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Irma Loredana Galgano

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L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018)

15 lunedì Apr 2019

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Analisi del testo di Iain Chambers, docente di Studi culturali e media e Studi culturali e postcoloniali del Mediterraneo all’Orientale di Napoli, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, riedizione 2018 di Meltemi editore della edizione originale Migrancy, Culture, Identity, Routledge 1994.

Il saggio di Chambers è, a suo modo, provocatorio. Ma in senso positivo. È necessario, ora più che mai, liberarsi da stereotipi e luoghi comuni, guardare il mondo e, soprattutto, i suoi abitanti in maniera diversa, nuova e imparare a far parte dell’alterità. Una visione interna. Critica. Precisa. Obiettiva.
Osservare, studiare, valutare il fenomeno migratorio da dentro, dall’interno, come un qualcosa che appartiene al mondo, al nostro, quello di tutti e non solo come un “problema” che riguarda l’altro e il suo di mondo.

Iain Chambers sottolinea come i migranti siano letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una migliore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ben più ampia. “Pensare con la migrazione”, andare oltre la superficie fino alle «più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige il nostro mondo». Il razzismo, per esempio, non è una semplice patologia individuale o di gruppo, ma «una struttura di potere che continua a generare la gerarchizzazione del mondo».

Si assiste, ancora oggi, a una chiusura culturale che culmina nella «isteria socio-politica» generata dalla questione dell’immigrazione, accompagnata dalla difesa rigida di un’identità e di un «io» che «si rinchiude nella illusoria sicurezza di un luogo». Dinanzi alla minaccia immaginaria dello straniero e del mondo cosiddetto “esterno”, «che ormai “esterno” non è», questa «chiusura» sembra «ignorare i movimenti, spesso turbolenti e sconvolgenti, dei complessi processi storici e culturali del mondo attuale». Chambers, con l’analisi del fenomeno condotta in Paesaggi migratori, si dimostra molto ben intenzionato a promuovere un rapporto radicalmente diverso, nuovo e a tratti “inquietante” con la propria formazione storico-culturale.

I migranti, affermando il loro diritto di muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la «modalità precaria contemporanea della vita platenaria». È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi «viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico».
Il testo di Chambers, a quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, è ancora straordinariamente attuale ed estremamente indicativo della capacità di analisi dell’autore, il quale ha saputo descrivere il mondo di allora nonché la direzione, a volte troppo sbagliata, verso cui stava andando. E verso cui poi è effettivamente andato.

La nascita della modernità non sta unilateralmente nella storia dell’espansione europea e nelle modalità di «rifacimento del mondo a sua immagine e somiglianza», ma anche e nella stessa misura «nella cruda repressione dell’alterità etnica, religiosa e culturale, nella brutalità della diaspora nera africana, nello schiavismo razzista atlantico, nei pogrom etnici e nel saccheggio imperiale del globo». Quando l’immaginario dell’Occidente, per dirla con Edward Said, non sta più fisicamente altrove, «ai bordi di una cartina, ai margini di storia, cultura, sapere ed estetica», ma migra dalla periferia per «eleggere il proprio domicilio nella metropoli contemporanea», allora la nostra storia cambia, è costretta a farlo. Nel riconoscimento dell’altro, dell’alterità radicale, ricorda al lettore Chambers, «riconosciamo di non essere più al centro del mondo». Incontrare gli altri si accompagna sempre a incertezza e paura. Nell’attraversare e andare oltre a un ruolo filosofico di conferma dell’ordine esistente, il migrante sfugge ai confini astratti predefiniti per lui e per lei. Non si tratta di un mero conflitto sociale o politico sul diritto di muoversi e migrare, ma anche di «una questione epistemologica».

Ciò che una volta era stato collocato fuori, oltre i confini del nostro mondo, è lì «confinato e spiegato da una gestione coloniale, il razzismo “scientifico” e la disciplina emergente dell’antropologia», ora non può più essere tenuto a distanza critica. La separazione e l’isolamento degli altri come semplici «oggetti di interesse» politico, culturale e filosofico ora crolla e trafigge il centro «con le loro insistenze come soggetti storici». Ci si avvicina allo smantellamento dei binarismi su cui i discorsi politici, culturali e critici dell’Occidente si sono «appoggiati per gestire la loro egemonia sul pianeta»: centro-periferia, Europa-il resto del mondo, bianco-nero, progresso-sottosviluppo. L’umanitarismo e l’impalcatura dell’umanesimo e dei diritti e degli obblighi associati devono ora «negoziare un percorso verso una politica che implichi molto più della semplice applicazione di un modello fornito dal governo e dalle leggi esistenti». La nazionalizzazione delle questioni politiche e culturali continua a confermare un «ordine globale esercitato attraverso l’autorità nazionale, il potere statale e il mantenimento dei confini».

Invece che come un «fláneur ottocentesco», sarebbe più significativo considerare il migrante come «l’epitome della cultura metropolitana moderna». Il viaggio lascia sottintendere un possibile ritorno, invece la migrazione comporta un movimento in cui non sono immutabili o certi né i punti di partenza né quelli di arrivo, e richiede che si «risieda in una lingua, in storie, in identità costantemente soggette a mutazione». Il migrante non fa ritorno e anche laddove possa “tornare indietro”, non sarà mai semplicemente questo. Il cambiamento avvenuto è irreversibile. La persona non sarà mai la stessa di prima e per l’ambiente vale lo stesso. Sia quello di partenza che quello di arrivo.
Nei vasti e multipli mondi della città moderna «anche noi diventiamo nomadi e migriamo all’interno di un sistema troppo vasto per essere nostro». Si viene introdotti in uno «stato ibrido, in una cultura composita in cui il «semplice dualismo di Primo e Terzo Mondo si sfalda», lasciando emergere ciò che Homi Bhabha chiama “comunanza differenziale” e Félix Guattari definisce “processo di heterogenesis”. La figura metropolitana moderna è il migrante, attivo formulatore dell’estetica e dello stile di vita metropolitani, che reinventa i linguaggi e «si impadronisce delle strade del padrone».

Quello che gli occidentali si sentono costretti a fare e che li impaurisce è «discutere e disfare il punto di vista unico e omogeneo», il senso di prospettiva e di distanza che nasce nel Rinascimento e trionfa nel colonialismo, nell’imperialismo e nella versione razionale della modernità. Le «illusioni di identità» organizzate intorno alla «voce privilegiata e alla soggettività stabile dell’osservatore esterno» vengono spezzate e spazzate via con un movimento che «non consente più l’ovvia istituzione di un’autoidentità tra pensiero e realtà». Questo porta alla «liberazione di voci diverse», a un incontro con una parte “altra”, a un «dischiudersi del sé che nega la possibilità di ridurre il diverso all’identico».

Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione, razzismo e diversità come problemi altrui, siamo ora, invece, chiamati a pensarli come «prodotti della nostra storia, della nostra cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri desideri e nevrosi». Se il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce le culture e le identità altrui per mantenersene al centro e «lascia queste altre culture in posizione i subalternità», Iain Chambers contempla un qualcosa che va ben oltre «il multiculturalismo e la sua logica di assimilazione» perché «l’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sia diventato il mondo». Lo sguardo d’indagine deve essere obliquo per poter catturare tutte le espressioni che esso offre, per comprendere “l’altro” ma anche se stessi in misura migliore.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale


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Le sfide all’ordine mondiale: “Il ritorno delle tribù” di Maurizio Molinari (Rizzoli, 2017)

16 domenica Lug 2017

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Califfo, flussimigratori, Ilritornodelletribu, immigrazione, jihad, MaurizioMolinari, migranti, monocolooccidentale, NWO, ordinemondiale, recensione, Rizzoli, romanzo, saggio, Terrorismo

Esce in prima edizione a maggio 2017 con Rizzoli il libro di Maurizio Molinari Il ritorno delle trbù. La sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale, dedicato dall’autore «Alla mia tribù». Leggendo il testo se ne comprende fin da subito il perché.
Il ritorno delle tribù appare come un articolo/commento lungo in cui l’autore racconta la sua versione di quanto sta accadendo in Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa, una personale analisi della «generale tendenza alla disgregazione che porta all’indebolimento degli Stati nazionali e dei rispettivi establishment».
Un libro che delude per il suo contenuto e stupisce per la presenza di alcuni refusi di punteggiatura, anche se bisogna ammettere che non sono di certo questi il vero problema.

Nelle affermazioni di Molinari il testo è volto «alla ricerca delle origini di rivolte, diseguaglianze e migrazioni per arrivare a descrivere le tribù d’Oriente e d’Occidente che ne sono protagoniste, mettendo in evidenza ciò che le distingue e ciò che le accomuna». In realtà, leggendolo, si ha l’impressione di consultare un vecchio testo di Storia nel quale gli accadimenti e le vicende geo-politiche vengono narrate descritte e commentate dall’unico punto di vista ritenuto giusto valido e attendibile: il monocolo occidentale. L’Universo dell’Occidente, che include anche Israele, guidato dagli Stati Uniti e la cui Legge sembra rappresentare per l’autore il Verbo divino. Come se tutti gli abitanti della Terra, indistintamente, debbano andare inesorabilmente verso l’unica direzione possibile e nota, la medesima tra l’altro che ha determinato e condizionato la Storia passata e presente e che si vorrebbe delimitasse anche quella futura.

Bisognerebbe riuscire ad ammettere quantomeno che le innumerevoli guerre e missioni portate avanti dai governi occidentali non sono rivolte a stabilire la pace e il benessere di tutti gli abitanti del Pianeta piuttosto a fermare chi si ribella all’ordine mondiale voluto e imposto dai suddetti governi.
Far leva sulla paura ingenerata dal terrorismo islamista oppure sulla cosiddetta invasione di migranti è facile e altrettanto facilmente può raccogliere consenso in chi legge. Una lettura meno critica del libro infatti potrebbe con molta semplicità dare la sensazione che gli jihadisti e i migranti siano l’unico vero problema da affrontare e che risolto ciò il Pianeta sarà salvo. È tanto evidente quanto elementare che così non è e così non sarà.

Molinari parla enne volte del «disegno apocalittico o escatologico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfo» nel suo libro, che è certamente contrario alla propaganda jihadista ma scritto con un’enfasi tale da apparire esageratamente e paradossalmente propagandistico a sua volta. Solo che l’apostolato sembra la cronistoria, a volte la giustificazione, delle strategie e delle tattiche degli americani, descritti come la punta, il vertice portabandiera delle imprese militari occidentali volte alla esportazione mondiale delle idee di democrazia progresso crescita e libertà. Secondo la visione dualista del mondo che vede gli occidentali, compresi gli ebrei, da una parte e tutti gli altri dalla parte opposta e in base alle cui regole di supremazia militare politica economica sono stati scritti e riportati oltre 2mila anni di Storia.

LEGGI ANCHE – La nascita dei ‘mostri’ del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

Il terrorismo jihadista, come qualsiasi altra forma di terrorismo, è da biasimare innegabilmente così come il dramma umano dei migranti e dei profughi non può lasciare indifferenti le società “civili” di tutto il mondo ma lo smanioso desiderio di accentuare ed enfatizzare la negatività dell’estremismo jihadista dell’autore sembra gli sia tornato utile per tralasciare, accennandoli appena, alcuni aspetti della vicenda affrancandosi di parlarne nel dettaglio.
Per esempio, l’accenno al Trattato di Sèvres del 1920 in base al quale le potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale promettevano l’indipendenza al popolo curdo e agli Accordi segreti di Sykes-Picot del 1916 siglati tra Inghilterra e Francia per spartirsi il dominio e il controllo sul Medio Oriente, nonché il fatto che tutti i confini degli stati dell’area mediorientale e del Nord Africa sono stati tracciati a tavolino sempre dalle potenze occidentali tenendo conto, presumibilmente, dei propri interessi politici ed economici senza sottolineare come la situazione che vivono queste aree oggi deriva da tutto ciò appare quasi ridicolo, per non dire fuorviante.
La quasi totalità delle rivolte e dei malcontenti in Africa e Medio Oriente ha origine proprio dal fatto che la suddetta suddivisione in “stati a tavolino” ha generato un tale caos che, aggiunto al mal operato di governi corrotti e all’incessante sfruttamento del territorio e delle risorse sempre da parte degli occidentali ha portato dritti dritti alla situazione catastrofica odierna. Come si fa a credere che spetta ancora solo alle potenze occidentali trovare la soluzione?

LEGGI ANCHE – Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

La stessa nascita del jihadismo è imputabile, almeno in parte, all’operato degli occidentali i quali prima hanno sfruttato questi “ribelli” considerandoli alla stregua di eroi che combattevano al loro fianco per sconfiggere l’Impero del Male, allora rappresentato dall’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan, e solo in seguito diventati essi stessi il Male perché hanno portato il terrore nel cuore dell’Occidente.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 la missione di tutto l’Occidente, più compatto che mai, era scovare colui che veniva da tutti indicato come il responsabile della tragedia: Osama bin Laden. La cui uccisione è stata proposta alla popolazione come l’unica via per debellare il Male, incarnato dalle cellule terroristiche di al-Qaeda. Versione ingenua o peggio fuorviante. Quel che in realtà è poi accaduto è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Ancor prima di Bin Laden un altro è stato il nemico da battere a ogni costo per mantenere sicure le certezze occidentali: Saddam Hussein, giustiziato nel 2006. La fine del dittatore iracheno ha generato la diaspora dei generali e degli uomini del suo esercito, molti dei quali hanno abbracciato le idee o sono stati ingaggiati dai terroristi islamisti con il compito di addestrare i nuovi adepti, compresi i foreign fighters. Oggi il nemico numero uno dell’Occidente è il Califffo. Ma cosa accadrà una volta che sarà sconfitto?
Ecco che si profila di nuovo il dubbio sull’affidabilità delle potenze occidentali a risolvere la situazione in Medio Oriente e Nord Africa.

LEGGI ANCHE – “Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016)

La soluzione auspicata da Maurizio Molinari ne Il ritorno delle tribù riguarda in realtà più il tentativo di superare la crisi economica conseguenza della globalizzazione che ha colpito il ceto medio occidentale e il cui malcontento sta consentendo, a suo dire, l’avanzata del populismo, indicato come il secondo dei mali da combattere. Il primo è il jihadismo. Uno interno e l’altro esterno che debbono essere affrontati separatamente ovvero, nelle parole dell’autore, «combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non vi fosse». La linea indicata da Molinari per superare i due mali che attanagliano le tribù occidentali è molto parziale e sembra non tenere in considerazione non solo la consequenzialità degli eventi ma anche il processo inarrestabile della globalizzazione che non può e non deve essere solo di merci e capitali ma di persone. Per cui se anche fino a questo punto le decisioni dei governi occidentali non hanno voluto tenere in considerazione le conseguenze delle loro decisioni non solo riguardo la propria tribù ma anche per le altre, ciò non è più accettabile. Come non può esserlo l’idea che l’autore vuol far passare di Israele, indicato addirittura come “isola” per la compattezza e l’omogeneità della tribù che fa quadrato contro ogni minaccia «all’esistenza del proprio Stato».

Quelle che l’autore indica come scelte volte alla salvaguardia del proprio Stato o della propria nazione, della sicurezza o della democrazia in realtà, tradotte in fatti, corrispondono a sanguinose guerre e interventi militari che causano centinaia di morti e migliaia di feriti, sfollati, profughi e migranti. E che generano anche sentimenti di odio e risentimento nei confronti degli stranieri invasori e invadenti oppure verso governi corrotti e collusi che si rivelano inadeguati e disinteressati al benessere pubblico e collettivo.

I problemi di cui parla Molinari, ovvero gli jihadisti e i migranti non sono la causa bensì la conseguenza e la conseguenza non la risolvi se non vai a incidere sulla causa, sia fuori che dentro il proprio Universo.
Molinari dedica il libro alla sua tribù perché è l’unico raggruppamento umano verso cui sembra nutrire un certo interesse.

Maurizio Molinari: giornalista e scrittore, direttore del quotidiano La Stampa.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Ornella dell’Ufficio stampa Rizzoli.

Articolo originale qui

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“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016)

12 venerdì Mag 2017

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Uscito in prima edizione ad aprile 2016 per Editori Laterza, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna è un saggio tascabile di poco oltre centocinquanta pagine sui «radicalismi emergenti, tra gli immigrati e contro gli immigrati».

Un libro che è un valido «strumento di lettura e di orientamento», utile a fornire «chiavi interpretative» prive di pregiudizi ideologici per una questione che ha «radici profonde nella storia» e di cui gli autori si interessano sistemicamente. Ciò ha consentito loro di evitare l’inseguimento delle notizie di stretta attualità e mantenere un approccio meno semplicistico al fenomeno, riuscendo così a raccontare al lettore «alcune prospettive di questa storia grandiosa, piena di speranze e soddisfazioni, ma anche delusioni e sofferenze».

Una vicenda che ha visto un paese come l’Italia «che si credeva monoculturale e in passato di emigrazione» trasformarsi, nel giro di un paio di generazioni, «in un grande porto di mare» e un popolo, quello italiano, che nella necessità del confronto con l’altro, con il “diverso”, si vede costretto a fare i conti con la propria identità. Una condizione di mutamento continuo, dove «anche i nativi vengono in qualche modo modificati dall’interazione con i migranti», esattamente come questi subiscono la metamorfosi del cambiamento e così «da questi incontri nasce una popolazione nuova». Diventa a questo punto necessario «adattare la nostra società e – prima ancora – la nostra mentalità, per vivere al meglio questo grandioso mutamento».

Nel caos degli allarmismi di informazione e politica il testo di Allievi e Dalla Zuanna viene positivamente accolto come una lettura che invita alla calma e alla conoscenza riguardo un fenomeno che è sempre esistito e che ruota intorno a tre “semplici” parole: «necessità, selezione, integrazione».

Utile doveroso e necessario anche l’aver ricordato in Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione che il censimento del 1881 rivelò che metà dei milanesi non erano nati a Milano e che nel primo secolo di Unità nazionale (1861 – 1961), almeno 25milioni di italiani hanno lasciato l’Italia, «quasi 700 al giorno».

L’impegno degli autori è stato profuso non solo nel racconto dettagliato di ciò che i fatti storici avrebbero dovuto insegnarci e il cui apprendimento sotto un ottica diversa avrebbe potuto meglio preparare la società attuale ad affrontare la “crisi migratoria” in atto, ma anche nell’analisi dei dati, nella formulazione di pacate ipotesi risolutive nonché per sfatare i luoghi comuni che sembrano sempre più radicalizzati e strumentalizzati per creare un clima di diffidenza e paura.

  • Gli stranieri rubano il lavoro agli italiani.

  • Gli stranieri frenano lo sviluppo dell’Italia.

  • Tra gli stranieri c’è un’elevata percentuale di criminali.

Gli economisti mostrano e dimostrano che, in Italia come in altri Paesi “ricchi”, i nuovi flussi migratori «hanno causato la crescita dei salari dei nativi, favorendo nel contempo la compressione dei salari degli stranieri» già presenti da tempo sul territorio. Sul mercato del lavoro «gli immigrati sono complementari piuttosto che concorrenti degli italiani». Sono loro per la gran parte ad accollarsi l’onere di svolgere mansioni dirty, dangerous and demeaning (sporche, pericolose e umilianti) e la loro “disponibilità” allo svolgimento dei ddd jobs ha di fatto «permesso agli italiani di concentrarsi sui lavori meglio retribuiti, meno faticosi e più prestigiosi». Ma ha anche, in concreto, spinto «verso mansioni meglio retribuite i lavoratori italiani non qualificati». Per contro «polacche, ucraine, filippine, peruviane, moldave e rumene» sono le più penalizzate, costrette per necessità «a svolgere un lavoro poco qualificato rispetto al titolo di studio conseguito e alle competenze professionali acquisite».

I motivi alla base della mancanza di lavoro, della diffusa disoccupazione, anche giovanile, e dei bassi livelli di crescita dell’Italia vanno invece ricercati nelle «forti barriere all’ingresso delle professioni», negli «oligopoli e cartelli fra le imprese (spesso tutelati dal sistema politico)», nella tendenza a «preservare strenuamente il posto di lavoro piuttosto che a proteggere il lavoratore».

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Allievi e Dalla Zuanna sottolineano con fermezza il destino di declino cui andrà inesorabilmente incontro il nostro Paese «se non inizierà a prendere di petto questi problemi». Paesi come la Germania, il Regno Unito e gli Usa negli ultimi venti anni «sono cresciuti molto più di noi pur condividendo i nostri alti tassi immigratori». Mentre paesi come il Giappone «sono cresciuti poco anche se continuano a tenere blindate le loro frontiere». Ne conviene quindi che «alti tassi di immigrazione possono convivere con alti tassi di sviluppo».

Non è tanto la condizione di straniero in sé a essere determinante nel delinquere quanto «quella di marginale». È «la povertà materiale, di risorse sociale e di capitale culturale» a giocare un ruolo decisivo. Leggendo i dati del Dossier Statistico Immigrazione 2015 del Centro Studi e Ricerche IDOS, che gli autori riportano nel testo, si apprende che le denunce contro italiani sono in aumento del 28% mentre quelle verso stranieri sono in calo del 6,2% e che il 17% di queste riguarda violazioni della normativa di soggiorno.

Inoltre non bisogna dimenticare che «gli stranieri non sono solo soggetto, sono anche oggetto di devianza e vittime di criminalità». Dettagliato il resoconto che fanno Allievi e Dalla Zuanna su traffico di manodopera, tratta, sfruttamento, caporalato, violenza, truffa… insomma su tutte le «forme di criminalità legate al business sugli immigrati e all’accoglienza», ricordando anche il recente scandalo etichettato da media e magistratura Mafia Capitale.

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Gli autori sottolineano come la questione dei profughi, al pari dell’immigrazione, non è un’emergenza ma «un dato strutturale del mondo globale» e come tale va affrontata.

  • Con strategie, non con parole d’ordine.

  • Con politiche, non con slogan.

  • Con pragmatismo, non con precomprensioni ideologiche.

A livello europeo, a livello nazionale e locale, nella scuola… evitando strumentalizzazioni e multiculturalismi improvvisati che sono speculari all’identitarismo grossolano.

I rifugiati sono dei testimoni della storia e delle volte portano con sé «il destino, la coscienza e il desiderio di riscatto di un intero paese». Viene riportato l’esempio di un esule italiano antifascista in Francia che, dopo aver lavorato come muratore, è rientrato in Italia e diventato successivamente il settimo Presidente della Repubblica. Sandro Pertini.

I migranti economici si muovono per ragioni in parte differenti dai rifugiati politici ma la loro storia merita egualmente di essere scritta con l’inchiostro della civiltà, dell’umanità e del rispetto, tenendo sempre a mente le tre “semplici” parole che ricorrono nelle storie migratorie.

  • Necessità.

  • Selezione.

  • Integrazione.

Tre termini che custodiscono il mondo che è stato e al contempo mostrano quello che sarà. Perché il cambiamento è «la chiave di lettura principale, da assumere e da sostanziare con contenuti seri» se l’intenzione è «capire cosa sta succedendo, tra le comunità islamiche presenti in Europa e nelle società che le ospitano». E questo naturalmente è un discorso valido per tutte le comunità, non solo quelle islamiche.

Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna si rivela una lettura molto interessante. Si tratta di un saggio breve ben articolato e con un’ottima struttura narrativa in grado di presentare al lettore una panoramica di ampio raggio sul fenomeno delle migrazioni e indurlo in profonde riflessioni sulla società, attuale e passata, su quelli che devono o dovrebbero esserne i principi fondativi (l’inalienabilità dei diritti e l’universalità della loro applicazione), sulle politiche e sull’informazione globalizzate ma neanche poi tanto, sui concetti per niente astratti di inclusione e divisione. Un libro che merita senza dubbio alcuno di essere letto.

Stefano Allievi: è professore di Sociologia e direttore del Master sull’Islam in Europa presso l’Università di Padova.

Si occupa di migrazioni in Europa e analisi del cambiamento culturale e del pluralismo religioso.

Gianpiero Dalla Zuanna: è professore di Demografia presso l’Università di Padova.

Ha studiato il problema dell’equilibrio demografico nazionale e internazionale e l’integrazione delle seconde generazioni nella società italiana.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Editori Laterza per la disponibilità e il materiale.

Disclousure: Fonte biografia autori quarta di copertina.

Articolo disponibile anche qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Umanità e Giustizia salveranno i migranti… e anche tutti gli altri. “Padre Mosé” di Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi (Giunti, 2017)

03 lunedì Apr 2017

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AbbaMussieZerai, Africa, DonMussieZerai, Europa, Giunti, GiuseppeCarrisi, immigrazione, Italia, migranti, PadreMose, paura, recensione, romanzo

È uscito a gennaio di quest’anno con Giunti il libro-denuncia di Abba Mussie Zerai, scritto con Giuseppe Carrisi, Padre Mosé. Nel viaggio della disperazione il suo numero di telefono è l’ultima speranza. Un pugno nello stomaco e un simbolico schiaffo in faccia a chi ancora vuol fingere di non vedere e non capire che la punizione in alcun modo deve essere progettata e inflitta a coloro che, in balia della disperazione più nera, si lanciano in un viaggio disperato alla ricerca di un luogo dove raccogliere ciò che resta della loro dignità e della loro esistenza e tentare almeno di ricominciare. Uomini e donne, bambini e bambine costretti a lasciare i loro luoghi natii a causa della sofferenza, della povertà, delle carestie, delle guerre, delle dittature, del terrorismo… La soluzione a questa immensa emergenza umanitaria non deve essere studiata contro di loro ma per loro. Se si riuscisse anche a punire i reali colpevoli sarebbe meglio ma intanto bisogna pensare a non aggredire ulteriormente queste persone perché così facendo non solo causiamo loro altro male e sofferenze ma perdiamo anche quel briciolo di umanità che si spera alberghi ancora in tutti e in ogni occidentale, emblema e simbolo condiviso del corretto “viver civile”.

I cristiani imparano fin dalle prime lezioni di catechismo il racconto del liberatore del popolo di Israele, riuscito a salvare la sua gente dall’esercito del faraone e dalle acque del mare. La storia di Padre Zerai invece ancora non è così nota. Ma anche lui, come l’altro Mosé, cerca di salvare la sua gente da un esercito di famelici assalitori e dalle acque di un mare. Un’impresa titanica, considerando i numeri e le distanze, che avrebbe scoraggiato e fatto desistere tanti ma non lui che ha scelto di andare sempre avanti nonostante la mancanza di risorse, le difficoltà oggettive, le intimidazioni, le minacce e le porte in faccia. Abba Zerai è molto cristiano, credente e praticante una spiritualità che nulla sembra avere in comune con i fasti dello Stato Pontificio, con il lusso di chiese palazzi e cattedrali rivestite di oro e preziosi… ma molto assomiglia alla fede predicata e praticata da Gesù Cristo, da san Francesco, dai padri francescani e benedettini… un amore senza tempo e senza limiti verso le creature che popolano la Terra, soprattutto i più bisognosi, i meno “fortunati”, gli ultimi che il Vangelo stesso indica come quelli che “saranno i primi”.

Mussie Zerai dà a questa affermazione un significato tanto probabile quanto preoccupante. Bisogna avere il «coraggio di cambiare nel rispetto reciproco», è necessario «mettere l’uomo al centro di ogni scelta» altrimenti «si rischia di imboccare una strada in rapida discesa, alla fine della quale c’è il buco nero della negazione dei diritti fondamentali dell’uomo». Dobbiamo riflettere su quanto afferma Zerai perché «oggi tocca ai profughi e ai migranti. E domani?».

Nonostante le testimonianze orribili riportate nel testo traspare dalle parole di Mussie Zerai una profonda fiducia nel genere umano e non si può fare a meno di chiedersi se ciò derivi dal fatto che egli sia nato e cresciuto in quella parte del pianeta dove vi è più sofferenza proprio perché c’è più umanità. Interi popoli sopraffatti dalla brama di pochi avidi e corrotti, soggiogati da dittature ed estremismi politici e religiosi, che non vogliono e non riescono a piegarsi alla violenza e scelgono di fuggire dai luoghi che hanno dato loro i natali, quegli stessi posti che continuano a essere i supermercati del benessere occidentale. Oggetto di contese che in apparenza hanno motivazioni politiche o religiose ma che in realtà nascondono quasi sempre valenze economiche e finanziarie. Petrolio, gas, diamanti, minerali… giacimenti che fanno gola a tanti, servono a tutti, arricchiscono pochi e condannano alla miseria troppi.

Leggi anche – Yemen, la Strage degli Innocenti dimenticati

Perché l’Italia e l’Europa non riescono a stilare un efficace piano di prevenzione e sostegno dell’emergenza umanitaria in atto? Padre Zerai afferma di aver avuto la risposta a questo interrogativo «nel 2014, quando è scoppiato lo scandalo di Mafia Capitale». Se lui solo con pochi amici fidati è riuscito in questi anni ad aiutare migliaia e migliaia di profughi senza avere a sua disposizione né risorse né mezzi come si può davvero credere che gli stati occidentali con tutte le risorse a loro disposizione non riescano a studiare un concreto piano di prevenzione e intervento? La risposta va cercata lontano da quello che viene da politici e media indicato come il problema, ovvero il fiume di migranti che con ogni mezzo cerca la salvezza lungo le coste italiane e greche. Non sono loro il problema, queste persone rappresentano la conseguenza dei problemi generati anche dagli stessi stati occidentali.

Leggi anche – La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

Un libro necessario Padre Zerai di Mussie Zerai e Giuseppe Carrisi, capace di raccontare senza filtri quanto realmente sta accadendo alle persone che abitano la Terra, quello che viene taciuto e perché. «Anche gli ultimi esistono e il loro diritto alla vita non è diverso da quello degli altri», sottolinea Abba Zerai che ha deciso di votare la sua vita al sacerdozio dopo aver scelto di impiegarla per aiutare i più bisognosi. Azioni e concetti che non sono banale retorica ma esempi di vita vera, reale umanità che ancora persiste in persone, come Zerai, cresciute in un clima di violenza e paura che al contatto con il benessere del mondo occidentale non hanno scelto di volere ogni bene per se stessi bensì di adoperarsi affinché ognuno possa avere almeno il minimo per mantenere o riguadagnare la dignità spettante a ogni essere umano. Perché «la Persona non deve essere il custode della legalità, anzi costantemente deve mettere in crisi la legalità confrontandola con la giustizia». E la giustizia non deve essere mero rispetto della legalità bensì pieno rispetto dell’equità.

Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte Biografia autori www.walkaboutliteraryagency.com

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Migrazioni… di organi

Cosa siamo diventati? Migrazioni, umanità e paura in “Lacrime di sale” di Bartolo-Tilotta (Mondadori, 2016)

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Migrazioni… di organi

14 martedì Feb 2017

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Il 7 e l’8 febbraio si è tenuto in Vaticano un summit sul traffico internazionale di organi, indetto dalla Pontificia Accademia delle Scienze. Monsignor Sorondo, cancelliere dell’Accademia, in apertura ha sottolineato che «il traffico di organi e il “turismo dei trapianti” sono un crimine contro l’umanità». Alla due giorni in Vaticano hanno partecipato rappresentanti di quasi tutti i Paesi del mondo, concordi sul fatto che intorno all’argomento ci sia ancora «molto silenzio». Troppo.

L’espianto e il reimpianto di un organo non sono pratiche che si possono fare in autonomia o comunque non senza le necessarie conoscenze tecniche e mediche. Dietro, intorno e a fianco al “donatore” e al ricevente non ci può mai essere solo il trafficante. È una rete, una ragnatela nera che imprigiona e condanna i disperati mentre al tempo stesso sembra fruttare infiniti guadagni a chi la tesse e la cela.

Alessandro Nanni Costa, presidente del Centro nazionale trapianti italiano, afferma che il primo ostacolo da affrontare è riuscire a «quantificare il traffico illegale di organi» in modo tale da poter poi «prevedere delle politiche di contrasto condivise a livello internazionale».

Ha destato molto scalpore la presenza della Cina al summit, una nazione che dal 1984 consente la rimozione degli organi da condannati a morte e giustiziati. Monsignor Sorondo ha voluto interpretare la  presenza di questo Paese come la «dimostrazione, da parte dell’attuale governo, di voler cambiare rotta e seguire la dignità umana». Ma per Dafoh (Doctors against forced organ harvesting – Medici contro il prelievo forzato di organi) il Summit on organ trafficking and transplant tourism «non dovrebbe avere luogo senza l’assicurazione che il governo cinese abbia messo fine al suo programma di prelievo di organi». E invita i partecipanti alla due giorni in Vaticano a chiedere a Huang Jiefu, presidente del Comitato nazionale cinese sulla donazione e il trapianto di organi, e al governo cinese di «verificare che qualsiasi prelievo forzato di organi dai prigionieri di coscienza, incluso i membri del Falun Gong (movimento spirituale dichiarato fuorilegge nel 1999, ndr) e qualsiasi altro gruppo prigioniero, sia finito e non riprenderà».

Nella dichiarazione firmata da tutti i convegnisti si invitano i leader religiosi a «incoraggiare le donazioni etiche di organi e condannare la tratta di esseri umani che ha l’obiettivo della rimozione e del traffico di organi» e i governi di tutti i Paesi a «riconoscere come crimine il traffico di organi, compreso l’uso di organi da prigionieri morti per esecuzione capitale». Viene chiesto all’Organizzazione Mondiale della Sanità, al Consiglio d’Europa, alle agenzie delle Nazioni Unite e a tutti gli organismi internazionali di «cooperare per raccogliere informazioni sul traffico di organi e sulle reti criminali che lo sostengono» e riconosciuto il ruolo dei mass media nella scoperta e nella diffusione di scandali e atti criminali in materia di traffico di organi, come pure si riconoscono i passi avanti fatti nel mondo dopo la firma della dichiarazione di Istanbul, sottoscritta dai partecipanti al Summit Internazionale sul Turismo del Trapianto e sul Traffico di Organi tenutosi in Turchia dal 30 aprile al 2 maggio 2008.

Con la legge 236/2016, entrata in vigore il 7 gennaio 2017, viene inserito nel Codice Penale italiano l’articolo 610-bis “Traffico di organi prelevati da persona vivente”, nuovo reato punito con reclusione multa e interdizione dall’esercizio della professione qualora l’imputato sia un medico. Il reato riguarda anche chi organizza o propaganda viaggi finalizzati al traffico di organi  e/o pubblicizza annunci con qualsiasi mezzo. Il presupposto è naturalmente che gli organi siano trattati illecitamente, ma la disposizione può trovare applicazione anche in caso di violazione della disciplina del trapianto di organi e tessuti prelevati da vivente attualmente in vigore. L’entità delle pene consente l’applicazione della legge italiana anche quando i fatti siano commessi all’estero. Il reato è stato inserito nel Codice Penale tra i delitti contro la personalità individuale, subito dopo le fattispecie di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù e la tratta di persone. Sono dei reati gravi che evocano immagini forti, fotogrammi di un mondo che preferiamo pensare non esista più. Invece la situazione reale è molto più grave di come viene descritta perché la responsabilità di quanto accade non è solo di chi si sporca le mani ma anche di chi pur avendo la coscienza sporca preferisce pensare di non avere nulla a che a fare con tutto ciò.

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Pietro Bartolo, il medico lampedusano che da oltre venticinque anni accoglie, cura e ascolta i migranti che approdano lungo le coste dell’isola, nel libro Lacrime di sale (Mondadori, 2016), scritto a quattro mani con la giornalista Lidia Tilotta, racconta la sua esperienza e afferma di aver visto molte volte quelle inconfondibili cicatrici sui corpi soprattutto dei giovani. Quasi tutti negano. Ovvio. È la paura che li frena nel parlare. La stessa paura che viene incanalata e diffusa negli europei e li spinge a credere che in realtà queste persone non sono né povere né bisognose, ma hanno tanti soldi e mille pretese. Così il fatto che molti di loro, per procurarsi i soldi del viaggio, vendono un rene o sono costretti a prostituirsi viene dimenticato o ignorato. Bartolo sottolinea il fatto che l’espianto e il reimpianto di un organo che deve continuare a funzionare non possono essere fatti ovunque e da chiunque. Ecco allora che si riaffaccia la “ragnatela nera”. Basta soffermarsi a riflettere.

Atta Wehabrebi, il trafficante divenuto collaboratore di giustizia, ha svelato i retroscena del sistema “a cellule” in base al quale a chi ha la possibilità di pagare in contanti viene garantito l’approdo lungo le coste italiane, documenti per identità false, trasporto per spostamenti verso il Nord Europa. Chi non può pagare invece viene “affidato” al gruppo egiziano dell’organizzazione. Migranti uccisi e depauperati dei propri organi. Il collaboratore ha parlato di gruppi minori operanti in Egitto e Tunisia «non comparabili con gli altri per numero di viaggi e guadagni». Organizzazioni che «non sono in conflitto tra loro anzi collaborano». Delinquenti, certo. A cui però viene resa vita facile da chi dovrebbe ostacolarli e invece latita.

Ancora Bartolo in Lacrime di sale dice che non ci vuole molto a passare «dal traffico di esseri umani a quello di organi umani. Reso ancor più semplice dall’aver trasformato le persone in numeri senza identità e per questo, quindi, facili da eliminare senza lasciare tracce». Uomini avidi, spietati, che credono solo nel denaro e nel potere, «e non sto parlando di chi organizza la tratta degli esseri umani. Parlo di chi la consente, di chi vuole tenere il resto del mondo nella povertà, di chi alimenta i conflitti, li sostiene, li finanzia». E l’Occidente guarda annoiato, quasi infastidito, chi vende un rene per scappare dal proprio Paese, per pagare il biglietto di un viaggio troppo costoso, fingendo di non sapere che ogni giorno «piccoli innocenti vengono utilizzati come macchine che forniscono preziosi pezzi di ricambio».

Secondo stime della Global Financial Integrity, la fondazione statunitense considerata uno dei migliori centri di analisi dei flussi finanziari illeciti, il 10% dei 118mila trapianti annui praticati in tutto il mondo è illegale. Mediamente si parla di 12mila trapianti che fruttano al mercato nero e alle organizzazioni criminali internazionali fino a 1,4miliardi di dollari. Un Report dell’Unhcr e dell’International Organization for Migration condotto a Khartoum, capitale del Sudan, parla di almeno 66 casi accertati di rapimento nei soli primi sei mesi del 2015 posti in essere da «gruppi criminali ben organizzati e con ramificazioni internazionali». Rapimenti per cui viene chiesto un riscatto di «14mila dollari per chi ha la famiglia a Khartoum, 30mila per chi ha i parenti in Europa». Chi paga ha salva la vita, chi non paga «finisce nelle mani di aguzzini e diventa merce di scambio sul mercato illegale degli organi».

Alessandro Nanni Costa ha dichiarato che in Italia viene fatto «un attento controllo sulle liste di attesa dei trapianti e verifichiamo se qualcuno scompare all’improvviso». Ma pur ammettendo come valide le misure precauzionali poste in essere dal Centro, l’Italia non è “tutto il resto del mondo”.

Don Mussie Zerai, presidente dell’Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo che da anni è attiva sul territorio per fronteggiare il traffico di uomini, ha raccontato che «nel deserto del Sinai sono stati ritrovati centinaia di corpi ai quali mancavano organi vitali come reni, fegato e cuore». Si calcola che negli ultimi anni sono passati attraverso il Sinai circa 60mila profughi, la gran parte provenienti da Eritrea, Etiopia e Sudan. «I rapimenti erano all’ordine del giorno. Poteva capitare che durante uno stesso periodo venissero sequestrate anche 1500 persone. E ancora oggi ci sono fosse comuni sparse per tutte il deserto».

Nanni Costa ribadisce che «i compratori vengono da paesi ricchi e sono spesso arabi, turchi, israeliani, perfino statunitensi. Da noi, come detto, ci sono maglie strette dalle quali è difficile passare».

Nella relazione conclusiva del Summit in Vaticano si legge che il traffico di organi e il turismo dei trapianti è «molto vasto e diffuso in Asia, Messico, America Latina, Egitto, Pakistan, India». Ma si legge anche che «i ricettori sono i malati da Canada, Usa, Europa Occidentale, Paesi del Golfo, Australia», i quali «si trasferiscono temporaneamente in quei Paesi per ricevere l’organo di cui hanno bisogno».

Il traffico illegale di organi e il turismo dei trapianti sono un business che frutta milioni di dollari ma anche una nuova forma di schiavitù ai danni di migranti rifugiati disperati… in un mondo che sembra non dover mai smettere di essere una bilancia, nel quale la differenza tra il piatto in alto e quello in basso alla fine la fanno sempre denaro e potere.

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Cosa siamo diventati? Migrazioni, umanità e paura in “Lacrime di sale” di Bartolo – Tilotta (Mondadori, 2016)

09 giovedì Feb 2017

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flussimigratori, immigrazione, Italia, Lacrimedisale, Lampedusa, LidiaTilotta, migranti, Mondadori, PietroBartolo, recensione, romanzo

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Cosa siamo diventati? Si chiede Pietro Bartolo, il medico lampedusano che da oltre venticinque anni accoglie i migranti, li cura e li ascolta. Quelle storie, o meglio quelle vite si sono fuse alla sua e sono diventate un libro e anche un film documento. Una testimonianza, come sottolineano i due autori, che rappresenta anche un grande esempio di coraggio e impegno civile. Che doveva diventare un monito «contro l’indifferenza di chi non vuol vedere». Doveva. Ma così non è stato, con grande rammarico di Pietro Bartolo il quale, dopo il primo entusiasmo per i riconoscimenti a Fuocoammare e la diffusione di Lacrime di sale, ha realizzato che chi doveva concretamente recepire il messaggio non lo ha fatto e chiusure barriere muri confini indifferenza… non hanno fatto che aumentare. «Nessuna pietà». E lui ha realizzato di continuare a «combattere una battaglia senza speranza contro chi vuole eliminare il problema semplicemente cancellandolo».
Il “problema” sono i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze, le donne e gli uomini, le famiglie e gli orfani che ogni giorno raggiungono le coste italiane a bordo dei mezzi di soccorso che li hanno strappati alla morte come i corpi di coloro che non sono stati altrettanto “fortunati”. Persone che nell’indifferenza generale diventano prima sbarchi e poi numeri, tanti numeri. Cifre così imponenti da diventare fastidiose oltraggiose e di recente addirittura pericolose. Per il terrorismo. Certo. Pietro Bartolo che da un quarto di secolo accoglie migranti non parla di terroristi e terrorismo ma di persone che hanno bisogno di aiuto. Persone che fuggono dalla guerra, dalla povertà… e lo fanno per cercare di rifarsi una vita o per salvare coloro che invece sono rimasti, i famigliari che li hanno visti partire verso luoghi che a loro devono sembrare quasi magici, dove si mangia ogni giorno, più volte al giorno e soprattutto dove nessuno ti spara addosso senza motivo.
Ma queste persone che sono apparse fastidiose agli europei quando hanno conquistato i loro Paesi continuano a essere considerate tali anche e maggiormente ora che si vuol far credere che siano loro a voler colonizzare l’Europa.
Pietro Bartolo e Lidia Tilotta hanno scritto un libro che non è solo un pugno nello stomaco, è uno squarcio nella coscienza di ognuno perché continuare a fingere di non capire come realmente funziona il mondo non fa degli occidentali persone migliori ma agevola chi crede solo alla forza del denaro, «un demone che continua a succhiare senza alcun ritegno il sangue di intere popolazioni soggiogate e impotenti» e trasforma le persone in «numeri senza identità e per questo, quindi, facili da eliminare senza lasciare tracce».
Uomini avidi e spietati che non si fermano difronte a niente, e non si parla di chi organizza la tratta degli esseri umani ma di chi «la consente, di chi vuole tenere il resto del mondo nella povertà, di chi alimenta i conflitti, li sostiene, li finanzia».
Lidia Tilotta afferma che il libro vuole essere «semplicemente una testimonianza. Messa nero su bianco senza edulcorazioni». Lacrime di sale in realtà è molto di più. Molto di più.

Pietro Bartolo: medico di Lampedusa, dal 1991 si occupa del poliambulatorio dell’isola. Da sempre in prima linea nel soccorso ai migranti, si è meritato numerose onorificenze. È uno dei protagonisti di Fuocoammare di Gianfranco Rosi, docufilm Orso d’Oro 2016.

Lidia Tilotta: giornalista della testata regionale della Rai. Da Lampedusa ha raccontato più volte le storie dei migranti, di quelli che si sono salvati come di coloro che non ce l’hanno fatta.

Source: ebook inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Anna dell’Ufficio Stampa Mondadori.

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Il mondo parallelo delle guerre segrete in “Prigionieri dell’Islam” di Lilli Gruber

11 mercoledì Mag 2016

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flussimigratori, immigrazione, LilliGruber, migranti, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, PrigionieridellIslam, recensione, Rizzoli, saggio, stroncatura, terrore, Terrorismo

 

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

Prigionieri dell’Islam (Rizzoli, 2016) della giornalista Lilli Gruber è un libro ambizioso, che si propone di creare un po’ di ordine nel caos delle informazioni, che circolano in un Occidente in piena crisi, riguardo quanto sta accadendo nel mondo arabo «in pieno naufragio».

Un libro che accoglie in sé: la cronistoria degli attacchi terroristici all’Occidente, a partire dall’11 settembre 2001; un’analisi geopolitica della situazione occidentale, mediorientale, delle primavere arabe, dell’Iran, della Turchia, della Siria… il resoconto dettagliato delle esperienze dirette dell’autrice come inviata; la trascrizione delle interviste fatte come giornalista; riferimenti diretti alla trasmissione televisiva che conduce; episodi e riflessioni legati alla propria vita privata e sentimentale.

Un intreccio di informazioni e stili che a volte funziona altre meno. La struttura del testo è circolare, l’autrice ritorna spesso sullo stesso punto o argomento, arricchendo di volta in volta quanto detto di nuovi particolari oppure analizzando il tutto da un’angolazione diversa.

Il discorso che la Gruber vuole portare avanti in Prigionieri dell’Islam sembra chiaro fin dal principio: non si possono incolpare tutti i musulmani per quanto sta accadendo nel mondo arabo e in Occidente, dobbiamo riconoscere le responsabilità dello stesso Occidente. La situazione in oggetto è molto complessa, colpe ed errori vanno imputati a entrambe le parti in causa (Occidente e anti-Occidente) e naturalmente l’autrice non ha una soluzione ai problemi in corso né per quelli prospettati dal prosieguo o dalla degenerazione delle attuali circostanze.

Ma il vero limite di un libro come questo è l’ostinazione al voler definire una situazione globale analizzandola dal solo punto di vista occidentale. Ammettere in qualche modo le responsabilità delle grandi potenze ma fermarsi nell’esatto momento in cui ci si rende conto che un mondo diverso equivale anche a un Occidente diverso, alla rinuncia dei tanti, troppi, privilegi accaparratisi da chi il mondo lo ha sempre conquistato non solo abitato.

Nel Prologo di Prigionieri dell’Islam la Gruber racconta di aver assistito alla conversione di una giovane ragazza napoletana presso la comunità islamica di viale Jenner a Milano. «Non passa giorno senza che bussi alla porta un nuovo aspirante musulmano», le dicono.

Perché l’Islam attrae sempre più nuovi proseliti? Questo quanto si connette alla diffusione del terrorismo islamico?

Per l’autrice «nel caos di un mondo arabo in pieno naufragio e nelle incertezze di un Occidente in crisi, l’Isis rappresenta un’alternativa concreta».

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Nell’Introduzione al libro l’autrice si sofferma sul resoconto dettagliato di come gli eventi di Parigi del 13 novembre 2015 siano entrati con irruenza nel suo privato lasciando esterrefatti lei e il compagno, il quale proprio mentre gli attacchi avevano luogo era su un volo diretto a Roma e partito da Parigi.

Racconta di come tutto ciò l’abbia riportata indietro nel tempo, all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e a due giorni dopo l’accaduto, quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’AmericaGeorge W. Bush «accende la fiaccola che darà fuoco al mondo: quella della “guerra al terrore”».

Viene da chiedersi se quindici anni di “guerra al terrore” non abbiano portato solo altra guerra e terrore.

La Gruber ipotizza, timidamente, che faccia tutto parte di una sorta di piano, organizzato e giostrato per il potere e il denaro. «Nulla è impossibile nel mondo parallelo delle guerre segrete» “combattute” tra governi e servizi di spionaggio, fatte di embarghi, destabilizzazioni, minacce dirette o indirette, palesi o latenti, infiltrazioni e corruzioni varie… In punta di piedi allude a come il potere decisionale, in fin dei conti, sia sempre e solo nelle mani delle grandi potenze e che a muovere i loro gesti non sia sempre il mero desiderio di proteggere i popoli.

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I limiti di queste “guerre segrete” si sono visti già nel marzo 2011, quando «le capitali occidentali sperano che Assad alzi bandiera bianca», come Ben Ali e Mubarak, ma «gli occidentali sono molto meno influenti in Siria che in Tunisia o in Egitto. L’esercito è corrotto, ovvio, ma l’infiltrazione da parte di potenze straniere è meno capillare che in altri Paesi arabi».

Le operazioni di ingerenza occidentale nel mondo arabo sembrano essersi rivelate dei fallimenti sia dove l’estirpazione del regime è riuscita, come in Tunisia ed Egitto, sia dove non è andata a buon fine, come in Siria. Allora il lettore si chiede il motivo per cui si portano avanti azioni e politiche già rivelatesi fallimentari oppure se nel “mondo parallelo” si sono registrate delle vittorie che non è dato a tutti conoscere.

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

In Prigionieri dell’Islam si legge che, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno intrapreso la guerra contro il terrorismo per annientare al-Qaeda ma anche «per trasformare il mondo musulmano al grido di “esportare la democrazia”».

Con quali risultati? A costo di sacrificare cosa?

In seguito all’uccisione di Osama Bin-Laden e allo smantellamento di gran parte delle cellule che componevano l’organizzazione tutto l’Occidente ha creduto, su input di capi di stato, di governo e organi di stampa, che il terrorismo di matrice islamica fosse stato sconfitto. L’Isis e non solo hanno dimostrato al mondo intero che non è così.

Per la Gruber dall’inizio di aprile 2016 i miliziani dell’Isis sono in difficoltà, le operazioni speciali americane stanno eliminando uno dopo l’altro tutti i capi e ciò lo si può interpretare come l’inizio della fine di questo “mostro” che ha preso il posto di al-Qaeda come nemico numero uno degli Occidentali. Ma c’è poco da esultare perché ci si deve aspettare che, da un momento all’altro, possa «resuscitare altrove e tornare a seminare paura.»

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La Gruber conclude il suo Prigionieri dell’Islam con l’esortazione alla disobbedienza, ma non quella di Gandhi bensì quella di Obama.

«Le dimostrazioni più evidenti della sua disobbedienza sono il riavvicinamento con l’Iran e il rifiuto di muovere guerra alla Siria».

Parla anche dell’umiltà di papa Francesco, dell’ultimo sermone del profeta Maometto nel quale invitava i suoi fedeli a trasmettere il proprio messaggio, di Gesù Cristo e del fatto che cacciasse i mercanti dal tempio, dell’ingresso di nuovi attori (Cina e Russia) pronti a dire la loro sugli squilibri del pianeta, ma soprattutto tiene a sottolineare che «il Medioriente, il Golfo e i loro tormenti non devono minacciare le relazioni tra i colossi del mondo globalizzato».

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Con le sue 352 pagine il libro di Lilli Gruber si presenta al lettore carico di informazioni, di nozioni, di citazioni… ma la situazione analizzata è talmente complessa che tanti sono i dubbi e gli interrogativi che restano.

Ci si chiede chi siano i veri prigionieri dell’Islam: gli arabi o gli occidentali? È l’Islam l’unico vero carceriere di cui aver paura? Che relazione c’è tra il terrorismo di matrice islamica e le “guerre segrete” combattute nel “mondo parallelo” di governi e servizi di spionaggio?

Per la Gruber terrorismo, Islam e immigrazioni «congiungendosi in un triangolo, formano una trappola mortale» che «cambia la nostra vita». Ma chi ha fatto scattare questa trappola? Se i tre vertici del triangolo sono una conseguenza dell’ingerenza occidentale nel mondo arabo non dovrebbe essere l’Occidente il primo a invertire la rotta?

La verità è che l’Occidente è “prigioniero” anche di sé stesso, come ricorda pure l’autrice parlando della disobbedienza del presidente degli Stati Uniti d’America: «Mi colpisce il fatto che l’uomo più potente del mondo abbia il coraggio di riconoscere che è lui stesso prigioniero delle convenzioni, dei preconcetti, dei diktat dell’ideologia».

La morsa che stringe l’Occidente e il mondo intero sembra essere alimentata quindi da molto altro oltre il terrorismo, le migrazioni e l’integrazione, ovvero i vertici del triangolo che per la Gruber ci rendono tutti “prigionieri dell’Islam”.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-mondo-parallelo-delle-guerre-segrete-in-prigionieri-dell-islam-di-lilli-gruber

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Intervista a Giuseppe Catozzella per “Non dirmi che hai paura” (Feltrinelli, 2014)

30 lunedì Giu 2014

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Premio Strega 2014 – Intervista a Giuseppe Catozzella

Premio Strega 2014

Leggendo Non dirmi che hai paura (edito da Feltrinelli) erano tante le domande che mi balenavano in mente, ma appena ho terminato il libro, ho deciso che la prima cosa che le avrei chiesto era di parlarmi dei sentimenti e delle emozioni provate nel periodo di ricerca sul campo, di indagine e soprattutto di ascolto che sono state presumibilmente le fasi preliminari, propedeutiche e fondamentali della stesura del testo. Con le lacrime agli occhi e un nodo in gola le chiedo quindi di raccontarmi le sensazioni, le emozioni di quei giorni…

È stato un percorso molto profondo, molto coinvolgente che mi ha cambiato intimamente. Sia come autore sia proprio come essere umano, come uomo. È stato un processo lungo in quanto era necessario entrare in contatto con i familiari di Samia, con qualcuno che mi potesse affidare la storia, potente e al contempo delicata, di questa ragazza. Ci sono voluti tanti mesi, circa sette, per entrare in contatto con quella che poi è diventata la fonte principale, sua sorella Hodan, e l’aiuto di una mediatrice culturale, bravissima, che si chiama Zahra Omar, senza la quale non avrei potuto fare niente perché non parlo il somalo. L’incontro principale è stato proprio quello con Hodan ed è stato davvero molto intenso. All’inizio lei non aveva accettato di incontrarmi anche se io volevo raggiungerla a Helsinki, dove lei vive. Poi mi ha concesso una settimana di tempo, ma una volta arrivati ho capito che in realtà non aveva ancora deciso di affidarmi la storia perché quando abbiamo cominciato a parlare lei non riusciva a farlo… piangeva e la voce era continuamente rotta dai singhiozzi. In quel momento ho pensato di aver sbagliato tutto e che non fosse possibile raccontare la storia di Samia. Ho temuto che nessuno sarebbe mai riuscito a farlo. Perché loro, la famiglia, pur volendo gridarla al mondo non avevano i mezzi per poterlo fare e affidarla a qualcuno sembrava impossibile perché generava troppo dolore in chi le era stato vicino. Ho detto a Hodan che ce ne saremmo andati ma prima di farlo ho deciso di confidarle quale era il motivo per cui volevo raccontare la storia di sua sorella. Le ho detto di averlo deciso nel momento stesso in cui ne sono venuto a conoscenza, mentre mi trovavo in Africa, lungo il confine somalo, e subito mi sono sentito responsabile, da italiano, per la morte di questa giovane ragazza. Questa cosa ha fatto cambiare del tutto prospettiva a Hodan. Da quel momento in poi è cominciato tutto il percorso di affidamento di questa storia.

Samia Yusuf Omar. Se fosse stata di nazionalità italiana probabilmente qualcuno già si sarebbe adoperato per far intestare a suo nome una via, una piazza, una rotonda… cosicché il suo ricordo sarebbe rimasto per sempre anche se poi tutto ciò che ne sarebbe rimasto, abbiamo avuto modo di constatarlo innumerevoli volte, è un’iniziale puntata seguita da un cognome. Samia invece meritava e merita ben altro e come lei tutti i bambini a cui vengono strappati i sogni in nome di leggi, regole e regolamenti che nulla hanno a che vedere con il bene dei popoli. «L’importanza della libertà è il potere dei sogni». Tanto più vero e bello quando questi sogni non includono il successo o il denaro. Che idea si è fatto dei danni prodotti dalle guerre ai sogni?

Le guerre causano infiniti danni, infiniti problemi. Sono le principali responsabili della perdita del sogno. Tutti noi in verità viviamo “una guerra personale” da quando siamo nati. La questione del sogno personale sta propri lì: nel riuscire a vincere o meno la propria guerra personale. Le guerre che vorrebbero che la paura avesse il sopravvento, che ci spingono a seguire delle strade conosciute, che ci vorrebbero costringere a non seguire la nostra via, il nostro sogno, la nostra indole personale. È chiaro che per chi nasce in un Paese in guerra, con la guerra vera, è tutto molto più complicato. Dopo l’uscita e la diffusione del libro stanno succedendo dei piccoli miracoli: il Comune di Milano ha deciso di intitolare una pista di atletica a Samia Yusuf Omar e abbiamo fatto una cerimonia di inaugurazione con 650 ragazzi che gareggiavano in varie discipline in ricordo di Samia. Un comune in Provincia di Messina ha deciso di intitolare un intero centro sportivo a Samia Yusuf Omar… qualcosa si sta muovendo anche a quel livello lì. Ma la cosa più bella di tutte… qualche giorno fa mi ha contattato l’ONU di stanza in Somalia perché hanno letto il libro, conosciuto la storia di Samia, e hanno deciso che tutti gli anni il 19 di agosto, che è una ricorrenza per i rifugiati, a partire da quest’anno, indiranno una gara di 5 km all’interno del recinto dell’aeroporto dell’ONU a Mogadiscio, non possono fuori perché c’è la guerra, perché c’è Al-Shabaab, tutto in onore di Samia Yusuf Omar. In qualche modo il libro è riuscito a riportare Samia da vincitrice a casa sua. Quest’anno ci saremo io, che volerò con l’aereo dell’ONU, che sarò ospite dell’ONU, e Hodan, la sorella di Samia, con i figli. Partiremo insieme e tra l’altro sarà la prima volta che Hodan potrà riabbracciare la madre e ritornare in Somalia dopo il viaggio. È una cosa incredibile… eccezionale.

È presunzione e opinione diffusa nella cultura occidentale la superiorità e la supremazia delle nostre conoscenze. Leggendo il suo libro però si ha ancora una volta conferma del fatto che molti di noi occidentali dovrebbero recarsi in Africa come anche in altri posti dove sono sopravvissuti i popoli autoctoni non per insegnare qualcosa bensì per imparare, per apprendere il potere reale dei doni che la vita ci offre e che non hanno nulla a che vedere con il potere o con il denaro. Samia insieme ai suoi genitori ci regala una grande lezione di vita e di coraggio…

È verissimo. A me piace molto viaggiare e dai viaggi cerco una sola cosa: un arricchimento personale, cercare di scoprire delle cose di me che non conoscevo attraverso la conoscenza di altre popolazioni. E l’Africa non è terra da conquista, non è terra per prenderci il petrolio, per prenderci i diamanti o il coltan, l’Africa per me è essenzialmente una terra in cui imparo chi sono. Sarebbe meraviglioso se questa fosse l’impostazione generale, purtroppo il mondo ha scordato molto tempo fa l’idea assestandosi su standard molto più materialistici che portano l’uomo a compiere azioni malvagissime, con il rischio di una fine tragica dell’umanità.

Giuseppe Catozzella

«La gara era un evento, a me sembrava che fosse un giorno addirittura più importante del primo luglio, la data della liberazione dai coloni italiani, la nostra festa nazionale». Noi italiani siamo sbarcati da conquistatori in Somalia. È storia. E quant’anche lo si voglia circoscrivere come un fatto accaduto in passato è successo, eppure i Somali, tranne forse rare eccezioni, non provano rancore e come i loro fratelli africani vedono il nostro Paese e l’Europa intera con un luogo dove poter coltivare i loro sogni, che nella gran parte dei casi coincidono con il donare ai propri figli un futuro dignitoso, un’istruzione adeguata e la possibilità di vivere senza respirare l’aria delle granate. Se avessero la possibilità di fare tutto ciò nel loro Paese non si sognerebbero minimamente di partire e lasciarlo. Come trova l’atteggiamento dei governi e della popolazione in merito agli sbarchi dei clandestini di cui invece tanto si parla?

Li trovo assolutamente inadeguati e poco lungimiranti, poco comprensivi rispetto a quello che accade e che è accaduto in passato nel mondo. Noi esseri umani siamo sempre migrati, ci siamo sempre spostati. È la natura stessa che ci ha sempre spinto verso una condizione migliore, altrimenti non ci saremmo mai evoluti. È un fenomeno quello degli spostamenti che non si può fermare. Alzare barriere, alzare muri non serve a niente. Un uomo troverà sempre il modo per forare un muro o per scavalcarlo. Quello che bisognerebbe fare, a mio avviso, è intraprendere delle serie e responsabili decisioni politiche di “accoglimento” di questi ragazzi e queste ragazze che sono costretti a scappare dai loro Paesi… proprio mentre parliamo, proprio in questo momento, alla stazione Termini, sono passati davanti ai miei occhi due ragazzi presumibilmente del centro-africa. È assurdo tanto più perché questa cosa è unidirezionale. Chi viene dalla parte ricca del mondo ha piena facoltà di spostarsi mentre a chi appartiene alla povera gli viene impedito di farlo. Lo trovo di un’ingiustizia talmente evidente…

«A nessuno al mondo, per la breve durata di una vita, doveva essere consentito passare per quell’inferno». Eppure Samia cede e alla fine lascia che si formi una crepa nella corazza della determinazione che l’aveva portata fino a Pechino. Pensava di riuscire a resistere a tutto ma non è riuscita a superare il tradimento di Alì.

Sì, è stato proprio questo che l’ha fatta vacillare. Un colpo inferto in maniera troppo intima. Un colpo troppo profondo che ha bucato ogni tipo di resistenza, ha aperto una voragine… in quel momento della sua vita Samia ha capito, ha ammesso per la prima volta che il suo Paese le aveva tolto più di quanto le avesse dato. Ha deciso di chiudere i conti col suo Paese.

Il suo libro ha un compito importantissimo che non è solo quello di far conoscere la storia di Samia e della sua famiglia ma anche quello di portare avanti il sogno di suo padre di vederla guidare «la liberazione delle donne somale dalla schiavitù in cui gli uomini le hanno poste».

Samia sarebbe stata completamente differente se suo padre fosse stato diverso. Samia e Hodan devono tantissimo al fatto che Yusuf fosse un “rivoluzionario”, non nel senso che è andato a ingrossare le fila dei miliziani, ma rivoluzionario nel senso che ha deciso di insegnare ai figli l’importanza della libertà intellettuale. È stato fondamentale suo padre nel suo sviluppo. Anche la madre ma lei, come spesso accade nelle culture e nelle tradizioni di stampo più arcaico, ha giocato un ruolo più passivo ma egualmente determinante. Mentre gli uomini prendono le decisioni in maniera attiva, o almeno così pare, poi in realtà alle spalle di tutto ci sono sempre le donne. Anche la madre di Samia ha giocato il suo ruolo determinante con il suo silenzio, con il suo appoggio, e dopo la morte del padre il suo ruolo diviene fondamentale. È la guida della famiglia, il suo punto fermo.

Come si sta preparando per la serata finale del Premio Strega 2014?

Sono tranquillo. Nel senso che sono davvero felicissimo di avere vinto il Premio Strega Giovani, il premio più importante d’Italia ma conferito da una Giuria Popolare e forse dalla più bella delle giurie perché composta dai giovani, 40 scuole in tutta Italia, dal Trentino Alto Adige alla Sicilia. Hanno scelto Non dirmi che hai paura a grandissima maggioranza. Sono felicissimo di questo. È chiaro che sarei felice di vincerlo, vorrebbe dire una cosa importante… un libro di letteratura civile che vince il Premio più importante in Italia… vorrebbe dire tanto, sarebbe bellissimo… però, insomma cerco di viverla in maniera tranquilla.

http://www.sulromanzo.it/blog/premio-strega-2014-intervista-a-giuseppe-catozzella

 

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