I testi coloniali e postcoloniali non ci raccontano la storia dello sviluppo ineguale del mondo. Quest’ultima andrebbe riportata alla luce scavando tra le pieghe della storia ufficiale, alla scoperta di quelli che Bhabha definisce i veri luoghi della cultura, nel tentativo di riscrivere la storia della modernità da una prospettiva non eurocentrica.
La metafora dei nostri tempi è il voler situare il problema della cultura nel regno dell’oltre. La nostra esistenza attuale è contrassegnata da un oscuro istinto di sopravvivenza, dalla sensazione di vivere ai confini del presente: per descrivere questa sensazione niente è più adatto di quei termini mutevoli, attuali ma controversi, che hanno il prefisso “post”: postmodernismo, postcolonialismo, postfemminismo. Questo “oltre” tuttavia non è né un nuovo orizzonte, né un volersi lasciare alle spalle il passato. In esso si avverte un turbamento, un senso di disorientamento nella direzione da prendere, un moto esplorativo inquieto.
Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “inter-medi” costituiscono, per Bhabha, il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società. È negli interstizi – emersi dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze – che vengono negoziate le esperienze intersoggettive e collettive di appartenenza a una nazione, di interesse della comunità o di valore culturale. La rappresentazione della differenza non deve essere letta come il riflesso di tratti etnici o culturali già dati e fissati nelle tavole della tradizione; al contrario, l’articolazione sociale della differenza, dal punto di vista della minoranza, è una negoziazione complessa e continua che punta a conferire autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica.
La demografia del nuovo internazionalismo è la storia della migrazione postcoloniale, della narrazione di una diaspora culturale e politica, degli enormi spostamenti sociali di comunità contadine e aborigene, della poetica dell’esilio, della prosa spietata di rifugiati politici ed economici. È in questo senso che il confine diventa ciò che a partire da cui una cosa inizia la sua essenza, con un moto non dissimile da quello dell’ambivalente, nomade articolazione dell’oltre. La condizione postcoloniale è un salutare monito sui rapporti ancora “neo-coloniali” che si sono riprodotti nel “nuovo” ordine mondiale e con la divisione del lavoro su scala plurinazionale: questa prospettiva consente di rendere più autentiche le storie di sfruttamento e l’evolversi di strategie di resistenza. Al di là di questo, comunque, la critica postcoloniale si fa testimone di quei paesi e comunità – nel Nord e nel Sud, urbani e rurali – che si sono costituiti, per così dire, in condizioni altre dalla modernità. Queste culture, espressione di una contro-modernità postcoloniale possono condizionare la modernità, introducendovi discontinuità o antagonismi e resistendo alle sue tecnologie oppressive e assimilazioniste, ma possono anche sviluppare l’ibridità culturale insita nella loro condizione di frontiera, per tradurre e dunque ri-scrivere l’immaginario sociale sia della metropoli che della modernità.
Homi K. Bhabha si rivolge all’Occidente, lo analizza, propone modalità nuove di lettura del presente e del passato, ma è un post-colonialista e il suo lavoro è influenzato dal poststrutturalismo di Jacques Derrida, Jacques Lacan e Michel Foucault. Per noi occidentali il Metodo cartesiano rappresenta un approccio mentale scontato nell’argomentazione (dal formulare un concetto, giustificarlo, dimostrarne l’utilità, accettare solo le evidenze, scomporre un problema, ordinare per importanza, enumerare e revisionare), per l’autore invece fondamentale diventa l’interstizio, l’ibridazione e il “terzo spazio”. Egli ritiene che la produzione culturale è maggiore quando è anche più ambivalente. Bhabha ritiene che tutto il senso dell’appartenenza a una nazione sia costruito discorsivamente, cioè narrativizzato. Descrivendo l’incontro tra due culture, spesso violento, fa notare la nascita di strategie narrative in cui l’incontro non “somma”, ma crea scompiglio nella conoscenza. Si crea un “terzo spazio”, un luogo teorico e simbolico dove gli antagonismi tra dominatori e dominati si annullano nel concetto di ibridità culturale, che include le differenze e rappresenta il presupposto per un incontro costruttivo tra culture senza più gerarchie imposte. Luogo in cui il potere coloniale non viene sostituito da una primitiva e autentica cultura del luogo, ma un territorio che rimescola entrambe le visioni unilaterali che si fronteggiano.
Oriente/Occidente, nativo/emigrante, colonizzato/colonizzatore, bianco/nero scompaiono dall’orizzonte della discussione, la differenza culturale non è immutabile, né si può tornare indietro nel tempo. Popoli coloniali, postcoloniali, migranti, minoranze, genti erranti sono il segno di un confine in continuo movimento che sposta le frontiere della nazione moderna. Cambia anche il rapporto spazio e storia: il primo non è entità inerte che esiste prima e oltre lo storia, è terreno mobile e conflittuale che frammenta e disloca la linearità temporale. Tentare di liberarsi dall’oppressione facendo appello alla propria identità oppositiva non fa che raddoppiarla. Il passato e il luogo delle origini non forniscono più autonomia culturale e il discorso multiculturale può rivelarsi esso stesso una gabbia.1
Homi K. Bhabha riflette sulle diverse posizioni dei soggetti costretti a spostarsi dal loro ambito socioculturale a un altro. Per questi soggetti viene a crearsi una situazione di spazi inter-medi (in-between) ovvero uno spazio personale che si situa tra quello del collettivo di partenza e quello del collettivo di arrivo. Gli spazi inter-medi implicano una negoziazione continua e la creazione di “ibridità culturali”.
Oltre al posizionamento culturale del soggetto, la negoziazione si realizza attraverso un concreto referente mentale, spazio-temporale, in cui si contestualizza non solo la lingua, ma più in generale la performance culturale. Per produrre significato nella comunicazione tra un soggetto parlante e il suo interlocutore le loro posizioni devono incontrarsi in un luogo enunciativo di mediazione, il “terzo spazio”.2
Il Ventesimo secolo è stato lo scenario di profonde e multiformi trasformazioni nella totalità del globo, di carattere politico culturale economico e sociale, verificatisi con una rapidità senza precedenti nella storia del mondo. In questo contesto è necessario riconoscere l’importanza della decolonizzazione di Africa e Asia come momento rilevante dal punto di vista geopolitico, dal momento che segnala un drastico mutamento nello scenario internazionale: la liberazione di più della metà della popolazione mondiale dal dominio diretto dei paesi europei e la diaspora dei popoli di questi luoghi sviluppatasi lungo flussi migratori che riproducevano le rotte coloniali e le conseguenze ancora sconosciute dei fenomeni che emergevano nel periodo definito “postcoloniale”. Il “post” del postcoloniale non significa, in termini assoluti, una rottura con il periodo precedente, quello coloniale, e neppure un suo superamento, dal momento che la fine del colonialismo in quanto relazione politica non comportò la fine del colonialismo inteso come relazione sociale, mentalità e forma di sociabilità autoritaria e discriminante.3
L’accezione fondativa degli studi postcoloniali presuppone una revisione critica del passato considerato nei termini della modernità occidentale e la sua identificazione con un presente ancora permeato da una serie di narrative pratiche rappresentazioni e relazioni politiche che confluiscono nella perpetuazione della distribuzione asimmetrica del potere e della ricchezza a livello globale.4
La critica postcoloniale testimonia delle diseguali e inaspettate forze di rappresentazione culturale che agiscono nel contesto dell’autorità politica e sociale in seno al moderno ordine mondiale. Le prospettive postcoloniali emergono dalla testimonianza coloniale dei paesi del Terzo Mondo e dal discorso di “minoranze” tutte interne alle divisioni geopolitiche fra Est e Ovest, Nord e Sud del mondo, per poi disturbare quei discorsi ideologici della modernità che tentano di assegnare una normalità “egemonica” allo sviluppo diseguale e alle vicende differenti – ma spesso penalizzanti – di nazioni, razze, comunità, popoli. L’approccio postcoloniale formula le proprie revisioni critiche sui temi della differenza culturale, dell’autorità sociale e della discriminazione politica per mettere in luce i momenti antagonistici e ambivalenti nell’ambito delle “razionalizzazioni” della modernità.
Per ricostruire il discorso della differenza culturale, allora, non basta solo un mutamento dei contenuti e dei simboli della cultura; è completamente inutile, infatti, situarsi nell’identico lasso di tempo della rappresentazione, ed è invece necessaria, per Bhabha, una revisione radicale della temporalità sociale in cui possono essere scritte le storie che stanno venendo alla luce, accanto a una riformulazione de “segno” in cui possono essere in-scritte le identità culturali.
Il libro
Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura. Postcolonialismo e modernità occidentale, Meltemi Editore, Milano, 2024.
Traduzione di Antonio Perri.
Titolo originale: The location of culture (1994).
1BoCulture, Migrazioni, diritti, sopravvivenza: il ruolo delle discipline umanistiche, Convegno-incontro con Homi K. Bhabha, Università di Padova, Padova, 6 giugno 2018.
2H. Nohe, Diventare estranea e marginale. Rappresentazioni e autorappresentazioni del soggetto migrante in Fra-intendimenti (2010) di Kaha Mohamed Aden, apropos – Perspektiven auf die Romania, 5/2020.
3B. Santos, Do Pós-Moderno ao Pós Colonial. E para além de um e outro, Centro de Estudos Socials, Universidade de Coimbra, Coimbra, 2004.
4A. M. Elibio Júnior, C. S. Di Manno De Almeida, Epistemologie del Sud: il postcolonialismo e lo studio delle relazioni internazionali, in Diacronie, n°20, 4/2014.
Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Meltemi per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, www.pixabay.com
L’industria dell’Olocausto di Finkelstein si incentra sull’analisi di due tesi fondamentali: i tedeschi e soltanto loro devono assumersi la responsabilità di fare i conti con il proprio passato, le élite ebraiche americane sfruttano l’Olocausto nazista per ottenere vantaggi politici e finanziari.
La pretesa che l’Olocausto faccia parte della memoria americana è un alibi morale. Fa sì che si eviti di assumersi quelle responsabilità che davvero spettano agli americani nel momento in cui affrontano il proprio passato, il proprio presente e il proprio futuro.1 Nell’analisi di Finkelstein l’industria dell’Olocausto è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di vittima, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti.
Dal punto di vista storico, la Shoah è considerata il più grande spartiacque dell’età contemporanea: una tragedia che ha rimesso in discussione le logiche e il pensiero occidentale, modificando l’approccio sociale, culturale, economico e politico dell’individuo in ogni campo d’indagine della realtà storica. Secondo una prospettiva strettamente narratologica, invece, la somma degli eventi che indichiamo con il termine Shoah presenta una forte potenzialità romanzesca, specialmente grazie alla presenza di un pattern di dinamiche e circostanze che sono state spesso etichettate come eroiche, in relazione ai sopravvissuti.2
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura di inserirlo in un contesto di tipo universale. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. Tutti coloro che hanno scritto e scrivono dell’Olocausto concordano sul fatto che sia unico, ma ben pochi concordano sul perché. Anche se lo fosse, che differenza farebbe? Come potrebbe cambiare la nostra comprensione se non fosse il primo ma il quarto o il quinto di una serie di catastrofi comparabili?
Il male unico dell’Olocausto non soltanto pone gli ebrei su un piano diverso rispetto agli altri, ma concede loro anche una “rivendicazione nei confronti degli altri”.3
L’Olocausto ha messo in evidenza il tratto distintivo peculiare degli ebrei, ha dato loro il diritto di considerarsi particolarmente minacciati e particolarmente meritevoli di ogni sforzo possibile per la loro salvezza.4
Fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Con la guerra arabo-israeliana del 1967 tutto cambiò. La spiegazione più diffusa di questa svolta, ricorda Finkelstein nel libro, fu che il totale isolamento e la vulnerabilità di Israele nel corso della guerra dei Sei Giorni fecero rivivere la memoria dello sterminio nazista. Questa interpretazione, però, distorce tanto la realtà del rapporto di forza nel Medio oriente a quell’epoca quanto l’evoluzione delle relazioni tra le élite ebraiche americane e Israele. Colpiti dall’impressionante spiegamento di forze israeliane, gli Stati uniti si mossero per farne una loro risorsa strategica. Israele si trasformò in un procuratore del potere americano in Medio Oriente.
Per le élite ebraiche americane la subordinazione israeliana al potere statunitense fu una fortuna inaspettata. Il sionismo era nato dal presupposto che l’assimilazione fosse una chimera e che gli ebrei sarebbero stati percepiti come un corpo estraneo potenzialmente pronto a tradire. Paradossalmente, dopo il giugno 1967, Israele facilitò l’assimilazione negli Stati Uniti: gli ebrei ora erano in prima linea a difendere l’America – o meglio l’Occidente civilizzato – contro la barbarie degli arabi.
Se prima del 1967 Israele incarnava lo spauracchio della doppia fedeltà, ora era il simbolo della superfedeltà.5
Per proteggere la loro posizione strategica, le élite ebraiche americane ricordarono l’Olocausto.6 L’industria dell’Olocausto fece la propria apparizione solamente dopo la dimostrazione schiacciante del predominio militare e fiorì in mezzo al più totale trionfalismo israeliano.7 In fin dei conti, l’Olocausto divenne l’arma perfetta per deviare le critiche nei confronti d’Israele.
Tra i gruppi che protestano la loro vittimizzazione, ivi compresi neri, latini, nativi americani, donne, gay e lesbiche, solamente gli ebrei, nella società americana, non sono svantaggiati. Il reddito pro-capite degli ebrei è circa il doppio di quello dei non ebrei, sedici dei quaranta americani più ricchi sono ebrei, il quaranta per cento dei vincitori americani del premio Nobel in ambito scientifico ed economico è ebreo, così come il venti per cento dei professori nelle università più importanti e il quaranta per cento dei soci dei maggiori studi legali di New York e Washington.8 L’Olocausto costituì l’immagine ribaltata del tanto decantato successo degli ebrei nel mondo: servì a ratificare la loro identità di popolo eletto.
La netta contrapposizione fra personaggi positivi e negativi, che sta alla base di ogni narrazione mitologica, biblica o favolosa nella tradizione occidentale, si ripresenta con insistenza e chiarezza espressiva nella dicotomica rivalità fra i personaggi protagonisti del filone narrativo dell’Olocausto: i prigionieri dei Lager opposti alle SS naziste, per esempio. In questo senso, molti dei riferimenti alla Shoah nella realtà contemporanea si manifestano per descrivere e rendere esplicite situazioni soprattutto caratterizzate da ingiustizie sociali, repressioni violente da parte di un governo estremista, massacri di popolazioni e mancanza di libertà di espressione.9
Di fatto, Hitler modellò la sua conquista dell’Oriente sulla conquista americana del West.10 Quando promulgarono le leggi sulla sterilizzazione, i nazisti fecero esplicitamente riferimento al precedente americano.11 Più è cresciuto il loro successo sociale, più gli ebrei americani si sono spostati politicamente a destra. Benché sono rimasti progressisti su questioni culturali quali la moralità sessuale e l’aborto, sono diventati sempre più conservatori in materia di politica e di economia.12Attivatesi con piglio aggressivo per difendere i loro interessi di corporazione e di classe, le élite ebraiche tacciarono di antisemitismo tutti coloro che si opposero al loro nuovo corso conservatore. In questa offensiva ideologica, l’Olocausto ebbe un ruolo cruciale. Molto semplicemente, come risulta dall’analisi di Finkelstein, rievocare le persecuzioni del passato serviva a respingere le critiche sul presente.
È dalla fine degli anni Ottanta che, dopo un lungo silenzio, il ricordo del genocidio ebraico ha incominciato a emergere nel dibattito politico e culturale dell’Europa occidentale. L’Italia è passata nello spazio di qualche decennio da una fase di indifferenza per la memoria della Shoah a una frenesia commemorativa che trova la sua massima espressione ogni anno in coincidenza del Giorno della Memoria. Parallelamente sono stati incentivati viaggi della memoria ad Auschwitz e sono stati inaugurati memoriali e musei importanti. Eppure, a ben guardare, qualcosa non torna nel panorama generale. Forse perché siamo in presenza di una contraddizione sempre più evidente tra l’ossessione commemorativa per ricordare l’orrore del passato e una tenace, quanto mai diffusa, ignoranza di fondo sull’argomento che accomuna giovani e adulti e che non fa dell’Italia un caso isolato.13
Si parla della Shoah quasi senza porre l’accento sul fatto che furono gli ebrei a essere condannati a morte per la colpa di essere ebrei e senza spiegare sufficientemente come fu pensato e perpetrato il genocidio. L’intento è ricordare tutte le vittime dei crimini nazisti oppure alludere a un’umanità sofferente ma indistinta e generica? Parlando di tutti, si riesce a non parlare specificatamente di nessuno, né degli ebrei, né delle altre vittime. La Shoah non è la storia di tutti i crimini nazisti, ma è la storia del genocidio degli ebrei. Una storia che coincide solo in parte con quella, per esempio, dei campi di concentramento e del fenomeno del lavoro forzato.14
In origine, con il termine “sopravvissuto all’Olocausto” si indicava chi aveva patito il terribile trauma dei ghetti ebraici, dei campi di concentramento e dei campi di lavoro schiavistico. I sopravvissuti alla fine della guerra sono generalmente stimati nell’ordine delle centomila persone.15 Di queste, oggi saranno in vita non più del venticinque per cento. In tempi recenti, l’espressione “sopravvissuto all’Olocausto” ha assunto un nuovo, più ampio significato: designa non soltanto chi ha sofferto nei campi ma anche chi è riuscito a sfuggire ai nazisti. Così, nella categoria rientrano, per esempio, gli oltre centomila ebrei polacchi che dopo l’invasione tedesca della Polonia trovarono rifugio in Unione Sovietica.
Eppure quelli che si erano sistemati in Unione Sovietica non vennero trattati in modo diverso dai cittadini russi, mentre i sopravvissuti ai campi di concentramento sembravano dei morti viventi.16
L’ufficio dell’ex Primo ministro israeliano Netanyahu ha recentemente calcolato il numero di sopravvissuti all’Olocausto tuttora in vita in circa un milione.
Il governo della Germania postbellica pagava un risarcimento agli ebrei che erano stati nei ghetti o nei campi e molti ebrei si costruirono un passato in grado di soddisfare tali requisiti.17 La Germania ha pagato finora qualcosa come sessanta miliardi di dollari. Finkelstein sottolinea che, quando l’industria dell’Olocausto gioca con i numeri per aumentare le richieste di risarcimento, gli antisemiti sfottono allegramente gli “ebrei bugiardi” che mercanteggiano perfino sulla propria morte.
Il termine Shoah è presente in ebraico nel libro di Isaia 47,11: Ti verrà addosso una sciagura che non saprai scongiurare; ti cadrà sopra una calamità che non potrai evitare. Su di te piomberà improvvisa una catastrofe che non prevederai.18Con l’esperienza europea impressa in modo indelebile nella loro psiche, i coloni ebrei del dopoguerra, in Palestina, erano determinati a non essere mai più una minoranza, né lì né altrove. Per diventare una maggioranza, hanno condotto una campagna di pulizia etnica. Conosciuta in arabo come la Naqha (catastrofe), essa consisté nell’esilio di circa la metà della popolazione araba del territorio che sarebbe poi diventato Israele nel 1948. I palestinesi rimasti, o tornati dall’esilio, avrebbero formato una minoranza permanente in Israele.19
Uno dei problemi più complessi con cui sia la storiografia sia la riflessione filosofica sulla Shoah o Olocausto devono continuamente confrontarsi è quello della unicità per un verso, della distruzione degli ebrei d’Europa da parte del nazifascismo nel corso della Seconda guerra mondiale, e della sua collocazione, per altro verso, in un quadro storico più ampio. In quello, ad esempio, dellaindustrializzazione dei massacri e della estetica della morte generate dalla Grande guerra, la cui ombra si è estesa per tutto il Novecento.20 Una prospettiva ancora più ampia, e in un certo senso più fosca, mette in discussione la stessa qualificazione del XX secolo come secolo dei genocidi. Da questa prospettiva, la Shoah ha rappresentato uno shock ermeneutico. La stessa attribuzione di unicità all’Olocausto ha, per molti versi, permesso di scoprire che i genocidi sono onnipresenti nella storia, appartenendo tanto alle pratiche violente delle società barbare quanto al culmine del processo di civilizzazione e ai vertici della modernità.21
Riportare l’oggettività del dato storico e affermare la santità del martirio di un popolo, ebraico nel caso dell’Olocausto. Questi i punti centrali cui tende l’analisi di Finkelstein. Al contempo, però, deplorare la mistificazione storica e della memoria operata dall’industria dell’Olocausto al servizio di un vero e proprio racket estorsivo.
Il libro
Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano, 2024.
Traduzione di Daria Restani.
Titolo originale: The Holocaust Industry: Reflections on the Exploitations of Jewish Suffering.
Traduzione degli apparati di: Roberta Zuppet, Caterina Balducci, Daria Restani.
1P. Novick, The Holocaust in American Life, Houghton Mifflin Harcout, Boston, 1999.
2A. Cinquegrani, F. Pangallo, F. Rigamonti, Romance e Shoah. Pratiche di narrazione sulla tragedia indicibile, Ca’ Foscari – Digital Publishing, Università Ca’ Foscari, Venezia, 2021.
3J. Neusmer, A “Holocaust” Primer, in Id. (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, Garland, New York, 1993.
4N. Glazer, American Judaism, University of Chicago Press, Chicago, 1957.
5H. Arendt, The Jew as Pariah, Grove Press, New York, 1978.
6E. Wiesel, And the Sea Is Never Full, Knopf, New York, 1999.
7A. Kapeliouk, Israël: la fin des mythes, A. Michel, Parigi, 1975.
8S.M. Lipset, E. Raab, Jews and the New American Scene, Harvard University Press, Cambridge, 1995.
9A. Cinquegrani, F. Pangallo, F. Rigamonti, op.cit.
10J. Toland, Adolf Hitler, Garden City, New York, 1976 / N.G. Finkelstein, Image and Reality of the Israel-Palestine Conflict, Verso, Londra – New York, 1995.
11S. Kühl, The Nazi Connection, Oxford University Press, Oxford, 1994.
12M. Friedman, Are American Jews Moving to the Right?, in Commentary, aprile 2000.
13L. Fontana, L’insegnamento della Shoah: le trappole delle buone intenzioni, in La Ricerca, Loescher Editore, Torino, 2019.
15H. Friedlander, Darkness and Dawn in 1945: The Nazie, the Allies, and the Survivors, in 1945 – the Year of Liberation, US Holocaust Memorial Museum, Washington, 1995.
16L. Dinnerstein, America and the Survivors of the Holocaust, Columbia University Press, New York, 1982.
17T. Segeu, The Seventh Million, Hill and Wang, New York, 1993.
18Shoah – Approfondimento in Gariwo la foresta dei giusti, it.gariwo.net
19M. Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, 2023.
20G. Borgognone, Unicità della Shoah? Oltre il “secolo del genocidio”, in Pearson, it.pearson.com
21P.P. Portinaro, L’imperativo di uccidere, Laterza, Bari, 2017.
Lo Stato-nazione e lo Stato coloniale si sono creati vicendevolmente. Il colonialismo e lo Stato moderno hanno la stessa data di nascita dello Stato-nazione, che l’autore individua nel 1492 e non nel 1648 come sovente indicato. Il nazionalismo non ha preceduto il colonialismo. Né il colonialismo fu lo stadio più alto o finale nella formazione di una nazione. Si costituirono reciprocamente.
Dal Nuovo Mondo al Sudafrica, dalla Germania a Israele, fino al Sudan, gli Stati coloniali e gli Stati-nazione si sono costituiti sulla politicizzazione di una maggioranza religiosa o etnica e a spese delle minoranze.
Il modello di tutto ciò, una sorta di prototipo, è emerso in Nord America, dove il genocidio e l’internamento nelle riserve hanno creato sia una sottoclasse permanente di nativi sia gli spazi fisici in cui le nuove identità di immigrati si sono cristallizzate come nazioni di coloni.
In Europa poi, sostiene Mamdani, questo modello sarebbe stato utilizzato dai nazisti per affrontare la questione ebraica e, dopo la caduta del Terzo Reich, dagli Alleati per ridisegnare i confini degli Stati nazionali dell’Europa orientale, ripulendoli dalle loro minoranze. Attraverso la marginalizzazione degli arabi palestinesi, i coloni sionisti hanno seguito l’esempio americano: il risultato è stato un altro ciclo di violenza che ancora non ha fine.
In Né coloni né nativi Mamdani rigetta il modello affermato a Norimberga, che individua i singoli responsabili senza mettere in questione il nazismo come progetto politico e quindi la violenza stessa dello Stato-nazione.
Non una giustizia penale per i colpevoli ma un ripensamento della comunità politica per tutti i sopravvissuti: vittime, colpevoli, spettatori, beneficiari. A partire dal progetto incompiuto della lotta anti-apartheid in Sudafrica, l’autore invita a immaginare uno Stato senza nazione.
Lo Stato moderno è spesso associato alla tolleranza. Esso è tanto un prodotto quanto un garante della tolleranza, tra gli Stati e al loro interno.
In Europa, la tolleranza emerse dopo Vestfalia come la chiave per assicurare la pace civile all’interno dello Stato-nazione. Le minoranze in patria venivano tollerate in cambio della loro lealtà politica, il che in pratica significò che venivano tollerate nella misura in cui erano percepite dalla maggioranza nazionale non come una minaccia.
Questo regime di tolleranza ha consolidato la struttura dello Stato-nazione, definendo il rapporto tra maggioranza nazionale e minoranza. È questa struttura di tolleranza a essere considerata la definizione del carattere liberale della modernità politica in Europa. Nelle colonie d’oltremare e negli insediamenti di coloni, dove non c’era una chiara divisione spaziale tra nazione e non nazione, la modernità politica e il suo liberalismo significarono qualcos’altro. Significarono conquista. Occupazione.
Abbracciare la modernità significa abbracciare la condizione epistemica che gli europei hanno creato per definire una nazione come “civilizzata”, e quindi giustificare l’espansione della nazione a spese degli “incivili”. La sostanza di questa condizione epistemica risiede nelle soggettivazioni politiche che essa impone.
La violenza della modernità postcoloniale rispecchia la violenza della modernità europea e del dominio diretto coloniale. La sua manifestazione principale è la pulizia etnica.
Il Sudan è il principale esempio di modernità postcoloniale in cui le strutture razziali e tribali imposte dagli inglesi sono diventate la base per esplosive guerre civili dopo l’indipendenza.
Come altri progetti nazionalisti, il nazionalismo postcoloniale è stato profondamente violento. In effetti, la violenza del progetto militante nazionalista è spesso percepita come una seconda occupazione coloniale.
Nonostante il loro scontro sanguinoso, colonialismo e anticolonialismo condividono una premessa comune: la società deve essere omogeneizzata per costruire una nazione.
Ecco allora che Mamdani si chiede se la violenza impiegata nella costruzione della nazione sia un atto criminale, che richiede procedimenti giudiziari e punizioni, oppure sia un atto politico, la cui risposta deve essere una nuova politica non nazionalista.
Egli considera la violenza estrema come politica e, quindi, ritiene che un approccio «delitto e castigo» abbia maggiori probabilità di aggravare, piuttosto che disinnescare, questa violenza.
La tendenza a pensare tutta la violenza come criminale, e la conseguente risposta a ogni violenza come tutela della legge, può essere ricondotta all’euforia intorno al presunto trionfo del modello liberaldemocratico alla fine della Guerra fredda.1Poiché si presumeva che questo tipo di sistema politico costituisse la fase finale dello sviluppo politico, tutta la violenza sarebbe apparsa, da quel momento in poi, criminale.
Il movimento anti-apartheid in Sudafrica ha contrastato la tendenza del dopo-Guerra fredda. La grande conquista di questo movimento è consistita nel comprendere la violenza dell’apartheid come politica, cercando una soluzione politica piuttosto che criminale. Questa fu la fine negoziata dell’apartheid, che portò all’emergere della democrazia non razziale.
Ovviamente l’autore non afferma che le società debbano o possano fare a meno della giustizia penale, ma che la riforma politica deve avere la precedenza, perché la richiesta di giustizia penale entro i parametri dell’ordine politico esistente lascia quest’ultimo intatto. Solo quando il sistema politico sarà decolonizzato, cioè quando le identità saranno svincolate da status permanenti di maggioranza e minoranza, esso sarà in grado di garantire equità.
Il che non vuole certo dire che le varie identità devono scomparire, tutt’altro. Ovvero che, per il sistema politico, tutti i cittadini devono avere gli stessi diritti e doveri, indipendentemente dalla loro etnia di appartenenza, dalla loro identità, dalla loro cultura, religione o altro.
Decolonizzare la politica attraverso il riconoscimento di un’identità condivisa di sopravvissuti non richiede che tutti fingano di essere uguali. Richiede invece che si smetta di accettare che le differenze identitarie debbano definire chi beneficia dello Stato e chi ne resta escluso.
Uno degli obiettivi principali del libro è descrivere nelle sue implicazioni la colonizzazione del politico e come potrebbe essere raggiunta la sua decolonizzazione.
Il politico, per esempio, è colonizzato nel Nord America.
L’eliminazione fisica degli indiani dell’emisfero occidentale fu il primo genocidio della storia moderna ed è probabilmente il più brutale e il più completo mai compiuto, perché ha causato la morte di circa il 95per cento di una popolazione precolombiana di almeno 75milioni di persone.2
Piuttosto che cittadini uguali negli Stati Uniti, gli indiani d’America sono persone sotto tutela del Congresso. Nelle riserve sono governati da una legge separata, proprio come i popoli ritenuti tribali in Sudafrica erano storicamente governati da una legge distinta da quella che governava la maggioranza nazionale bianca.
Come i sud sudanesi, gli indiani d’America hanno interiorizzato la tribalizzazione e le strutture legali che ne derivano.
La colonizzazione poi prosegue in Israele attraverso la caratteristica ideologia coloniale moderna del sionismo. I coloni ebrei, sostenuti dallo Stato, proseguono aggressivamente la conquista nei territori occupati, il cui risvolto è l’espropriazione dei palestinesi. All’interno del territorio di Israele, lo Stato concentra i cittadini non-ebrei in città che sono escluse dallo sviluppo, proprio come gli Stati Uniti concentrano gli indiani nelle riserve e il Sudafrica concentrava i nativi nei Bantustan.
Anche in Israele la missione civilizzatrice è stata cruciale per la formazione e il mantenimento dello Stato-nazione. L’élite europea di Israele, gli ebrei ashkenaziti, ha cercato di civilizzare gli ebrei “orientali”, in particolare i mizrahim, o «ebrei arabi». Sono stati de-arabizzati, spogliati della cultura che condividevano con altri arabi e ora rappresentano alcuni dei più fervidi sionisti in Israele. Dimostrando, ancora una volta, come le vittime della modernità interiorizzino quella medesima mentalità. Israele è uno Stato-nazione la cui maggioranza nazionale, gli ebrei, è stata espulsa dall’Europa, dove erano l’Altro disprezzato, l’etnia di cui si doveva fare pulizia per fare spazio alla nazione.
Non è assolutamente necessario, sottolinea Mamdani, che maggioranze e minoranze siano obbligate a cambiare posto. La trasformazione del nativo in colono, della vittima in carnefice, non è qualcosa da celebrare, come tristemente attesta la storia di Israele. Piuttosto il punto risiede nel fatto che la storia fornisce risorse per rivedere le identità passate di maggioranza e minoranza, colono e nativo, carnefice e vittima. Le persone del presente, attraverso un impegno congiunto con i fatti della modernità politica si possono convincere della necessità di scartare le identità divise che ancora caratterizzano questa modernità.
Tutte e tutti possono imparare a considerarsi «sopravvissuti» alla modernità politica, in altre parole prodotto di essa, ma non per questo necessariamente condannati a ripeterla e perpetrarla.
Ma allora come ha fatto a persistere così a lungo la modernità politica e perché è così difficile decolonizzare il politico?
Mamdani ritiene esserci un considerevole numero di forze che preservano la modernità politica rendendola, di fatto, invisibile. Queste forze sono epistemiche, sono idee che scoraggiano il riconoscimento di ciò che dovrebbe essere ovvio.
Una di queste idee, che emerge dal discorso anticoloniale, è che l’indipendenza dal controllo straniero sarebbe condizione sufficiente per garantire la fine politica della colonizzazione. Un’altra è la confusione tra immigrazione e insediamento coloniale: gli immigrati si uniscono alle comunità politiche esistenti, mentre i coloni ne creano di nuove.
Si cerca poi di far “scomparire” la storia e di sostituirla con un impulso universale chiamato «diritti umani».
Quando vengono commesse delle atrocità, gli attivisti per i diritti umani cercano i colpevoli, li nominano e li svergognano, magari riescono anche a farli mettere in prigione. Ciò che questi attivisti raramente cercano di fare è capire perché siano avvenute le atrocità o cosa ci dicano della comunità politica entro cui sono state commesse.
Nella condizione postcoloniale, la violenza estrema è molto spesso una violenza nazionalistica, poiché i gruppi etnici, organizzati come unità tribali separate sotto il colonialismo, si contendono l’accesso privilegiato ai beni pubblici. I diritti umani ignorano questo sfondo storico, depoliticizzando così la violenza e trattandola come mera criminalità.
Il modello criminale dei diritti umani contemporanei è stato inaugurato dai Tribunali di Norimberga dopo la Seconda guerra mondiale. I Tribunali si basavano sulla convinzione neoliberista avant la lettre secondo cui ogni violenza è un atto di individui. Norimberga ha effettivamente depoliticizzato il nazismo, attribuendo la responsabilità della violenza a persone particolari (perlopiù uomini) e ignorando il fatto che questi fossero impegnati in un progetto della modernità politica per conto di un corpo sociale: la nazione, il Volk.
Inoltre, sottolinea Mamdani, gli alleati che perseguirono i singoli nazisti a Norimberga si sono impegnati a ignorare le radici politiche del nazismo, perché queste radici sono anche quelle americane. Sia gli Stati Uniti sia il Terzo Reich erano progetti di costruzione della nazione. Gli alleati hanno anche cercato di proteggersi per le azioni che essi stessi hanno compiuto.
Ricorda l’autore di come, dopo la guerra, gli alleati si siano resi responsabili di molte atrocità simili a quelle che i tedeschi avevano compiuto, tra cui la pulizia etnica di milioni di tedeschi per tutta l’Europa centrale e orientale. La giustizia delle vittime in Europa, inoltre, ha inaugurato la modernità coloniale in Palestina, poiché la colpa dell’Occidente per l’omicidio di massa degli ebrei è diventata una giustificazione della fondazione dello Stato di Israele.
Se il nazismo fosse stato inteso non come un crimine, ma come un progetto politico dello Stato-nazione, avrebbe potuto esserci ancora un posto per gli ebrei in Europa, in Stati denazionalizzati vincolati all’eguale protezione di ogni cittadino. Invece, per Mamdani, il processo di Norimberga è stato disegnato tanto per proteggere gli alleati quanto per perpetuare un progetto di costruzione della nazione e dei suoi obiettivi di omogeneizzazione.
I tribunali per i diritti umani, espressione emblematica del trionfalismo del post-Guerra fredda che ha annunciato la Fine della Storia sotto forma di conquista neoliberista, portano avanti questa tradizione nel presente.
L’obiettivo della denazificazione a guida statunitense era affermare la colpevolezza del popolo tedesco. E questo fu un errore, per due ragioni almeno:
La nozione di colpa ha reso la violenza della guerra e dell’Olocausto una questione criminale e, pertanto, un’offesa contro lo Stato. Ciò ha precluso una resa dei conti con le radici politiche del nazismo e ha indebolito la possibilità di riforma, poiché i reati contro lo Stato non richiedono alcuna riforma, ma solo il ripristino della sua autorità attraverso azioni correttive contro i trasgressori.
Mentre molti tedeschi erano in realtà nazisti e molti altri beneficiavano delle politiche naziste, i tedeschi non erano, di fatto, colpevoli collettivamente.
Dopo la guerra, gli alleati si unirono ai loro ex nemici nel promuovere un nuovo sforzo di omogeneizzazione e di costruzione nazionale che procedeva proprio dal presupposto alla base dell’ideologia nazista. La base del pensiero nazista, non ripudiato da Norimberga, era che gli ebrei costituivano una nazione straniera in Europa. I tedeschi del dopoguerra, non meno degli americani e dei britannici, potevano facilmente abbracciare l’idea che Israele fosse la patria degli ebrei, separata dalla Germania e dall’Europa in generale. L’istituzione dello Stato di Israele fu la soluzione alla questione ebraica in Europa.
Con l’esperienza europea impressa in modo indelebile nella loro psiche, i coloni ebrei del dopoguerra in Palestina erano determinati a non essere mai più una minoranza, né lì né altrove. Per diventare una maggioranza, hanno condotto una campagna di pulizia etnica. Conosciuta in arabo come la Naqha (catastrofe), essa consisté nell’esilio di circa metà della popolazione araba del territorio che sarebbe poi diventato Israele, nel 1948. I palestinesi rimasti, o tornati dall’esilio, avrebbero formato una minoranza permanente in Israele.
Nell’analisi di Mamadani, è stata proprio l’esperienza storica dell’America con gli indiani a rendere pensabile il genocidio e la pulizia etnica in Germania e la pulizia etnica in Israele.
Il tempo trascorso dalla Seconda guerra mondiale ha visto un fiorire di discorsi intellettuali anticoloniali. Eppure, afferma Mamdani, quei ragionamenti non sono stati in grado di dare un senso all’estrema violenza postcoloniale. Gli intellettuali anticoloniali hanno preso spunto dalle riflessioni di Marx sulle rivoluzioni del 1848 in Europa.
La rivoluzione politica avrebbe dovuto spianare la strada alla rivoluzione sociale.3 La rivoluzione politica (o indipendenza politica) avrebbe conferito uguaglianza politica formale e cittadinanza, ma allo stesso tempo affinato l’esperienza e quindi la coscienza della disuguaglianza sociale, allargando gli orizzonti della lotta dal politico al sociale. Lo stadio finale di questo processo, secondo la teleologia della teoria anticoloniale, avrebbe dovuto essere la rivoluzione epistemologica, attraverso cui trasformare la coscienza stessa dell’essere, il vocabolario con cui comprendiamo il mondo che ci circonda. Eppure, sottolinea più volte Mamdani, in un numero crescente di casi, il raggiungimento della indipendenza politica e della cittadinanza formale non ha portato a mobilitazioni per l’uguaglianza sociale. Piuttosto, guerre civili ricorrenti sono seguite nel corso della costruzione delle nazioni.
I partecipanti a queste guerre civili non chiedono in primo luogo la redistribuzione e l’uguaglianza sociale, bensì combattono a favore dell’inclusione nella comunità politica o contro di essa.
Ciò è accaduto e accade perché ancora si segue la teoria di Marx, secondo la quale l’uguaglianza politica e sociale si sarebbe realizzata entro i limiti di una comunità politica preesistente. Mamdani afferma invece che è proprio questa comunità politica a dover essere modificata se si vuole raggiungere l’uguaglianza sociale.
Per ottenere giustizia per le vittime è necessario porre fine alle condizioni che le hanno consegnate a un trattamento ingiusto, e questo, per l’autore, significa finalmente decolonizzare. Ripensare non solo la giustizia ma anche l’ordine politico in cui viene perseguita. Ottenere giustizia non è solo il progetto normativo di immaginare un mondo migliore. Per realizzarlo, questo mondo migliore, è necessario comprendere la costruzione del mondo in cui viviamo, composto da minoranze permanenti, riprodotte attraverso la politicizzazione dell’identità sotto la struttura dello Stato-nazione.
Il disfacimento della permanenza delle identità politiche inizia con il riconoscimento che esse non sono naturali e non sono per sempre. Se un numero sufficiente di persone riflette a fondo sulle conseguenze violente di queste lotte di potere identitarie, allora avrà l’intuizione di ripensare e rifare il mondo. Mamdani non conosce i termini di questo cambiamento, nessuno può. Egli si sente solo di avanzare delle raccomandazioni:
Riformare la base nazionale dello Stato garantendo un solo tipo di cittadinanza e facendolo sulla base della residenza piuttosto che dell’identità.
Denazionalizzare gli Stati attraverso l’istituzione di strutture federali in cui l’autonomia locale permette alla diversità di crescere.
Allentare la morsa dell’immaginazione nazionalista insegnando la storia dello Stato-nazione, contrapponendo il modello politico a quello criminale e rafforzando la democrazia al posto dei rimedi neoliberali sui diritti umani.
Né la storia né l’identità devono essere permanenti e la decolonizzazione non deve essere un’illusione romantica.
Il libro
Mamhood Mamdani, Né coloni né nativi. Lo Stato-nazione e le sue minoranze permanenti, Meltemi, Milano, 2023.
Traduzione di Claudio Feliziani.
Titolo originale: Neither siettler nor native. The making and unmaking of permanent minorities.
L’autore
Mahmood Mamdani: Herbert Lehman Professor of Governement alla Columbia University. Dedito allo studio comparativo del colonialismo tra scienze politiche e antropologia.
1F. Fukuyama, The end of History and the Last Man, Free Press, New York, 1992; tr.it. di D. Ceni, La fine della storia e l’ultimo uomo, UTET, Torino, 2020.
2D.E. Stannard, American Holocaust: The Conquest of the New World, Oxford University Press, Oxford, 1992; tr.it. di C. Malerba, Olocausto americano: La conquista del nuovo mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 2021.
3K. Marx (autore), D. Fusaro (curatore), Sulla questione ebraica – Testo tedesco a fronte, Bompiani, Milano, 2007.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
“Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio” di Eduardo Viveiros De Castro
Se ogni cosa, nello stesso momento, può essere e non essere una persona, come poter stabilire i confini dell’antropologia?
Ecco l’importante quesito antropologico che accompagna le pagine del libro di Eduardo Viveiros De Castro, un libro nel quale egli affronta i nodi principali del proprio pensiero e che aiuta il lettore, anche laddove fosse a digiuno di nozioni e conoscenze antropologiche ed etnografiche, a “entrare” nel mondo da sempre etichettato indistintamente come indigeno.
Un universo che, invece, ha al suo interno una infinità di popoli, etnie, culture differenti e uniche.
Aiuta a conoscere le loro usanze ma, soprattutto la loro spiritualità e, cosa ancor più importante, racconta nel dettaglio le evoluzioni compiute dagli studiosi i quali, partiti carichi di nozioni e aspettative ben precise, hanno poi dovuto fare i conti con la realtà dei vari luoghi e dei differenti popoli incontrati.
Al lettore sembra quasi che essi siano partiti con un film in bianco e nero proiettato dinanzi agli occhi e abbiano poi ben presto realizzato di trovarsi dinanzi a una tale varietà di colori da poterne restare quasi abbagliati.
Gli europei, soprattutto all’inizio delle loro esplorazioni, si sono “scontrati” con situazioni, eventi, tradizioni, usanze, religioni apparse loro malvagie, incomprensibili, selvagge.
Ciò che per una cultura è incomprensibile, per un’altra può rappresentare un pilastro fondamentale. Comprendere e rispettare la diversità è l’unica strada percorribile e lo si può fare solo con la conoscenza.
Per noi europei la condizione generica è sempre stata l’animalità: tutti sono animali, solo che alcuni (esseri, speci) sono più animali di altri. Noi umani siamo ovviamente i meno animali di tutti. Dal nostro punto di vista.
Nelle mitologie indigene, al contrario, sono tutti umani, solo che alcuni di questi umani lo sono meno di altri. Invece della teoria evolutiva (lato sensu), la quale afferma che gli esseri umani sono degli umani che hanno guadagnato qualcosa, per gli amerindi, ad esempio, gli animali sono esseri umani che hanno perso qualcosa. Tutti gli animali hanno un’anima antropomorfa: il loro copro, in realtà, è una specie di abbigliamento che nasconde una forma fondamentalmente umana (con un’anima).
Noi occidentali invece pensiamo di indossare vestiti che nascondano una forma essenzialmente animale. Sappiamo che, quando siamo nudi, siamo tutti animali. Gli istinti, dietro gli strati di questa vernice che chiamiamo cultura, costituiscono il nostro sfondo animale, primate, mammifero.
Nascondere il proprio istinto animale e modificare la diversità. Questi sembrano essere stati obiettivi largamente condivisi da europei e occidentali in generale. Secondo una filosofia, largamente condivisa anche dalla legislazione brasiliana, in base alla quale tutti gli indigeni presenti erano “ancora” tali, nel senso che un giorno avrebbero smesso di esserlo, perché necessario. E bisogna ammettere, purtroppo, che tale modo di vedere è stato e in parte lo è ancora, ampiamente condiviso nelle varie parti del mondo riguardo le tante civiltà precolombiane.
Attraverso una serie di dialoghi e interviste – che poi sono essenzialmente articoli accademici in un formato dialogico e in un linguaggio leggermente meno formale -, Lo sguardo del giaguaro mostra al lettore come, sostanzialmente, l’antropologia non ha tanto un oggetto di studio quanto un metodo, cioè soggettivare: più si è in grado di attribuire intenzionalità a un oggetto, più lo si conosce.
Leggendo il libro di Eduardo Viveiros De Castro si è fortemente incoraggiati dalla visione che ne emerge riguardo l’antropologia e il diritto internazionale che possono rappresentare utili strumenti in favore dei popoli indigeni, non solo contro di essi.
In Brasile, ad esempio, si è passati dalla figura individuale dell’indigeno alla figura collettiva della comunità indigena come soggetto di diritto. Con un peso quindi esponenzialmente accresciuto.
Il percorso certo è ancora lungo prima che si possa parlare se non proprio di parità almeno di equità. E il prospettivismo è anche un dispositivo che permette di mettere etnograficamente in discussione l’opinione comune secondo cui tutti i popoli credono di essere il centro del mondo.
La nostra cultura pone l’Io come anteriore all’Altro e l’Altro come posizione derivata. Nel mondo indigeno accade molto spesso il contrario.
Là dove noi vediamo l’umano come una cosa speciale, una sostanza che interviene nell’ordine della creazione, con una posizione privilegiata all’interno dell’universo, gli indigeni vedono l’umano come il punto di partenza.
Invece del nostro pensiero che pensa quello indigeno si inizia a intravedere il pensiero indigeno che pensa il nostro, in una sorta di antropologia all’incontrario. Roy Wagner è stato il primo a pensarlo e il prospettivismo è un concreto modo per farlo.
Quasi superfluo sembra dire quanto importante sia il lavoro di Viveiros De Castro e dei tanti studiosi contributor diretti e indiretti del libro. Quanto grande sia la “prospettiva” che si apre al lettore grazie alle loro ricerche e riflessioni. Ed ecco che anche al lettore, al pari dei primi studiosi partiti avendo dinanzi agli occhi solo il bianco e il nero, si apre un universo di colori prima inimmaginabile oppure solo sperato.
Il libro
Eduardo Viveiros De Castro, Lo sguardo del giaguaro. Introduzione al prospettivismo amerindio, Meltemi Editore, Milano, 2023.
Traduzione di Cecilia Tamplenizza.
Titolo originale: La mirada del jaguar. Introducción al perspectivismo amerindio.
L’autore
Eduardo Viveiros De Castro: antropologo brasiliano e etnologo americanista. Professore al Museu Nacional (l’Università Federale di Rio de Janeiro). È stato direttore di ricerca presso il CNRS in Francia e Simón Bolivar Professor of Latin American Studies presso l’Università di Cambridge.
Insegnare, per Bell Hooks, è condividere la crescita intellettuale e spirituale degli studenti. Impegnarsi per porre fine al razzismo nell’istruzione è l’unico cambiamento realizzabile a beneficio degli studenti neri e, in generale, di tutti gli studenti.
Se i neri americani hanno dovuto, e devono ancora, lottare contro la discriminazione e la segregazione, di fatto i neri d’Italia, pur trovandosi in scuole libere, pubbliche e aperte a tutti, spesso sono stigmatizzati come stranieri, anche se nati e cresciuti qui. Altre volte sono etichettati come alunni con «bisogni educativi speciali» solo perché non parlano ancora la lingua italiana o sono traumatizzati per i trascorsi, per la fuga da paesi in guerra o povertà estrema.
A differenza della generazione di Bell Hooks, che ha comunque avuto nelle scuole segregate insegnanti-modello a cui ispirarsi e che spronavano a impegnarsi e a eccellere, nelle scuole italiane non ci sono ancora insegnanti con lo stesso retroterra degli alunni. Ovviamente ciò non vuol dire che si auspica la realizzazione di scuole segregate, tutt’altro. La creazione di una scuola multietnica e multiculturale a ogni livello.
L’educazione funziona e favorisce l’autostima degli studenti bianchi, neri e di colore (intesi come “non bianchi”) solo se chi educa è antirazzista nelle parole e nei fatti.
Una delle situazioni più ricorrenti, sottolineata da Hooks nel testo, riguarda proprio il fatto che la gran parte di coloro che si dichiarano antirazzisti, nel loro quotidiano, non frequentano persone nere o di colore. Non hanno grandi rapporti con loro. La loro cerchia si compone, alla fin fine, di persone bianche.
L’insegnamento può essere un’attività gioiosa e inclusiva, ma deve essere assolutamente ripensato per affrontare in maniera risolutiva le discussioni su razza, genere, classe e nazionalità. Hooks sostiene che l’insegnamento può avere luogo in diverse e molteplici situazioni quotidiane di apprendimento: nelle case, nelle librerie, negli spazi pubblici e ovunque le persone si riuniscano per condividere idee capaci di influenzare la loro vita.
Per Bell Hooks, gli insegnanti imparano mentre insegnano e gli studenti imparano e condividono la conoscenza e, in tale conoscenza, tutti si riconoscono come membri di una comunità.
Nella prefazione, Rahma Nur condivide con Hooks la presa di coscienza dell’assenza di altre donne nere negli ambienti di lavoro frequentati e ricorda che, se negli ambienti accademici vissuti dall’autrice si era arrivati a sdoganare i discorsi su razza e razzismo, in Italia si è ancora ben lontani da ciò. Nel senso che sono discorsi ripresi e sviluppati dagli stessi neri, in svariati luoghi, ma l’opinione pubblica e i mezzi di comunicazione fanno ancora molta fatica ad accettare certi argomenti.
Invece bisogna far capire che il «modello suprematista bianco plasma le nostre percezioni quotidiane» in ogni momento, e questo succede negli Stati Uniti come in Italia. Necessita un lavoro di decolonizzazione e auto-decolinazzione mentale.
L’Italia è stato un paese colonizzatore e certi pensieri e atteggiamenti suprematisti fanno parte di questo retaggio. Se le persone bianche non possono liberarsi dal pensiero e dall’azione suprematista bianca, le persone nere e di colore non saranno mai veramente libere: questo vale anche per noi e per chi ha dimenticato o non conosce le violenze impartite ai popoli del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) che l’Italia ha colonizzato.
La cultura dominante ha paura ad approcciarsi a nuove idee e nuovi modi di vedere il mondo. Eppure è importante sostenere la giustizia sociale trasformando il sistema scolastico ed educativo in modo che la scuola non sia il luogo in cui chi studia subisce un vero e proprio indottrinamento volto a sostenere il patriarcato capitalista imperialista e suprematista bianco o qualsiasi altra ideologia, ma piuttosto dove impara ad aprire la mente, a impegnarsi nello studio rigoroso e a pensare in modo critico. Generando in tal modo una vera e propria «pedagogia della speranza».
Mentre il mondo accademico diventa sempre più un luogo in cui le aspirazioni umanitarie possono realizzarsi attraverso l’educazione come pratica della libertà e la pedagogia della speranza, il mondo esterno insegna ancora, purtroppo, la necessità di mantenere l’ingiustizia, la paura e la violenza. La critica al concetto di alterità, capeggiata dall’educazione progressista, non è potente quanto l’insistenza dei mass media conservatori sul fatto che tale alterità debba essere riconosciuta, braccata e distrutta.
L’odio incarna un complesso insieme di paure che riguardano la differenza e l’alterità. Rivela ciò che alcune persone temono in sé stesse, le proprie differenze. Inoltre, sottolinea ancora Hooks, l’odio si forma intorno all’ignoto, alla differenza percepita come alterità.
I cittadini di tutto il mondo sono attraversati dal cinismo mortale che normalizza la violenza, che fa la guerra e sussurra che la pace non è possibile, che non può esistere pace tra individui diversi, che non si assomigliano né parlano allo stesso modo, che non mangiano lo stesso cibo, non adorano gli stessi dei o non parlano la stessa lingua.
Bell Hooks sottolinea come spesso chi insegna si dimostra riluttante a riconoscere fino a che punto il pensiero suprematista bianco informa ogni aspetto della nostra cultura, comprese le modalità di apprendimento, il contenuto di ciò che si apprende e il modo in cui viene insegnato. E ciò vale anche per tutti gli altri che insegnanti non sono.
Ricorda l’autrice un test che somministrava durante le sue conferenze: quale identità sceglieresti se potessi reincarnarti? Le opzioni sono: maschio bianco, femmina bianca, maschio nero, femmina nera.
Ogni volta andava per la maggiore l’opzione “maschio bianco” e per ultima “femmina nera”.
Perché? La gran parte delle risposte dava come motivazione il privilegio basato sulla razza. E sul genere.
Chiunque compirà questo test con sé stesso dovrà ammettere che è un dato di fatto.
Nella nostra cultura quasi tutti, indipendentemente dal colore della pelle, associano la supremazia bianca al fanatismo conservatore ed estremo, ai naziskin che predicano tutti i vecchi stereotipi razzisti della purezza. Eppure, sottolinea Hooks, questi gruppi estremisti raramente minacciano il quotidiano. Sono le credenze e i pregiudizi suprematisti della compagine bianca “moderata”, più facili da nascondere e dissimulare, che sostengono e perpetuano il razzismo quotidiano come forma di oppressione di gruppo.
Diventare razzisti o meno è una scelta che facciamo. Nel corso della nostra vita siamo costantemente chiamati a scegliere da che parte stare rispetto al razzismo.
La cultura dominante ci vuole spaventati e desiderosi di scegliere la sicurezza al posto del rischio, l’identità invece della diversità. Superare la paura, scoprire cosa ci unisce e saper apprezzare le differenze è il grande messaggio che dona al lettore il libro di Hooks. Un movimento che ci avvicina e ci offre un mondo di valori condivisi, e un senso significativo di comunità.
Un messaggio intenso e potente come il libro che lo racchiude e lo diffonde.
Il libro
Bell Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi, Milano, 2022. Prefazione di Rahma Nur. Traduzione di Feminoska. Titolo originale: Teaching community: a Pedagogy of Hope.
L’autrice
Bell Hooks: è stata una studiosa femminista afroamericana. Il suo lavoro esamina l’intersezionalità di razza, capitalismo e genere e il modo in cui questa contribuisce a perpetuare i sistemi di oppressione e il dominio di classe.
Viviamo in un regime customer-centrico, che pone il consumatore al centro del nuovo ecosistema digitale, per due motivi principali: perché esso produce dati che sono sempre più il vero prodotto della nuova economia dell’attenzione; perché grazie a questi dati è possibile conoscere, prevedere e coinvolgere sempre più le scelte del consumatore.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella moda espanderà enormemente il processo di centralizzazione e customizzazione dell’offerta, tanto da coinvolgere anche la parte più ideativa e creativa, che storicamente spettava allo stilista.
Ma tutto questo quali ripercussioni avrà sull’aspetto cognitivo del consumatore?
Agli albori degli anni Settanta, il futurologo Alvin Toffler esordì con il libro Future Shock, nel quale elencava con estrema precisione le principali trasformazioni che la tecnologia avrebbe indotto nella società e nel mercato da lì a pochi anni.
Tra queste aveva già insistito sulla problematica dell’iperscelta per evidenziare come il nuovo capitalismo stesse implementando strategie di offerta altamente complesse e diversificate che sfruttavano l’automazione e rivoluzionavano il rapporto tra aziende e consumatori. Per Barile già allora appariva chiaro il passaggio che dalla microsegmentazione del mercato avrebbe condotto all’integrazione attiva del consumatore nella filiera produttiva, le cui dirette ripercussioni sulla sfera culturale mettevano in discussione le teorizzazioni che invece avevano insistito sulla crescente omogeneizzazione delle pratiche di consumo.
Anche se alcuni aspetti della «profezia» di Toffler erano troppo suggestionati dalla fantascienza, il suo nocciolo sostanziale si è realizzato tanto che oggi, sottolinea Barile, parliamo di un nuovo regime customer-centrico gestito dalle piattaforme digitali.
Tale regime è in qualche modo stato preparato dalla mass customization degli anni Novanta, come momento culminante del cosiddetto postfordismo che ha introdotto innovazioni di tipo tecnico e organizzativo al fine di erogare prodotti e servizi a elevato livello di differenziazione.
Il presupposto decisivo in tale rivoluzione sta nell’esigenza delle aziende di coltivare un concetto olistico di qualità che arriva a coinvolgere la relazione con il consumatore. Questi, infatti, ha dimostrato nel corso degli ultimi decenni una sempre maggiore perizia nelle indicazioni di consumo quando invece tale attività, nel periodo dominante del fordismo-taylorismo, era intesa come passiva e automatica.
Nella produzione di massa la relazione con il cliente – fondata sul suo anonimato – era sacrificata a vantaggio della reperibilità immediata e diffusa dei beni. Nella mass customization, al contrario, ogni transazione rappresenta un accrescimento di conoscenza da parte dell’azienda delle caratteristiche idiografiche del cliente. Un feedback che può essere mediato dal punto vendita oppure disintermediato tramite la rete.
Il principio tramite il quale sono nate le prime strategie di questo genere è quello della modularizzazione, che ha consentito alle aziende di produrre merci sempre più personalizzate. Esso si basa sulla fabbricazione tramite economie di scala di componenti basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per offrire prodotti relativamente diversificati.
Ciò avviene con il supporto decisivo delle tecnologie digitali le quali, precisa l’autore, non sono semplici mass media aggiunti ai media tradizionali quali televisione, radio e cinema.
Il digitale è più di ogni altra cosa un nuovo ambiente capace di inglobare tutti i media precedenti e di riconfigurare le relazioni sociali ed economiche sia in termini quantitativi che, soprattutto, in termini qualitativi.
Il digitale pervade completamente e profondamente ogni ambito della cultura, dell’economia e della creatività contemporanea. Per Barile, nel prossimo futuro, l’uso dei chatbot tenderà a sostituire il rapporto tra brand e consumatore con quello tra sistemi di intelligenza artificiale e assistenti digitali. I chatbot consentono di automatizzare il rapporto con un cliente sempre più profilato. In questo modo aiutano a spostare il focus della moda dallo stile del designer alla performatività del consumatore-utente.
Secondo Luce, nella moda l’intelligenza artificiale può rappresentare una tecnologia «distruptive», nel senso di dirompente, di sostituzione, non solo rispetto ai processi di comunicazione, ma anche con quelli creativi. Come in alcune applicazioni di IBM/Watson e Google che mirano a sostituire il ruolo del progettista proponendo modelli disegnati sulle caratteristiche dei consumatori trasformati in flussi di dati.
Si passa dall’epoca del single channel, ovvero del singolo negozio fisico come unico canale di acquisto dei prodotti moda, a quella del multi-channel in cui si aggiungono nuovi canali di vendita, come l’e-commerce, passando per il cross-channel in cui diversi canali si integrano offrendo all’utente un’esperienza unica, per giungere poi all’omnichannel in cui diversi canali integrati si trasformano in un ambiente che circonda l’utente-generatore di dati.
Il vero problema, sottolinea Barile, che l’omnichannel tenta di risolvere è l’anello mancante tra esperienza online, di cui si sa pressoché tutto, ed esperienza off-line di cui si sa ben poco.
La possibilità di collegare i due livelli offrirebbe alle aziende uno strumento ancor più potente di conoscenza e previsione delle scelte del cliente.
Il futuro del retail è un problema che desta grande interesse non solo dal punto di vista dei brand di moda e delle aziende hi-tech, ma anche da parte delle amministrazioni locali, preoccupate dal processo di desertificazione dei luoghi pubblici, come conseguenza della nuova egemonia commerciale delle piattaforme e ancor più recentemente alla crisi pandemica.
Il case study del concept store di Manhattan, chiamato Story, è particolarmente significativo dell’integrazione tra tecnologie e spazio fisico nel cosiddetto retail esperienziale.
Lo stesso nome gioca semanticamente con i termini store e storytelling, ovvero un luogo fisico allestito per coinvolgere il visitatore in una narrazione composita.
Secondo Rachel Shetchman, sua fondatrice, il negozio del futuro dovrebbe avere un taglio curatoriale capace di coinvolgere l’interesse del cliente, inoltre dovrebbe cambiare ogni 4-8 settimane come se fosse una galleria d’arte, offrendo un’esperienza che permane nella memoria. Infine vendere i propri prodotti. In Story i brand raccontano se stessi a partire dalla loro unicità.
L’utilizzo di tecnologie intelligenti, basate sul machine learning, consente di monitorare il comportamento del consumatore: sistemi di riconoscimento facciale anonimo, emotions tracking, fitting room technologies, mobile identification tracking, RFID, video analytics.
Si tratta di tecnologie innovative che vengono classificate da McStay come «media empatici», ovvero capaci di riconoscere le emozioni umane e di interagire con esse.
Così, dal retail esperienziale descritto da Stephens, si passa a quello «aumentato», che utilizza realtà aumentata e media empatici per potenziare l’esperienza del consumatore.
Il concetto di Metaverso, formulato dalla letteratura Cyberpunk negli anni Novanta, è oggi al centro di un grande interesse da parte di consumatori e aziende per vari motivi:
È un’occasione di rilancio di piattaforme in crisi.
È il collettore di una serie di servizi innovativi e a pagamento come gli NFT e le nuove strategie di gamification.
È il punto di raccordo tra mondo fisico e virtuale che implicherà ulteriori problemi di protezione dei dati personali dei suoi utenti.
Una delle caratteristiche dominanti della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale è l’integrazione dinamica tra la dimensione digitale/virtuale e quella fisica o, per utilizzare le parole di Klaus Schwab, l’interazione tra tre principali megatrend: fisico, digitale, biologico.
Per Barile, una delle tecnologie caratterizzanti la Quarta Rivoluzione Industriale, è la blockchain, nota perlopiù per essere l’infrastruttura tecnologica che dà vita al mercato delle criptovalute.
Essa è in grado di certificare proprietà e autenticità del NFT (Non-Fungible Token), in tal modo conferendo a un mero insieme di dati, generalmente riproducibili, una sorta di unicità. Non vi è quindi, di fatto, alcuna differenza tra la copia e l’originale nell’ambito dei prodotti digitali, se non il codice della Blockchain che ne certifica l’unicità.
Secondo Karinna Grant, cofondatrice di The Dematerialised – piattaforma in cui stanno entrando diversi brand di moda, come Gucci, Prada, Rebecca Minkoff – ci sono sostanzialmente tre modi di utilizzare gli indumenti digitalizzati:
Indossarli tramite Realtà Aumentata.
Vestire i tuoi avatar.
Coniarli come NFT da collezionare e scambiare.
Se la moda attuale insiste principalmente sugli NFT, in futuro la flessibilità del Metaverso mirerà a incorporare e integrare sempre più lo spazio fisico.
Meta in questo caso realizza il sogno iniziale di Zuckerberg, ma lo espande a un livello finora impensato, non solo di sfruttamento della moda virtuale, ma anche di integrazione tra spazio virtuale e fisico, ovvero di ulteriore invasione, sfruttamento e monetizzazione della vita quotidiana dei suoi utenti.
Il dibattito attuale sul Metaverso è molto combattuto ma l’autore ritiene la moda destinata ad approdare definitivamente ad esso, per la sua innata capacità di simulazione e dissimulazione, anche se le modalità con le quali ciò avverrà sono al momento sperimentali e solo parzialmente ipotizzabili.
Del resto la moda ha sempre dimostrato la sua capacità di apprendere e di prendere dai vari strati della società nella quale è presente, come ha ampiamente illustrato Barile nel corso del testo, analizzando, per esempio, i casi rappresentativi della relazione costante tra le forme della moda e quelle dello street style. Nonché l’abilità di adattarsi ai cambiamenti sociali e culturali con estrema facilità e versatilità. Oggi, gran parte della moda e del lusso reinterpretano, citano o semplicemente saccheggiano lo street style. Ma uno street style globalizzato, divenuto ormai logica ed estetica dominante nelle mani dei grandi brand che ha perso molto del suo contenuto originario.
Si chiede Barile quanto etico sia o debba essere l’atteggiamento della moda nei confronti delle cose del mondo e trova per certo solidarietà nel lettore allorquando palesa quanto flebile sia in realtà la volontà di minare la nostra dipendenza cognitiva dall’impero dell’effimero, dalla quintessenza della spettacolarizzazione del corpo nel quotidiano.
Un libro, Dress Coding di Nello Barile, che in realtà ne sembrano dieci, per la vastità degli argomenti trattati e, soprattutto, per la precisione con cui vengono trattati dall’autore, il quale aiuta il lettore nell’esplorazione di un mondo poliedrico che affascina e stordisce, cattura e incanta eppure, al contempo, pone tutti noi difronte alle nostre più grandi debolezze, al nostro “disumanizzarci” scientemente ma con gioia vedendo il nostro avatar tronfio nella sua nuova “skin”.
Il libro
Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso, Meltemi Editore, Milano, 2022.
L’autore
Nello Barile: docente di Sociology of Media e Sociologia della moda all’Università IULM di Milano. Autore di monografie, articoli e contributi nazionali e internazionali sui media digitali, sul consumo e sulla comunicazione politica.
Nel XXI secolo l’umanità si è trovata a dover fronteggiare delle sfide epocali, tra le quali spiccano i gravi danni arrecati alla Natura e quella radicale transizione verso una «mutazione antropologica» chiamata rivoluzione digitale. Tali sfide hanno imposto un drastico cambiamento nel modo di percepire la cultura quale vera fonte di progresso. Questa deve infatti essere intesa come una «cultura della complessità», fondata su una sintesi tra approccio umanistico e approccio scientifico e posta al servizio di un umanesimo planetario che, nell’ottica della solidarietà e della sostenibilità, consenta di capire che «noi» precede «io».
Raramente si trova una sintesi nella quarta di copertina che, in poche righe, riesca a racchiudere perfettamente il contenuto e il senso di un libro intero. Il passo del libro qui analizzato ne è un esempio egregio.
Vianello analizza, nella parte iniziale, quella che è stata l’evoluzione dell’uomo dal punto di vista sociale, soffermandosi sul come le migrazioni e le mescolanze abbiamo contribuito in maniera incisiva e determinante nella realizzazione di ciò che è stato il “cammino dell’umanità”.
Le grandi migrazioni e le mescolanze tra popoli divergenti sono state la forza cruciale nella preistoria umana. Perciò le ideologie che cercano di tornare a una mitica purezza sono in aperta contraddizione con la vera scienza.1
Parole che sono anche un invito alla riflessione sulla grande unità della specie umana, pur nella sua diversità genetica e culturale, e a fare piazza pulita dei pregiudizi che ancora albergano in molte menti, perché “le civiltà fioriscono quando si mescolano, deperiscono quando si isolano”.2
L’umanità per sopravvivere ha sempre ricavato dall’ambiente energia e varie materie prime. Ma l’esponenziale incremento nell’uso e nello sfruttamento dei frutti della Natura ha finito con il condizionare l’intero ecosistema. L’Antropocene è una narrazione che descrive l’impatto che le attività umane hanno avuto sul pianeta Terra.
Ci manca un riferimento realistico, ma tuttavia proiettato nel futuro, un obiettivo che possa guidarci verso una condizione di equilibrio: in assenza di tale obiettivo la nostra azione diventa miope, e inevitabilmente produce quella crescita esponenziale che è destinata a sfociare nella rottura dei limiti naturali e nella catastrofe finale.3
Questa grave emergenza non è solo un evento dei nostri giorni. Scandagliando il «tempo profondo» della storia della Terra, come ha fatto Vianello, si scopre che il riscaldamento climatico si è verificato più volte e che è stato responsabile di immani catastrofi. Più volte della scomparsa di molti degli esseri viventi che abitavano il pianeta.
La domanda allora è questa: come possono l’intelligenza, la conoscenza, la cultura, la scienza – di cui l’uomo tanto si vanta di esserne promotore e unico artefice tra gli esseri viventi – essere di aiuto per evitare o almeno limitare la prossima catastrofe?
Gli autori si mostrano fiduciosi che sarà proprio il connubio tra cultura umanistica e scienza a trovare le soluzioni ormai divenute improcrastinabili.
Ma c’è un altro aspetto spesso sottovalutato e che Marzano tratta nella seconda parte del libro: la sfida delle tecnologie digitali.
Recentemente alcuni autori hanno suggerito di sostituire il termine Antropocene con altri che meglio caratterizzerebbero i cambiamenti in corso.4
L’alternativa più condivisa è «Tecnocene»: l’Antropocene sarebbe infatti un sottoinsieme del Tecnocene, dal momento che in futuro gli esseri umani potrebbero estinguersi ma non le macchine da essi create. La tecnologia e il mercato stanno trasformando i nostri corpi e le nostre istituzioni, sottolineando come negli ultimi tre o quattro decenni le «direzioni di vita» (life trajectories) della nostra specie sono stati trasformati da due fattori concorrenti, spesso interdipendenti, la «tecnificazione» (technification) e la «commercializzazione» (marketization) di fasi cruciali della nostra esistenza e di molte dimensioni peculiari dell’uomo.5
Ma davvero la tecnologia è oggi così sconvolgente rispetto al passato? L’uomo si sta davvero avvicinando a un punto di non ritorno in cui gli sarà impossibile controllare lo sviluppo tecnologico?
Buona parte dello sconvolgimento provocato dalla Rivoluzione industriale fu dovuta all’automazione della forza muscolare. La Rivoluzione digitale invece sta automatizzando il lavoro mentale umano. I progressi nell’intelligenza artificiale paiono condurre a una progressiva polverizzazione dell’agentività umana. Sembra proprio che dovremo affrontare un futuro nel quale il controllo sulle società e sulle vite umane sarà sempre più e inesorabilmente ceduto alle tecnologie digitali “con poteri decisionali palesemente superiori”.
Gli uomini, in generale, hanno la tendenza a supporre che le cose continueranno esattamente come adesso. Si tende a sottovalutare la minaccia all’agentività umana –human agency – da parte delle macchine. Questo accade anche perché molte delle odierne intelligenze artificiali non sembrano rappresentare una reale minaccia per il nostro posto di lavoro. Così facendo si ignora però il rapido ritmo di miglioramento che esse hanno in assoluto e in confronto a quello umano. Gli uomini manifestano quindi un pregiudizio verso le capacità delle macchine future e, parallelamente, una visione alterata delle reali abilità umane. Questo biasa favore degli esseri umani é tanto insostenibile quanto il geocentrismo precopernicano.6
È ormai evidente come l’ultima rivoluzione industriale, ovvero la quarta, iniziata con l’avvento dell’Internet delle coseverso la fine degli anni Ottanta, abbia provocato e stia provocando significative trasformazioni sociali. Si tratta, ricorda Marzano, di cambiamenti così veloci e globali che ne rendono gli effetti imprevedibili.
Ray Kurzweil indica il 2045 come l’anno in cui si raggiungerà la singolarità e l’Intelligenza Artificiale supererà gli esseri umani, i quali cesseranno di essere le forme più intelligenti sulla Terra.
Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibile. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, rapidamente in qualcosa di obbligatorio e non perché ci sia una costrizione fisica ma in quanto questi «possibili» che in linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri.
Il cervello umano viene di continuo equiparato a una «Macchina di Turing», capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso. Una “deterritorializzazione” che si declina in una «alterazione del cervello e del biologico organico in generale.
L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una lastra di gestione di informazioni ma si tratta di informazioni che non modellano il cervello perché non passano per il corpo. In altre parole: l’interscambio con le macchine “macchinizza” l’uomo.7
Viene definito Innovazione Sociale il processo generato dall’applicazione di nuove idee, metodi e processi ai bisogni sociali. Per analogia, l’Innovazione Sociale Digitale (ISD) può essere definita come la capacità di affrontare in modo innovativo le sfide sociali emergenti sfruttando la tecnologia digitale. Negli ultimi anni, l’ISD è cresciuta notevolmente, attirando l’attenzione non solo della società civile, ma anche di politici e organizzazioni pubbliche.8
L’ISD è una delle risposte positive alla quarta rivoluzione industriale. Si pensi ad esempio alla «teleriabilitazione sociale» e al supporto da remoto dei soggetti fragili. Ma bisogna anche analizzare a fondo i modi in cui le nuove tecnologie stanno trasformando il capitalismo.
L’informatica e la robotica stanno rendendo sempre più ridondanti gli attuali posti di lavoro, senza produrne di nuovi, come era avvenuto invece nelle precedenti ondate di automazione. Per contrastare questa situazione, sarebbe opportuno che le forze politiche, principalmente della sinistra, si confrontino e tentino di articolare un’azione comune su quattro questioni fondamentali:
L’automazione completa finalizzata a eliminare ogni forma di lavoro automatizzabile.
La riduzione della settimana lavorativa.
La distribuzione del reddito di base.
Il venir meno dell’etica del lavoro.
La battaglia politica per la piena occupazione dovrebbe essere sostituita dalla battaglia per la piena disoccupazione.9
Si tratta per certo di un paradosso e, al contempo, di una provocazione nei confronti di politiche che privilegiano la difesa degli occupati e poco si preoccupano di coloro che sono esclusi dal mercato del lavoro, in particolare i giovani con bassa qualificazione e le persone che perdono il lavoro ma sono troppo giovani per andare in pensione.
L’obiettivo, ovviamente, è quello di puntare a una più equa ridistribuzione del reddito e a una nuova concezione del lavoro.
Ciò che manca alla nostra civiltà, a questa megacultura occidentale identificabile come dell’Antropocene, è l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita «il male dell’infinito» è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti. Abbiamo costruito un sistema fondato sull’oggi. E allora bisogna chiedersi quale domani potrà mai esserci per una società che non pensa al futuro.10
La tecnologia crea le strutture dell’economia e l’economia media la creazione di nuove tecnologie, e quindi la propria creazione. Ci rammenta De Toni, nel capitolo terzo del libro, che nel breve termine non è visibile questo circolo di tecnologia creato dall’economia che a sua volta crea la tecnologia. L’economia appare fissa quando in realtà non lo è, osservandola in un lasso di tempo sufficientemente lungo.
Abbiamo profondamente alterato il metabolismo del super-organismo biosfera e la principale manifestazione di questa alterazione è la progressiva perdita di biodiversità che è il migliore indicatore della salute degli ecosistemi.11
La minaccia o addirittura l’estinzione di una specie vegetale o animale viene sempre più guardata come ormai un qualcosa di ineluttabile e, tutto sommato, non poi così grave come viene invece segnalato da anni. Addirittura anche l’estinzione di etnie o tribù di esseri umani è una notizia appresa con un certo distacco o proprio con disinteresse. Con l’idea di fondo, magari, che tutte queste specie a noi così diverse, forse, non avevano poi così tanto senso di esistere, canalizzati come siamo ormai in questo flusso di idee e azioni per cui dobbiamo abitare tutti in luoghi simili, cibarci di alimenti standardizzati, divertirci secondo meccanismi consolidati e via discorrendo.
Quanto valore viene realmente attribuito alla biodiversità del pianeta? E a quella umana?
Al momento, sottolinea De Toni, la situazione è quella di una proliferazione di sistemi particolari e una formazione incerta e contraddittoria di un megasistema generale da cui tutti i sistemi particolari pensano di poter attingere senza prendersene la responsabilità.
I vantaggi culturali, sociali, politici, economico-finanziari e soprattutto militari delle società occidentali erano figli del loro privilegio planetario. Oggi questo vantaggio tende ad annullarsi o a relativizzarsi.12
All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa «nuova epoca storica».13
Viene da chiedersi perché e, soprattutto, con quali conseguenze?
Se nel XIX secolo si produsse la Grande divergenza tra Occidente e resto del mondo, la fase nella quale siamo per ora agli inizi, dovrebbe essere pensata, per De Toni, in termini di Grande convergenza.
Sarebbero infatti da imputarsi alla reazione o al mancato adattamento dell’Occidente alle mutate condizioni:
L’attuale disordine economico.
La sclerosi ideologica che accompagna le politiche monetario-finanziarie.
L’indifferenza alla fenomenologia della sempre più vasta crisi ecologica.
Il riproporsi di ipotesi di guerre non più locali.
Le frizioni geopolitiche di grandi dimensioni.
La crisi delle leadership.
Una certa deriva tecno-scientista che si illude di domare la complessità (Natura) piuttosto che adattarsi.
La polarizzazione sociale, ovvero la comparsa di indici di diseguaglianza di altri tempi.
La spinta a semplificare una democrazia ritenuta sempre più un ingombro.
In Europa in particolare poi esiste un dramma di smarrimento specifico poiché sembriamo non sapere più neanche in che forma dovremmo organizzare le nostre società: tornare agli Stati-nazione nati sei secoli fa (Brexit docet) o passare a entità di livello superiore. Fermo restando però, continua De Toni, che non si ha la più pallida idea di come fare per realizzare un’impresa così complessa.
Il vero problema risulta quindi l’essere in uno sfasamento temporale: continuiamo a pensare secondo modi derivati da condizioni precedenti e differenti. Da qui la necessità di far corrispondere un nuovo pensiero complesso alla nuova complessità del mondo. Pensare un nuovo modo di stare al mondo.
Il libro di De Toni, Marzano e Vianello è sicuramente molto interessante, in ogni sua parte. Nel suo saper essere uno sguardo rivolto al passato, per meglio comprendere come si è giunti a questo punto. Come anche il suo saper analizzare e descrivere il presente nell’ottica del futuro, incerto, verso cui ci proiettano indecisione, ritardi, sbagli e manchevolezze di una ipercultura i cui limiti non si possono nascondere oltre. Meglio affrontarli quindi, sfruttando al meglio le conoscenze e il Sapere che proprio essa ha saputo accumulare. Intraprendendo quindi la via che conduce verso un «umanesimo digitale», il cui fondamento risiede nella consapevolezza che tutte le tecnologie, pur nelle entusiastiche prospettive indicate, hanno dei limiti e, soprattutto, non devono essere utilizzate per alimentare la deleteria volontà di potenza.14
Antropocene e le sfide del XXI secolo è un libro che si inserisce a pieno titolo come ottimo tra le pubblicazioni che, coraggiosamente, affrontano l’argomento e le sue numerose problematiche.
Il libro
Alberto Felice De Toni, Gilberto Marzano, Angelo Vianello, Antropocene e le sfide del XXI secolo. Per una società solidale e sostenibile, Meltemi Editore, Milano, 2022.
Gli autori
Alberto Felice De Toni: professore di Ingegneria Economico-Gestionale presso l’Università degli Studi di Udine e direttore scientifico di CUOA Business School.
Gilberto Marzano: direttore del Laboratory of Pedagogical Technologies presso la Rezeke Academy of Technologies (Lettonia), professore presso la Janusz Korczak Pedagogical University di Varsavia (Polonia) e presidente dell’Ecoistituto FVG.
Angelo Vianello: professore emerito di Biochimica Vegetale all’Università degli Studi di Udine.
1D. Reich, Chi siamo e come siamo arrivati qui. Il DNA antico e la nuova scienza del passato dell’umanità, tr. it. di G. Carlotti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019.
2C. Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano, 2011.
3D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens, III, I limiti dello sviluppo, tr. it. Di M. Filippo, Mondadori, Milano, 1972.
4J. Zalasiewict et. al., When did the Anthropocene begin? A mid-twentieth century boundary level is stratigraphically optinal, in «Quaternary International», n° 383, 2015.
5H. Martens, The Technocene: Reflections on Bodies, Minds and Markets, Anthem Press, London, 2018.
6N. Agar, Non essere una macchina. Come restare umani nell’Era digitale, Luiss University Press, Roma, 2020.
7M. Benasayag, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, Erickson, Trento, 2016.
8M. Stokes, P. Boeck, T. Baker, What next for digital social innovation, Nesta, UK, 2017.
9N. Srnicek, A. Williams, The Future isn’t Working, in «Juncture» n° 22 (3), 2015.
10M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione, Utet, Milano, 2020.
11F.M. Butera, Affrontare la complessità. Per governare la transizione ecologica, Edizioni ambiente, San Giuliano Milanese, 2021.
12P. Fagan, Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump, Fazi, Roma, 2017.
13K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.
14J.N. Rumelin, N. Weidenfeld, Umanesimo digitale. Un’etica per l’epoca dell’intelligenza artificiale, Franco Angeli, Milano, 2019.
Il colonialismo è mai davvero finito, oppure è stato semplicemente adattato ai tempi? Trovare una risposta a questa domanda è molto più complesso di come si potrebbe immaginare, perché quando si parla di colonialismo, pur ignorandolo, ci si riferisce a un qualcosa che va ben oltre la conquista e il possesso di territori e beni.
Per Georges Balandier, il post-coloniale non consiste nella cancellazione del coloniale, ma solo delle sue forme più apparenti. La società coloniale, fondata sulla dominazione, è inseparabile dalla società colonizzata, oggetto della dominazione.
Oltre che dalla messa in rapporto delle differenze culturali, la situazione coloniale nasce dagli scarti stabiliti fra i suoi elementi costitutivi e dalla logica inegualitaria che ne organizza le relazioni.
Dal punto di vista formale, queste relazioni si stabiliscono tra una minoranza demografica costituita in maggioranza sociologica dalla dominazione che esercita, cioè la società coloniale, e una maggioranza demografica ridotta allo stato di minoranza sociologica, che è poi la società colonizzata.
Quando le nazioni europee si sono imposte ai popoli cosiddetti «arretrati», li hanno stupefatti con la loro potenza tecnica e ricchezza; alcuni di questi popoli hanno subito sviluppato una sorta di complesso di inferiorità tecnologico.
Il consolidamento delle economie coloniali ha rovinato le rudimentali industrie locali, anche quelle asiatiche che avevano conosciuto una certa prosperità, lasciando sopravvivere solo un commercio di tratta che sottrae ricchezze naturali in cambio di un flusso di mercanzie. Per ottenere queste ultime, le quali hanno sempre più un ruolo importante per la sua esistenza, il colonizzato si lega progressivamente alla società coloniale, che diventa simbolo della sua dipendenza e indigenza.
La sempre più urgente necessità di avere un sistema economico reale che garantisca un generale innalzamento del tenore di vita si è andata affermando in presenza di potenze coloniali tutrici rimaste sempre riluttanti.
Quasi paradossalmente, anche i flussi migratori dalle ex-colonie verso gli ex-paesi colonizzatori sono un altro modo di mantenere le relazioni.
La colonizzazione infatti ha potuto beneficiare, ricorda Balandier, dell’esistenza del bisogno di dipendenza.
Nei casi più estremi, quelli dei popoli con meno resistenza socio-culturale, come avvenuto in gran parte dell’Africa nera, gli sconvolgimenti sono stati profondi e l’equilibrio tradizionale è stato radicalmente alterato.
La conseguenza di queste trasformazioni, e di politiche coloniali che hanno voluto sostituire, limitare o sedurre le autorità tradizionali, ha portato alla rottura dei vecchi rapporti di dipendenza e di sottomissione. L’origine dell’autorità e del potere è stata trasferita, resa estranea.
La dipendenza del mondo arabo dall’Occidente ha condotto a una decadenza dell’Islam, anche se poi gli elementi più occidentalizzati dei paesi arabi hanno indotto reazioni popolari di purismo musulmano, violento e passionale, spiegando così, almeno in parte, gli antagonismi che dividono le nazioni arabe e le azioni/reazioni verso il mondo occidentale.1
Gli studi cui si fa riferimento sono iniziati nella seconda metà del Novecento, non potevano sapere ma sembra abbiano saputo prevedere gli scontri e le derive che queste insofferenze hanno poi generato sul limitare del nuovo Millennio. Una vera e propria esplosione di rabbia e insofferenza che va dalle innumerevoli guerre civili nel continente africano, alle Primavere arabe e i troppi movimenti estremisti che hanno mescolato e fuso tradizione, religione e jihad.
La natura stessa delle reazioni suscitate dai rapporti o relazioni è legata al processo dominante.
In alcuni contesti, i problemi essenziali sembrerebbero di natura culturale – come per esempio in Africa Equatoriale -, attirando così l’attenzione quasi esclusiva degli antropologi.
In altri, si manifestano tensioni nelle relazioni razziali – come in Sudafrica – o problemi politici, come nei nazionalismi asiatici e africani, e allora l’interesse diventa un po’ più generalizzato.
Su tutti comunque pesa la «psicologia particolare dei colonizzati» e il loro bisogno di dipendenza, nonché ovviamente l’atteggiamento predatorio dei colonizzatori.
La società colonizzata può essere considerata come una società alienata, più o meno influenzata nella sua organizzazione socio-culturale a seconda della capacità di resistenza: tanto più è sottomessa alla pressione della società dominante e straniera tanto più è degradata.
Nella gran parte delle regioni sudafricane, l’arrivo degli europei e l’insieme dei cambiamenti che innescò ebbe l’effetto di scatenare una violenta conflittualità interna. Una situazione generata anche dalla perdita dei punti di riferimento originari. La forte emigrazione, per esempio, ebbe come conseguenza diretta un profondo indebolimento del tessuto familiare e sociale che portò a un declino pressoché totale del settore agricolo.
Spesso gli osservatori europei hanno insistito sulla intrinseca fragilità delle democrazie africane, apparentemente incapaci di raggiungere un adeguato livello di maturazione. Invece questi fenomeni, apparsi in un primo momento nel mondo coloniale e post-coloniale, stanno progressivamente investendo anche le democrazie occidentali. Si diffondono a macchia d’olio nei paesi del Nord sempre più alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. Dove si registra un continuo e progressivo indebolimento del tessuto sociale ed economico.
Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione dello sviluppo occidentale. Liberandoci di questa prospettiva ottocentesca, si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica.
Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del Terzo Mondo, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. L’Africa, a quanto pare, sta diventando una condizione globale.2
L’Europa e l’Occidente tutto volutamente hanno diffuso l’idea di essere emblema di civiltà, progresso, benessere e cultura. I flussi migratori rispecchiano anche la volontà che in tanti manifestano di raggiungere proprio civiltà, progresso, benessere, cultura. Abbiamo già visto come i legami, o meglio le relazioni di dipendenza con gli stati ex-coloniali permangono e persistono anche allorquando si affermi l’avvenuto abbandono del sistema coloniale.
Tuttavia in tempi recenti si assiste a un qualcosa che definire paradossale è assolutamente riduttivo.
Rwanda e Gran Bretagna hanno siglato un accordo in base al quale, a partire dal 14 giugno 2022, saranno trasferiti nel Paese africano una parte degli immigrati illegali sbarcati nel Regno Unito in attesa che si decida sulle loro richieste di asilo.
L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha subito espresso la sua forte opposizione al piano britannico perché «le persone in fuga da guerre e perseguitate meritano compassione ed empatia. Non dovrebbero essere scambiate come fossero merci e trasferite all’estero in attesa dell’esito delle loro richieste di asilo politico»3
Per il primo ministro inglese si tratta di una misura per scoraggiare l’immigrazione illegale attraverso il Canale della Manica, percorso quotidianamente da barchini e gommoni. Una misura volta a minare la forza dei trafficanti di esseri umani.
E pensare che c’è stato un tempo, mai troppo lontano, nel quale non barchini ma navi e bastimenti partivano carichi di esseri umani e procedevano con la rotta inversa, ovvero dall’Africa verso il Nuovo Mondo, che trafficanti olandesi, francesi e inglesi trasportavano in catene. L’isola di Gorée, da cui partivano, è Patrimonio UNESCO dell’Umanità dal 1978.
(Fonte: Mondadori Education)
Una stima approssimativa ma significativa ricordava che i territori coloniali coprivano, all’epoca, un terzo della superficie del globo, e che settecento milioni dei due miliardi di abitanti totali era costituito da popoli assoggettati.4
Ecco perché, per Georges Balandier, qualsiasi studio delle società colonizzate, volto a una conoscenza della realtà contemporanea e non una ricostruzione di carattere storico, e mirato a una comprensione che non sacrifichi la specificità per la comodità di una schematizzazione dogmatica, può essere condotto solo facendo riferimento alla complessità di ciò che viene chiamata situazione coloniale.
Un’epoca caratterizzata dall’urgenza e dalla gravità di due tipologie di problemi che si impongono alle nazioni capitaliste e coloniali:
Quelli legati alle pressioni esercitate dai proletari.
Quelli nati dall’ascesa dei popoli colonizzati e dipendenti (rising nations).5
D’altra parte, si potrebbero mettere in connessione i due fenomeni utilizzando l’espressione dello storico Arnold J. Toynbee, di proletari «interni» ed «esterni» i cui problemi conseguono dalla reazione alla dominazione subita e dalla lotta per il riconoscimento.
All’arrivo dei tedeschi, sul limitare del XIX secolo, la società e la monarchia ruandesi erano un sistema feudale in piena evoluzione. I colonizzatori si limitarono inizialmente a congelare la situazione preesistente. Anche il Belgio dapprima attuò una forma di governo indiretto, ma poi manovrò per scaricare il malcontento sul prestigio della monarchia feudale, attuando de facto una separazione tra il re e i capi collina. L’intervento europeo sulla società feudale del Rwanda aveva trasformato i rapporti sociali, indurendoli attraverso gerarchie d’importazione e contribuendo in maniera cospicua alla loro razzializzazione.6
Gli hutu erano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi il 14 e il restante 1 per cento era composto da twa pigmei.
Una ricerca condotta a Bruxelles tra il 2001 e il 2003 presso le comunità di rifugiati ed esuli ruandesi ha mostrato come la questione identitaria sia stata ulteriormente acutizzata proprio a causa della condizione di popolo in diaspora.7
In Rwanda invece la presidenza Kagame ha sempre dichiarato di voler sopprimere l’appartenenza etnica, in linea con le idee di nazionalismo africano convenzionale, che condivide e condivideva con quello più radicale la volontà di de-razzializzare le istituzioni, lo Stato e il diritto.8
(Memoriale della schiavitù a Rotterdam)
«Detesto il confinamento. La scelta di un mestiere che mi ha portato alla scoperta di culture differenti, alla conoscenza di come gli altri esprimono altrimenti la loro presenza al mondo e l’appartenenza al divenire storico, mi ha permesso di uscire dal recinto della mia cultura.»9
Balandier è stato promotore di un’antropologia sensibile alle dinamiche del cambiamento e di una sociologia attenta alle nazioni ex-colonizzate, come anche osservatore acuto delle trasformazioni che dalla fine del Novecento hanno investito le società europee.
Mai come i primi venti anni del nuovo Millennio in Europa la prosperità è stata così alta e diffusa e vi è stata tanta pace. Eppure, mai come in questo periodo, vi è stato un sentimento così diffuso, profondo e cupo di pessimismo per il futuro.
Perché l’Occidente si sente perduto?
All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. Fino a tempi recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7 ma, negli ultimi due decenni, la situazione si è invertita. Nel 2015 le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, mentre quelle degli E7 per il 36.3 per cento. Il Resto del mondo ha compreso come poteva replicare il successo occidentale nella crescita economica, nella sanità, nell’istruzione. Ora, come è stato possibile che l’Occidente non se ne sia accorto oppure non vi abbia dato importanza?
Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente non ha bisogno di essere bombardato.10
Insoddisfatto rispetto all’etnologia classica francese, per la sua inclinazione a studiare le società indigene come astratte rispetto al contesto coloniale in cui sono immerse, Balandier si distanzia anche da quelle tradizioni statunitensi e britanniche del primo dopoguerra, che pure hanno iniziato a mostrare interesse per le problematiche generate dall’incontro e dalla coabitazione di culture diverse. Egli rivendica l’importanza di studiare la dimensione macro delle relazioni inter-societarie, oltre che quella microscopica delle interazioni fra colonizzatori e colonizzati all’interno di circostanze specifiche.
Balandier ha dichiarato il suo stupore allorquando ha visitato in prima persona i possedimenti francesi, prima in Senegal e poi in Guinea, affermando di aver scoperto l’indigenza assoluta, i tropici senza la mascherina dell’esotismo, la colonia senza le decorazioni della potenza.
Ma poi è arrivato il momento anche per la potenza di essere guardata senza più il confronto con il primitivo.
La situazione coloniale, generata dall’espansione europea su buona parte del globo, ha unito società eterogenee. Il processo spezza dall’interno la società colonizzata, che si riorganizza secondo un principio di prossimità e distanza dei vari gruppi indigeni – per cultura, abitudini e stile di vita – dal modello di umanità superiore che i colonizzatori si arrogano il diritto di impersonare.
L’incontro tra culture eterogenee non ha modificato e stravolto solo gli Stati colonizzati ma anche quelli colonizzatori, nel breve e lungo periodo. Comprendere quindi le dinamiche di quell’ampio e variegato fenomeno noto come “situazione coloniale” è necessario non solo per conoscere la Storia ma, soprattutto, per comprendere il presente e le sue spesso incomprensibili dinamiche.
Soprattutto in Africa Equatoriale, Balandier è stato fra i tecnici le cui competenze avrebbero dovuto ispirare la trasformazione guidata delle società indigene, si trova poi, rientrato nel contesto metropolitano, ad ampliare la portata teorica delle intuizioni consegnateli dalle ricerche africane. I suoi interessi scivolano dalla riflessione sul colonialismo a quella sullo sviluppo, un termine centrale sia rispetto al discorso coloniale che a quello anti-coloniale.11
Balandier ha iniziato la riflessione sui rapporti fra società differenti dal punto di vista tecnico, economico e culturale considerando la situazione coloniale perché la dipendenza è una caratteristica della colonizzazione che si può riscontrare anche quando, senza una presa di possesso territoriale, una società interferisce dall’esterno con le dinamiche interne di un’altra. E il quadro delle ingerenze senza un reale possesso territoriale sembra rappresentare tutto il periodo, indicato come post-colonialismo, che giunge fino ad oggi.
La decolonizzazione, riallineando gli equilibri mondiali, ha generato nuovi condizionamenti in un clima di tensione crescente fra le superpotenze della Guerra Fredda.
I poteri imperiali europei, così come gli Stati Uniti, favoriscono i regimi che si oppongono al comunismo cercando al contempo di preservare le relazioni economiche coloniali. Confondendo il nazionalismo radicale con il comunismo e immaginando coinvolgimenti sovietici ovunque, hanno sponsorizzato attori locali che abbiano accettato la presenza di basi occidentali sul territorio.
Con meno risorse, l’Unione Sovietica ha sostenuto regimi espressisi in favore del socialismo scientifico e di un modello di sviluppo sovietico, così da rispondere al consolidamento della presenza occidentale e al coinvolgimento cinese con l’Africa.12
Nella fine della Guerra Fredda poi l’Occidente tutto ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. La vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno Stato che, mentre il suo nemico “vincente” gongolava, si è pian piano ripreso fino a tornare a occupare il posto che aveva come potenza a livello mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica.13
Sia per gli attori esterni che per quelli interni, la parola chiave è modernizzazione, un processo guidato di trasformazione tecnologico-sociale che avrebbe dovuto portare gli ex-colonizzati ad acquisire gli standard e gli stili di vita degli ex-colonizzatori, migliorando la condizione complessiva dell’umanità.
Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.14 Lo stesso andrebbe quindi fatto per le economie di Terzo e Quarto mondo.
Ma Balandier considerava i costi umani e le conseguenze socio-politiche delle transizioni modernizzatrici troppo spesso imprevedibili, così come le nuove diseguaglianze che si profilano al superamento delle precedenti.
Agli inizi del Nuovo Millennio l’approccio teorico di Balandier conosce, in Francia, una nuova fortunata stagione, la quale è coincisa con la risposta violenta del governo alla mobilitazione dei Sans-Papiers, ovvero gli immigrati dalle ex-colonie francesi con titoli di soggiorno ambigui perché il Paese ha progressivamente ristretto le sue politiche di immigrazione e acquisizione della cittadinanza. Una dura repressione che anima un acceso dibattito sul «debito di sangue» che la nazione ha contratto con i Tirailleurs Sénégalais, un corpo di fanteria composto da reclute forzate inizialmente dal Senegal e dal Mali e poi dall’intera Africa sub-sahariana francese,15 utilizzato tanto nelle colonie quanto in Europa durante le due guerre mondiali.
Poi nell’ottobre e novembre del 2005, le rivolte giovanili nelle periferie delle principali città francesi, danno voce a un disagio pluri-decennale mai seriamente affrontato: dietro la pretesa di un’assimilazione a partire dall’erosione di pratiche culturali pre-esistenti, l’integrazione alla francese ha mascherato la riproduzione e il rafforzamento di tratti culturali e razziali percepiti come inaccettabili rispetto all’assetto repubblicano.16
È significativo nelle circostanze che la proclamazione dello stato di emergenza per fermare l’ondata di violenza si appoggi alla legislazione utilizzata dal 1955 per sedare le proteste contro la Guerra d’Algeria (1954-1962). L’allora Ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, etichetta i rivoltosi come racaille, ossia feccia, un’evocazione del vocabolario razzializzante coloniale, mentre larghe sezioni dell’opinione pubblica, convinte che il colonialismo non riguarda la loro Francia, ritengono i partecipanti alle proteste indegni di essere o diventare Francesi.17
La decolonizzazione ha generato una frattura nel senso di sé delle ex-potenze coloniali, trasformandole da leader auto-proclamati della storia globale ad attori come gli altri. Il baricentro della situazione coloniale si è spostato, attraverso l’immigrazione, nelle periferie delle ex-metropoli imperiali, dove il pluralismo culturale e sociale generato interiorizza, a dispetto della possibilità di altri linguaggi e dinamiche culturali, modelli coloniali.
Per capire e giudicare un’epoca, secondo Balandier, occorre porsi dal punto di vista di coloro che l’hanno vissuta, capire tanto le circostanze quanto le conseguenze delle scelte compiute e delle decisioni prese sul piano personale e professionale.
Egli ritiene che, oltre a constatare ed esporre criticamente l’eredità coloniale francese, si debba continuare la lotta per «creare l’attuale altrimenti».18
«La ripetizione di formule passate, di saper-fare trascorsi, non è più sufficiente. Per avere accesso a una democrazia condivisa, è soprattutto necessario aprirla alle differenze così da sigillarla rispetto a dinamiche di dominazione oltre che esclusive, funeste».
I saggi di questa raccolta, come l’intera opera di Balandier sono straordinariamente attuali. È interessante e, per certi versi, sorprendente notare quanto la sua ricerca, al pari di quelle di tanti altri studiosi capaci di liberarsi dai preconcetti e dai pregiudizi, sia riuscita a vedere e a prevedere le società, colonizzate e colonizzatrici, e a seguirne le varie evoluzioni. Un lavoro straordinario.
Il libro
Georges Balandier, La situazione coloniale e altri saggi, Meltemi Editore, Milano, 2022.
Traduzione e introduzione di Alice Bellagamba e Rita Finco.
Titolo originale: La situation coloniale: Approche théorique, Cahiers Internationaux de Sociologie, Paris, 1951.
L’autore
Georges Balandier: È stato uno dei massimi esponenti della ricerca antropologica francese. Intellettuale critico, pioniere della ricerca africanista e ideatore della nozione di «Terzo Mondo», è stato promotore di una prospettiva metodologica sensibile alle dinamiche del cambiamento, nonché osservatore acuto delle trasformazioni che dalla fine del Novecento hanno investito le società europee.
1H.A.R. Gibb, La réaction contre la culture occidentale dans le Proche.Orient, in «Monde d’Orient», Editions Maisonneuve et Co, Paris, 1951; R. Montagne, Naissance du prolétariat marocain, in Cahiers de l’Afrique et en l’Asie, Vol. III, I Trimestre, Paris, 1952.
2Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.
3È quanto si legge in un tweet di UNHCR, the UN Refugee Agency del 14 aprile 2022 consultabile al seguente link: https://twitter.com/Refugees/status/1514699018500292617/photo/1
4R. Kennedy, The Colonial Crisis and the Future, in R. Linton, ed., The Science of Man in the World Crisis, Comulbia University Press, New York, 1945.
5J. Obrebski, The Sociology of Rising, in «International Social Science Bulletin», Unesco, Vol. III, n° 2, 1951.
6M. Giro, Guerre Nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.
7C. Pratesi Innocenti, Ibuka. Pratiche, politiche e rituali commemorativi della diaspora ruandese, Annuario di Antropologia 5, 2005.
8S. Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci Editore, Roma, 2010.
14J. E. Stiglitz e B. C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018.
15G. Mann, Immigrants and Arguments in France and West Africa, in «Comparative Studies in Society and History», Vol. XLV, n° 2, 2003.
16F. Bernault, Colonial Syndrome: French Modern and the Deceptions of History, in C. Tshimanga, C.D. Gondola, P.J. Bloom, Frenchness and African Diaspora: Identity and Uprising in Contemporary France, Indiana University Press, Bloomington, 2009.
17A. Stoler, Colonial Aphasia: Race and Disabled Histories in France, in «Public Culture», Vol. XXIII, n° 1, 2011; F. Bernault, Colonial Syndrome: French Modern and the Deception of History, in C. Tshimanga, C.D. Gondola, P.J. Bloom, Frenchness and the Africa Diaspora: Identity and Uprising in Contemporary France, Indiana University Press, Bloomington, 2009; A. Mbembe, Faut-il provincialiser la France?, in «Politique africaine», n° 119, 2010.
18C. Coquery-Vidrovitch, Hommage à Georges Balandier, in «Presence Africane», n° 194, 2016.
«Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe e non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra.» È questo l’assunto da cui parte Peter Andreas per scavare nella Storia umana, quella moderna e contemporanea in particolare, per scoprire il ruolo decisivo che le sostanze psicoattive – pesanti, leggere, lecite, illecite, naturali, sintetiche – hanno e hanno avuto nei conflitti armati.
Perché se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro i soldati combattono sempre più “fatti” di droga, letteralmente.
Molti di coloro a cui è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte, esattamente come è accaduto da… sempre praticamente, come si evince chiaramente e facilmente dalla dettagliata ricostruzione e analisi compiuta da Andreas.
Sono costantemente in aumento le prescrizioni di farmaci che aiutino i soldati ad affrontare le cicatrici fisiche e mentali riportate sul campo di battaglia. Migliaia sono i soldati americani, di ritorno dall’Afghanistan e dall’Iraq, che dipendono da essi.1 Farmaci che contengono oppioidi.
Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, ovvero la somministrazione di sostanze o farmaci psicoattivi fatta in maniera preventiva, ossia per stimolare e migliorare le prestazioni sul campo. Ai classici alcol, tabacco, droghe più o meno leggere, naturali o sintetiche, si affianca un uso sempre più consistente e diffuso dei cosiddetti farmaci antifatica, volti al miglioramento cognitivo e prestazionale dei soldati.
Un rapporto del laboratorio di ricerca dell’areonautica statunitense suggerisce di costringere i nemici ad attivarsi continuamente senza beneficiare di un sufficiente sonno quotidiano. E, naturalmente, per fare questo bisogna essere in grado di gestire la fatica dei soldati americani.2 Non c’è da stupirsi dunque se diversi Paesi e ricercatori dell’esercito hanno sperimentato metodi per contrastare il sonno. Gran parte delle ricerche si è concentrata sul Modafinil, un farmaco che si ritiene causare meno dipendenza e meno effetti collaterali rispetto alle amfetamine. Già da oltre un decennio, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia distribuiscono compresse di Modafinil ai militari sul campo.3
Per Andreas è certo che l’impulso a dare vantaggi chimici alle truppe proseguirà, in quanto la crescente complessità dei combattimenti e i progressi tecnologici, stando anche alle parole dei ricercatori della MITRE Corporation (incaricata dall’ufficio di ricerca e ingegneria della Difesa del Pentagono), hanno aumentato la necessità di prendere decisioni tattiche rapide a livelli di comando inferiori e hanno quindi diffuso orizzontalmente a più persone la responsabilità di operare delle scelte di indirizzo.4
Ci si può agevolmente attendere che anche ribelli, terroristi e altri attori non statali continuino a ricorrere alle sostanze psicoattive per le stesse ragioni delle controparti statali. Con la grande differenza, però, che non avranno accesso legale alla crescente varietà di opzioni farmacologiche disponibili per gli eserciti contemporanei.
I resoconti indicano che lo Stato Islamico e Boko Haram hanno regolarmente drogato i bambini soldato prima di impiegarli per attacchi suicidi.5 E sembra sia accaduto lo stesso nel caso di alcuni adolescenti kamikaze in Pakistan.6Tuttavia Andreas sconsiglia di giungere a conclusioni avventate. Pare che per alcuni combattenti basti l’ideologia estremista come stimolante, senza il bisogno di alcun aiuto chimico.
La piaga della droga, dal punto di sociale e non solo militare, è notevolmente profonda, radicata e diffusa. Molti Stati sembrano aver intrapreso delle vere e proprie guerre contro di essa. Ma per l’autore, quella contro la droga è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.
Verrebbe da aggiungere che gli Stati, Italia compresa, sembrano operare una guerra altrettanto selettiva con riguardo ai prodotti sui quali è apposto il sigillo del Monopolio: alcol e tabacco. E sembra farlo perché, comunque, sono fonte di copiose entrate per le casse sempre piangenti della nazione. Motivo che sembra essere stato alla base di tante operazioni di sfruttamento e commercio delle droghe fin dai tempi degli antichi Romani, in quelle che Andreas definisce «Guerre grazie alla droga», ovvero ai suoi proventi.
Stando ai dati riportati nel Libro Blu 2020 dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, il contributo per l’erario dai tabacchi è stato pari a 14.6 miliardi, mentre quello per energia e alcolici 29.10 miliardi di euro.
Sul sito del Ministero della Salute si legge che in Italia siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93mila morti. L’aggiornamento è del 31 maggio 2021.
Mentre, stando ai dati riportati dall’Istituto Superiore di Sanità e contenuti nel Rapporto 2022, sono 17mila i decessi annuali causati dall’alcool.
Parafrasando la celebre frase di Charles Tilly («Gli Stati fecero la guerra e la guerra fece gli Stati»), Lessing ritiene che oggi «gli Stati fanno la guerra alla droga e la guerra alla droga fa gli Stati», con dei seri rischi da non sottovalutare.
Uno dei pericoli è che le guerre della droga possano produrre un rafforzamento eccessivo di alcuni attori statali, creando stakeholders consolidati, dotati di autorità e discrezionalità sproporzionate, che si opporranno agli aggiustamenti politici necessari una volta che la violenza legata alla droga sarà diminuita.7
Del problema concreto che provvedimenti emergenziali diventino poi strutturali ne parla anche Barberis allorquando sottolinea la tendenza degli esecutivi di appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto.8
Inoltre, Lessing ricorda che una parte fondamentale e spesso trascurata delle tesi di Charles Tilly è che può essere lo Stato, operando come un racket della protezione, a creare la stessa minaccia alla sicurezza contro cui in seguito fornisce protezione.
Sebbene non sia quello che Tilly aveva in mente, per Andreas il suo argomento può essere esteso alla guerra alla droga: con l’atto di criminalizzare la droga, lo Stato crea la minaccia, e ciò a sua volta offre allo Stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata.
Dall’uso di oppiacei da parte dei soldati al loro impiego come arma o mezzo per il finanziamento, l’oppio e la guerra sono rimasti stretti a lungo in un abbraccio mortale. Il commercio dell’oppio e la costruzione degli Imperi andarono di pari passo nelle potenze occidentali, soprattutto in Gran Bretagna.
Londra mise il commercio dell’oppio nelle mani della sua Compagnia delle Indie Orientali, che all’inizio deteneva anche il monopolio sull’importazione di tè cinese.
Il tè e l’oppio trasformarono la Compagnia Britannica delle Indie Orientali nella corporation più potente che il mondo abbia mai visto.
Nella Prima Guerra dell’oppio gli americani restarono a guardare. Al contrario, la Seconda Guerra rimosse ogni argine.
Il Dipartimento di Stato appoggiò la richiesta del vescovo Brent di indire una Conferenza internazionale per il controllo del traffico dell’oppio, rendendosi conto di come fosse funzionale anche ad altri interessi strategici. In particolare, avrebbe agevolato una maggiore influenza statunitense nel Pacifico, segnatamente alle spese del principale concorrente, la Gran Bretagna, e avrebbe contribuito a rinsaldare i rapporti con il governo cinese, fortemente contrario al commercio dominato dagli inglesi.
Dopo aver combattuto due guerre dell’oppio internazionali con la Gran Bretagna, la Cina fu consumata da decenni di guerre dell’oppio interne, tra i signori della guerra in lotta tra di loro, nei primi decenni del Novecento.
Gli sforzi repressivi, nazionali e internazionali, spinsero il business dell’oppio nella clandestinità, anziché al fallimento. Per di più, incentivarono il mercato nero a smerciare derivati più compatti, portatili, occultabili e potenti – prima la morfina e poi l’eroina – anziché l’oppio tradizionale, che è molto più leggero e crea meno dipendenza.9
Oggi la Cina sta diventando un sempre più rilevante esportatore illegale di droghe sintetiche come il Fentanyl – che i distributori mescolano spesso all’eroina – verso i Paesi occidentali.
L’autore sottolinea come anche osservando le contemporanee guerre alla droga si evince chiaramente il loro limite strutturale. I trafficanti eliminati e la droga sequestrata, che gli Stati usano come misura del loro “successo”, sono in realtà facilmente sostituibili. Chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare.
Come nel caso del Messico, dove il bilancio della violenza connessa alla droga si è militarizzata più che mai. Il dispiegamento di soldati per combattere la droga è stata una delle prime cose che ha attratto l’attenzione dell’autore e lo ha invogliato a indagare sempre più a fondo e sempre più a ritroso nel tempo.
Verso la fine di dicembre del 1989, gli Usa lanciarono l’Operazione Giusta Causa, invadendo Panama e arrestando il suo leader, il generale Manuel Noriega, con l’accusa di traffico di cocaina. Negli anni seguenti, la lotta alla cocaina rimpiazzò la lotta al Comunismo come fattore chiave delle relazioni militari di Washington con i suoi vicini meridionali.
Eppure, mentre negli anni Ottanta i ribelli afghani in lotta contro i sovietici, sostenuti dalla CIA, coltivavano e vendevano l’oppio per finanziare la loro causa, Washington, sulla falsariga delle esperienze nel Sudest asiatico, girava lo sguardo verso un’altra direzione.
Il traffico d’oppio fu ancora una volta il grande vincitore della più importante operazione sotto copertura della CIA dai tempi del Vietnam.
Per combattere l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, la CIA agì tramite l’Inter Services Intelligence (ISI – i servizi segreti pakistani) a supporto dei signori della guerra afghani, che ricorsero alle armi, alla logistica e alla protezione dell’agenzia per diventare signori della droga di primo piano.10
Le autorità statunitensi anche in questo caso sembravano ben consapevoli della situazione, ma chiusero un occhio in nome di obiettivi geopolitici di più ampio respiro: «Non lasceremo che una piccola cosa come la droga interferisca con la situazione politica – spiegò un funzionario dell’allora amministrazione Reagan – e quando i sovietici se ne andranno e nel Paese non ci saranno soldi, porre fine al traffico di droga non sarà una priorità.»11
Innumerevoli sono gli esempi riportati da Andreas nel testo, contraddizioni tattiche e comportamentali che giungono o risalgono alle Guerre per l’Indipendenza americana e ancor prima alle Guerre di conquista dei Romani. Un elenco infinito di situazioni che potrebbero anche sembrare surreali se non fossero tutte supportate da valide e certificate fonti documentali. Riguardo gli esempi più recenti poi sono o sono stati sotto gli occhi di tutti, per cui non ci sarebbe neanche bisogno di ricorrere a fonti che le attestino. Eppure l’autore lo fa con scrupolo e metodicità.
Sono per certo argomenti spinosi quelli trattati da Peter Andreas in Killer High, ci vuole una grande conoscenza per parlarne come egli ha fatto. E servono anche tanto coraggio e fors’anche un pizzico di incoscienza perché di sicuro non sono mancati coloro che hanno frainteso l’intento del libro o, peggio, hanno volutamente strumentalizzato il suo scopo.
Personalmente ritengo sia superfluo eppure necessario precisare che mai appare nelle intenzioni dell’autore screditare la figura del soldato o l’istituzione dell’esercito. E ciò, per chi legge il libro dall’inizio alla fine, è cristallino come acqua di sorgente.
Dal resoconto di Andreas si può dedurre che, in ogni epoca e luogo, i soldati hanno avuto necessità di «incoraggiamenti» e questa altro non è che un’ulteriore conferma dell’assurdità della guerra in generale ma di di quella sul campo in particolare.
Si può anche supporre e dedurre che questi «incoraggiamenti» di varia natura siano stati strategicamente veicolati e indirizzati per raggiungere scopi e obiettivi altrimenti improponibili. Anche che siano stati oggetto ripetuto di speculazioni.
Quel che è sicuramente certo è che, leggere Killer High, aiuta a meglio comprendere la Storia sì, ma ancor di più l’attualità e le sue guerre.
Si chiede Andreas cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire. Finirebbe anche la violenza?
Alcuni considerano la dichiarazione di pace come una sorta di bacchetta magica, soprattutto se concerne la legalizzazione della droga. Certo, la legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Ma l’autore sottolinea come, con ogni probabilità, i narcotrafficanti in breve tempo diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol.
Il fascino di un’idea del genere è comprensibile. Eppure Andreas mette in guardia il lettore da un eccesso di elogio riguardo i suoi potenziali effetti pacificatori. Non tutta la violenza è connessa alla droga, perché gli affari vanno ben oltre gli stupefacenti.
Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga le recenti ondate di violenza. Il che suggerisce che non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disapplicate.
E questo solleva l’ardua questione di come la pace possa essere raggiunta facendo a meno della legalizzazione, in base anche al principio avallato dall’autore che il proibizionismo è indispensabile per la guerra alla droga, ma la guerra alla droga non è indispensabile per il proibizionismo.
Per esempio, invece di persistere nella repressione militarizzata della guerra, il governo messicano potrebbe impegnarsi maggiormente per assegnare la priorità alla limitazione della violenza, più che dei narcotici.
Bisogna inoltre riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga. In fin dei conti, sarà probabilmente la guerra l’abitudine, o la dipendenza, più difficile da sradicare.
Un mondo senza conflitti sembra purtroppo realistico quanto un mondo senza droga. E per Andreas l’unica cosa che si può prevedere con qualche certezza è che le droghe e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale.
Una conclusione che potrà anche sembrare brutale ma che è, purtroppo, molto realistica e ponderata sull’analisi di due millenni di Storia ormai durante i quali questo mortale abbraccio ha cambiato sostanze psicoattive ma non ha cambiato granché i modi, i metodi e gli scopi.
Killer High. Storia della guerra in sei droghe di Peter Andreas è un testo sorprendente perché mai il lettore che si accinge a leggerlo può preventivamente comprendere la reale grandezza del suo contenuto. Un libro necessario.
Il libro
Peter Andreas, Killer high. Storia della guerra in sei droghe, Meltemi Editore, Milano, 2021.
Titolo originale: Killer high. A history of war in six drugs.
Traduzione di Andrea Maffi e Paolo Ortelli.
L’autore
Peter Andreas: politologo e docente di Relazioni internazionali alla Brown University.
1Q. Lawrence, A Growing Number of Veterans Struggles to Quit Powerful Painkillers, All Things Considered, National Public Radio, 10 luglio 2014.
2W. Saletan, The War on Sleep, in “Slate”, 29 maggio 2013.
Il 31 marzo 2015 è entrata in vigore la Legge 81/2014 che ha sancito la definitiva chiusura dei rimanenti sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) ancora attivi in Italia. La medesima Legge stabilisce il nuovo assetto assistenziale prevedendo la messa in funzione di strutture alternative, chiamate REMS (Residenze per Emissione delle Misure di Sicurezza). Cambio di nome ma, sopratutto, inversione di rotta. Le parole chiave ora dovrebbero essere approccio curativo-riabilitativo.
Il condizionale però in questi casi rimane quasi un obbligo.
In un lungo e articolato contributo per rivistadipsichiatria.it si può leggere un’analisi, dettagliata e articolata, delle principali obiezioni e criticità inerenti le modifiche apportate dalla nuova Legge e l’istituzione delle REMS.
– Mancata riforma del Codice penale.
– Equazione ritenuta non corretta tra infermità mentale, malattia mentale e pericolosità sociale.
– Ritardi nella costruzione delle REMS e ricorso a strutture residenziali alternative.
– Confini incerti della responsabilità professionale del personale incaricato.
L’opinione diffusa riguardo gli OPG è ben nota a tutti, frastagliata di scandali, abusi, violenze, recriminazioni, denunce… E la si potrebbe agevolmente sintetizzare nelle parole del presidente emerito Giorgio Napolitano “autentico orrore indegno di un paese appena civile“.
Eppure c’è stato chi, a ridosso della chiusura degli OPG, vi è voluto entrare e restarci quanto più tempo possibile gli occorreva per capire, studiare, analizzare, guardare, osservare, vedere, ascoltare… per cercare altro oltre agli scandali, alle violenze, alle denunce, ai maltrattamenti. Nasce da questa idea la ricerca etnografica sul campo condotta da Luigigiovanni Quarta in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario italiano tra il 2014 e il 2015 e diventata il libro Resti tra noi edito da Meltemi con prefazione di Fabio Dei.
Una ricerca, quella condotta da Quarta, che lo ha portato non solo a conoscere quell’universo ma anche a interrogarsi sul ruolo da egli stesso ricoperto nel relazionarsi con quell’ambiente “chiuso” e, soprattutto, con chi vi è, o meglio vi era, residente o vi lavorava. Un luogo altrimenti isolato e dimenticato, come coloro che vi sono stati internati, dai più che con esso non hanno relazione alcuna, o pensano di non averne e di non doverne avere. Eppure l’esistenza stessa di simili istituzioni e persone dovrebbe portare ognuno a interrogarsi sull’umano essere, sul male e sulla incapacità o ridotta capacità di intendere e di volere. Sulle conseguenze e sui riflessi che tutto questo inevitabilmente ha sulla società che si staglia e si sviluppa intorno ad essi.
Non puoi vivere, lavorare, studiare, indagare aspetti e fenomeni delicati o criminali che coinvolgono le menti e la vita e illuderti che nulla cambi o si trasformi, intorno a te come dentro di te. Nietsche in Al di là del bene e del male scriveva che “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà in te”.
Luigigiovanni Quarta ha scrutato a lungo l’abisso dell’OPG ma si è imposto di non focalizzare l’interesse solo sul buio, ha preferito seguire gli spiragli di luce, a volte esili altre più luminosi, per raccontare la sua visione di un’istituzione che potrebbe anche essere totale. In prima istanza, ha cercato di “seguire le regole” ma subito si è reso conto che non vi è regola scritta che regga in un universo così complesso e articolato dove alla fin fine, esattamente come per strada, a farla da padrone è sempre la regola non scritta del “potere” che in OPG coincide spesso con la negoziazione, con il saper ben interpretare segnali e simboli dei peculiari registri di comunicazione vigenti.
Ha voluto, Quarta, concentrarsi sull’umanità degli internati, spesso celata, occultata o addirittura dimentica. Perché in fondo, egli scrive, se lo scopo è trovare “la miseria umana, in un OPG è semplicissimo”.
Un’indagine, quella condotta sul campo da Quarta, che si basa fondamentalmente sull’osservazione diretta e sulla raccolta dei dati direttamente e limitatamente al campo di ricerca. Non avendo avuto l’autore il permesso di visionare la documentazione giudiziaria degli internati e avendo scelto di non accedere a quella sanitaria, tutto ciò che egli ha scritto riguardo le storie di vita è tratto da interviste o conversazioni con i diretti interessati. Falsata in qualche modo dalla possibile non totale attendibilità di alcuni racconti ma resa più autorevole proprio dall’assenza di intermediazione o pregiudizio dovuto alla conoscenza della pregressa storia di ognuno dei suoi interlocutori.
E, nonostante durante la sua ricerca Quarta abbia sempre cercato di vedere oltre la semplice apparenza – principio cardine di una degna ricerca etnografica sul campo – cercando l’umanità, la bellezza della vita comunque e la speranza, il male, o meglio i mali, di una struttura come l’OPG gli sono venuti tutti incontro. Non da ultimo il tempo che, in tali luoghi, si dilata a dismisura al punto da diventare “asfissiante nella sua immobilità”.
Riesce l’autore, in questo passaggio, a rendere quasi tangibile il peso del tempo, scandito da ritmi e regole, prigioniero anch’esso di uno spazio che appare sempre più limitato e scorre lento come i granelli di sabbia all’interno di una clessidra, a volte portandosi dietro intere vite, comunque già perdute forse, al pari della libertà.
Non che gli internati siano nel braccio della morte, avranno per certo un futuro, ma l’autore sottolinea lo scandire del tempo che sembra, e in un luogo come l’OPG lo è per davvero, monotono e infinito. Più che in una normale prigione. Perché è così che viene fisicamente e mentalmente percepito.
Un luogo, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, nel quale gli internati sono parsi essere identificati con la malattia attraverso un inesorabile processo di spoliazione, “una lenta e rituale sottrazione di ogni rappresentazione pregressa tramite la quale il soggetto poteva pensarsi e definirsi”. Il risultato è la sua “reificazione in una non-persona”. E assenza, mancanza sembrano essere proprio i termini che meglio definiscono questi luoghi, per Quarta. Luoghi che sono stati chiusi, smantellati, dimenticati e sostituiti. Ma delle persone che vi erano internate e delle loro vite cosa ne è poi stato?
Nell’aprile 2019 l’Osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS ( stopopg.it ) e Coordinamento REMS-DSM hanno condotto un’indagine, tramite questionario inviato a tutte le 31 REMS attive sul territorio italiano, per ottenere dati aggiornati sul loro funzionamento dall’apertura nel 2015 fino ad oggi ed effettuato numerose visite nelle strutture. Hanno risposto al questionario 24 delle 31 strutture interpellate.
Le persone transitate nelle REMS dalla data di apertura fino al marzo 2019 sono state complessivamente 1580, quelle dimesse 1029, mentre il totale dei re-ingressi è pari a 51 (ovvero il 3,2% dei transitati).
Risultano 90 Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), 80 contenzioni, 4 suicidi, 4 tentati suicidi, 202 aggressioni ad altri internati, 161 aggressioni ad operatori, 98 allontanamenti.
Il personale dedito alla vigilanza è quasi pari a quello “sociale”, espressione di “un’attenzione alla sicurezza ma anche di una possibile visione (ancora o di necessità) custodialistica”. Si conferma un “impianto forte che probabilmente potrebbe essere declinato in modo più funzionale alla cura e alla riabilitazione”.
La provenienza degli internati è prevalente dalla libertà (41,4%), a seguire dal carcere (39,7%).
Per gli operatori dell’Osservatorio, il rischio che “i vecchi contenitori manicomiali, gli OPG, siano sostituiti dalle Rems è enorme”, per questo monitorano costantemente la situazione, anche con visite dirette nelle strutture. Questa tipologia di istituti dovrebbe essere l’extrema ratio, come previsto anche dalla Legge 81/2014 e necessita un controllo costante affinché i diritti delle persone assistite siano tutelati, egual discorso vale per gli operatori, ai quali “non possono essere richieste funzioni di custodia ma solo di cura”. Bisogna sincerarsi non vi sia coercizione né segregazione.
Sottolinea Quarta nel testo che il corridoio della OPG viene da “alcuni chiamato reparto, da altri braccio”. Indicazione che ben rappresenta come gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari siano stati visti, percepiti e di cosa forse siano effettivamente stati: un’istituzione a cavallo tra un manicomio e un carcere. Con i difetti di entrambi. Ed è proprio questo che si vorrebbe non fossero o diventassero le REMS.
Parla, per esempio, Quarta degli “ergastoli bianchi”, della storia di persone entrate con una misura di sicurezza “che aveva una fantomatica durata temporale” e che, proroga dopo proroga, hanno trascorso la loro intera vita in “istituzioni detentive e di cura”.
Il registro narrativo utilizzato da Luigigiovanni Quarta in Resti tra noi pone lo stesso autore al centro della narrazione, con il suo “io” che racconta l’OPG attraverso se stesso. Si è trattata per certo di una scelta ardita ma è riuscito egualmente Quarta a non esprimere giudizi diretti o conclusioni affrettate invitando così, indirettamente e implicitamente, il lettore a fare altrettanto. Il suo scritto si rivela essere, in questo senso, una lettura “particolare” e un lettore poco attento o privo di nozioni, anche solo basilari di antropologia ed etnologia, potrebbe non riuscire a cogliere appieno la peculiarità e la forza del suo narrato. Ma questa non è necessariamente una critica al lavoro ottimo svolto da Quarta, il quale è riuscito a indagare a fondo il male e il malessere alla ricerca continua dell’umanità e della “vita” in grado di illuminare qualunque buio e di raccontare tutto questo in maniera incisiva e originale.