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Irma Loredana Galgano

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“Resti tra noi. Etnografia di un manicomio criminale” di Luigigiovanni Quarta (Meltemi, 2019)

29 domenica Set 2019

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LuigigiovanniQuarta, Meltemi, recensione, Restitranoi, saggio

Hieronymus Bosch, La nave dei folli (1490-1500)

Il 31 marzo 2015 è entrata in vigore la Legge 81/2014 che ha sancito la definitiva chiusura dei rimanenti sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) ancora attivi in Italia. La medesima Legge stabilisce il nuovo assetto assistenziale prevedendo la messa in funzione di strutture alternative, chiamate REMS (Residenze per Emissione delle Misure di Sicurezza). Cambio di nome ma, sopratutto, inversione di rotta. Le parole chiave ora dovrebbero essere approccio curativo-riabilitativo.
Il condizionale però in questi casi rimane quasi un obbligo.

In un lungo e articolato contributo per rivistadipsichiatria.it si può leggere un’analisi, dettagliata e articolata, delle principali obiezioni e criticità inerenti le modifiche apportate dalla nuova Legge e l’istituzione delle REMS.
– Mancata riforma del Codice penale.
– Equazione ritenuta non corretta tra infermità mentale, malattia mentale e pericolosità sociale.
– Ritardi nella costruzione delle REMS e ricorso a strutture residenziali alternative.
– Confini incerti della responsabilità professionale del personale incaricato.

L’opinione diffusa riguardo gli OPG è ben nota a tutti, frastagliata di scandali, abusi, violenze, recriminazioni, denunce… E la si potrebbe agevolmente sintetizzare nelle parole del presidente emerito Giorgio Napolitano “autentico orrore indegno di un paese appena civile“.
Eppure c’è stato chi, a ridosso della chiusura degli OPG, vi è voluto entrare e restarci quanto più tempo possibile gli occorreva per capire, studiare, analizzare, guardare, osservare, vedere, ascoltare… per cercare altro oltre agli scandali, alle violenze, alle denunce, ai maltrattamenti. Nasce da questa idea la ricerca etnografica sul campo condotta da Luigigiovanni Quarta in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario italiano tra il 2014 e il 2015 e diventata il libro Resti tra noi edito da Meltemi con prefazione di Fabio Dei.
Una ricerca, quella condotta da Quarta, che lo ha portato non solo a conoscere quell’universo ma anche a interrogarsi sul ruolo da egli stesso ricoperto nel relazionarsi con quell’ambiente “chiuso” e, soprattutto, con chi vi è, o meglio vi era, residente o vi lavorava. Un luogo altrimenti isolato e dimenticato, come coloro che vi sono stati internati, dai più che con esso non hanno relazione alcuna, o pensano di non averne e di non doverne avere. Eppure l’esistenza stessa di simili istituzioni e persone dovrebbe portare ognuno a interrogarsi sull’umano essere, sul male e sulla incapacità o ridotta capacità di intendere e di volere. Sulle conseguenze e sui riflessi che tutto questo inevitabilmente ha sulla società che si staglia e si sviluppa intorno ad essi.

Non puoi vivere, lavorare, studiare, indagare aspetti e fenomeni delicati o criminali che coinvolgono le menti e la vita e illuderti che nulla cambi o si trasformi, intorno a te come dentro di te.
Nietsche in Al di là del bene e del male scriveva che “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà in te”.

Luigigiovanni Quarta ha scrutato a lungo l’abisso dell’OPG ma si è imposto di non focalizzare l’interesse solo sul buio, ha preferito seguire gli spiragli di luce, a volte esili altre più luminosi, per raccontare la sua visione di un’istituzione che potrebbe anche essere totale. In prima istanza, ha cercato di “seguire le regole” ma subito si è reso conto che non vi è regola scritta che regga in un universo così complesso e articolato dove alla fin fine, esattamente come per strada, a farla da padrone è sempre la regola non scritta del “potere” che in OPG coincide spesso con la negoziazione, con il saper ben interpretare segnali e simboli dei peculiari registri di comunicazione vigenti.
Ha voluto, Quarta, concentrarsi sull’umanità degli internati, spesso celata, occultata o addirittura dimentica. Perché in fondo, egli scrive, se lo scopo è trovare “la miseria umana, in un OPG è semplicissimo”.
Un’indagine, quella condotta sul campo da Quarta, che si basa fondamentalmente sull’osservazione diretta e sulla raccolta dei dati direttamente e limitatamente al campo di ricerca. Non avendo avuto l’autore il permesso di visionare la documentazione giudiziaria degli internati e avendo scelto di non accedere a quella sanitaria, tutto ciò che egli ha scritto riguardo le storie di vita è tratto da interviste o conversazioni con i diretti interessati. Falsata in qualche modo dalla possibile non totale attendibilità di alcuni racconti ma resa più autorevole proprio dall’assenza di intermediazione o pregiudizio dovuto alla conoscenza della pregressa storia di ognuno dei suoi interlocutori.

E, nonostante durante la sua ricerca Quarta abbia sempre cercato di vedere oltre la semplice apparenza – principio cardine di una degna ricerca etnografica sul campo – cercando l’umanità, la bellezza della vita comunque e la speranza, il male, o meglio i mali, di una struttura come l’OPG gli sono venuti tutti incontro. Non da ultimo il tempo che, in tali luoghi, si dilata a dismisura al punto da diventare “asfissiante nella sua immobilità”.
Riesce l’autore, in questo passaggio, a rendere quasi tangibile il peso del tempo, scandito da ritmi e regole, prigioniero anch’esso di uno spazio che appare sempre più limitato e scorre lento come i granelli di sabbia all’interno di una clessidra, a volte portandosi dietro intere vite, comunque già perdute forse, al pari della libertà.
Non che gli internati siano nel braccio della morte, avranno per certo un futuro, ma l’autore sottolinea lo scandire del tempo che sembra, e in un luogo come l’OPG lo è per davvero, monotono e infinito. Più che in una normale prigione. Perché è così che viene fisicamente e mentalmente percepito.

Un luogo, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, nel quale gli internati sono parsi essere identificati con la malattia attraverso un inesorabile processo di spoliazione, “una lenta e rituale sottrazione di ogni rappresentazione pregressa tramite la quale il soggetto poteva pensarsi e definirsi”. Il risultato è la sua “reificazione in una non-persona”. E assenza, mancanza sembrano essere proprio i termini che meglio definiscono questi luoghi, per Quarta. Luoghi che sono stati chiusi, smantellati, dimenticati e sostituiti. Ma delle persone che vi erano internate e delle loro vite cosa ne è poi stato?

Nell’aprile 2019 l’Osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS ( stopopg.it ) e Coordinamento REMS-DSM hanno condotto un’indagine, tramite questionario inviato a tutte le 31 REMS attive sul territorio italiano, per ottenere dati aggiornati sul loro funzionamento dall’apertura nel 2015 fino ad oggi ed effettuato numerose visite nelle strutture. Hanno risposto al questionario 24 delle 31 strutture interpellate.
Le persone transitate nelle REMS dalla data di apertura fino al marzo 2019 sono state complessivamente 1580, quelle dimesse 1029, mentre il totale dei re-ingressi è pari a 51 (ovvero il 3,2% dei transitati).
Risultano 90 Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), 80 contenzioni, 4 suicidi, 4 tentati suicidi, 202 aggressioni ad altri internati, 161 aggressioni ad operatori, 98 allontanamenti.
Il personale dedito alla vigilanza è quasi pari a quello “sociale”, espressione di “un’attenzione alla sicurezza ma anche di una possibile visione (ancora o di necessità) custodialistica”. Si conferma un “impianto forte che probabilmente potrebbe essere declinato in modo più funzionale alla cura e alla riabilitazione”.
La provenienza degli internati è prevalente dalla libertà (41,4%), a seguire dal carcere (39,7%).

Per gli operatori dell’Osservatorio, il rischio che “i vecchi contenitori manicomiali, gli OPG, siano sostituiti dalle Rems è enorme”, per questo monitorano costantemente la situazione, anche con visite dirette nelle strutture. Questa tipologia di istituti dovrebbe essere l’extrema ratio, come previsto anche dalla Legge 81/2014 e necessita un controllo costante affinché i diritti delle persone assistite siano tutelati, egual discorso vale per gli operatori, ai quali “non possono essere richieste funzioni di custodia ma solo di cura”. Bisogna sincerarsi non vi sia coercizione né segregazione.

Sottolinea Quarta nel testo che il corridoio della OPG viene da “alcuni chiamato reparto, da altri braccio”. Indicazione che ben rappresenta come gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari siano stati visti, percepiti e di cosa forse siano effettivamente stati: un’istituzione a cavallo tra un manicomio e un carcere. Con i difetti di entrambi. Ed è proprio questo che si vorrebbe non fossero o diventassero le REMS.
Parla, per esempio, Quarta degli “ergastoli bianchi”, della storia di persone entrate con una misura di sicurezza “che aveva una fantomatica durata temporale” e che, proroga dopo proroga, hanno trascorso la loro intera vita in “istituzioni detentive e di cura”.

Il registro narrativo utilizzato da Luigigiovanni Quarta in Resti tra noi pone lo stesso autore al centro della narrazione, con il suo “io” che racconta l’OPG attraverso se stesso. Si è trattata per certo di una scelta ardita ma è riuscito egualmente Quarta a non esprimere giudizi diretti o conclusioni affrettate invitando così, indirettamente e implicitamente, il lettore a fare altrettanto. Il suo scritto si rivela essere, in questo senso, una lettura “particolare” e un lettore poco attento o privo di nozioni, anche solo basilari di antropologia ed etnologia, potrebbe non riuscire a cogliere appieno la peculiarità e la forza del suo narrato. Ma questa non è necessariamente una critica al lavoro ottimo svolto da Quarta, il quale è riuscito a indagare a fondo il male e il malessere alla ricerca continua dell’umanità e della “vita” in grado di illuminare qualunque buio e di raccontare tutto questo in maniera incisiva e originale.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale


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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018)

15 lunedì Apr 2019

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flussimigratori, Iain Chambers, immigrazione, Meltemi, migranti, Paesaggimigratori, recensione, saggio

Analisi del testo di Iain Chambers, docente di Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo all’Orientale di Napoli, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, riedizione 2018 di Meltemi editore della edizione originale Migrancy, Culture, Identity, Routledge 1994.

Il saggio di Chambers è, a suo modo, provocatorio. Ma in senso positivo. È necessario, ora più che mai, liberarsi da stereotipi e luoghi comuni, guardare il mondo e, soprattutto, i suoi abitanti in maniera diversa, nuova e imparare a far parte dell’alterità. Una visione interna. Critica. Precisa. Obiettiva.
Osservare, studiare, valutare il fenomeno migratorio da dentro, dall’interno, come un qualcosa che appartiene al mondo, al nostro, quello di tutti e non solo come un “problema” che riguarda l’altro e il suo di mondo.

Iain Chambers sottolinea come i migranti siano letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una migliore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ben più ampia. “Pensare con la migrazione”, andare oltre la superficie fino alle «più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige il nostro mondo». Il razzismo, per esempio, non è una semplice patologia individuale o di gruppo, ma «una struttura di potere che continua a generare la gerarchizzazione del mondo».

Si assiste, ancora oggi, a una chiusura culturale che culmina nella «isteria socio-politica» generata dalla questione dell’immigrazione, accompagnata dalla difesa rigida di un’identità e di un «io» che «si rinchiude nella illusoria sicurezza di un luogo». Dinanzi alla minaccia immaginaria dello straniero e del mondo cosiddetto “esterno”, «che ormai “esterno” non è», questa «chiusura» sembra «ignorare i movimenti, spesso turbolenti e sconvolgenti, dei complessi processi storici e culturali del mondo attuale». Chambers, con l’analisi del fenomeno condotta in Paesaggi migratori, si dimostra molto ben intenzionato a promuovere un rapporto radicalmente diverso, nuovo e a tratti “inquietante” con la propria formazione storico-culturale.

I migranti, affermando il loro diritto di muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la «modalità precaria contemporanea della vita platenaria». È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi «viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico».
Il testo di Chambers, a quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, è ancora straordinariamente attuale ed estremamente indicativo della capacità di analisi dell’autore, il quale ha saputo descrivere il mondo di allora nonché la direzione, a volte troppo sbagliata, verso cui stava andando. E verso cui poi è effettivamente andato.

La nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di «rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza», ma anche e nella stessa misura «nella cruda repressione dell’alterità etnica, religiosa e culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei pogrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo». Quando l’immaginario dell’Occidente, per dirla con Edward Said, non sta più fisicamente altrove, «ai bordi di una cartina, ai margini di storia, cultura, sapere ed estetica», ma migra dalla periferia per «eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea», allora la nostra storia cambia, è costretta a farlo. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, ricorda al lettore Chambers, «riconosciamo di non essere più al centro del mondo». Incontrare gli altri si accompagna sempre a incertezza e paura. Nell’attraversare e andare oltre a un ruolo filosofico di conferma dell’ordine esistente, il migrante sfugge ai confini astratti predefiniti per lui e per lei. Non si tratta di un mero conflitto sociale o politico sul diritto di muoversi e migrare, ma anche di «una questione epistemologica».

Ciò che una volta era stato collocato fuori, oltre i confini del nostro mondo, è lì «confinato e spiegato da una gestione coloniale, il razzismo “scientifico” e la disciplina emergente dell’antropologia», ora non può più essere tenuto a distanza critica. La separazione e l’isolamento degli altri come semplici «oggetti di interesse» politico, culturale e filosofico ora crolla e trafigge il centro «con le loro insistenze come soggetti storici». Ci si avvicina allo smantellamento dei binarismi su cui i discorsi politici, culturali e critici dell’Occidente si sono «appoggiati per gestire la loro egemonia sul pianeta»: centro-periferia, Europa-il resto del mondo, bianco-nero, progresso-sottosviluppo. L’umanitarismo e l’impalcatura dell’umanesimo e dei diritti e degli obblighi associati devono ora «negoziare un percorso verso una politica che implichi molto più della semplice applicazione di un modello fornito dal governo e dalle leggi esistenti». La nazionalizzazione delle questioni politiche e culturali continua a confermare un «ordine globale esercitato attraverso l’autorità nazionale, il potere statale e il mantenimento dei confini».

Invece che come un «fláneur ottocentesco», sarebbe più significativo considerare il migrante come «l’epitome della cultura metropolitana moderna». Il viaggio lascia sottintendere un possibile ritorno, invece la migrazione comporta un movimento in cui non sono immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, e richiede che si «risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a mutazione». Il migrante non fa ritorno e anche laddove possa “tornare indietro”, non sarà mai semplicemente questo. Il cambiamento avvenuto è irreversibile. La persona non sarà mai la stessa di prima e per l’ambiente vale lo stesso. Sia quello di partenza che quello di arrivo.
Nei vasti e multipli mondi della città moderna «anche noi diventiamo nomadi e migriamo all’interno di un sistema troppo vasto per essere nostro». Si viene introdotti in uno «stato ibrido, in una cultura composita in cui il «semplice dualismo di Primo e Terzo Mondo si sfalda», lasciando emergere ciò che Homi Bhabha chiama “comunanza differenziale” e Félix Guattari definisce “processo di heterogenesis”. La figura metropolitana moderna è il migrante, attivo formulatore dell’estetica e dello stile di vita metropolitani, che reinventa i linguaggi e «si impadronisce delle strade del padrone».

Quello che gli occidentali si sentono costretti a fare e che li impaurisce è «discutere e disfare il punto di vista unico e omogeneo», il senso di prospettiva e di distanza che nasce nel Rinascimento e trionfa nel colonialismo, nell’imperialismo e nella versione razionale della modernità. Le «illusioni di identità» organizzate intorno alla «voce privilegiata e alla soggettività stabile dell’osservatore esterno» vengono spezzate e spazzate via con un movimento che «non consente più l’ovvia istituzione di un’autoidentità tra pensiero e realtà». Questo porta alla «liberazione di voci diverse», a un incontro con una parte “altra”, a un «dischiudersi del sé che nega la possibilità di ridurre il diverso all’identico».

Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo ora, invece, chiamati a pensarli come «prodotti della nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi». Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro e «lascia queste altre culture in posizione i subalternità», Iain Chambers contempla un qualcosa che va ben oltre «il multiculturalismo e la sua logica di assimilazione» perché «l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sia diventato il mondo». Lo sguardo d’indagine deve essere obliquo per poter catturare tutte le espressioni che esso offre, per comprendere “l’altro” ma anche se stessi in misura migliore.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale


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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il Buddhismo contro l’imbarbarimento del caos. “Le ragioni del Buddha” di Diego Infante (Meltemi, 2018)

08 sabato Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DiegoInfante, LeragionidelBuddha, Meltemi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, recensione, saggio

Dare un senso al proprio stare al mondo. Domande esistenziali che tutti e ognuno, magari inconsciamente e inconsapevolmente, si pongono o dovrebbero porsi. E, laddove non trovano libero sfogo o accesso, generano con ogni probabilità un processo lesivo dell’essere interiore che, inevitabilmente si ripercuote in quello esteriore, nelle relazioni e nello stare al mondo e nel mondo.
Qual è lo scopo del vivere l’esistenza terrena? Quale il senso di “vivere” gran parte di essa rinchiusi in prigioni di cemento più o meno grandi o in scatole di ferro accessoriate con ruote e ogni “confort”?

La società moderna «costituisce il brodo di coltura ideale per il sorgere di nuove domande», non più «esigenze dettate dalla sussistenza, quanto la necessità» di dare, appunto, un senso al proprio stare al mondo. Che non può e non deve ridursi al consumo di risorse e all’accumulo di beni materiali e denaro.

In un’epoca in cui l’istruzione, l’informazione, la comunicazione sembrano svolgersi sempre più caoticamente, a colpi di lanci e smentite, promesse e dinieghi, slogan e titoloni… una vorticosa giostra che pare essere stata creata apposta per nascondere il vuoto, di senso soprattutto, il libro di Infante assume quasi un valore catartico. Un invito non ad abbracciare una qualsivoglia religione o ideologia quanto, piuttosto, a praticare una accurata e profonda riflessione sul mondo come su noi stessi. Riflettere, per esempio, sul dualismo kantiano tra il mondo noumenico e quello del fenomeno. Sulla realtà come volontà e come rappresentazione, ovvero «il mondo come noi ne facciamo esperienza».

Si pensi alla realtà immaginata e costruita per i bambini occidentali, fatta di sontuose feste di compleanno, regali sotto l’albero, beni di consumo mutevole e superflui, spesso inutili eppure spacciati e sentiti come assolutamente necessari. Una rappresentazione talmente distorta di quella che è la realtà, di quello che è il mondo reale da apparire surreale se non proprio paradossale che in tanti, adulti prima ancora dei bambini, tuttora ci credano. Il mondo fuori dai format televisivi, cinematografici e pubblicitari, quello in cui vivono milioni di persone che si cerca costantemente di incantare con la ‘felicità consumistica’ del mondo occidentale, la cui economia verte interamente «sul foraggiamento dei desideri».

«Non è peregrino affermare che l’Occidente abbia costruito il proprio paradigma nella più completa ignoranza del meccanismo per cui per ogni azione si generano forze inverse e contrarie». E volendo contestualizzare il discorso nel dibattito, in questo periodo caldissimo, sui migranti, si nota che la discussione si sviluppa sul tema dell’accoglienza, nella declinazione dei favorevoli e dei contrari, della necessità o nel dovere che l’Occidente deve assumersi per dare una possibilità a tutti loro di costruirsi una nuova vita, quanto più simile possibile a quella immaginata o vissuta per se stessi. Nessuno, o quasi, pensa invece che la soluzione vada ricercata nella rinuncia dell’Occidente tutto in primo luogo ai suoi innumerevoli e inappagabili “desideri” che si traducono in consumo, in spreco di risorse, suolo e spazio che non competono solo agli occidentali bensì agli abitanti dell’intero pianeta.

Cita Infante nel testo una esemplare frase di Tiziano Terzani: «Se l’Homo sapiens, quello che siamo ora, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest’uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto con il prossimo e meno rapace nei confronti del resto del mondo?»
Di sicuro questa mutazione non avverrà fin quando il paradigma di una felicità raggiungibile solo attraverso l’economia di appagamento dei desideri sarà considerato un imperativo. Solo attraverso la rinuncia, la ricerca interiore prima che esteriore, la solidarietà e l’empatia contrapposte all’individualismo sfrenato si potrà sperare in un reale e profondo cambiamento. Inutile utopia per alcuni, speranza per altri.

Di sicuro c’è che finora tutte le ideologie indistintamente davano «la certezza morale necessaria per giustificare la violenza in funzione di un mondo migliore», inducendo ad accettare come «un fatto scontato che qualcuno debba morire perché gli altri possano vivere liberi e felici». La citazione di Pankaj Mishra restituisce nella giusta ottica gli errori di fondo di una cultura basata sul profitto e sul benessere propri, e sul disinteresse pressoché totale per gli altri, usati spesso solo come anonimi destinatari di una beneficenza e di gesti caritatevoli volti a rappresentare la propria presunta bontà d’animo nonostante la conscia violenza inflitta, direttamente o indirettamente, al mondo e ai suoi abitanti. In altre parole ipocrisia e apparenza, che poi, in fondo, sono le fondamenta della cultura dell’immagine e della rappresentazione su cui sembra essere stato costruito tutto l’impianto del progresso occidentale.

Nelle differenze enormi con gli insegnamenti buddhisti Infante riesce a trovare se non proprio similitudini almeno potenziali punti di incontro che potrebbero costituire altrettanti punti di partenza per un buddhismo che accompagni l’Occidente nel suo percorso accelerativo: «l’accelerazione potrebbe innescare la messa in discussione e quindi il capovolgimento di prospettiva». Un “viaggio” per guardare lontano laddove la distanza può fungere «da specchio per guardare vicino e soprattutto dentro».
Esattamente la svolta che fu caratteristica di «un grande viaggiatore qual è stato Tiziano Terzani»: un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio la cui meta non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, «una condizione di pace con se stesso e col mondo».

Anche Le ragioni del Buddha di Diego Infante rappresenta, per certi versi, un viaggio che il lettore compie attraverso la narrazione dell’autore sul sentiero da lui tracciato o su quello della propria mente. Un viaggio lento, a volte accidentato, ma pregno di significati. Un peregrinare tra domande e risposte seguendo i lineamenti di uno stile narrativo intenso, molto ricercato. Una ricercatezza che si denota sia nel fraseggio come anche nell’impiego di vocaboli di non largo utilizzo. Un percorso di scrittura e un ragionamento avallati da numerose citazioni e riferimenti bibliografici che spaziano dai testi di Baumer a Dumont o Kumar, il più volte citato Terzani e numerosi altri autori. Un libro articolato, ben strutturato e ben riuscito nello scopo dichiarato e prefissosi dall’autore.


Source: Si ringrazia l’autore Diego Infante per la segnalazione e il materiale.


Articolo originale qui


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