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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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Virus Antropocene e Reincantamento del Mondo

30 domenica Mag 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AdrianoFavole, FrancescoRemotti, Ilmondocheavrete, MarcoAime, recensione, saggio, Utet

Partendo dalle misure straordinarie poste in essere dal governo italiano, come dai governanti di innumerevoli altri stati ormai, primo fra tutte il lockdown del 9 marzo 2020, gli autori conducono una dettagliata analisi dello stato attuale della società italiana. Un confronto con quei sistemi da sempre etichettati, troppo frettolosamente, primitivi. E uno sguardo al futuro che deve passare, senza nostalgia, da un passato più o meno recente ma sempre importante. Riflessioni che vogliono anche essere un monito per i giovani, gli unici sui quali si potrà veramente contare, nella speranza che trovino quanto prima la coesione e la consapevolezza necessarie. 

Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa ma continua ad avere una visione distorta del mondo. 

Sottolineano gli autori come una convivenza utile tra gli esseri umani sia in realtà possibile solo a patto di realizzare anche e in primo luogo una convivenza utile con la natura. Aspetto questo da sempre trascurato dall’Antropocentrismo imperante nella società dei civilizzati.

A parte il coprifuoco durante la seconda guerra mondiale, la società italiana non aveva mai avuto esperienza diretta di provvedimenti così drastici e restrittivi come una chiusura totale. Per noi le chiusure o sospensioni sono abitualmente ascrivibili a periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… in sintesi sono una pausa, uno stand by dalla routine. In genere atteso, gradito e piacevole.

L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli Ebrei sono “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà (la terra, la foresta, …) da cui gli esseri umani ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza il lavoro degli uomini. 

Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile. 

Ciò che manca alla nostra civiltà, ci ricordano gli autori, è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita “il male dell’infinito”, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. 

Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno loro vedere la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura. 

Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti.

Remotti non esclude la possibilità di acquisire una visione critica e lungimirante, ma in mancanza di un’autentica sospensione culturale non è detto che alla visione critica faccia seguito una corrispondente azione modificante. Il lockdown è un arresto non voluto, non programmato. Un arresto dal quale si ha solo fretta di uscire per ritornare quanto prima alla normalità. 

Virus e confinamenti hanno una lunga storia nell’umanità, anche recente. Basti pensare all’Aids, all’ebola o all’epidemia di morbillo del 2019. Favole sottolinea le particolarità di Sars-Cov-2, le quali sono di essersi diffuso globalmente con una velocità straordinaria ma, soprattutto, di aver sovvertito un diffuso immaginario che lega epidemie a povertà. 

Il coronavirus ha fatto irruzione in un mondo che si riteneva immune da questo tipo di attacchi. Il mondo occidentale, convinto di appartenere a una modernità potente ed efficace contro le malattie epidemiche, è stato costretto a una rapida contrazione degli spazi. 

Quanto però, si chiede l’autore, la sospensione da coronavirus ci ha fatto riflettere davvero su come eravamo e su come vorremmo essere in futuro.

Proprio questo virus, che dovrebbe farci sentire anche biologicamente appartenenti a una comune umanità, ha invece ravvivato il focolaio delle politiche nazionaliste e sovraniste. 

Il senso di impotenza che tutti abbiamo provato dopo le prime chiusure è, nella dettagliata ricostruzione fatta da Favole, lo stesso che tanti esseri umani provavano ben prima dell’arrivo del coronavirus, davanti ai mille confini reali e simbolici che li separavano dalle mete desiderate. Perché la verità è che mentre noi occidentali, per decenni, abbiamo teorizzato le meraviglie e l’incanto di un mondo aperto e globalizzato, altre umanità sono vissute in un perpetuo confinamento. 

E, senza dover guardare neanche troppo lontano, nei giorni più bui, mentre i reparti di rianimazione si saturavano tutti ci siamo chiesti chi avrebbe avuto, prima di altri, il diritto a salvarsi. 

Questo perché la condivisione, la solidarietà, il legame sociale non sono mai definitivamente garantiti nelle faccende umane. 

Il lockdown ci ha fatto riflettere sul fatto che una società immaginata come un insieme di individui isolati, ciascuno dei quali alla ricerca spasmodica del proprio interesse personale, è un’aberrazione e non un ideale a cui tendere. 

I lunghi mesi di lockdown hanno confermato appieno quello che gli studiosi di antropologia definiscono reincantamento del mondo, un ritorno alla religiosità anche nelle sue forme integraliste e intolleranti, un diniego del mito della società secolarizzata che ha pervaso le generazioni degli anni Sessanta e Settanta. 

Credenze, riti, utopie, religioni, leader carismatici, leggende metropolitane… affollano una modernità che non si rappresenta più come “secolarizzata”. In questo quadro Favole colloca anche la rivalutazione dei riti collettivi. 

Il coronavirus, nei momenti di massima aggressività, impedisce anche la celebrazione dei riti funebri. 

Chi avrebbe mai pensato che in Italia – e in molte altre parti del mondo globalizzato – potesse accadere una cosa del genere nel XXI secolo?

Eppure per l’autore non si tratta di un qualcosa di davvero così imprevisto e imprevedibile. I riti impossibili e i corpi scomparsi dell’11 settembre, così come i morti senza volto del Mediterraneo, avrebbero dovuto dare una prima scossa, un avvertimento potente a una contemporaneità accecata e avviluppata nella sua bolla di benessere, circondata da povertà e disperazione crescenti. 

Ed ecco che Favole di nuovo si chiede se i riti di emergenza della Covid-19 lasceranno tracce nell’umanità del futuro.

L’impressione però è che, ancora una volta, la modernità consista nella fretta di archiviare e rimuovere la memoria traumatica, tornando alle spiagge e ai centri commerciali.

Forse, come evidenziano gli studi di Giovanni Gugg, siamo incapaci di “tornare al futuro”, cioè incapaci di immaginarci diversi, costruendo creativamente un futuro a partire da una memoria “buona” – e non identitaria – del passato.

E forse questa fretta di ritornare alla normalità è motivata anche da un altro tipo di paura, magari inconscia. Il confinamento è una pianta robusta dalle radici profonde che, spesso, è stata nutrita, più che da timori e paure di virus, da operazioni di natura politica. Senza neanche girarci troppo intorno, sono stati diversi gli intellettuali che in questi mesi ci hanno messo in guardia contro il pericolo che il virus diventasse un pretesto per una riduzione delle libertà ben oltre la pandemia. Per ragioni politiche, l’emergenza rischia spesso di divenire quotidianità. Per contro, la “liberazione” dai confinamenti non può e non deve essere motivata da mere ragioni economiche, a scapito della salute dei cittadini. 

Letto nei termini della crescita economica, lo sviluppo non è altro che l’espansione planetaria del sistema di mercato. Il problema, nell’analisi di Marco Aime, non sta solo nella semplice adozione indiscriminata di tale modello, ma nel pensarlo come naturale, ineluttabile, quasi un destino cui è impossibile sfuggire. 

Un esempio di come l’idea di sviluppo si avvicini più a una fede che all’espressione di una presunta razionalità è dato dal fatto che, nonostante i ripetuti fallimenti, la crescita delle diseguaglianze e la sempre più evidente crisi ambientale, si continua imperterriti nella stessa direzione. 

L’obiettivo di elevare tutti gli esseri umani al tenore di vita degli occidentali è, conclude Aime, materialmente irrealizzabile. Eppure, per sostenere la fede nell’inevitabilità del progresso, inteso come aumento di produzione e accumulo di beni, occorre fare “come se” tutto ciò fosse possibile.

Lo stesso Gandhi sembrava essere giunto a conclusioni simili allorquando affermava che il mondo non può sopportare che l’India diventi come l’Inghilterra. 

Aime invita a osservare con sguardo critico le più importanti rivoluzioni dell’epoca moderna. Si noterà allora che, nella maggior parte dei casi, lo sforzo più incidente è stato nel distruggere l’esistente più che nel progettare un futuro vero e proprio. Si impone dunque una nuova prospettiva che, per essere realizzata, necessita di due elementi: il primo è una nuova visione del futuro, un progetto che guardi avanti e non solo all’orizzonte ristretto del domani; il secondo è una presa di coscienza collettiva di fare parte di una specie in pericolo. 

La pandemia ha nesso a nudo l’estrema fragilità del nostro sistema: pochi mesi di chiusura e di rallentamento lo hanno messo in ginocchio. E questo, per Aime, è segno evidente del fatto che non siamo stati capaci di prevedere un domani incerto, che non abbiamo scorte di alcun tipo, nessun ammortizzatore. Abbiamo costruito un sistema fondato sull’oggi. E allora bisogna chiedersi quale domani potrà mai esserci per una società che non pensa al futuro.

La politica con tutti i suoi partiti viene direttamente chiamata in causa per la sua pressoché totale mancanza di prospettive e di progetti di ampio respiro.

Senza un progetto futuro e neppure una chiara conoscenza del passato, ci si affida a qualcosa di atavico, che si perde nella nebbia dei tempi, una sorta di mito fondante: l’identità, corroborata dalla confortante metafora delle radici e del primato autoctono. 

Resi ciechi dal cono d’ombra creato da questa corsa inarrestabile, abbiamo smesso di pensare a quale sia il traguardo e quale il senso della nostra corsa. Ecco perché gli autori ritengono necessario sviluppare una cultura nuova sull‘Antropocene e a farlo dovranno essere i giovani, spetta loro infatti l’arduo compito di cambiare la rotta. 

Luciano Gallino ha messo in luce come, nella nostra epoca, sembrino scomparse le classi sociali che avevano caratterizzato la politica e la società del Novecento, ma in realtà a venire meno è stata soprattutto la coscienza di classe, la percezione di appartenere a una comunità di intenti, fondata su una base comune. 

I giovani che si sono mobilitati seguendo Greta Thunberg, oppure il movimento delle Sardine sono esempi, seppur circoscritti, di mobilitazioni che hanno auspicato e messo in atto azioni di mobilitazione e protesta “dal basso” ed entro una classe prevalentemente giovanile, contro il dilagare del linguaggio d’odio. Ed è da essi che, per Aime, bisogna partire o ripartire. Perché in una crisi di pensiero, come quella che attraversa il presente, l’unica soluzione è ricominciare a pensare al futuro, che sia però un domani comune. 

Bibliografia di riferimento

Marco Aime, Adriano Favole, Francesco Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020

Gli autori

Marco Aime: professore di Antropologia culturale all’Università di Genova.

Adriano Favole: insegna Cultura e potere e Antropologia culturale presso il Dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino.

Francesco Remotti: professore emerito all’Università di Torino, socio dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. 

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Utet per la disponibilità e il materiale

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Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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Articolo disponibile anche qui

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LEGGI ANCHE

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale “. “Teoria dal Sud del mondo” di Comaroff e Comaroff (Rosenberg&Sellier, 2019)

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità

07 martedì Lug 2020

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ClassificareSeparareEscludere, Einaudi, MarcoAime, recensione, saggio

«È triste, in un terzo millennio già avanzato, doversi ancora occupare di razzismo.»

È con questa significativa frase che si apre al lettore il saggio di Marco Aime. Un libro che approccia il problema da differenti angolazioni, non da ultimo quella storica. È importante comprendere e analizzare, almeno cercare di farlo, perché in epoche diverse e in luoghi differenti sorgano sentimenti di repulsione verso certi gruppi e, soprattutto, come mai tali pulsioni possano trasformarsi in eventi tragici di esclusione, reclusione e anche di morte.

Aime ricorda che, escludendo la sua variante istituzionale – basata su leggi esplicitamente discriminatorie ̶ , e gli eccidi commessi in suo nome, molto spesso il razzismo si presenta come un atteggiamento strisciante, fatto di piccoli gesti, troppo spesso sottovalutati, e di sentimenti diffusi che finiscono talvolta per gettare le basi di un vero e proprio sistema.

Oggi sembra muoversi lungo il labile confine che lo separa dall’etnocentrismo, malattia diffusa che colpisce ogni gruppo umano, facendolo sentire superiore agli altri.

Riporta l’autore la definizione datane da William Graham Summer nel 1906: Etnocentrismo è il termine tecnico che designa una concezione per la quale il proprio gruppo è considerato il centro di ogni cosa, e tutti gli altri sono classificati e valutati in rapporto a esso.

Il razzismo infatti, per Aime, nasce dalla non volontà di conoscere e dall’ansia di classificare, di incasellare, ma di farlo nel modo più semplice e rassicurante, così come classifichiamo piante, animale, rocce. Un apartheid preventivo insomma, che ci allontana senza conoscerci e allo stesso tempo ci fa sentire vicini e simili, altrettanto senza conoscerci.

Oggi ci ritroviamo a dover fare i conti con alcune delle mille sfaccettature del razzismo, declinato in chiave identitaria. Sembrava impossibile che si potesse ritornare a quei deliri eppure sono bastati pochi decenni per assistere a un rifiorire di idee di stampo razzista, espresse in forme diverse ma sempre basate sullo stesso principio: la difesa ossessiva di una presunta purezza del Noi.

Un pregiudizio snobistico e autoreferenziale che sembra davvero essere una debolezza umana universale, evidenziata anche da Claude Lévi-Strauss.

«L’umanità cessa alla frontiera della tribù, del gruppo linguistico, talvolta persino del villaggio, a tal punto che molte popolazioni cosiddette primitive si autodesignano con un nome che significa gli “uomini” (o talvolta – con maggiore discrezione, diremmo – “i buoni”, “gli eccellenti”, “i completi”), sottintendendo così che le altre tribù, gli altri gruppi o villaggi, non partecipino delle virtù – o magari della natura – umane, ma siano tutt’al più composti di “cattivi”, di “malvagi”, di “scimmie terrestri” o di “pidocchi”.»

Le narrazioni sulla razza tentano di radicare la cultura nella natura e di equiparare i gruppi sociali con le unità biologiche. Essenzializzando sul piano somatico-biologico il diverso, l’Altro, ricorda Aime, si giunge a definire i puri (ovvero Noi) e gli impuri (Loro). Ed è nel momento stesso in cui differenze che potevano essere considerate culturali, religiose, etniche vengono percepite come innate e immutabili che inizia il razzismo vero e proprio.

Riprendendo i concetti espressi da Bruce Baum, Aime sottolinea come l’idea stessa di razza contenga già i germi del razzismo. Infatti la classificazione su base razziale, per esempio, non è che un’applicazione sistematica dell’etnocentrismo a tutta la specie umana. E, citando Karen e Barbara Fields, evidenzia come quella della razza sia a tutti gli effetti un’ideologia la quale, al pari di ogni altri ideologia, non ha vita propria. Se la razza sopravvive ancor oggi non è perché ci è stata tramandata o perché l’abbiamo ereditata, bensì perché continuiamo a crearla. E il tutto continua a essere coltivato anche sulla base di contraddizioni e ipocrisie, proprio come accaduto in passato.

Interessante ed emblematico l’esempio, riportato nel testo dall’autore, inerente la Dichiarazione d’Indipendenza americana nella quale si legge: We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal (Noi riteniamo per certo che queste verità siano di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono creati uguali). Bellissime parole. Scritte e sottoscritte da persone che, con ogni probabilità, possedevano schiavi neri.

Oggi però il razzismo non si presenta sotto la forma di un’ideologia esplicita e definita, espressa in tesi facilmente condannabili. Il nuovo razzismo si è riformulato sul piano della differenza culturale e, aggirando così il vecchio biologismo, opera con o senza riferimento alla razza nel senso stretto del termine. Aime descrive nel dettaglio come esso, pur non basandosi più sulla razza, in realtà utilizza lo stesso atteggiamento rispetto alle differenze, mirato a svalorizzare l’altro. Questo neorazzismo fonda le proprie spiegazioni nella storia e nella cultura invece che nella biologia e, a volte, si maschera da nazionalismo o da sovranismo.

La nostra infatti è un’epoca postrazziale (ma non postrazzista), caratterizzata da nuove dinamiche di inclusione e di esclusione che si reggono non solo sui segni tangibili e visibili, come il colore della pelle, ma anche e soprattutto sulla cultura e sulla provenienza.

Ecco allora che un termine è rapidamente diventato leit motiv ed espressione chiave delle retoriche politiche postmoderne: identità.

A contribuire alla fortuna delle proposte identitarie sono concorsi diversi fattori tra cui il progressivo decentramento delle produzioni industriali, il passaggio da un modello capitalistico fondato sul lavoro a un’economia sempre più incentrata sulla finanza, la precarizzazione del lavoro, l’erosione progressiva dei servizi e del welfare… in breve, tutto quello che ha contribuito alla nascita di quella che Zygmunt Bauman ha definito società liquida e gravida di incertezze.

Fattori tutti che hanno ingenerato ansia e paure, portando a vedere minacce derivanti da una globalizzazione che vorrebbe omologare tutti attaccando cultura e identità locali.

La crisi economica e la sempre più snervante competizione sul mercato del lavoro offrono un terreno quanto mai fertile ai populisti, che tentano di incanalare rabbie, angosce, frustrazioni lungo la strada della xenofobia e dell’esclusione.

Atteggiamenti e prese di posizione che a volte, purtroppo, vengono sfruttate anche dagli stessi Stati i quali, depauperati della loro tradizionale sovranità, temono di dover prima o poi ammettere debolezze e limitazioni e, motivati dalla volontà di celare l’inganno e proseguire nella finzione, assumono atteggiamenti repressivi nei confronti di coloro che intaccano potenzialmente ma inevitabilmente questa finzione: gli stranieri, gli esclusi.

Aime ricorda al lettore come il pensiero di Stato abbia talmente condizionati i cittadini al punto da far ritenere davvero “loro” il territorio nazionale. Le nuove circolazioni internazionali stanno invece mettendo in crisi tale pensiero, togliendo il velo di ipocrisia che esista un territorio abitato da gente identica. La verità è che oggi, come in passato, il pianeta è costellato da diversi insiemi di quelli che Mbembe definisce territorio mosaico e l’appartenenza a una nazione non è più solo una questione di origine, ma anche di scelta.

Una cosa che accomuna oggi gran parte degli elettori è la rabbia e il risentimento contro chi governa o ha governato fino a ieri. Un qualcosa che a Marco Aime ricorda i rituali di ribellione, ovvero le manifestazioni collettive in cui i rappresentanti dell’autorità e del potere possono essere oggetto di schermo e di irriverenza, ma solo nei termini e nel contesto specifico del rituale. Una sorta di ribellione ritualizzata, come l’ha descritta, dopo averla studiata in Africa meridionale, Max Gluckman.

Il cittadino postmoderno è sempre più solo e solitario e pervaso da un senso di rabbia crescente e indistinta, che non riesce più a tradursi in proposta politica. Allora si limita a chiedere ciò a cui pensa di avere diritto in un modo sempre più incontrollabile, e il colpevole di ogni perdita diventa chi tale mondo ha governato fino al giorno prima: l’élite, la casta o la politica in generale. I populisti non hanno un vero progetto per risolvere i problemi, ma sono in grado di intercettare e fare proprio quell’immaginario rancoroso, che cerca una sorta di vendetta.

Il sentimento politico si trasforma in rancore e il voto diventa il rifugio del disagio e delle pretese privatistiche. In buona sostanza, uno sfogo più che una scelta.

Senza una progettualità vera e propria la politica si ribella a se stessa ma lo fa con un cambiamento apparente. Ecco allora che Aime vede il nesso con i rituali di ribellione. Il sentimento è diventato risentimento. Ciascuno esprime la propria scelta, spesso rabbiosa, senza però inquadrarla in un qualsivoglia orizzonte futuro.

Queste paure, queste solitudini, questo risentimento, avverte l’autore, sono il brodo di coltura di cui si nutrono i diversi movimenti xenofobi che stanno raccogliendo più consensi in tutto il mondo occidentale, presentandosi come l’antipolitica nel momento in cui occupano tutti gli spazi della politica.

E, ancora una volta, lo si fa sulla base di un grande paradosso: i nemici, causa di tutti i mali, sono l’Europa, intesa come Unione Europea e, al contempo, coloro che ne sono chiamati fuori, gli extracomunitari, ovvero i non europei.

C’è senz’altro del vero nelle parole di George David Aiken: se dovessimo svegliarci una mattina e scoprire che tutti sono della stessa razza, credo e colore, troveremo qualche altra causa di pregiudizio entro mezzogiorno. Perché, come sottolineava Umberto Eco, avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro.

Quando consideriamo diverso l’Altro è perché lo misuriamo sul nostro metro ed è qui che nascono i problemi. Abbiamo tutti bisogno, sottolinea Aime, di uno specchio che non rifletta l’immagine di noi stessi, ma quella di colui o coloro da cui vogliamo distinguerci.

I giovani identitari si ritagliano addosso un abito da guerriero Come i loro padri cinquant’anni prima, mettono in discussione chi li ha preceduti ma non per chiedere pace, libertà, uguaglianza e diritti per tutti, al contrario, per limitarli a loro stessi, esponenti bianchi nati in Europa.

Il mito dell’identità ha il vantaggio di presentarsi come nuovo, senza il peso della storia e senza il carico negativo che il razzismo si porta dietro. Ma è ben noto dove porta l’anelito alla “purezza” della razza o, in questo caso, della cultura. Eppure, sottolinea con rammarico Aime, oggi sembra che i termini “fascista” o “razzista” stiano perdendo sempre più la loro carica di stigmatizzazione e quasi non ci si vergogna di proclamarsi, anche pubblicamente, tale. Nella quasi totale indifferenza o rassegnazione.

«Non temo le urla dei violenti, ma il silenzio degli onesti.»

Martin Luther King

A margine dell’analisi di questo straordinario saggio mi sia consentita una breve nota. Nei ringraziamenti Marco Aime elenca tra i suoi “maestri” Vanessa Maher. Nel leggerlo tanti sentimenti sono riemersi, all’improvviso. Mia docente per la seconda annualità del corso di antropologia culturale e relativo esame ho avuto modo di vedere, e ricordare, la preparazione, la dedizione, la serietà… l’incarnazione della grandezza e della potenza della Cultura, quella vera che non ha bisogno e non cerca nemici, che vuole abbatterli i muri invece di costruirli, che vuole capire e non giudicare. La Cultura vera che si basa sulla Conoscenza e non il suo falso alter ego basato su pregiudizio, ignoranza e arroganza.

Bibliografia di riferimento

Marco Aime, Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2020


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa Einaudi per la disponibilità e il materiale


Disclosure: per la prima immagine, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale 

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Boringhieri, 2019) 

La questione migranti non può risolversi in mare, lì bisogna solo salvare vite. “Immigrazione. Cambiare tutto” di Stefano Allievi (Editori Laterza, 2018) 

“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016) 

Perché abbiamo lasciato che ‘i nostri simili’ diventassero semplicemente ‘altri’? “Somiglianze. Una via per la convivenza” di Francesco Remotti (Editori Laterza, 2019) 

Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018) 

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 


 

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