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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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È mai davvero esistita la fine del colonialismo?

28 martedì Giu 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GeorgesBalandier, LaSituazioneColoniale, Meltemi, recensione, saggio

Il colonialismo è mai davvero finito, oppure è stato semplicemente adattato ai tempi? Trovare una risposta a questa domanda è molto più complesso di come si potrebbe immaginare, perché quando si parla di colonialismo, pur ignorandolo, ci si riferisce a un qualcosa che va ben oltre la conquista e il possesso di territori e beni. 

Per Georges Balandier, il post-coloniale non consiste nella cancellazione del coloniale, ma solo delle sue forme più apparenti. La società coloniale, fondata sulla dominazione, è inseparabile dalla società colonizzata, oggetto della dominazione. 

Oltre che dalla messa in rapporto delle differenze culturali, la situazione coloniale nasce dagli scarti stabiliti fra i suoi elementi costitutivi e dalla logica inegualitaria che ne organizza le relazioni.

Dal punto di vista formale, queste relazioni si stabiliscono tra una minoranza demografica costituita in maggioranza sociologica dalla dominazione che esercita, cioè la società coloniale, e una maggioranza demografica ridotta allo stato di minoranza sociologica, che è poi la società colonizzata. 

Quando le nazioni europee si sono imposte ai popoli cosiddetti «arretrati», li hanno stupefatti con la loro potenza tecnica e ricchezza; alcuni di questi popoli hanno subito sviluppato una sorta di complesso di inferiorità tecnologico.

Il consolidamento delle economie coloniali ha rovinato le rudimentali industrie locali, anche quelle asiatiche che avevano conosciuto una certa prosperità, lasciando sopravvivere solo un commercio di tratta che sottrae ricchezze naturali in cambio di un flusso di mercanzie. Per ottenere queste ultime, le quali hanno sempre più un ruolo importante per la sua esistenza, il colonizzato si lega progressivamente alla società coloniale, che diventa simbolo della sua dipendenza e indigenza. 

La sempre più urgente necessità di avere un sistema economico reale che garantisca un generale innalzamento del tenore di vita si è andata affermando in presenza di potenze coloniali tutrici rimaste sempre riluttanti. 

Quasi paradossalmente, anche i flussi migratori dalle ex-colonie verso gli ex-paesi colonizzatori sono un altro modo di mantenere le relazioni. 

La colonizzazione infatti ha potuto beneficiare, ricorda Balandier, dell’esistenza del bisogno di dipendenza. 

Nei casi più estremi, quelli dei popoli con meno resistenza socio-culturale, come avvenuto in gran parte dell’Africa nera, gli sconvolgimenti sono stati profondi e l’equilibrio tradizionale è stato radicalmente alterato. 

La conseguenza di queste trasformazioni, e di politiche coloniali che hanno voluto sostituire, limitare o sedurre le autorità tradizionali, ha portato alla rottura dei vecchi rapporti di dipendenza e di sottomissione. L’origine dell’autorità e del potere è stata trasferita, resa estranea. 

La dipendenza del mondo arabo dall’Occidente ha condotto a una decadenza dell’Islam, anche se poi gli elementi più occidentalizzati dei paesi arabi hanno indotto reazioni popolari di purismo musulmano, violento e passionale, spiegando così, almeno in parte, gli antagonismi che dividono le nazioni arabe e le azioni/reazioni verso il mondo occidentale.1

Gli studi cui si fa riferimento sono iniziati nella seconda metà del Novecento, non potevano sapere ma sembra abbiano saputo prevedere gli scontri e le derive che queste insofferenze hanno poi generato sul limitare del nuovo Millennio. Una vera e propria esplosione di rabbia e insofferenza che va dalle innumerevoli guerre civili nel continente africano, alle Primavere arabe e i troppi movimenti estremisti che hanno mescolato e fuso tradizione, religione e jihad.

La natura stessa delle reazioni suscitate dai rapporti o relazioni è legata al processo dominante.

In alcuni contesti, i problemi essenziali sembrerebbero di natura culturale – come per esempio in Africa Equatoriale -, attirando così l’attenzione quasi esclusiva degli antropologi.

In altri, si manifestano tensioni nelle relazioni razziali – come in Sudafrica – o problemi politici, come nei nazionalismi asiatici e africani, e allora l’interesse diventa un po’ più generalizzato. 

Su tutti comunque pesa la «psicologia particolare dei colonizzati» e il loro bisogno di dipendenza, nonché ovviamente l’atteggiamento predatorio dei colonizzatori. 

La società colonizzata può essere considerata come una società alienata, più o meno influenzata nella sua organizzazione socio-culturale a seconda della capacità di resistenza: tanto più è sottomessa alla pressione della società dominante e straniera tanto più è degradata.

Nella gran parte delle regioni sudafricane, l’arrivo degli europei e l’insieme dei cambiamenti che innescò ebbe l’effetto di scatenare una violenta conflittualità interna. Una situazione generata anche dalla perdita dei punti di riferimento originari. La forte emigrazione, per esempio, ebbe come conseguenza diretta un profondo indebolimento del tessuto familiare e sociale che portò a un declino pressoché totale del settore agricolo. 

Spesso gli osservatori europei hanno insistito sulla intrinseca fragilità delle democrazie africane, apparentemente incapaci di raggiungere un adeguato livello di maturazione. Invece questi fenomeni, apparsi in un primo momento nel mondo coloniale e post-coloniale, stanno progressivamente investendo anche le democrazie occidentali. Si diffondono a macchia d’olio nei paesi del Nord sempre più alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. Dove si registra un continuo e progressivo indebolimento del tessuto sociale ed economico. 

Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione dello sviluppo occidentale. Liberandoci di questa prospettiva ottocentesca, si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica. 

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del Terzo Mondo, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. L’Africa, a quanto pare, sta diventando una condizione globale.2

L’Europa e l’Occidente tutto volutamente hanno diffuso l’idea di essere emblema di civiltà, progresso, benessere e cultura. I flussi migratori rispecchiano anche la volontà che in tanti manifestano di raggiungere proprio civiltà, progresso, benessere, cultura. Abbiamo già visto come i legami, o meglio le relazioni di dipendenza con gli stati ex-coloniali permangono e persistono anche allorquando si affermi l’avvenuto abbandono del sistema coloniale. 

Tuttavia in tempi recenti si assiste a un qualcosa che definire paradossale è assolutamente riduttivo.

Rwanda e Gran Bretagna hanno siglato un accordo in base al quale, a partire dal 14 giugno 2022, saranno trasferiti nel Paese africano una parte degli immigrati illegali sbarcati nel Regno Unito in attesa che si decida sulle loro richieste di asilo. 

L’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati ha subito espresso la sua forte opposizione al piano britannico perché «le persone in fuga da guerre e perseguitate meritano compassione ed empatia. Non dovrebbero essere scambiate come fossero merci e trasferite all’estero in attesa dell’esito delle loro richieste di asilo politico»3

Per il primo ministro inglese si tratta di una misura per scoraggiare l’immigrazione illegale attraverso il Canale della Manica, percorso quotidianamente da barchini e gommoni. Una misura volta a minare la forza dei trafficanti di esseri umani. 

E pensare che c’è stato un tempo, mai troppo lontano, nel quale non barchini ma navi e bastimenti partivano carichi di esseri umani e procedevano con la rotta inversa, ovvero dall’Africa verso il Nuovo Mondo, che trafficanti olandesi, francesi e inglesi trasportavano in catene. L’isola di Gorée, da cui partivano, è Patrimonio UNESCO dell’Umanità dal 1978.

(Fonte: Mondadori Education)

Una stima approssimativa ma significativa ricordava che i territori coloniali coprivano, all’epoca, un terzo della superficie del globo, e che settecento milioni dei due miliardi di abitanti totali era costituito da popoli assoggettati.4

Ecco perché, per Georges Balandier, qualsiasi studio delle società colonizzate, volto a una conoscenza della realtà contemporanea e non una ricostruzione di carattere storico, e mirato a una comprensione che non sacrifichi la specificità per la comodità di una schematizzazione dogmatica, può essere condotto solo facendo riferimento alla complessità di ciò che viene chiamata situazione coloniale.

Un’epoca caratterizzata dall’urgenza e dalla gravità di due tipologie di problemi che si impongono alle nazioni capitaliste e coloniali: 

  • Quelli legati alle pressioni esercitate dai proletari.
  • Quelli nati dall’ascesa dei popoli colonizzati e dipendenti (rising nations).5

D’altra parte, si potrebbero mettere in connessione i due fenomeni utilizzando l’espressione dello storico Arnold J. Toynbee, di proletari «interni» ed «esterni» i cui problemi conseguono dalla reazione alla dominazione subita e dalla lotta per il riconoscimento.

All’arrivo dei tedeschi, sul limitare del XIX secolo, la società e la monarchia ruandesi erano un sistema feudale in piena evoluzione. I colonizzatori si limitarono inizialmente a congelare la situazione preesistente. Anche il Belgio dapprima attuò una forma di governo indiretto, ma poi manovrò per scaricare il malcontento sul prestigio della monarchia feudale, attuando de facto una separazione tra il re e i capi collina. L’intervento europeo sulla società feudale del Rwanda aveva trasformato i rapporti sociali, indurendoli attraverso gerarchie d’importazione e contribuendo in maniera cospicua alla loro razzializzazione.6

Gli hutu erano circa l’84 per cento della popolazione, i tutsi il 14 e il restante 1 per cento era composto da twa pigmei. 

Una ricerca condotta a Bruxelles tra il 2001 e il 2003 presso le comunità di rifugiati ed esuli ruandesi ha mostrato come la questione identitaria sia stata ulteriormente acutizzata proprio a causa della condizione di popolo in diaspora.7

In Rwanda invece la presidenza Kagame ha sempre dichiarato di voler sopprimere l’appartenenza etnica, in linea con le idee di nazionalismo africano convenzionale, che condivide e condivideva con quello più radicale la volontà di de-razzializzare le istituzioni, lo Stato e il diritto.8

(Memoriale della schiavitù a Rotterdam)

«Detesto il confinamento. La scelta di un mestiere che mi ha portato alla scoperta di culture differenti, alla conoscenza di come gli altri esprimono altrimenti la loro presenza al mondo e l’appartenenza al divenire storico, mi ha permesso di uscire dal recinto della mia cultura.»9

Balandier è stato promotore di un’antropologia sensibile alle dinamiche del cambiamento e di una sociologia attenta alle nazioni ex-colonizzate, come anche osservatore acuto delle trasformazioni che dalla fine del Novecento hanno investito le società europee. 

Mai come i primi venti anni del nuovo Millennio in Europa la prosperità è stata così alta e diffusa e vi è stata tanta pace. Eppure, mai come in questo periodo, vi è stato un sentimento così diffuso, profondo e cupo di pessimismo per il futuro. 

Perché l’Occidente si sente perduto?

All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa “nuova epoca storica”. Fino a tempi recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7 ma, negli ultimi due decenni, la situazione si è invertita. Nel 2015 le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, mentre quelle degli E7 per il 36.3 per cento. Il Resto del mondo ha compreso come poteva replicare il successo occidentale nella crescita economica, nella sanità, nell’istruzione. Ora, come è stato possibile che l’Occidente non se ne sia accorto oppure non vi abbia dato importanza? 

Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente non ha bisogno di essere bombardato.10

Insoddisfatto rispetto all’etnologia classica francese, per la sua inclinazione a studiare le società indigene come astratte rispetto al contesto coloniale in cui sono immerse, Balandier si distanzia anche da quelle tradizioni statunitensi e britanniche del primo dopoguerra, che pure hanno iniziato a mostrare interesse per le problematiche generate dall’incontro e dalla coabitazione di culture diverse. Egli rivendica l’importanza di studiare la dimensione macro delle relazioni inter-societarie, oltre che quella microscopica delle interazioni fra colonizzatori e colonizzati all’interno di circostanze specifiche.

Balandier ha dichiarato il suo stupore allorquando ha visitato in prima persona i possedimenti francesi, prima in Senegal e poi in Guinea, affermando di aver scoperto l’indigenza assoluta, i tropici senza la mascherina dell’esotismo, la colonia senza le decorazioni della potenza.

Ma poi è arrivato il momento anche per la potenza di essere guardata senza più il confronto con il primitivo. 

La situazione coloniale, generata dall’espansione europea su buona parte del globo, ha unito società eterogenee. Il processo spezza dall’interno la società colonizzata, che si riorganizza secondo un principio di prossimità e distanza dei vari gruppi indigeni – per cultura, abitudini e stile di vita – dal modello di umanità superiore che i colonizzatori si arrogano il diritto di impersonare. 

L’incontro tra culture eterogenee non ha modificato e stravolto solo gli Stati colonizzati ma anche quelli colonizzatori, nel breve e lungo periodo. Comprendere quindi le dinamiche di quell’ampio e variegato fenomeno noto come “situazione coloniale” è necessario non solo per conoscere la Storia ma, soprattutto, per comprendere il presente e le sue spesso incomprensibili dinamiche. 

Soprattutto in Africa Equatoriale, Balandier è stato fra i tecnici le cui competenze avrebbero dovuto ispirare la trasformazione guidata delle società indigene, si trova poi, rientrato nel contesto metropolitano, ad ampliare la portata teorica delle intuizioni consegnateli dalle ricerche africane. I suoi interessi scivolano dalla riflessione sul colonialismo a quella sullo sviluppo, un termine centrale sia rispetto al discorso coloniale che a quello anti-coloniale.11

Balandier ha iniziato la riflessione sui rapporti fra società differenti dal punto di vista tecnico, economico e culturale considerando la situazione coloniale perché la dipendenza è una caratteristica della colonizzazione che si può riscontrare anche quando, senza una presa di possesso territoriale, una società interferisce dall’esterno con le dinamiche interne di un’altra. E il quadro delle ingerenze senza un reale possesso territoriale sembra rappresentare tutto il periodo, indicato come post-colonialismo, che giunge fino ad oggi. 

La decolonizzazione, riallineando gli equilibri mondiali, ha generato nuovi condizionamenti in un clima di tensione crescente fra le superpotenze della Guerra Fredda.

I poteri imperiali europei, così come gli Stati Uniti, favoriscono i regimi che si oppongono al comunismo cercando al contempo di preservare le relazioni economiche coloniali. Confondendo il nazionalismo radicale con il comunismo e immaginando coinvolgimenti sovietici ovunque, hanno sponsorizzato attori locali che abbiano accettato la presenza di basi occidentali sul territorio.

Con meno risorse, l’Unione Sovietica ha sostenuto regimi espressisi in favore del socialismo scientifico e di un modello di sviluppo sovietico, così da rispondere al consolidamento della presenza occidentale e al coinvolgimento cinese con l’Africa.12

Nella fine della Guerra Fredda poi l’Occidente tutto ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. La vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno Stato che, mentre il suo nemico “vincente” gongolava, si è pian piano ripreso fino a tornare a occupare il posto che aveva come potenza a livello mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica.13

Sia per gli attori esterni che per quelli interni, la parola chiave è modernizzazione, un processo guidato di trasformazione tecnologico-sociale che avrebbe dovuto portare gli ex-colonizzati ad acquisire gli standard e gli stili di vita degli ex-colonizzatori, migliorando la condizione complessiva dell’umanità. 

Creare una società dell’apprendimento è necessario per promuovere gli standard di vita anche nelle economie che non si trovano all’avanguardia del progresso scientifico e tecnologico. La trasformazione in società dell’apprendimento che si è verificata durante il XIX secolo nelle economie occidentali, e più di recente in quelle asiatiche, sembra aver avuto un impatto maggiore sul benessere degli esseri umani di quello esercitato dai miglioramenti di efficienza allocativa o dall’accumulazione di risorse.14 Lo stesso andrebbe quindi fatto per le economie di Terzo e Quarto mondo.

Ma Balandier considerava i costi umani e le conseguenze socio-politiche delle transizioni modernizzatrici troppo spesso imprevedibili, così come le nuove diseguaglianze che si profilano al superamento delle precedenti. 

Agli inizi del Nuovo Millennio l’approccio teorico di Balandier conosce, in Francia, una nuova fortunata stagione, la quale è coincisa con la risposta violenta del governo alla mobilitazione dei Sans-Papiers, ovvero gli immigrati dalle ex-colonie francesi con titoli di soggiorno ambigui perché il Paese ha progressivamente ristretto le sue politiche di immigrazione e acquisizione della cittadinanza. Una dura repressione che anima un acceso dibattito sul «debito di sangue» che la nazione ha contratto con i Tirailleurs Sénégalais, un corpo di fanteria composto da reclute forzate inizialmente dal Senegal e dal Mali e poi dall’intera Africa sub-sahariana francese,15 utilizzato tanto nelle colonie quanto in Europa durante le due guerre mondiali.

Poi nell’ottobre e novembre del 2005, le rivolte giovanili nelle periferie delle principali città francesi, danno voce a un disagio pluri-decennale mai seriamente affrontato: dietro la pretesa di un’assimilazione a partire dall’erosione di pratiche culturali pre-esistenti, l’integrazione alla francese ha mascherato la riproduzione e il rafforzamento di tratti culturali e razziali percepiti come inaccettabili rispetto all’assetto repubblicano.16

È significativo nelle circostanze che la proclamazione dello stato di emergenza per fermare l’ondata di violenza si appoggi alla legislazione utilizzata dal 1955 per sedare le proteste contro la Guerra d’Algeria (1954-1962). L’allora Ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, etichetta i rivoltosi come racaille, ossia feccia, un’evocazione del vocabolario razzializzante coloniale, mentre larghe sezioni dell’opinione pubblica, convinte che il colonialismo non riguarda la loro Francia, ritengono i partecipanti alle proteste indegni di essere o diventare Francesi.17

La decolonizzazione ha generato una frattura nel senso di sé delle ex-potenze coloniali, trasformandole da leader auto-proclamati della storia globale ad attori come gli altri. Il baricentro della situazione coloniale si è spostato, attraverso l’immigrazione, nelle periferie delle ex-metropoli imperiali, dove il pluralismo culturale e sociale generato interiorizza, a dispetto della possibilità di altri linguaggi e dinamiche culturali, modelli coloniali. 

Per capire e giudicare un’epoca, secondo Balandier, occorre porsi dal punto di vista di coloro che l’hanno vissuta, capire tanto le circostanze quanto le conseguenze delle scelte compiute e delle decisioni prese sul piano personale e professionale. 

Egli ritiene che, oltre a constatare ed esporre criticamente l’eredità coloniale francese, si debba continuare la lotta per «creare l’attuale altrimenti».18

«La ripetizione di formule passate, di saper-fare trascorsi, non è più sufficiente. Per avere accesso a una democrazia condivisa, è soprattutto necessario aprirla alle differenze così da sigillarla rispetto a dinamiche di dominazione oltre che esclusive, funeste».

I saggi di questa raccolta, come l’intera opera di Balandier sono straordinariamente attuali. È interessante e, per certi versi, sorprendente notare quanto la sua ricerca, al pari di quelle di tanti altri studiosi capaci di liberarsi dai preconcetti e dai pregiudizi, sia riuscita a vedere e a prevedere le società, colonizzate e colonizzatrici, e a seguirne le varie evoluzioni. Un lavoro straordinario.


Il libro

Georges Balandier, La situazione coloniale e altri saggi, Meltemi Editore, Milano, 2022.

Traduzione e introduzione di Alice Bellagamba e Rita Finco. 

Titolo originale: La situation coloniale: Approche théorique, Cahiers Internationaux de Sociologie, Paris, 1951.

L’autore

Georges Balandier: È stato uno dei massimi esponenti della ricerca antropologica francese. Intellettuale critico, pioniere della ricerca africanista e ideatore della nozione di «Terzo Mondo», è stato promotore di una prospettiva metodologica sensibile alle dinamiche del cambiamento, nonché osservatore acuto delle trasformazioni che dalla fine del Novecento hanno investito le società europee.


1H.A.R. Gibb, La réaction contre la culture occidentale dans le Proche.Orient, in «Monde d’Orient», Editions Maisonneuve et Co, Paris, 1951; R. Montagne, Naissance du prolétariat marocain, in Cahiers de l’Afrique et en l’Asie, Vol. III, I Trimestre, Paris, 1952.

2Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

3È quanto si legge in un tweet di UNHCR, the UN Refugee Agency del 14 aprile 2022 consultabile al seguente link: https://twitter.com/Refugees/status/1514699018500292617/photo/1

4R. Kennedy, The Colonial Crisis and the Future, in R. Linton, ed., The Science of Man in the World Crisis, Comulbia University Press, New York, 1945.

5J. Obrebski, The Sociology of Rising, in «International Social Science Bulletin», Unesco, Vol. III, n° 2, 1951.

6M. Giro, Guerre Nere. Guida ai conflitti nell’Africa contemporanea, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2020.

7C. Pratesi Innocenti, Ibuka. Pratiche, politiche e rituali commemorativi della diaspora ruandese, Annuario di Antropologia 5, 2005.

8S. Bellucci, Africa contemporanea. Politica, cultura, istituzioni a sud del Sahara, Carocci Editore, Roma, 2010.

9G. Balandier, Conjugaisons, Fayard, Paris, 1997.

10K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.

11J. Copans, Georges Balandier. Un anthropologue en première ligne, Presses Universitaires de France, Paris, 2014.

12A. Bellagamba e R. Finco, La situazione coloniale e altri saggi di Georges Balandier (introduzione al libro), Meltemi Editore, Milano, 2022.

13K- Mahbubani, op. cit.

14J. E. Stiglitz e B. C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018.

15G. Mann, Immigrants and Arguments in France and West Africa, in «Comparative Studies in Society and History», Vol. XLV, n° 2, 2003.

16F. Bernault, Colonial Syndrome: French Modern and the Deceptions of History, in C. Tshimanga, C.D. Gondola, P.J. Bloom, Frenchness and African Diaspora: Identity and Uprising in Contemporary France, Indiana University Press, Bloomington, 2009.

17A. Stoler, Colonial Aphasia: Race and Disabled Histories in France, in «Public Culture», Vol. XXIII, n° 1, 2011; F. Bernault, Colonial Syndrome: French Modern and the Deception of History, in C. Tshimanga, C.D. Gondola, P.J. Bloom, Frenchness and the Africa Diaspora: Identity and Uprising in Contemporary France, Indiana University Press, Bloomington, 2009; A. Mbembe, Faut-il provincialiser la France?, in «Politique africaine», n° 119, 2010.

18C. Coquery-Vidrovitch, Hommage à Georges Balandier, in «Presence Africane», n° 194, 2016.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro e la mappa coloniale, credits www.pixabay.com


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Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018)

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Perché abbiamo lasciato che ‘i nostri simili’ diventassero semplicemente ‘altri’? “Somiglianze. Una via per la convivenza” di Francesco Remotti (Editori Laterza, 2019)

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“Storia delle banche centrali e dell’asservimento degenere umano” di Stephen Mitford Goodson (Ginko Edizioni, 2018)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Guerre selettive, droghe e strategie: “Killer High” di Peter Andreas

02 lunedì Mag 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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droga, guerra, KillerHigh, Meltemi, PeterAndreas, recensione, saggio, storia

«Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe e non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra.» È questo l’assunto da cui parte Peter Andreas per scavare nella Storia umana, quella moderna e contemporanea in particolare, per scoprire il ruolo decisivo che le sostanze psicoattive – pesanti, leggere, lecite, illecite, naturali, sintetiche – hanno e hanno avuto nei conflitti armati. 

Perché se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro i soldati combattono sempre più “fatti” di droga, letteralmente.

Molti di coloro a cui è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte, esattamente come è accaduto da… sempre praticamente, come si evince chiaramente e facilmente dalla dettagliata ricostruzione e analisi compiuta da Andreas.

Sono costantemente in aumento le prescrizioni di farmaci che aiutino i soldati ad affrontare le cicatrici fisiche e mentali riportate sul campo di battaglia. Migliaia sono i soldati americani, di ritorno dall’Afghanistan e dall’Iraq, che dipendono da essi.1 Farmaci che contengono oppioidi. 

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, ovvero la somministrazione di sostanze o farmaci psicoattivi fatta in maniera preventiva, ossia per stimolare e migliorare le prestazioni sul campo. Ai classici alcol, tabacco, droghe più o meno leggere, naturali o sintetiche, si affianca un uso sempre più consistente e diffuso dei cosiddetti farmaci antifatica, volti al miglioramento cognitivo e prestazionale dei soldati. 

Un rapporto del laboratorio di ricerca dell’areonautica statunitense suggerisce di costringere i nemici ad attivarsi continuamente senza beneficiare di un sufficiente sonno quotidiano. E, naturalmente, per fare questo bisogna essere in grado di gestire la fatica dei soldati americani.2 Non c’è da stupirsi dunque se diversi Paesi e ricercatori dell’esercito hanno sperimentato metodi per contrastare il sonno. Gran parte delle ricerche si è concentrata sul Modafinil, un farmaco che si ritiene causare meno dipendenza e meno effetti collaterali rispetto alle amfetamine. Già da oltre un decennio, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia distribuiscono compresse di Modafinil ai militari sul campo.3

Per Andreas è certo che l’impulso a dare vantaggi chimici alle truppe proseguirà, in quanto la crescente complessità dei combattimenti e i progressi tecnologici, stando anche alle parole dei ricercatori della MITRE Corporation (incaricata dall’ufficio di ricerca e ingegneria della Difesa del Pentagono), hanno aumentato la necessità di prendere decisioni tattiche rapide a livelli di comando inferiori e hanno quindi diffuso orizzontalmente a più persone la responsabilità di operare delle scelte di indirizzo.4

Ci si può agevolmente attendere che anche ribelli, terroristi e altri attori non statali continuino a ricorrere alle sostanze psicoattive per le stesse ragioni delle controparti statali. Con la grande differenza, però, che non avranno accesso legale alla crescente varietà di opzioni farmacologiche disponibili per gli eserciti contemporanei. 

I resoconti indicano che lo Stato Islamico e Boko Haram hanno regolarmente drogato i bambini soldato prima di impiegarli per attacchi suicidi.5 E sembra sia accaduto lo stesso nel caso di alcuni adolescenti kamikaze in Pakistan.6Tuttavia Andreas sconsiglia di giungere a conclusioni avventate. Pare che per alcuni combattenti basti l’ideologia estremista come stimolante, senza il bisogno di alcun aiuto chimico. 

La piaga della droga, dal punto di sociale e non solo militare, è notevolmente profonda, radicata e diffusa. Molti Stati sembrano aver intrapreso delle vere e proprie guerre contro di essa. Ma per l’autore, quella contro la droga è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.

Verrebbe da aggiungere che gli Stati, Italia compresa, sembrano operare una guerra altrettanto selettiva con riguardo ai prodotti sui quali è apposto il sigillo del Monopolio: alcol e tabacco. E sembra farlo perché, comunque, sono fonte di copiose entrate per le casse sempre piangenti della nazione. Motivo che sembra essere stato alla base di tante operazioni di sfruttamento e commercio delle droghe fin dai tempi degli antichi Romani, in quelle che Andreas definisce «Guerre grazie alla droga», ovvero ai suoi proventi.

Stando ai dati riportati nel Libro Blu 2020 dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, il contributo per l’erario dai tabacchi è stato pari a 14.6 miliardi, mentre quello per energia e alcolici 29.10 miliardi di euro.

Sul sito del Ministero della Salute si legge che in Italia siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93mila morti. L’aggiornamento è del 31 maggio 2021.

Mentre, stando ai dati riportati dall’Istituto Superiore di Sanità e contenuti nel Rapporto 2022, sono 17mila i decessi annuali causati dall’alcool. 

Parafrasando la celebre frase di Charles Tilly («Gli Stati fecero la guerra e la guerra fece gli Stati»), Lessing ritiene che oggi «gli Stati fanno la guerra alla droga e la guerra alla droga fa gli Stati», con dei seri rischi da non sottovalutare.

Uno dei pericoli è che le guerre della droga possano produrre un rafforzamento eccessivo di alcuni attori statali, creando stakeholders consolidati, dotati di autorità e discrezionalità sproporzionate, che si opporranno agli aggiustamenti politici necessari una volta che la violenza legata alla droga sarà diminuita.7

Del problema concreto che provvedimenti emergenziali diventino poi strutturali ne parla anche Barberis allorquando sottolinea la tendenza degli esecutivi di appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto.8

Inoltre, Lessing ricorda che una parte fondamentale e spesso trascurata delle tesi di Charles Tilly è che può essere lo Stato, operando come un racket della protezione, a creare la stessa minaccia alla sicurezza contro cui in seguito fornisce protezione. 

Sebbene non sia quello che Tilly aveva in mente, per Andreas il suo argomento può essere esteso alla guerra alla droga: con l’atto di criminalizzare la droga, lo Stato crea la minaccia, e ciò a sua volta offre allo Stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata. 

Dall’uso di oppiacei da parte dei soldati al loro impiego come arma o mezzo per il finanziamento, l’oppio e la guerra sono rimasti stretti a lungo in un abbraccio mortale. Il commercio dell’oppio e la costruzione degli Imperi andarono di pari passo nelle potenze occidentali, soprattutto in Gran Bretagna. 

Londra mise il commercio dell’oppio nelle mani della sua Compagnia delle Indie Orientali, che all’inizio deteneva anche il monopolio sull’importazione di tè cinese.

Il tè e l’oppio trasformarono la Compagnia Britannica delle Indie Orientali nella corporation più potente che il mondo abbia mai visto. 

Nella Prima Guerra dell’oppio gli americani restarono a guardare. Al contrario, la Seconda Guerra rimosse ogni argine. 

Il Dipartimento di Stato appoggiò la richiesta del vescovo Brent di indire una Conferenza internazionale per il controllo del traffico dell’oppio, rendendosi conto di come fosse funzionale anche ad altri interessi strategici. In particolare, avrebbe agevolato una maggiore influenza statunitense nel Pacifico, segnatamente alle spese del principale concorrente, la Gran Bretagna, e avrebbe contribuito a rinsaldare i rapporti con il governo cinese, fortemente contrario al commercio dominato dagli inglesi. 

Dopo aver combattuto due guerre dell’oppio internazionali con la Gran Bretagna, la Cina fu consumata da decenni di guerre dell’oppio interne, tra i signori della guerra in lotta tra di loro, nei primi decenni del Novecento. 

Gli sforzi repressivi, nazionali e internazionali, spinsero il business dell’oppio nella clandestinità, anziché al fallimento. Per di più, incentivarono il mercato nero a smerciare derivati più compatti, portatili, occultabili e potenti – prima la morfina e poi l’eroina – anziché l’oppio tradizionale, che è molto più leggero e crea meno dipendenza.9

Oggi la Cina sta diventando un sempre più rilevante esportatore illegale di droghe sintetiche come il Fentanyl – che i distributori mescolano spesso all’eroina – verso i Paesi occidentali.

L’autore sottolinea come anche osservando le contemporanee guerre alla droga si evince chiaramente il loro limite strutturale. I trafficanti eliminati e la droga sequestrata, che gli Stati usano come misura del loro “successo”, sono in realtà facilmente sostituibili. Chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare.

Come nel caso del Messico, dove il bilancio della violenza connessa alla droga si è militarizzata più che mai. Il dispiegamento di soldati per combattere la droga è stata una delle prime cose che ha attratto l’attenzione dell’autore e lo ha invogliato a indagare sempre più a fondo e sempre più a ritroso nel tempo.

Verso la fine di dicembre del 1989, gli Usa lanciarono l’Operazione Giusta Causa, invadendo Panama e arrestando il suo leader, il generale Manuel Noriega, con l’accusa di traffico di cocaina. Negli anni seguenti, la lotta alla cocaina rimpiazzò la lotta al Comunismo come fattore chiave delle relazioni militari di Washington con i suoi vicini meridionali. 

Eppure, mentre negli anni Ottanta i ribelli afghani in lotta contro i sovietici, sostenuti dalla CIA, coltivavano e vendevano l’oppio per finanziare la loro causa, Washington, sulla falsariga delle esperienze nel Sudest asiatico, girava lo sguardo verso un’altra direzione.

Il traffico d’oppio fu ancora una volta il grande vincitore della più importante operazione sotto copertura della CIA dai tempi del Vietnam. 

Per combattere l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, la CIA agì tramite l’Inter Services Intelligence (ISI – i servizi segreti pakistani) a supporto dei signori della guerra afghani, che ricorsero alle armi, alla logistica e alla protezione dell’agenzia per diventare signori della droga di primo piano.10

Le autorità statunitensi anche in questo caso sembravano ben consapevoli della situazione, ma chiusero un occhio in nome di obiettivi geopolitici di più ampio respiro: «Non lasceremo che una piccola cosa come la droga interferisca con la situazione politica – spiegò un funzionario dell’allora amministrazione Reagan – e quando i sovietici se ne andranno e nel Paese non ci saranno soldi, porre fine al traffico di droga non sarà una priorità.»11

Innumerevoli sono gli esempi riportati da Andreas nel testo, contraddizioni tattiche e comportamentali che giungono o risalgono alle Guerre per l’Indipendenza americana e ancor prima alle Guerre di conquista dei Romani. Un elenco infinito di situazioni che potrebbero anche sembrare surreali se non fossero tutte supportate da valide e certificate fonti documentali. Riguardo gli esempi più recenti poi sono o sono stati sotto gli occhi di tutti, per cui non ci sarebbe neanche bisogno di ricorrere a fonti che le attestino. Eppure l’autore lo fa con scrupolo e metodicità. 

Sono per certo argomenti spinosi quelli trattati da Peter Andreas in Killer High, ci vuole una grande conoscenza per parlarne come egli ha fatto. E servono anche tanto coraggio e fors’anche un pizzico di incoscienza perché di sicuro non sono mancati coloro che hanno frainteso l’intento del libro o, peggio, hanno volutamente strumentalizzato il suo scopo.

Personalmente ritengo sia superfluo eppure necessario precisare che mai appare nelle intenzioni dell’autore screditare la figura del soldato o l’istituzione dell’esercito. E ciò, per chi legge il libro dall’inizio alla fine, è cristallino come acqua di sorgente. 

Dal resoconto di Andreas si può dedurre che, in ogni epoca e luogo, i soldati hanno avuto necessità di «incoraggiamenti» e questa altro non è che un’ulteriore conferma dell’assurdità della guerra in generale ma di di quella sul campo in particolare. 

Si può anche supporre e dedurre che questi «incoraggiamenti» di varia natura siano stati strategicamente veicolati e indirizzati per raggiungere scopi e obiettivi altrimenti improponibili. Anche che siano stati oggetto ripetuto di speculazioni. 

Quel che è sicuramente certo è che, leggere Killer High, aiuta a meglio comprendere la Storia sì, ma ancor di più l’attualità e le sue guerre.

Si chiede Andreas cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire. Finirebbe anche la violenza?

Alcuni considerano la dichiarazione di pace come una sorta di bacchetta magica, soprattutto se concerne la legalizzazione della droga. Certo, la legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Ma l’autore sottolinea come, con ogni probabilità, i narcotrafficanti in breve tempo diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol. 

Il fascino di un’idea del genere è comprensibile. Eppure Andreas mette in guardia il lettore da un eccesso di elogio riguardo i suoi potenziali effetti pacificatori. Non tutta la violenza è connessa alla droga, perché gli affari vanno ben oltre gli stupefacenti. 

Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga le recenti ondate di violenza. Il che suggerisce che non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disapplicate. 

E questo solleva l’ardua questione di come la pace possa essere raggiunta facendo a meno della legalizzazione, in base anche al principio avallato dall’autore che il proibizionismo è indispensabile per la guerra alla droga, ma la guerra alla droga non è indispensabile per il proibizionismo. 

Per esempio, invece di persistere nella repressione militarizzata della guerra, il governo messicano potrebbe impegnarsi maggiormente per assegnare la priorità alla limitazione della violenza, più che dei narcotici. 

Bisogna inoltre riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga. In fin dei conti, sarà probabilmente la guerra l’abitudine, o la dipendenza, più difficile da sradicare. 

Un mondo senza conflitti sembra purtroppo realistico quanto un mondo senza droga. E per Andreas l’unica cosa che si può prevedere con qualche certezza è che le droghe e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale.

Una conclusione che potrà anche sembrare brutale ma che è, purtroppo, molto realistica e ponderata sull’analisi di due millenni di Storia ormai durante i quali questo mortale abbraccio ha cambiato sostanze psicoattive ma non ha cambiato granché i modi, i metodi e gli scopi.

Killer High. Storia della guerra in sei droghe di Peter Andreas è un testo sorprendente perché mai il lettore che si accinge a leggerlo può preventivamente comprendere la reale grandezza del suo contenuto. Un libro necessario.


Il libro

Peter Andreas, Killer high. Storia della guerra in sei droghe, Meltemi Editore, Milano, 2021.

Titolo originale: Killer high. A history of war in six drugs.

Traduzione di Andrea Maffi e Paolo Ortelli.

L’autore

Peter Andreas: politologo e docente di Relazioni internazionali alla Brown University.


1Q. Lawrence, A Growing Number of Veterans Struggles to Quit Powerful Painkillers, All Things Considered, National Public Radio, 10 luglio 2014.

2W. Saletan, The War on Sleep, in “Slate”, 29 maggio 2013.

3Ibidem.

4MITRE Corporation, Human Performance, JSR-07-625, MITRE Corporation, McLean (VA), marzo 2008, https://fas.org/irp/agency/dod/jason/human.pdf

5l. Iaccino, Why Tramandol Is the Suicide Bomber’s Drug of Choice, in “Newsweek”, 13 dicembre 2017.

6I. Firdous, What Goes into te Making of a Cuicide Bomber, in “Express Tribune (Pakistan)”, 20 luglio 2010.

7B. Lessing, Making Peace in Drug Wars: Crackdowns and Cartels in Latin America, Cambridge University Press, Cambridge, 2017.

8M. Barberis, Non c’è sicurezza senza libertà. Il fallimento delle politiche antiterrorismo, Il Mulino, Bologna, 2018.

9J. Marshall, Optium and the Politics of Gangsterism in Nationalist China, 1927-1945, in Bulletin of Concerned Asian Scholars, vol. 8, n° 3, 1976.

10A. McCoy, The Politics oh Heroin: CIA Complicity in the Global Drug Trade, Lawrence Hill Books, Chicago, 2003.

11E. Sciolino, S. Engelberg, Fighting Narcotics: U.S. Is Urged to Shift Tactics, in New York Times, 10 aprile 1988.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Resti tra noi. Etnografia di un manicomio criminale” di Luigigiovanni Quarta (Meltemi, 2019)

29 domenica Set 2019

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Hieronymus Bosch, La nave dei folli (1490-1500)

Il 31 marzo 2015 è entrata in vigore la Legge 81/2014 che ha sancito la definitiva chiusura dei rimanenti sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) ancora attivi in Italia. La medesima Legge stabilisce il nuovo assetto assistenziale prevedendo la messa in funzione di strutture alternative, chiamate REMS (Residenze per Emissione delle Misure di Sicurezza). Cambio di nome ma, sopratutto, inversione di rotta. Le parole chiave ora dovrebbero essere approccio curativo-riabilitativo.
Il condizionale però in questi casi rimane quasi un obbligo.

In un lungo e articolato contributo per rivistadipsichiatria.it si può leggere un’analisi, dettagliata e articolata, delle principali obiezioni e criticità inerenti le modifiche apportate dalla nuova Legge e l’istituzione delle REMS.
– Mancata riforma del Codice penale.
– Equazione ritenuta non corretta tra infermità mentale, malattia mentale e pericolosità sociale.
– Ritardi nella costruzione delle REMS e ricorso a strutture residenziali alternative.
– Confini incerti della responsabilità professionale del personale incaricato.

L’opinione diffusa riguardo gli OPG è ben nota a tutti, frastagliata di scandali, abusi, violenze, recriminazioni, denunce… E la si potrebbe agevolmente sintetizzare nelle parole del presidente emerito Giorgio Napolitano “autentico orrore indegno di un paese appena civile“.
Eppure c’è stato chi, a ridosso della chiusura degli OPG, vi è voluto entrare e restarci quanto più tempo possibile gli occorreva per capire, studiare, analizzare, guardare, osservare, vedere, ascoltare… per cercare altro oltre agli scandali, alle violenze, alle denunce, ai maltrattamenti. Nasce da questa idea la ricerca etnografica sul campo condotta da Luigigiovanni Quarta in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario italiano tra il 2014 e il 2015 e diventata il libro Resti tra noi edito da Meltemi con prefazione di Fabio Dei.
Una ricerca, quella condotta da Quarta, che lo ha portato non solo a conoscere quell’universo ma anche a interrogarsi sul ruolo da egli stesso ricoperto nel relazionarsi con quell’ambiente “chiuso” e, soprattutto, con chi vi è, o meglio vi era, residente o vi lavorava. Un luogo altrimenti isolato e dimenticato, come coloro che vi sono stati internati, dai più che con esso non hanno relazione alcuna, o pensano di non averne e di non doverne avere. Eppure l’esistenza stessa di simili istituzioni e persone dovrebbe portare ognuno a interrogarsi sull’umano essere, sul male e sulla incapacità o ridotta capacità di intendere e di volere. Sulle conseguenze e sui riflessi che tutto questo inevitabilmente ha sulla società che si staglia e si sviluppa intorno ad essi.

Non puoi vivere, lavorare, studiare, indagare aspetti e fenomeni delicati o criminali che coinvolgono le menti e la vita e illuderti che nulla cambi o si trasformi, intorno a te come dentro di te.
Nietsche in Al di là del bene e del male scriveva che “chi lotta con i mostri deve guardarsi di non diventare, così facendo, un mostro. E se tu scruterai a lungo in un abisso, anche l’abisso scruterà in te”.

Luigigiovanni Quarta ha scrutato a lungo l’abisso dell’OPG ma si è imposto di non focalizzare l’interesse solo sul buio, ha preferito seguire gli spiragli di luce, a volte esili altre più luminosi, per raccontare la sua visione di un’istituzione che potrebbe anche essere totale. In prima istanza, ha cercato di “seguire le regole” ma subito si è reso conto che non vi è regola scritta che regga in un universo così complesso e articolato dove alla fin fine, esattamente come per strada, a farla da padrone è sempre la regola non scritta del “potere” che in OPG coincide spesso con la negoziazione, con il saper ben interpretare segnali e simboli dei peculiari registri di comunicazione vigenti.
Ha voluto, Quarta, concentrarsi sull’umanità degli internati, spesso celata, occultata o addirittura dimentica. Perché in fondo, egli scrive, se lo scopo è trovare “la miseria umana, in un OPG è semplicissimo”.
Un’indagine, quella condotta sul campo da Quarta, che si basa fondamentalmente sull’osservazione diretta e sulla raccolta dei dati direttamente e limitatamente al campo di ricerca. Non avendo avuto l’autore il permesso di visionare la documentazione giudiziaria degli internati e avendo scelto di non accedere a quella sanitaria, tutto ciò che egli ha scritto riguardo le storie di vita è tratto da interviste o conversazioni con i diretti interessati. Falsata in qualche modo dalla possibile non totale attendibilità di alcuni racconti ma resa più autorevole proprio dall’assenza di intermediazione o pregiudizio dovuto alla conoscenza della pregressa storia di ognuno dei suoi interlocutori.

E, nonostante durante la sua ricerca Quarta abbia sempre cercato di vedere oltre la semplice apparenza – principio cardine di una degna ricerca etnografica sul campo – cercando l’umanità, la bellezza della vita comunque e la speranza, il male, o meglio i mali, di una struttura come l’OPG gli sono venuti tutti incontro. Non da ultimo il tempo che, in tali luoghi, si dilata a dismisura al punto da diventare “asfissiante nella sua immobilità”.
Riesce l’autore, in questo passaggio, a rendere quasi tangibile il peso del tempo, scandito da ritmi e regole, prigioniero anch’esso di uno spazio che appare sempre più limitato e scorre lento come i granelli di sabbia all’interno di una clessidra, a volte portandosi dietro intere vite, comunque già perdute forse, al pari della libertà.
Non che gli internati siano nel braccio della morte, avranno per certo un futuro, ma l’autore sottolinea lo scandire del tempo che sembra, e in un luogo come l’OPG lo è per davvero, monotono e infinito. Più che in una normale prigione. Perché è così che viene fisicamente e mentalmente percepito.

Un luogo, l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario, nel quale gli internati sono parsi essere identificati con la malattia attraverso un inesorabile processo di spoliazione, “una lenta e rituale sottrazione di ogni rappresentazione pregressa tramite la quale il soggetto poteva pensarsi e definirsi”. Il risultato è la sua “reificazione in una non-persona”. E assenza, mancanza sembrano essere proprio i termini che meglio definiscono questi luoghi, per Quarta. Luoghi che sono stati chiusi, smantellati, dimenticati e sostituiti. Ma delle persone che vi erano internate e delle loro vite cosa ne è poi stato?

Nell’aprile 2019 l’Osservatorio sul superamento degli OPG e sulle REMS ( stopopg.it ) e Coordinamento REMS-DSM hanno condotto un’indagine, tramite questionario inviato a tutte le 31 REMS attive sul territorio italiano, per ottenere dati aggiornati sul loro funzionamento dall’apertura nel 2015 fino ad oggi ed effettuato numerose visite nelle strutture. Hanno risposto al questionario 24 delle 31 strutture interpellate.
Le persone transitate nelle REMS dalla data di apertura fino al marzo 2019 sono state complessivamente 1580, quelle dimesse 1029, mentre il totale dei re-ingressi è pari a 51 (ovvero il 3,2% dei transitati).
Risultano 90 Trattamenti Sanitari Obbligatori (TSO), 80 contenzioni, 4 suicidi, 4 tentati suicidi, 202 aggressioni ad altri internati, 161 aggressioni ad operatori, 98 allontanamenti.
Il personale dedito alla vigilanza è quasi pari a quello “sociale”, espressione di “un’attenzione alla sicurezza ma anche di una possibile visione (ancora o di necessità) custodialistica”. Si conferma un “impianto forte che probabilmente potrebbe essere declinato in modo più funzionale alla cura e alla riabilitazione”.
La provenienza degli internati è prevalente dalla libertà (41,4%), a seguire dal carcere (39,7%).

Per gli operatori dell’Osservatorio, il rischio che “i vecchi contenitori manicomiali, gli OPG, siano sostituiti dalle Rems è enorme”, per questo monitorano costantemente la situazione, anche con visite dirette nelle strutture. Questa tipologia di istituti dovrebbe essere l’extrema ratio, come previsto anche dalla Legge 81/2014 e necessita un controllo costante affinché i diritti delle persone assistite siano tutelati, egual discorso vale per gli operatori, ai quali “non possono essere richieste funzioni di custodia ma solo di cura”. Bisogna sincerarsi non vi sia coercizione né segregazione.

Sottolinea Quarta nel testo che il corridoio della OPG viene da “alcuni chiamato reparto, da altri braccio”. Indicazione che ben rappresenta come gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari siano stati visti, percepiti e di cosa forse siano effettivamente stati: un’istituzione a cavallo tra un manicomio e un carcere. Con i difetti di entrambi. Ed è proprio questo che si vorrebbe non fossero o diventassero le REMS.
Parla, per esempio, Quarta degli “ergastoli bianchi”, della storia di persone entrate con una misura di sicurezza “che aveva una fantomatica durata temporale” e che, proroga dopo proroga, hanno trascorso la loro intera vita in “istituzioni detentive e di cura”.

Il registro narrativo utilizzato da Luigigiovanni Quarta in Resti tra noi pone lo stesso autore al centro della narrazione, con il suo “io” che racconta l’OPG attraverso se stesso. Si è trattata per certo di una scelta ardita ma è riuscito egualmente Quarta a non esprimere giudizi diretti o conclusioni affrettate invitando così, indirettamente e implicitamente, il lettore a fare altrettanto. Il suo scritto si rivela essere, in questo senso, una lettura “particolare” e un lettore poco attento o privo di nozioni, anche solo basilari di antropologia ed etnologia, potrebbe non riuscire a cogliere appieno la peculiarità e la forza del suo narrato. Ma questa non è necessariamente una critica al lavoro ottimo svolto da Quarta, il quale è riuscito a indagare a fondo il male e il malessere alla ricerca continua dell’umanità e della “vita” in grado di illuminare qualunque buio e di raccontare tutto questo in maniera incisiva e originale.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale


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Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016) 

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Lauren Groff (Bompiani, 2016) 


 

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L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018)

15 lunedì Apr 2019

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Analisi del testo di Iain Chambers, docente di Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo all’Orientale di Napoli, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, riedizione 2018 di Meltemi editore della edizione originale Migrancy, Culture, Identity, Routledge 1994.

Il saggio di Chambers è, a suo modo, provocatorio. Ma in senso positivo. È necessario, ora più che mai, liberarsi da stereotipi e luoghi comuni, guardare il mondo e, soprattutto, i suoi abitanti in maniera diversa, nuova e imparare a far parte dell’alterità. Una visione interna. Critica. Precisa. Obiettiva.
Osservare, studiare, valutare il fenomeno migratorio da dentro, dall’interno, come un qualcosa che appartiene al mondo, al nostro, quello di tutti e non solo come un “problema” che riguarda l’altro e il suo di mondo.

Iain Chambers sottolinea come i migranti siano letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una migliore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ben più ampia. “Pensare con la migrazione”, andare oltre la superficie fino alle «più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige il nostro mondo». Il razzismo, per esempio, non è una semplice patologia individuale o di gruppo, ma «una struttura di potere che continua a generare la gerarchizzazione del mondo».

Si assiste, ancora oggi, a una chiusura culturale che culmina nella «isteria socio-politica» generata dalla questione dell’immigrazione, accompagnata dalla difesa rigida di un’identità e di un «io» che «si rinchiude nella illusoria sicurezza di un luogo». Dinanzi alla minaccia immaginaria dello straniero e del mondo cosiddetto “esterno”, «che ormai “esterno” non è», questa «chiusura» sembra «ignorare i movimenti, spesso turbolenti e sconvolgenti, dei complessi processi storici e culturali del mondo attuale». Chambers, con l’analisi del fenomeno condotta in Paesaggi migratori, si dimostra molto ben intenzionato a promuovere un rapporto radicalmente diverso, nuovo e a tratti “inquietante” con la propria formazione storico-culturale.

I migranti, affermando il loro diritto di muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la «modalità precaria contemporanea della vita platenaria». È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi «viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico».
Il testo di Chambers, a quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, è ancora straordinariamente attuale ed estremamente indicativo della capacità di analisi dell’autore, il quale ha saputo descrivere il mondo di allora nonché la direzione, a volte troppo sbagliata, verso cui stava andando. E verso cui poi è effettivamente andato.

La nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di «rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza», ma anche e nella stessa misura «nella cruda repressione dell’alterità etnica, religiosa e culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei pogrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo». Quando l’immaginario dell’Occidente, per dirla con Edward Said, non sta più fisicamente altrove, «ai bordi di una cartina, ai margini di storia, cultura, sapere ed estetica», ma migra dalla periferia per «eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea», allora la nostra storia cambia, è costretta a farlo. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, ricorda al lettore Chambers, «riconosciamo di non essere più al centro del mondo». Incontrare gli altri si accompagna sempre a incertezza e paura. Nell’attraversare e andare oltre a un ruolo filosofico di conferma dell’ordine esistente, il migrante sfugge ai confini astratti predefiniti per lui e per lei. Non si tratta di un mero conflitto sociale o politico sul diritto di muoversi e migrare, ma anche di «una questione epistemologica».

Ciò che una volta era stato collocato fuori, oltre i confini del nostro mondo, è lì «confinato e spiegato da una gestione coloniale, il razzismo “scientifico” e la disciplina emergente dell’antropologia», ora non può più essere tenuto a distanza critica. La separazione e l’isolamento degli altri come semplici «oggetti di interesse» politico, culturale e filosofico ora crolla e trafigge il centro «con le loro insistenze come soggetti storici». Ci si avvicina allo smantellamento dei binarismi su cui i discorsi politici, culturali e critici dell’Occidente si sono «appoggiati per gestire la loro egemonia sul pianeta»: centro-periferia, Europa-il resto del mondo, bianco-nero, progresso-sottosviluppo. L’umanitarismo e l’impalcatura dell’umanesimo e dei diritti e degli obblighi associati devono ora «negoziare un percorso verso una politica che implichi molto più della semplice applicazione di un modello fornito dal governo e dalle leggi esistenti». La nazionalizzazione delle questioni politiche e culturali continua a confermare un «ordine globale esercitato attraverso l’autorità nazionale, il potere statale e il mantenimento dei confini».

Invece che come un «fláneur ottocentesco», sarebbe più significativo considerare il migrante come «l’epitome della cultura metropolitana moderna». Il viaggio lascia sottintendere un possibile ritorno, invece la migrazione comporta un movimento in cui non sono immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, e richiede che si «risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a mutazione». Il migrante non fa ritorno e anche laddove possa “tornare indietro”, non sarà mai semplicemente questo. Il cambiamento avvenuto è irreversibile. La persona non sarà mai la stessa di prima e per l’ambiente vale lo stesso. Sia quello di partenza che quello di arrivo.
Nei vasti e multipli mondi della città moderna «anche noi diventiamo nomadi e migriamo all’interno di un sistema troppo vasto per essere nostro». Si viene introdotti in uno «stato ibrido, in una cultura composita in cui il «semplice dualismo di Primo e Terzo Mondo si sfalda», lasciando emergere ciò che Homi Bhabha chiama “comunanza differenziale” e Félix Guattari definisce “processo di heterogenesis”. La figura metropolitana moderna è il migrante, attivo formulatore dell’estetica e dello stile di vita metropolitani, che reinventa i linguaggi e «si impadronisce delle strade del padrone».

Quello che gli occidentali si sentono costretti a fare e che li impaurisce è «discutere e disfare il punto di vista unico e omogeneo», il senso di prospettiva e di distanza che nasce nel Rinascimento e trionfa nel colonialismo, nell’imperialismo e nella versione razionale della modernità. Le «illusioni di identità» organizzate intorno alla «voce privilegiata e alla soggettività stabile dell’osservatore esterno» vengono spezzate e spazzate via con un movimento che «non consente più l’ovvia istituzione di un’autoidentità tra pensiero e realtà». Questo porta alla «liberazione di voci diverse», a un incontro con una parte “altra”, a un «dischiudersi del sé che nega la possibilità di ridurre il diverso all’identico».

Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo ora, invece, chiamati a pensarli come «prodotti della nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi». Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro e «lascia queste altre culture in posizione i subalternità», Iain Chambers contempla un qualcosa che va ben oltre «il multiculturalismo e la sua logica di assimilazione» perché «l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sia diventato il mondo». Lo sguardo d’indagine deve essere obliquo per poter catturare tutte le espressioni che esso offre, per comprendere “l’altro” ma anche se stessi in misura migliore.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale


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Il Buddhismo contro l’imbarbarimento del caos. “Le ragioni del Buddha” di Diego Infante (Meltemi, 2018)

08 sabato Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DiegoInfante, LeragionidelBuddha, Meltemi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, recensione, saggio

Dare un senso al proprio stare al mondo. Domande esistenziali che tutti e ognuno, magari inconsciamente e inconsapevolmente, si pongono o dovrebbero porsi. E, laddove non trovano libero sfogo o accesso, generano con ogni probabilità un processo lesivo dell’essere interiore che, inevitabilmente si ripercuote in quello esteriore, nelle relazioni e nello stare al mondo e nel mondo.
Qual è lo scopo del vivere l’esistenza terrena? Quale il senso di “vivere” gran parte di essa rinchiusi in prigioni di cemento più o meno grandi o in scatole di ferro accessoriate con ruote e ogni “confort”?

La società moderna «costituisce il brodo di coltura ideale per il sorgere di nuove domande», non più «esigenze dettate dalla sussistenza, quanto la necessità» di dare, appunto, un senso al proprio stare al mondo. Che non può e non deve ridursi al consumo di risorse e all’accumulo di beni materiali e denaro.

In un’epoca in cui l’istruzione, l’informazione, la comunicazione sembrano svolgersi sempre più caoticamente, a colpi di lanci e smentite, promesse e dinieghi, slogan e titoloni… una vorticosa giostra che pare essere stata creata apposta per nascondere il vuoto, di senso soprattutto, il libro di Infante assume quasi un valore catartico. Un invito non ad abbracciare una qualsivoglia religione o ideologia quanto, piuttosto, a praticare una accurata e profonda riflessione sul mondo come su noi stessi. Riflettere, per esempio, sul dualismo kantiano tra il mondo noumenico e quello del fenomeno. Sulla realtà come volontà e come rappresentazione, ovvero «il mondo come noi ne facciamo esperienza».

Si pensi alla realtà immaginata e costruita per i bambini occidentali, fatta di sontuose feste di compleanno, regali sotto l’albero, beni di consumo mutevole e superflui, spesso inutili eppure spacciati e sentiti come assolutamente necessari. Una rappresentazione talmente distorta di quella che è la realtà, di quello che è il mondo reale da apparire surreale se non proprio paradossale che in tanti, adulti prima ancora dei bambini, tuttora ci credano. Il mondo fuori dai format televisivi, cinematografici e pubblicitari, quello in cui vivono milioni di persone che si cerca costantemente di incantare con la ‘felicità consumistica’ del mondo occidentale, la cui economia verte interamente «sul foraggiamento dei desideri».

«Non è peregrino affermare che l’Occidente abbia costruito il proprio paradigma nella più completa ignoranza del meccanismo per cui per ogni azione si generano forze inverse e contrarie». E volendo contestualizzare il discorso nel dibattito, in questo periodo caldissimo, sui migranti, si nota che la discussione si sviluppa sul tema dell’accoglienza, nella declinazione dei favorevoli e dei contrari, della necessità o nel dovere che l’Occidente deve assumersi per dare una possibilità a tutti loro di costruirsi una nuova vita, quanto più simile possibile a quella immaginata o vissuta per se stessi. Nessuno, o quasi, pensa invece che la soluzione vada ricercata nella rinuncia dell’Occidente tutto in primo luogo ai suoi innumerevoli e inappagabili “desideri” che si traducono in consumo, in spreco di risorse, suolo e spazio che non competono solo agli occidentali bensì agli abitanti dell’intero pianeta.

Cita Infante nel testo una esemplare frase di Tiziano Terzani: «Se l’Homo sapiens, quello che siamo ora, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest’uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto con il prossimo e meno rapace nei confronti del resto del mondo?»
Di sicuro questa mutazione non avverrà fin quando il paradigma di una felicità raggiungibile solo attraverso l’economia di appagamento dei desideri sarà considerato un imperativo. Solo attraverso la rinuncia, la ricerca interiore prima che esteriore, la solidarietà e l’empatia contrapposte all’individualismo sfrenato si potrà sperare in un reale e profondo cambiamento. Inutile utopia per alcuni, speranza per altri.

Di sicuro c’è che finora tutte le ideologie indistintamente davano «la certezza morale necessaria per giustificare la violenza in funzione di un mondo migliore», inducendo ad accettare come «un fatto scontato che qualcuno debba morire perché gli altri possano vivere liberi e felici». La citazione di Pankaj Mishra restituisce nella giusta ottica gli errori di fondo di una cultura basata sul profitto e sul benessere propri, e sul disinteresse pressoché totale per gli altri, usati spesso solo come anonimi destinatari di una beneficenza e di gesti caritatevoli volti a rappresentare la propria presunta bontà d’animo nonostante la conscia violenza inflitta, direttamente o indirettamente, al mondo e ai suoi abitanti. In altre parole ipocrisia e apparenza, che poi, in fondo, sono le fondamenta della cultura dell’immagine e della rappresentazione su cui sembra essere stato costruito tutto l’impianto del progresso occidentale.

Nelle differenze enormi con gli insegnamenti buddhisti Infante riesce a trovare se non proprio similitudini almeno potenziali punti di incontro che potrebbero costituire altrettanti punti di partenza per un buddhismo che accompagni l’Occidente nel suo percorso accelerativo: «l’accelerazione potrebbe innescare la messa in discussione e quindi il capovolgimento di prospettiva». Un “viaggio” per guardare lontano laddove la distanza può fungere «da specchio per guardare vicino e soprattutto dentro».
Esattamente la svolta che fu caratteristica di «un grande viaggiatore qual è stato Tiziano Terzani»: un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio la cui meta non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, «una condizione di pace con se stesso e col mondo».

Anche Le ragioni del Buddha di Diego Infante rappresenta, per certi versi, un viaggio che il lettore compie attraverso la narrazione dell’autore sul sentiero da lui tracciato o su quello della propria mente. Un viaggio lento, a volte accidentato, ma pregno di significati. Un peregrinare tra domande e risposte seguendo i lineamenti di uno stile narrativo intenso, molto ricercato. Una ricercatezza che si denota sia nel fraseggio come anche nell’impiego di vocaboli di non largo utilizzo. Un percorso di scrittura e un ragionamento avallati da numerose citazioni e riferimenti bibliografici che spaziano dai testi di Baumer a Dumont o Kumar, il più volte citato Terzani e numerosi altri autori. Un libro articolato, ben strutturato e ben riuscito nello scopo dichiarato e prefissosi dall’autore.


Source: Si ringrazia l’autore Diego Infante per la segnalazione e il materiale.


Articolo originale qui


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