scritto: “Avanti mafia!” (Corsiero Editore); “Quarant’anni di mafia” (Rizzoli); “I miei giorni a Palermo” (con Antonino Caponnetto, Garzanti); “Dall’altare contro la mafia” (Rizzoli); “Ho ucciso Giovanni Falcone” (con Giovanni Brusca, Mondadori); “La linea della palma” (con Andrea Camilleri, Rizzoli); “Intoccabili” (con Marco Travaglio, Rizzoli); “Il ritorno del Principe” (con Roberto Scarpinato, Chiarelettere); “Un inverno italiano” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere); “Di testa nostra” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere).


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Chiarelettere per la disponibilità e il materiale


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09 venerdì Nov 2018

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Lamafianera, mafia, NewtonCompton, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, terrore, VincenzoCeruso

Con la sconfitta del nazifascismo iniziava per l’Europa il più lungo periodo di pace mai conosciuto. Ma non è stato così per tutti gli europei. Per tanti a cominciare è stato solamente un conflitto differente, combattuto in modo diverso e che ha richiesto l’impiego di una nuova tipologia di soldati.
Sentimenti ostili nei confronti della neonata Repubblica e paura riguardo la possibile o probabile avanzata di ideologie diverse, opposte, che avanzavano da quello che ancora veniva indicato tra i principali nemici da combattere, il blocco dell’Est sovietico.
Il generale Arpino, capo di Stato maggiore dell’esercito, ha dichiarato dinanzi a una commissione parlamentare: «per noi, ancora negli anni Ottanta, un terzo del parlamento era il nemico».

Il conflitto che lacerava la società italiana all’indomani del secondo conflitto mondiale appare «feroce, come può esserlo solamente una guerra ideologica». Se il comunismo era impegnato a forgiare «un nuovo tipo di uomo, una macchina senz’anima», un docile strumento al servizio della guerra totale, anche i difensori del mondo libero dovevano affrancarsi da ogni preconcetto morale, per rispondere adeguatamente alle sfide che li attendevano. A partire dalla creazione del «soldato rivoluzionario», educato al nuovo tipo di guerra che il comunismo aveva imposto, addestrato tecnicamente e dotato di un’adeguata «educazione morale». Un «soldato d’élite», ideologicamente preparato al suo compito.

Questo e tanto altro si legge nella relazione di Edgardo Beltrametti, giornalista e collaboratore del corpo di Stato maggiore della Difesa, scritta in occasione del convegno che si tenne a Roma nel maggio 1965 dal titolo La guerra rivoluzionaria. Incontri, eventi, accadimenti che, unitamente alla narrazione storica più nota e alla documentazione di inchieste, indagini e processi, si trovano ampiamente analizzati ne La mafia nera di Vincenzo Ceruso, edito da Newton Compton a ottobre 2018. Un libro che racconta la storia di un’Italia oscura, le stragi, i depistaggi e le relazioni occulte tra lo Stato e il non-Stato. Eversione neofascista, brigatismo rosso, apparati dello Stato, società segrete e organizzazioni mafiose che si muovono e si sono sempre mossi all’interno del medesimo scacchiere per spartirsi o contendersi il medesimo bottino. A rischio sempre più elevato la democrazia e il bene comune.

L’Italia ha avuto ed ha numerose agenzie di depistaggio. I principali protagonisti di queste azioni sono ben identificabili dentro i nostri apparati di sicurezza, «abituati a muoversi al confine tra il legale e l’illegale». Alcune delle principali associazioni di natura criminale e sovversiva che il nostro Paese ha avuto ed ha, «hanno svolto anche le funzioni di agenzie di depistaggio». Viene da sé che a suscitare maggiore scandalo sono i «reati commessi da uomini nel cuore delle istituzioni».

Ceruso indica in quanto accaduto dopo la strage di via d’Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, il tentativo di costruire un «depistaggio perfetto». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Salvatore Candura e Calogero Pulci andarono a comporre «una ricostruzione dell’attentato in via d’Amelio che avrebbe retto ai tre gradi di giudizio». Scarantino però era «del tutto non credibile, sia nei panni dello stragista che del mafioso». Il 21 luglio 1995 ritrattò le sue dichiarazioni e accusò il capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e i suoi uomini di «torture nei suoi confronti». La Barbera sarebbe stato «un agente sotto copertura, con il nome in codice di Rutilius, e avrebbe percepito dal Sisde un assegno di un milione di lire nel 1986 e 1987». Perché Scarantino ha accusato degli innocenti, seppur sempre di affiliati si parla?

Il giorno 5 novembre 2018 si è aperto il dibattimento che vede i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata dalla Procura di Caltanissetta. Avrebbero creato a tavolino falsi pentiti, come Scarantino, per costruire una versione non veritiera di quanto accaduto.

Tra il 1992 e il 1993 furono poste in essere sette stragi sul territorio della Repubblica italiana. Come ai tempi di piazza Fontana, ma ben venticinque anni dopo, «venne indagato l’ordinovista Franco Freda», per il quale venne ipotizzato il reato di strage. L’indagine portò ad alcuna accusa a carico di Freda. In una delle riunioni avvenute alla vigilia degli attentati, «di cui hanno parlato Sinacori e altri collaboratori di giustizia», i boss avrebbero decretato che gli atti terroristici sarebbero stati «rivendicati usando il nome della Falange Armata».
L’ammiraglio Francesco Paolo Fulci, durante una dichiarazione rilasciata per il processo sulla trattativa Stato-mafia, avrebbe rivelato che questa denominazione «serviva a identificare una struttura clandestina dei servizi segreti, che si muoveva secondo le tipiche di guerra psicologica utilizzate nell’ambito di Gladio». Gli esiti di un’indagine da lui stesso ordinata furono due mappe che indicavano, nei luoghi da dove partivano le telefonate a nome della Falange, «sedi periferiche del Sisde». Secondo quanto si legge nella Sentenza nei confronti di Bagarella Leoluca e altri del 20 aprile 2018 della Corte d’assise di Palermo.

I magistrati di Palermo, indagando su quegli anni, hanno utilizzato l’espressione «sistema criminale» per indicare «l’alleanza eterogenea di soggetti che agivano per portare a termine un comune progetto eversivo». Gli investigatori hanno accertato che, alla vigilia delle stragi, c’era in Sicilia «un gran viavai di personaggi legati alle trame eversive degli anni Settanta».
L’obiettivo finale del ‘sistema criminale’ era attuare una «forma di golpe che mutasse radicalmente il quadro politico-istituzionale». Secondo quando si legge nella richiesta di archiviazione nei confronti di Gelli Licio e altri del 21 marzo 2001 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Una mutazione del quadro politico da portare avanti «attraverso le stragi e a cui avrebbe aderito anche lo stesso Riina».
Secondo i collaboratori di giustizia calabresi, il vasto piano politico-criminale prevedeva la «piena collaborazione della ‘ndrangheta attraverso la figura dell’avvocato Paolo Romeo», esponente di Avanguardia Nazionale negli anni Settanta. Un altro personaggio centrale nel raccordo con il mondo politico era «Vito Ciancimino», il quale, in un interrogatorio del 1998 proponeva, come movente della strage di Capaci, «il sabotaggio della candidatura di Giulio Andreotti quale presidente della Repubblica». Il ruolo di mediatore di Ciancimino sarebbe stato assunto, in un secondo momento della trattativa, «da Marcello dell’Utri».

Durante la stagione delle stragi mafiose, tra il 1992 e il 1994, «i vertici del Ros, insieme agli uomini di Cosa nostra», avrebbero «minacciato e tentato di condizionare il governo della Repubblica». Il livello politico, cui avrebbero fatto riferimento gli ufficiali dei carabinieri, «non è stato però individuato». A meno che non si voglia pensare a «esecutori – quindi ad apparati di sicurezza – che non rispondevano a nessuno», oppure a «referenti estranei al governo della Repubblica» e distanti dagli interessi nazionali.

I magistrati hanno tratteggiato più volte nelle indagini sulle stragi la tecnica «piduista e mistificatoria» di fornire una massa di informazioni difficilmente verificabili e orchestrare campagne di stampa, confondendo fatti veri e falsi.
Alcune figure apicali dei nostri servizi segreti, prima ai vertici del Sid e poi a quelli che saranno il Sismi e il Sisde, «hanno ritenuto che spettasse svolgere ai servizi stessi un ruolo di agenzia di depistaggio» rispetto ad alcuni dei fatti più sanguinosi della cronaca eversiva. Per quanto riguarda le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, «le responsabilità parziali degli agenti sono state definitivamente individuate». Rimane tuttavia da chiarire il motivo per cui lo hanno fatto.
Non è più un mistero neanche la oramai «prassi consolidata dell’utilizzo delle forze sovversive e criminali da parte degli uomini che sarebbero preposti alla loro repressione».
La mafia, «sfruttando quelle capacità di adattamento alle diverse epoche che le sono proprie», ha adottato, in periodi cruciali della storia italiana, «l’habitus proprio dell’organizzazione terrorista». A questa mutazione in senso terroristico hanno contribuito anche «le sollecitazioni provenienti da determinati organismi statali», allorquando hanno visto nella mafia siciliana un potenziale e potente alleato per realizzare quello che ritenevano «sarebbe stato l’ordine giusto per il nostro Paese». Basti pensare a quanto accaduto «nel secondo dopoguerra e tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso».
Parimenti, anche «eversione nera e le mafie hanno stabilito», in particolari momenti della loro storia, «relazioni significative».

Esiste una «ideologia stragista» il cui nucleo essenziale consiste nel considerare la morte di innocenti come un obiettivo strategico da perseguire, «una condizione necessaria per incidere sull’esistente e modificare le strutture statali». Risultati da raggiungere con omicidi mirati o con massacri indiscriminati ma, in ogni caso, con «uno sforzo costante per occultare la verità».
Cosa nostra e Ordine Nuovo, a partire da un certo momento e per un lungo tratto della loro storia, «sono stati i due principali gruppi terroristici, con finalità stragiste» presenti in Italia.
Se guardiamo alle due organizzazioni senza preconcetti, sarà più facile «accertare una serie rilevante di punti in comune»:

•collusione con la politica e con gli apparati di sicurezza deviati;
•dichiarata visione fortemente ostile allo Stato e alle sue leggi;
•ideologia organica cui i loro membri sono tenuti ad aderire;
•straordinaria capacità militare;
•vocazione stragista;
•natura di associazione sovversiva;
•impiego del terrorismo politico.

Come per le Brigate Rosse, la principale banda armata comunista, anche le organizzazioni eversive di destra non hanno disdegnato di cercare «accordi con esponenti delle diverse associazioni mafiose», in nome della comune lotta allo Stato.
La mafia siciliana dal canto suo ha utilizzato lo stragismo per fini politici fin dall’immediato dopoguerra, con il massacro di Portella della Ginestra, e «ha affinato questa sua propensione negli anni Novanta del Novecento».

Si può compiere una strage per depistare. Ed è esattamente quanto sarebbe accaduto durante il periodo definito della «strategia della tensione», allorquando l’obiettivo era la creazione di un clima politico favorevole alle forze conservatrici mediante «l’attacco di obiettivi civili e il perseguimento di un disegno terroristico». Piazza Fontana fu un attacco terroristico, «ma servì anche ad altro».
L’eccidio mostrò ai burattinai delle stragi che era possibile colpire indiscriminatamente una folla di cittadini indifesi, nel cuore della capitale economica del Paese, e riuscire a indirizzare le indagini verso «colpevoli del tutto improbabili».

I soggetti collettivi che pensarono, promossero e ordinarono la strage di piazza Fontana, «erano gli stessi che avrebbero pensato, promosso e ordinato le stragi che insanguinarono il nostro Paese fino al principio degli anni Ottanta». Con piazza Fontana era iniziata una stagione di stragi che avrebbe reso l’Italia «un Paese a sovranità limitata», condizionata da «forze oscure» che ne avrebbero fatto il teatro di «una guerra non convenzionale», rivolta principalmente verso la popolazione civile. Molto simile a quanto poi si verificherà agli inizi degli anni Novanta, quando il filo conduttore sembra essere legato alle parole di Riina: “Si fa la guerra per poi fare la pace”. Creare instabilità per offrirsi come garante della agognata stabilità in fondo è sempre stato un must delle organizzazioni malavitose.

I misteri italiani analizzati da Ceruso sono molteplici, non tutti ma tanti, e abbracciano anche il mai attuato golpe Borghese, l’omicidio Pecorelli, piazza della Loggia, l’Italicus, il «suicidio simulato» di Peppino Impastato… e impressiona non poco la veridicità delle parole riportate nella Sentenza contro Moggi Carlo Maria e altri del 22 luglio 2015 della Corte di assise di appello di Milano: «Tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia appartengono a un’unica matrice organizzativa».
Ricorrono le medesime organizzazioni sovversive e malavitose ma lo fanno anche i nomi dei rappresentanti dello Stato in varie istituzioni e servizi. Persone che, magari, non hanno commesso dei reati eppure, forse, con i loro comportamenti non hanno neanche impedito che dette stragi si verificassero. Laddove non dovesse persistere una responsabilità civile o penale permane e persiste per certo quella etica e sociale, per la quale non c’è prescrizione che tenga.

Il lavoro di ricerca e analisi svolto da Vincenzo Ceruso per la composizione de La mafia nera deve aver richiesto notevole pazienza e determinazione, da parte dell’autore. Un’indagine certosina sulle fonti, sui documenti, sugli atti processuali che ha prodotto un lavoro notevole. Un libro che rappresenta una pietra miliare per la conoscenza della storia occulta di quell’Italia oscura che in tanti, in troppi vorrebbero lasciare nell’ombra.


Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa della Newton Compton per la disponibilità e il materiale



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La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018)

16 martedì Ott 2018

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AntonioIngroia, Imprimatur, LeTrattative, mafia, PietroOrsatti, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

Se governo, istituzioni e cittadini cedono al compromesso, se la magistratura viene ripetutamente denigrata per le inchieste e i processi contro i “sistemi criminali”, che senso hanno le celebrazioni e le commemorazioni? Ricordare i “caduti” senza raccontarne i veri motivi, senza creare una solida memoria collettiva, induce il rischio concreto di immortalarli come novelli don Chisciotte, morti per un ideale irrealizzabile, per una causa persa in partenza.

Le Trattative di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti è fuor di dubbio una lettura interessante e, anche per chi ha cercato di informarsi su quanto accaduto, risultano illuminanti molti passaggi del testo. Utili, necessari e doverosi per costruire una solida memoria storica collettiva che racconti la verità, la realtà di chi ogni giorno porta avanti la sua personale lotta alla mafia. Una guerra combattuta per tutti ma appoggiata e sostenuta, nei fatti, da pochi.

«Si muore perché si è soli» diceva Falcone. E i giudici Falcone e Borsellino, gli agenti, gli uomini e le donne delle loro scorte, sono morti perché sono stati traditi dalla parte marcia dello Stato italiano e perché sono stati ingiustamente attaccati dalla parte deviata e venduta dell’informazione italiana e perché sono stati abbandonati dai cittadini italiani. Sottolinea Ingroia nel testo come il maxiprocesso stesso, simbolo ed emblema della vera lotta giudiziaria alla mafia, non sarebbe mai andato in porto se non ci fosse stata la primavera palermitana, «frutto di un movimento di massa, cioè della progressiva mobilitazione che si determinò sull’onda delle emozioni per i delitti degli anni Ottanta». In particolare gli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa.

Senza la spinta e il sostegno del movimento antimafia di massa, Falcone e Borsellino non avrebbero potuto affrontare tutti i tentativi, «dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo e a Roma ad opera del governo nazionale», di fermare «tutto questo processo di riscatto contro la mafia». Poi, dopo le sentenze di condanna del maxiprocesso si è deciso che bisognava fermare questo cambiamento che, evidentemente, non andava bene a tanti, tantissimi italiani, fuori e dentro le istituzioni.

Leggere il racconto di Antonio Ingroia mette addosso una grande tristezza. Per tutto quello che è stato, certo. Per le stragi, assolutamente. Ma anche per le conclusioni, le considerazioni che trovano adito riguardo lo Stato italiano, la nostra Repubblica, sui cittadini e sui rappresentanti degli stessi nelle istituzioni. Sulla parte marcia di questi ma anche su quella che si ritiene sana ma che, per ventisei lunghissimi anni, ha preferito girarsi dall’altra parte. E, purtroppo, sembra bene intenzionata a farlo tuttora.

Quando ancora in vita e operativi, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati oggetto, troppo spesso, di attacchi, non solo ma anche mediatici, di minacce, non solo ma anche da parte dei malavitosi. Sono stati isolati. Eppure dopo gli attentati di quel davvero terribile 1992 nessuno, almeno pubblicamente, ne parla male, ne parla contro o allude con accezione negativa al lavoro da essi svolto in Procura. Tutto questo è stato invece riservato negli anni ai magistrati ancora operativi. Fra i tanti anche lo stesso Ingroia e Antonino Di Matteo. Perché? Domanda ovviamente retorica di cui tutti ben conosciamo la risposta.

Falcone e Borsellino stavano per raggiungere risultati che «avrebbero riscritto la storia della Repubblica». Sono stati fermati dalle bombe del Sistema criminale, mentre «la Trattativa, che prese forma in quel periodo, ci ha fermato dall’altra parte». Si trattò col potere criminale «per coprire il passato e assicurare l’impunità a chi aveva gestito quel sistema».
Chi partecipava all’accordo «si assicurava anni, forse decenni, di potere, successi e impunità». E pronti a «firmare l’accordo con una parte di Cosa nostra un pezzo dei servizi, un pezzo del mondo degli affari sporchi della massoneria» ma soprattutto «complice di tutti la politica collusa». Gli imputati del processo Trattativa rappresentano «solo una parte di questo mondo, perché è l’unica parte che siamo stati in grado di portare a processo».

Nessuna iniziativa giudiziaria dirompente contro criminalità di tipo sistemico «si può avere senza la spinta di un’opinione pubblica favorevole che la preceda e l’accompagni». Inoltre, «la Giustizia ha bisogno di una buona politica». In Italia sono mancate entrambe.

Emerge, dal testo di Ingroia, l’importanza delle leggi e del legiferare. Provvedimenti che possono davvero essere decisivi, in un senso o nell’altro. Vere cartine tornasole della linea che lo Stato italiano e il suo Governo intendono tenere nei confronti dei mafiosi, dei collusi, dei corrotti. Poi viene il lavoro degli investigatori e dei magistrati certo ma questi possono ben poco se la rete legislativa ha le maglie eccessivamente larghe.

«Quando il centrosinistra nomina Giovanni Maria Flick ministro della Giustizia del governo Prodi c’è stata la svolta». Ancora non si sapeva ma la trattativa si era chiusa, «la nuova pax tra Stato e mafia nella quale gli unici inceppi negli ingranaggi eravamo noi». E lo dice con profondo rammarico Ingroia tutto questo perché «che lo facesse il governo Berlusconi te lo potevi aspettare, che lo facesse il governo Prodi no».
Che Italia avremmo oggi se i giudici Falcone e Borsellino, unitamente ai loro colleghi del pool antimafia, avessero continuato il proprio lavoro e se i governi di destra o di sinistra che fossero non avessero mantenuto fermo l’obiettivo di fermare o almeno limitare il loro incedere?

«Non esito a definire Grasso la più grande delusione professionale della mia carriera». Tutte le indagini e le notizie di reato considerate «politicamente scomode finivano, in un modo o nell’altro, nel cestino della procura» e la classe politica, «di destra come di sinistra, gliene è sempre stata grata».

Un’indagine, la Trattativa, che «colpisce indiscriminatamente tutto l’arco costituzionale da destra a sinistra» e conduce anche «allo scontro epocale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano». L’intercettazione della telefonata fra Mancino e Napolitano diventa una «trappola» perché poi, «come è successo con il processo Andreotti che era fondato su tantissimi elementi e poi è diventato il processo del bacio, il processo Trattativa era fondato su tantissimi elementi e poi la telefonata Mancino-Napolitano ne è diventata la semplificazione». Ma non era certo quello il cuore del processo. Il contenuto dell’intercettazione, tra l’altro, poteva avere una rilevanza etico-politica ma non giudiziaria, altrimenti «non avremmo lasciato che venisse distrutta, ma avremmo insistito che venisse trascritta».

Un muro di gomma, lo definisce Marco Travaglio nella prefazione, «così impenetrabile alla verità» che lui stesso ammette di ricordare un solo precedente e che «riguarda un processo assolutamente speculare: quello a Giulio Andreotti, spacciato per assolto mentre risultò – in appello e in Cassazione – colpevole di associazione per delinquere con la mafia fino al 1980». Quindi «reato commesso ma prescritto». E prescrizione non è certamente assoluzione.

Resta a Ingroia un interrogativo: «Chi fece il doppio gioco e cercò di creare le condizioni perché Napolitano arrivasse sino in fondo e così sollevasse il conflitto di attribuzioni che fu la pietra tombale su quell’indagine, così fermata nel suo incedere verso la verità?»
E una speranza: «Che questo libro possa aiutare a fare luce sui retroscena degli ostacoli e sabotaggi di tutti i tipi che quest’indagine ha subito».
Non solo quelli svelati, «ma anche quelli che mai sono stati scoperti».

Riporta Ingroia ne Le Trattative le parole del professor Miglio tratte da un’intervista rilasciata a Il Giornale il 20 marzo 1999: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. […] C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».
Se determinate affermazioni, certi comportamenti e noti fatti, processi, condanne, non destano clamore, scalpore, indignazione, ribellione, non più di tanto almeno, o peggio trovano l’appoggio e il consenso dei cittadini, parte di essi almeno, e dei rappresentanti dello Stato nelle varie istituzioni, parte di essi almeno, allora si può affermare, purtroppo, che la “costituzionalizzazione” di cui parlava Miglio, in via ufficiosa se non in via ufficiale, è per certo già avvenuta.

Il libro Ingroia lo dedica al suo maestro Paolo Borsellino, il quale «in nome dell’intransigenza contro la mafia e ostile a ogni trattativa ha sacrificato la vita per tutti noi». Nella introduzione curata da Franco Roberti sono ricordate anche le parole di un altro coraggioso “investigatore” che ha preferito il medesimo sacrifico piuttosto che vivere nell’ipocrisia e nella finzione del non capire, del non vedere, del non sentire. L’articolo pubblicato nel 1975 scritto da Pier Paolo Pasolini e intitolato simbolicamente Il processo dove si trova anche «l’elenco morale dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia». Veri processi del genere i magistrati, pur tra mille difficoltà, sono riusciti a istruirli, «partendo dai fatti, dalle inchieste, dallo studio delle carte». Processi («Andreotti, Contrada, inchiesta Sistemi criminali, Dell’Utri, Mori-Obinu, Trattativa») non «indirizzati specificamente solo al potere democristiano».

Ingroia considera l’indagine sulla Trattativa «il massimo sforzo che la magistratura ha potuto fare in questo ventennio per trovare la verità» sulla stagione delle stragi ma anche «sullo stretto legame di queste ultime con la genesi della seconda Repubblica». Se davvero siamo entrati nella terza Repubblica allora questa sentenza può rappresentare «un punto di riferimento nello sforzo di ricostruire la storia, dal punto di vista ovviamente giudiziario-criminale, di quello che sono state la fine della prima Repubblica e il marchio che la trattativa ha impresso su tutta la seconda Repubblica».
Un nuova Repubblica, la terza, che nasce sotto l’egida di una dichiarata volontà di cambiamento. «Certamente siamo in una fase di transizione» ma non si può davvero credere di poter costruire «su fondamenta solide una nuova Repubblica che incarni davvero un processo di maturazione della nostra democrazia se non si fanno i conti col passato».

La virata, affinché sia efficace, deve essere poderosa, decisa e scevra da ogni compromesso. Un segno tangibile di questo cambiamento potrebbe essere, secondo Ingroia, la costituzione di «una commissione parlamentare d’inchiesta, ad hoc, ma d’inchiesta sul serio». Un ulteriore ottimo segnale di vero cambiamento sarebbe stato la nomina a ministro di Di Matteo, di cui si era parlato ma poi non se n’è fatto nulla. «Tuttavia c’è ancora tempo per dare altri segnali, da parte del Governo, ma anche da parte del Parlamento».

Segnali, azioni, gesti concreti che i rappresentanti nelle istituzioni devono dare e che i cittadini italiani devono pretendere a gran voce e, al contempo, dare essi stessi. Perché, parafrasando Mahatma Gandhi, tutti dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Imprimatur per la disponibilità e il materiale


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Ancora minacce al Movimento Agende Rosse – sezione Modena e Brescello. Le attiviste non si arrendono. Che la loro lotta diventi di tutti gli italiani

10 venerdì Ago 2018

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articolo, mafia

Il 22 luglio scorso attiviste del Movimento antimafia Agende Rosse – sezione di Modena e Brescello allestiscono un banchetto a Serramazzoni nell’ambito del tour Donne contro la mafia–19luglio1992 che vede numerose tappe, oltre a quella nella cittadina emiliana.

Il fomat vede la presenza di donne, impegnate a vario titolo nella lotto contro le mafie, che si prefiggono un unico grande obiettivo: opporsi fermamente a un sistema mafioso che da decenni si è radicato anche nel Nord Italia.

L’incontro-banchetto del 22 luglio prevedeva la trasmissione dei discorsi del 19 luglio, registrati a Palermo in occasione della commemorazione della strage di via D’Amelio, e l’affissionedi striscioni e altro materiale inerente il processo Aemilia.

Secondo quanto riportato anche dalla Gazzetta di Modena, durante la manifestazione pacifica e informativo-divulgativa, alcuni uomini si sono avvicinati al banchetto e, mantenendo sguardi fissi e minacciosi, hanno tentato di dissuadere le attiviste con plateali e inequivocabili gesti dellamano, come a voler dire: “finitela qui e andatevene via subito”. Una foto sarebbe stata scattata, come fosse una segnalazione di schedatura e poi il pedinamento di una delle tre attiviste allorquando si è allontanata, da sola, dal luogo del banchetto.

Sabrina Natali, una delle attiviste che da anni ormai segue l’inchiesta e i dibattimenti in aula del processo Aemilia contro le infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, sul suo profilo social ha ringraziato tutti coloro che le hanno mostrato solidarietà. Ha ribadito che “questi segnali di fastidio” sono e restano tali e non riusciranno a intimorire né tantomeno fermare il Movimento, il tour e il lavoro tutto che portano avanti. Fondamentale però è la rete, che deve esserci, e che deve fare quadrato intorno a loro, come a tutti gli attivisti o cronisti minacciati.

Una rete fatta di persone, di parole e di azioni concrete. Una rete che deve, o meglio dovrebbe, passare anche attraverso l’informazione, i media. Perché quanto sta accadendo in Emilia Romagna non è molto dissimile da quanto accade in Calabria, in Puglia, in Campania, in Sicilia, in Lombardia, in Veneto… e tentare, inutilmente, di catalogare i fatti come fraintendimenti, le azioni come visionarie e paranoiche immagini di pochi, le inchieste e i processi come una persecuzione giudiziaria, di fatto, non cambierà la realtà delle cose e non renderà l’Emilia Romagna e l’Italia intera un posto migliore solo perché, per non urtare interessi, turismo e commercio, si sceglie e si preferisce non parlare, non vedere, non capire. O meglio fingere di non vedere e non capire.

Al banchetto era presente anche Catia Silva, ex-consigliere al comune di Brescello, primo nel Nord Italia a essere stato sciolto per mafia, più volte oggetto di minaccia.

La tempestiva comunicazione alle forze dell’ordine di quanto accaduto durante il banchetto del 22 luglio ha reso possibile l‘immediato inizio delle attività investigative. Intanto le attiviste dichiarano di non avere intenzione alcuna di arretrare e confermano un nuovo incontro a Serramazzoni per il 19 agosto e la presenza costante in aula alla ripresa delle udienze per il processo Aemilia a partire dal 6 settembre.

Ecco perché la rete della comunità deve farsi ancora più forte e folta e quella dei media ancora più luminosa, affinché una accecante luce abbagli anche l’ombra di tutta quella zona grigia che vorrebbe e chiede invece profilo basso e silenzio per continuare ad agire indisturbata.


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Ci sono verità che si vorrebbe tenere nascoste per sempre eppure “Quel terribile ’92”…

01 domenica Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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AaronPettinari, Imprimatur, Italia, mafia, PietroOrsatti, Quelterribile92

Ci sono errori che non si vorrebbe mai ammettere di aver commesso e verità che si vorrebbe tenere per sempre nascoste. Quella su quanto accaduto in Italia durante la Prima Repubblica e che ha direttamente condotto agli attentati del 1992, per esempio, è una di queste. Perché? La domanda è tutt’altro che retorica e la risposta affatto scontata.

Eppure uno dei modi migliori per evitare di incorrere negli stessi errori è mantenere quanto più vivi possibile la memoria storica e il racconto veritiero di quanto accaduto.

In occasione dei venticinque anni dagli attentati del ’92, Imprimatur pubblica il libro, raccolta di venticinque testimonianze, di Aaron Pettinari e Pietro Orsatti, che si apre al lettore con una citazione di José Saramago.

«Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere».

Parole che hanno un significato profondo. La memoria non si costruisce, o meglio non si dovrebbe costruire, con il semplice racconto di una cosiddetta versione ufficiale dei fatti accaduti. No, la sua costruzione dovrebbe essere un procedimento molto più complesso, invece tutto quello che non è gradito al mainstream semplicemente sembra scomparire oppure diventare una visione complottistica.

Nel suo testo sulla Shock Economy Naomi Klein parla in maniera dettagliata della privazione sensoriale, ovvero la tecnica largamente utilizzata per indurre monotonia, che causa la perdita di capacità critica e crea il vuoto mentale in maniera tale che la gran parte delle persone non tenteranno nemmeno di analizzare criticamente i fatti loro raccontati, prendendo sempre e comunque per buona la versione loro narrata. Che, intendiamoci, non è detto che sia sempre falsa o falsata. Il punto è la capacità critica che ognuno dovrebbe avere, anche difronte alla verità.

Orsatti e Pettinari hanno raccolto il racconto di venticinque testimoni appartenenti al mondo del giornalismo, dello spettacolo, della musica, del teatro… e ognuno di loro ha descritto quel terribile ’92 dal suo punto di vista. Il quadro che emerge è abbastanza preoccupante: per le inchieste arenatesi, per i ripetuti depistaggi, per tutto ciò su cui non si è voluto indagare, che non si è voluto conoscere, preferendo invece abbracciare l’illusione del cambiamento, del rinnovamento, il giornalismo italiano che ha preferito in massa cavalcare l’onda anomala del vuoto assoluto lasciando che fossero «la satira e il teatro» a occuparsi di “informazione”. I venti anni del berlusconismo che altro non sono stati che il prosieguo di quanto esattamente accadeva prima perché è inutile continuare a negare che «c’è sempre stata una forte relazione tra sesso e potere». Una sinistra fittizia che a parole continua a urlare ideali e valori ma poi, a conti fatti, non ha fatto altro che uniformarsi al fiume in piena del degrado morale ed etico.

Il contributo più illuminante è certamente quello di Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. Lui che in poche parole non racconta solo gli attentati e quel terribile ’92, ma l’ipocrisia di un Paese intero e della classe dirigente che lo governa.

«Venticinque anni è non puoi più dimenticare. Perché tuo fratello è andato in guerra ma ad ucciderlo non è stato il fuoco del nemico che era andato a combattere, ma il fuoco di chi stava alle sue spalle, di chi avrebbe dovuto proteggerlo, di chi avrebbe dovuto combattere insieme a lui».

«Venticinque anni e ogni anno in via d’Amelio per impedire quei funerali di Stato che la nostra famiglia rifiutò fin dal primo momento. Per impedire che degli avvoltoi arrivino in via d’Amelio portando i loro simboli di morte per accertarsi che Paolo sia veramente morto».

Perché la vera lotta alla mafia non si fa con le manifestazioni, con i cortei, con le celebrazioni… la mafia, fuori e dentro lo Stato, si combatte chiedendo Verità e Giustizia, costruendo una memoria storica collettiva basata sui fatti non sui racconti.
Ed è proprio a coloro che hanno il coraggio di lottare, che non vogliono dimenticare e non si stancano di essere “eretici” che vanno i ringraziamenti di Aaron Pettinari a margine del libro. Persone che ci sono, che operano ogni giorno, su tutto il territorio nazionale e non solo in Sicilia Calabria e Campania, persone ai margini della società e troppo spesso marginalizzate dalla stessa.

Nel libro L’inganno della mafia. Quando i criminali diventano eroi, Nicola Gratteri e Antonio Nicaso analizzano a fondo il processo di legittimazione di cui sempre «hanno goduto in Italia mafia, ‘ndrangheta e camorra; una legittimazione che ne spiega il successo più di ogni altra cosa». Se le mafie durano da due secoli «ciò vuol dire che esse non hanno rappresentato un potere alternativo e contrapposto a quello ufficiale, ma un potere relazionato ad esso». Relazioni che Antonio Belnome, ex affiliato alla ‘ndrangheta, chiama «gemellaggi con lo Stato».

Non si può certo dire che il dibattito sulla mafia oggi sia un tema trascurato nella discussione pubblica, ma resta il problema di come se ne parla. Perlopiù con «l’immagine stereotipata e romanzata della mafia», descritta come una «piovra invincibile» contro cui si oppongono “eroi” che possono essere indistintamente magistrati, poliziotti, giornalisti, persone comuni ma che restano sempre dei “lupi solitari” «destinati a soccombere». In molti sostengono che lo spettacolo è altro rispetto all’educazione, all’istruzione e all’informazione, «ma non si può certo ignorare che la spettacolarizzazione del mondo criminale rischia di essere molto pericolosa». Soprattutto in quei film e serie tv dove lo Stato e la società civile sono praticamente del tutto assenti ed esistono solo le lotte intestine all’interno dei clan per decretare di volta in volta il boss più grande, feroce, ricco e potente… una visione distorta e contorta che finisce per creare negli spettatori il desiderio di emulazione addirittura. Come accade anche, ad esempio, per i videogiochi di mafia che sono sempre i più richiesti e venduti. Un problema vero che diventa gioco e spettacolo e uno Stato che letteralmente scompare.

E così, paradossalmente, le stesse persone che sono appassionate di una serie tv o di un film di mafia, si disinteressano completamente, per esempio, del processo durato sei anni sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto concretizzarsi poche settimane fa la sentenza di condanna in primo grado e, incredibilmente, la notizia sembra non aver scosso né toccato che una ristretta parte di cittadinanza italiana.

In tantissimi sui social e nella Rete hanno calorosamente mostrato la loro solidarietà a Roberto Saviano laddove si profilava l’eventualità di eliminare la scorta che lo segue da anni ormai. Saviano notissimo al grande pubblico anche perché autore di una delle serie televisive di cui sopra. È bene precisare che chi scrive non chiede e non vuole che venga tolta la scorta a Saviano, piuttosto che sia data a tutti coloro che a vario titolo combattono le mafie. L’esempio è stato riportato solo perché appare paradossale che le medesime persone che si sono così infervorate per quanto potenzialmente potrebbe accadere al giornalista sceneggiatore non hanno pressoché battuto ciglio per la sentenza di primo grado nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia che ha visto condannati il 20 aprile 2018:

Bagarella Leoluca e Cinà Antonino
De Donno Giuseppe, Mori Mario e Subrani Antonio
Dell’Utri Marcello
Ciancimino Massimo

Uomini dello Stato e uomini di Mafia colpevoli.

Appare inoltre paradossale che la sospensione della scorta all’ex magistrato Antonio Ingroia, già deliberata dal governo Gentiloni e attuata nel maggio 2018, non abbia ricevuto pressoché alcuna eco mediatica. Per certo la notizia non ha destato il clamore dell’ipotesi di sospensione a quella di Roberto Saviano.

È evidente che c’è una abominevole distorsione nella percezione mediatica delle informazioni da parte del pubblico. Altrimenti non si potrebbe spiegare il motivo per cui a coloro a cui sta tanto a cuore la sicurezza del giornalista Roberto Saviano perché impegnato contro la mafia non interessa affatto o interessa poco la sorte dell’ex magistrato Antonio Ingroia sempre impegnato nella lotta alle mafie come anche nel processo sulla Trattativa.

Una trattativa tra lo Stato e la mafia che spesso, troppo spesso si preferisce ignorare quando proprio non negare nell’informazione e, di conseguenza, nell’immaginario collettivo. Quasi si desiderasse non far mai rientrare nella formazione della memoria storica del Paese.

Ed ecco che ritornano le immagini dei funerali degli agenti della scorta del giudice Paolo Borsellino, allorquando dal pubblico si alzavano cori di protesta contro le autorità presenti, tra cui il neopresidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro costretto a lasciare la chiesa scortato e spintonato. “Assassini” veniva urlato e ancora “Fuori la mafia dalla Stato”.

Il fuoco amico di cui parla Salvatore Borsellino.

Eppure ci sono coloro che nel giornalismo, nella televisione, nel cinema e, sopratutto, nella magistratura hanno scelto di continuare a urlare queste parole. A loro però spesso viene riservato un trattamento tutt’altro che piacevole e facilmente diventano esibizionisti, paranoici, complottisti, megalomani. Questo quando non sono o non si riesce proprio a isolarli o ignorarli del tutto.

Nel 2014 Sabina Guzzanti gira il docu-film LaTrattativa nel quale, seguendo i fatti e le testimonianze si cerca di ricostruire quanto accaduto. Nel maggio 2018 Corsiero Editore insieme ad Antimafiaduemila pubblicano il libro di Saverio Lodato Avanti Mafia! Perché le mafie hanno vinto che raccoglie tutti gli articoli scritti dal giornalista durante i sei anni del processo sulla Trattativa. Anni caratterizzati da «un silenzio diffuso, assordante, interrotto soltanto da alcuni giornalisti», come sottolinea il pubblico ministero Nino di Matteo intervenuto alla presentazione del libro a Palermo il 12 giugno scorso.

Lo stesso inquietante silenzio e il medesimo scarso interesse da parte del pubblico, ovvero dei cittadini italiani, mostrato per il processo Aemilia. Il maxi-processo per mafia del Nord Italia dove oggi si sperimenta quanto accaduto nel Sud Italia del secolo scorso, semplicemente l’esistenza della mafia si preferisce negarla, fingere di non vederla. Eppure sono tanti anni ormai che un all’inizio gruppo di liceali ne parla, ne scrive, ne denuncia. Sono i ragazzi di Corto Circuito capitanati da Elia Minari. Inchieste raccolte anche nel libro Guardare la mafia negli occhi.

Il titolo del libro di Elia Minari è molto illuminante perché è proprio questo che bisognerebbe fare: guardare la mafia negli occhi. E non limitarsi alle immagini stereotipate che di essa sono pieni i giornali, i telegiornali, i film e le serie tv. La mafia dentro e fuori lo Stato. Quella mafia che ha deciso la morte dei giudici Falcone e Borsellino, degli uomini e delle donne delle loro scorte, di tutte le persone a Roma, Bologna, Firenze e di tutti coloro che sono caduti perché divenuti intralcio al potere o ostacolo al “gemellaggio con lo Stato”. In nome di questo orrendo sistema tante vite sono state spezzate, tanti crimini atroci commessi, tanti diritti cancellati, tanta parte di territorio devastata… e c’è stato chi per rimorso o convenienza alla fine ha ceduto, si è pentito e ha raccontato. Ma ciò che fa davvero rabbrividire è che si è trattato sempre e solo di “uomini d’onore”, di quella parte di mafia operante fuori dallo Stato. Dall’altra parte invece mai nessuno ha ceduto, ha tentennato, ha parlato, si è pentito o ha denunciato. Mai. E, riprendendo le parole di Nino di Matteo, è doveroso sottolineare che «non potrà mai dirsi archiviata la stagione delle stragi fino a quando non si sarà fatta chiarezza sulle collusioni ad alto livello».

Solo quando si riuscirà realmente a tirare “fuori la mafia dallo Stato” si potrà allora pensare di combattere quella che agisce fuori da esso. Fino a quel momento le dichiarazioni, le celebrazioni, le manifestazioni a cui parteciperà lo Stato e i suoi rappresentanti avranno sempre il sapore amaro dell’ipocrisia e della finzione. Purtroppo.


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“Il linguaggio mafioso. Scritto, parlato, non detto” di Giuseppe Paternostro (AutAut Edizioni, 2017)

02 venerdì Feb 2018

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AutAutEdizioni, GiuseppePaternostro, Illinguaggiomafioso, mafia, recensione, saggio

Un saggio, Il linguaggio mafioso di Giuseppe Paternostro, che lo stesso autore definisce non scientifico ma divulgativo, nella accezione più alta, ovvero quella «di diffondere una conoscenza al più vasto pubblico possibile».

Un libro che racconta «storie di mafia e di antimafia» ma che, soprattutto, narra degli uomini di mafia chiamandoli, finalmente, come andrebbero sempre appellati: «uomini del disonore». Altro che “onore” e “rispetto”.

Gli strumenti utilizzati da Paternostro per analizzare il fenomeno mafioso sono quelli a lui più consoni, per vocazione e professione. Sociolinguistica, linguistica testuale e pragmatica della comunicazione, «in grado di far luce sulle componenti essenziali della comunicazione umana». L’intera analisi portata avanti dall’autore non perde mai di vista il “vizio” all’origine di un esame di questo tipo, ovvero il fatto che entrambe le comunicazioni mafiose (interna ed esterna) e relativi sottogruppi non sono mai o quasi spontanee, falsate da quello che in realtà gli attori vogliono sia inteso o interpretato.

Il fine prefissosi da Paternostro sembra essere stato raggiunto ottimamente. «Esiste un linguaggio mafioso o piuttosto un linguaggio dei mafiosi o della mafia?», si chiede l’autore cercando le dovute risposte. Il linguaggio esiste come il gruppo che lo definisce e la società che sembra assimilarlo sempre più. Anche per ciò l’autore sottolinea l’importanza di dare più peso «alle questioni legate al rapporto fra usi linguistici e contesto rispetto alle strutture linguistiche in sé». Tenendo sempre presente l’evoluzione costante della mafia come del suo linguaggio.

Un saggio interessante, Il linguaggio mafioso di Giuseppe Paternostro, pensato e scritto davvero per essere quanto più divulgativo e accessibile possibile.

Un libro che indaga un fenomeno, quello mafioso, attraverso il suo linguaggio anche perché necessario, visto che ancora oggi una grandissima parte dell’opinione pubblica «ha una percezione distorta» di esso, legata spesso «alla rappresentazione che di esso hanno dato», media cinema e tv in primis ma anche libri videogame e via discorrendo fino ad arrivare alla percezione di sé che trasmettono gli stessi attori e agenti afferenti ai vari clan.

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“Veleno nelle gole” di Simona Barba e Gisella Orsini (Riccardo Condò Editore, 2016)

09 martedì Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GisellaOrsini, mafia, paura, racconto, recensione, RiccardoCondoEditore, SimonaBarba, Velenonellegole

Anni ’70. Un incidente nello stabilimento industriale dove lavora come chimico e altri avvenimenti drammatici travolgeranno la vita di Lorenzo, che non riuscirà più a placare il suo bisogno di giustizia e di conoscenza. Una verità scomoda lo porterà a scontrarsi con la complicità silente di una cittadinanza che, di fronte al rischio della perdita di lavoro, sceglierà di rinunciare persino alla salute. Una lunga lotta contro un mondo avviato verso lo sviluppo a tutti i costi…

Un tuffo nel passato, un salto indietro nel tempo di quasi cinquant’anni per presentare al lettore uno spaccato dell’Italia in pieno boom economico, nel clou di quello che veniva indicato come un vero e proprio miracolo in un Paese da poco uscito devastato da ben due conflitti mondiali e in piena ripresa… almeno così si credeva. C’è sempre un prezzo da pagare, per tutto, e quello che simbolicamente hanno pagato i protagonisti della fiction nata dalla fantasia di Simona Barba e Gisella Orsini corrisponde a quello pagato realmente da tutti gli italiani.

Pubblicato nel 2016 con Riccardo Condò Editore, Veleno nelle gole è un libro che, se letto nella giusta prospettiva, fa letteralmente mancare il respiro in chi legge perché, se è vero che la storia è di pura fantasia, sappiamo anche che la realtà troppo spesso la supera questa fantasia. Purtroppo.

Veleno nelle gole è un testo breve con una scrittura lenta, cadenzata sui ritmi di piccole comunità, il cui tempo è scandito dalle sirene della fabbrica, dal suono delle campane, dal peso dei ricordi e dalle incertezze per il futuro. Un libro la cui storia è fiction, frutto della fantasia delle autrici, ma il cui nudo realismo è una cartina tornasole indirizzata verso chi ancora finge di non sapere, di non capire e tenta di nascondere la verità, come polvere sotto il tappeto, come rifiuti nei campi, lungo gli argini dei fiumi, sotto i piloni dei ponti che creano le lunghe vie di comunicazione che hanno finito per far diventare gli angoli del nostro Paese non solo e non tanto più vicini, quanto, solamente, più uguali, simili, soprattutto nel male.

Un libro breve, Veleno nelle gole di Simona Barba e Gisella Orsini, ben scritto e interessante, carico di significati e risvolti interessanti. Un libro da leggere.

Simona Barba: nata a Pescara, ha compiuto studi classici e successivamente conseguito la Laurea in Architettura presso l’Università degli studi di Firenze. Iscritta all’Ordine degli Architetti di Pescara, impegnata nel settore automotive. Autrice di numerosi racconti brevi.

Gisella Orsini: Nata a Ginevra, ha conseguito la Laurea in Filosofia presso l’Università Gabriele d’Annunzio di Chieti. Atleta professionista per l’atletica leggera. Ha partecipato a varie esperienze di laboratori teatrali e seguito corsi di sceneggiatura.


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