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Irma Loredana Galgano

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Zainab Entezar, Asef Soltanzadeh, Daniela Meneghini, Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afgane

28 venerdì Mar 2025

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AsefSoltanzadeh, DanielaMeneghini, Fuorchéilsilenzio, Jouvence, MIM, MimEdizioni, Mimesis, recensione, saggio, ZainabEntezar

Trentasei donne afghane raccontano, in lingua dari, ognuna con parole e stili propri, la loro vita fino alla primavera del 2022, il momento in cui Zainab Entezar, regista e scrittrice afghana, costretta dalla latitanza, chiude le interviste e la raccolta degli scritti delle attiviste. Donne impegnate a dare conto delle loro esistenze e delle loro proteste spinte dall’urgenza di un evento ben preciso: il ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan il 15 agosto 2021, dopo venti anni di presenza occidentale. 

A quasi quattro anni dal ritorno dei talebani al potere, la situazione nel paese resta complessa e contraddittoria. L’Afghanistan è tornato a una situazione che presenta molte somiglianze al periodo pre-invasione occidentale. Il movimento islamico fondamentalista, colpito dagli Usa perché accusato di connivenza con Al-Qaida e il suo leader Osama Bin Laden, annunciava poche ore dopo la presa di Kabul la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan e il ripristino come legge vigente della Sharïa, nella sua interpretazione più rigida e fondamentalista. Se da un lato i talebani hanno oggi consolidato il loro controllo sul territorio, dall’altro la loro gestione del paese continua a essere segnata da problemi economici, violazioni dei diritti umani e isolamento internazionale. Relativo. Perché, in realtà, Pakistan e Iran hanno ristabilito i contatti con il governo talebano. La Cina poi è stato il primo paese non musulmano a cercare un dialogo con i talebani. Il Qatar ha giocato un ruolo centrale nelle negoziazioni tra i talebani e gli Stati Uniti, mentre la Turchia ha offerto assistenza tecnica e supporto nella gestione dell’aeroporto di Kabul. La Federazione russa, pur non riconoscendo formalmente il governo dell’Emirato, ha ospitato delegazioni talebane e mantenuto contatti regolari, vedendo l’Afghanistan come un punto strategico nella sua politica verso l’Asia centrale.1

Macrory nel 1986 ha prodotto il più puntuale resoconto della peggiore disfatta delle forze britanniche nel XIX secolo, ovvero l’annientamento di un corpo di spedizione inviato a occupare Kabul nel 1839 e massacrato nel corso di una precipitosa ritirata meno di tre anni dopo.2 Molte sono le analogie tra gli eventi del gennaio del 1842 e la fine dei venti anni di guerra in Afghanistan. Ancora una volta, dopo una vittoria sul campo rapida e schiacciante e una lunga occupazione, l’Afghanistan è stato abbandonato in tutta fretta e malamente.3

All’inizio sembrava tutto semplice: abbattere il regime dei talebani, eliminare i militanti di Al-Qaida e i loro campi di addestramento dal paese, catturare o uccidere Osama Bin Laden. Poi si scivola verso obiettivi vaghi, troppo ambiziosi, mai del tutto condivisi tra opinione pubblica, decisori politici e gerarchia militare. Un conto è fare nation building in Germania o in Giappone dopo aver vinto una terribile guerra convenzionale, di cui quei Paesi e la loro gente sapevano di portare la responsabilità maggiore. Tutt’altra cosa ricostruire l’Afghanistan, il cui regime è stato rovesciato nel 2001 per colpe che molti dei suoi abitanti ignoravano e ignorano tuttora, e dove non si è mai riusciti, dopo la “liberazione” dai primi talebani, a formare una classe dirigente adeguata.4

Il 15 agosto 2021 ha segnato il ritorno, per l’ennesima volta in quella terra, della negazione finanche dei più elementari diritti. A tale negazione corrisponde una prassi oppressiva, intimidatoria e violenta di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso. In Fuorché il silenzio trentasei donne ci parlano di questo, di come sono arrivate a quell’agosto 2021, radicando i loro racconti in una realtà storica e sociale che non è separabile dal percorso delle loro vite.

Si stima che l’80% della popolazione afgana sia composta da musulmani sunniti, adepti della scuola di giurisprudenza di Hanafi. Il gruppo etnico dei pashtun è, per la maggior parte, composto da sunniti, a eccezione della tribù pashtun-turi i cui membri sono sciiti. Il resto della popolazione (19%), in particolare il gruppo etnico hazara, professa per lo più la religione musulmana sciita. L’1% della popolazione segue altre religioni. Religione, tradizione e i codici islamici, insieme con le pratiche tradizionali e tribali, svolgono un ruolo fondamentale tanto nella disciplina della condotta personale quanto della risoluzione delle controversie.5

I pashtun sono attualmente, ma anche storicamente, il gruppo etnico politicamente più potente in Afghanistan. Tuttavia, nonostante la loro passata dominazione politica, non hanno mai costituito un gruppo omogeneo e molti sono diventati vittime di oppressione da parte delle élites delle loro stesse comunità. Eppure, nonostante le loro divisioni interne, si sono spesso uniti in un unico fronte quando si è trattato di opporsi a interferenze esterne o poste in essere da elementi non pashtun del governo centrale.6 Sono il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan (circa il 42% della popolazione). La struttura sociale dei pashtun si basa sul codice pashtunwali, che è un misto tra un codice tribale d’onore e interpretazioni locali della legge islamica. La risoluzione di dispute e le decisioni prese a livello locale sono affidate al consiglio tribale jirga, mentre la donna è esclusa da qualsiasi questione che non riguardi la vita domestica. 

Le altre etnie sono: tagiki, hazara, uzbeki, aimak, turkmeni, baluchi, e altre etnie minoritarie. 

I tagiki , secondo gruppo maggioritario del paese, sono molto attivi politicamente. Dal 1992 al 1996 sono stati anche alla guida del governo del paese, in seguito agli accordi di Peshawar. Destituiti allorquando i talebani hanno iniziato la guerra civile. Si sono sempre mostrati contrari alla partecipazione dei talebani ai negoziati di pace, temendo ripercussioni per l’impegno in prima linea svolto contro i medesimi. Timori confermati prima dalle persecuzioni subite durante il governo dei talebani poi dall’uccisione (a settembre 2011) di Burhanuddin Rabbani, ex Presidente, leader del partito Jamiat-e-Islami e Presidente dell’Alto Consiglio per la Pace dell’Afghanistan.

In tutto l’Afghanistan, dopo la ripresa del potere dei talebani nel 2021, le donne hanno reagito alla repressione con un’ondata di proteste, alle quali si è risposto con intimidazioni, violenza, arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture fisiche e psicologiche. Le donne arrestate per “corruzione morale” sono sottoposte a isolamento, pestaggio e altre forme di tortura e sono detenute in condizioni inumane, in celle sovraffollate e con poco accesso al cibo, all’acqua e, nei mesi invernali, al riscaldamento. 

Obbligo di indossare hijab o burka, chiusura delle scuole secondarie, tutoraggio maschile, accesso ridotto all’università e divieto di accesso a parchi e giardini: questa è la vita delle donne afgane dal ritiro delle forze Nato dal paese. Il regime, che nel momento dell’insediamento aveva cercato di mostrare una faccia moderata, sta portando avanti il proprio progetto a piccoli passi, ma costanti.7

Il filo che lega le trentasei donne del libro è la protesta contro la situazione descritta. Le manifestazioni contro la negazione dei diritti fondamentali e la richiesta di libertà. Le testimonianze raccolte da Zainab Entezar sono, per la maggiore, di donne che nessuno conosceva, ma che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, opponendosi alle armi dei talebani per le strade di Kabul, Herat, Mazar-e Sharif. Ognuna arriva a quel 15 agosto da un percorso proprio, da famiglie di diversa estrazione sociale, culturale ed economica. Nessuna è uguale all’altra ma la richiesta di libertà le accomuna indissolubilmente. 

La curatrice del libro invita a una lettura senza pregiudizi, ovvero priva della proiezione dei nostri modelli: quello femminista prima di tutto, poi quello culturale e religioso ma, anche, priva di qualsiasi idea rigida di libertà ed emancipazione. Queste donne hanno avuto delle opportunità durante i non meno tragici venti anni di governo filo-occidentale: spesso con fatica, ma molte hanno potuto studiare. Hanno innescato e vissuto di fatto un’occasione di cambiamento all’interno di un sistema tradizionalista di grande rigidità. Ora tutto è stato loro nuovamente sottratto e negato con violenza. Ma quanto avevano sognato e realizzato non può più essere cancellato, né con la paura né con la tortura. Ormai è parte del loro essere. 

Turbano i racconti delle violenze, del carcere, della latitanza, delle torture, ma a impressionare più nel profondo è la resistenza di queste donne, la capacità di andare oltre sé stesse per un “bene” che probabilmente non vedranno realizzato ma rispetto al quale sono disposte anche a mettere a rischio la propria vita. 

Non c’è condanna per le donne le quali, pur trovandosi nella loro medesima condizione, scelgono il silenzio. C’è invece forte risentimento verso coloro che, stando al sicuro, pretendono di parlare al posto loro, che si appropriano della loro voce in modo strumentale, per ambizione o tornaconto personale. 

Le militanti di RAWA – l’Organizzazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane – sono per la gran parte insegnanti. La scuola per le ragazze è il loro campo di battaglia. È questo l’unico canale per raggiungere le donne, parlare con loro, conquistare la loro fiducia. Aprirsi un varco nelle loro vite blindate, far capire che un’altra vita è possibile, che hanno diritti e che possono combattere per realizzarli. RAWA nasce nel 1977, dopo un decennio di libertà, effervescenza intellettuale, nascita di idee e movimenti, soprattutto nelle Università. In quaranta anni hanno sempre combattuto opponendosi ai regimi dell’URSS e all’Armata Rossa, alla guerra e alla violenza dei mujaheddin, al fondamentalismo e alle sue regole, ai talebani e al regime dei signori della guerra e della droga, vetrina dell’occupazione USA-NATO. Affrontare i talebani non è una novità, lo hanno già fatto negli anni Novanta. Forse oggi i talebani sono più forti e più feroci di allora, hanno più alleati. Ma anche le donne lo sono, le giovani donne che hanno creduto e che credono in un altro futuro possibile, e che non si lasceranno “disarmare”.8

Libro

Daniela Meneghini (a cura di), Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Jouvence, Sesto San Giovanni (Milano), 2024. Testi raccolti da Zainab Entezar. Rivista da Asef Soltanzadeh. Edizione italiana a cura di Daniela Meneghini.

Titolo originale: Azadi seda-ye zananedarad (The womanly voice of freedom), Bita Book, Danimarca, 2023. 


1L’Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica internazionale, 15 agosto 2024.

2P. Macrory, Retreat from Kabul: The Catastrophic British Defeat in Afghanistan, 1842, Lyons Press, Essex, Connecticut, 2007 (prima edizione 1986).

3M. Mondini, Ritirata da Kabul. Un’analisi della sconfitta in Afghanistan, in Il Bo-Live – Università di Padova, 7 settembre 2021.

4G. Breccia, Missione fallita, Il Mulino, Bologna, 2020.

5CIA, The World Factbook – Afghantistan, 01 agosto 2017, disponibile dal 28 agosto 2017 all’indirizzo:https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/af.html

6Minority Rights Group, Afghanistan Overview, Pashtun, luglio 2018, disponibile in data 17 settembre 2019 all’indirizzo:http://minorityrights.org/minorities/pashtuns/

7S. Carradori, A. Pistolesi, Dossier/Iran, Afghanistan e Golfo: i diritti violati delle donne, in Atlante Guerre, 22 novembre 2022.

8C. Cella, Afghanistan: la guerra delle donne, custodi di dignità e speranza, in NAD – Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, n. 1/2022. 


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa Jouvence per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


La voce delle donne per sconfiggere la misoginia: Chiara Frugoni “Donne medievali”

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Mosaico Iran: non è questione di velo o di genere ma di libertà

06 domenica Nov 2022

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FarianSabahi, Jouvence, MIM, MimEdizioni, Mimesis, NoidonnediTeheran, recensione, saggio

Il 13 settembre 2022, Mahsa Amini è stata arrestata a Teheran dalla polizia morale iraniana. Testimoni oculari hanno riferito di violenti percosse subite dalla donna durante il trasferimento nel centro di detenzione. Da dove, poi, sarebbe stata trasportata in ospedale già in stato di coma.

Le autorità hanno sempre negato qualsiasi illecito. Per la morte di Mahsa Amini e dei tanti altri giovani che hanno perso la vita durante o in concomitanza delle manifestazioni di protesta che da quel momento imperversano in Iran.

Si tratta delle manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.

Il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica è stato reso ancora più rigido, rispetto al passato, dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte. 

Ma Farian Sabahi precisa fin da subito che la causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è l’obbligo del velo di per sé, ma l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente.

Per l’autrice, la violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che finisce per allontanare sempre di più i giovani e il popolo in generale. 

Le iraniane e gli iraniani scendono in strada, nonostante i rischi, e non solo affinché il velo sia una libera scelta. Contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione galoppante. 

Nel settembre 2022 le proteste non hanno un leader e sono prive di coordinamento. E queste, per Sabahi, non sono debolezze ma punti di forza in quanto non essendoci una leadership non la si può decapitare per scoraggiare o sedare le rivolte. 

Fin dall’inizio delle proteste, le autorità iraniane accusano l’Occidente di istigare il dissenso. Il presidente Ebrahim Raisi continua a biasimare «i nemici dell’Iran, colpevoli di fomentare le proteste per fermare il progresso del Paese». 

Sulla lista nera degli ayatollah e dei pasdaram ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele: Paesi che hanno tutto l’interesse a un cambio di regime. 

Ma, secondo l’acuta analisi di Sabahi, le proteste non andrebbero mai avanti da settimane se non fosse per una profonda insoddisfazione degli iraniani.

L’obiettivo di Raisi sembra essere quello di portare avanti l’adesione dell’Iran alla SCO (Shangai Cooperation Organization), di cui fanno parte Russia, India, Cina e i Paesi dell’Asia Centrale, per rompere l’isolamento dell’Iran dovuto alle sanzioni statunitensi. Un isolamento che ha generato, nel tempo, molta instabilità sociale e politica.

Il 15 novembre 2019, il governo di Hassan Rohani tagliò i sussidi al carburante. Questa decisione era motivata dal fatto che, a causa delle sanzioni internazionali e dell’embargo sul petrolio iraniano, tra il gennaio e l’agosto 2019 le esportazioni in Europa erano crollate del 94% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In oltre cento città e cittadine iraniane scoppiarono le proteste. Dapprima per motivi economici poi, sottolinea Sabahi, sfociate in ribellione politica contro la leadership religiosa. 

Un altro elemento rilevante sullo scenario internazionale, degno di nota per l’autrice, è «il sostegno dei vertici di Teheran alla Russia di Putin in occasione dell’aggressione all’Ucraina». 

In più punti del libro, Farian Sabahi tiene a precisare o meglio a smentire quelli che sono i più diffusi luoghi comuni occidentali su Iran e iraniani. Per esempio, il continuare a considerarli arabi quando in realtà sono un popolo indoeuropeo. Oppure ancora nel voler vedere l’Iran come un paese chiuso, isolato e radicale. L’Iran è invece un paese multietnico, multiculturale e multireligioso. Da sempre al centro di tante vie carovaniere: la via della seta, la via delle spezie, la via delle pietre preziose. 

Quello che oggi viene definito «mondo iranico» è uno spazio culturale, che va dall’est dell’Iraq all’India del nord, passando per l’Asia centrale. Un mondo difficile da cogliere e per certi versi paradossale.

Sabahi paragona l’Iran a un mosaico: di genti, etnie, lingue e religioni. 

Teheran non è né Oriente né Occidente. È il punto d’incontro di civiltà contigue e indipendenti, ma è diversa. Per l’autrice ciò rappresenta l’emblema della schizofrenia culturale degli iraniani. Sospesi, tra Oriente e Occidente. 

Teheran è una città con due anime. Una città in cui si vive sospesi. Tra modernità e tradizione. Cittadini di una Repubblica… islamica, di quella che dovrebbe essere una democrazia… religiosa, ma in realtà si tratta di un’oligarchia di ayatollah e pasdaram. 

Il non riuscire a inquadrare perfettamente l’Iran a gli iraniani in Occidente dà, per certo, facile adito al proliferare di luoghi comuni e pregiudizi. Etichette facili e spesso errate utili a illudersi di comprendere ciò che in realtà non si capisce.

Situazione simile a quella descritta da Giulietto Chiesa con riguardo alla visione occidentale della Russia e dei russi e alla fobia che ne deriva.1

Farian Sabahi sottolinea il fatto che i quotidiani occidentali parlano spesso delle donne iraniane ma non sempre scrivono, per esempio, che a Teheran il livello di istruzione è tra i più alti dell’Asia. La scuola è gratuita e obbligatoria fino a quattordici anni. I bambini e le bambine vanno a scuola. Il lavoro minorile è vietato. All’università, due matricole su tre sono donne. 

Nel 2006 il governo ha imposto le quote azzurre, per dare uguali opportunità ai ragazzi, nelle facoltà di Medicina, Odontoiatria e Farmacia. 

Le autorità stanno cercando di imporre la segregazione dei sessi nelle università. Una sgradita novità perché, fin da quando è stata inaugurata l’università di Teheran nel 1937, potevano iscriversi tutti, uomini e donne, e sedersi vicini. 

Da ottobre 2012 alle donne è vietato frequentare Ingegneria mineraria all’Università di Teheran. Scienze politiche ed Economia aziendale a Isfahan sono riservate ai maschi. Maschi che, però, a Isfahan, non possono più iscriversi a Storia, Linguistica, Letteratura, Sociologia e Filosofia. 

I diritti delle donne sono una battaglia continua, ricorda Sabahi. Le donne iraniane hanno il diritto di voto dal 1963. Ma il diritto di voto non basta a fare una democrazia.

Barometro della democrazia sono, per l’autrice, i diritti delle donne, di coloro che hanno un diverso orientamento sessuale, delle minoranze religiose ed etniche. Una lotta continua. 

Parole verissime, quelle di Farian Sabahi. A tutte le latitudini. Valide per tutti i Paesi. Anche per le democrazie occidentali. Perché anche in esse i diritti sono stati conquistati dopo anni di lotte e dure battaglie. A colpi di manifestazioni e proteste. Esattamente come accade in Iran. Come accaduto nei Paesi protagonisti delle recenti Primavere arabe. 

I giovani, maschi o femmine che siano, manifestano, protestano, chiedono a gran voce i diritti che sono loro negati o ignorati. E ovunque hanno il diritto e il dovere di farlo. Come le minoranze. Come coloro che hanno un diverso orientamento sessuale. Perché i diritti sono realmente riconosciuti quando vi è la piena libertà di essere se stessi. Di seguire la propria indole e le proprie passioni. Di condurre un’esistenza dignitosa e soddisfacente. 

Noi donne di Teheran di Farian Sabahi è una lettura molto interessante, sia nella parte iniziale, laddove l’autrice fa una ricostruzione storica del suo Paese, raccontando la vita reale delle donne e degli uomini di Teheran. Sia nella seconda parte del libro, dove vengono riportate le diverse interviste effettuate da Sabahi a Shirin Ebadi, Nobel per la Pace 2003, che della difesa dei diritti umani ha fatto la sua ragione di essere. 

Un libro che svolge una funzione culturale fondamentale: smontare luoghi comuni e pregiudizi. Un lavoro egregio e sempre necessario. 


Il libro

Farian Sabahi, Noi donne di Teheran, Jouvence, Mim Edizioni, 2022.

L’autrice

Farian Sabahi: insegna Middle East: History, Religion and Politics alla Bocconi di Milano. Editorialista per il Corriere della Sera, scrive di questioni islamiche per le pagine culturali del Sole24Ore. Autrice di diversi volumi sull’Iran e sullo Yemen.

1Giulietto Chiesa, Putinofobia, Piemme, Milano, 2016. Intervista all’autore: https://irmaloredanagalgano.it/2016/04/27/1030/



Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Jouvence, Mim Edizioni per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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La Globalizzazione come produttore di periferie. “IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale” di Annamaria Rufino (Mimesis, 2017)

12 sabato Ago 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AnnamariaRufino, Comunicazione, Globalizzazione, INSECURITY, insicurezza, MichelMaffesoli, MIM, Mimesis, paura, recensione, violenza, webmondo

Esce con Mimesis, del marchio editoriale MIM, nella collana Eterotopie, il saggio sulla comunicazione nel tempo della globalizzazione IN-SECURITY di Annamaria Rufino, con la prefazione a firma del professore emerito della Sorbona Michel Maffesoli, tradotta dal francese da Ciro Pizzo.

Un testo breve e conciso ma, al contempo, interessante, chiaro e con un gran bello scopo: precisare alcuni aspetti essenziali della globalizzazione, che è un «produttore di periferie» per effetto della «crisi del sistema relazionale e della fine della dimensione spazio-tempo» e, soprattutto, della comunicazione al tempo della medio-globalità.

Il «totalitarismo dolce delle democrazie occidentali» si contrappone al «totalitarismo duro», come quello «del nazismo e dello stalinismo», ma è comunque necessario, doveroso discorrere dei buchi neri creati da questa “dolcezza”, degli errori e delle assenze di iniziative… in una parola, come sottolinea l’autrice nel testo, dei «vuoti» nel sistema che generano «insicurezza, paura, violenza». Vuoti, mancanze che non riguardano solo i cittadini, le persone, bensì le Istituzioni la cui responsabilità maggiore sembra risiedere nell’incapacità di fare in modo che «la conoscenza, il sapere sappiano adattarsi alla “complessità” attuale». Il “webmondo” prevede «nessuna partecipazione dell’utente» e può, a tutti gli effetti, essere considerato una «ideologia totale» che ha «destrutturato la capacità interpretativa del mondo, trasformando la società globale in una super-massa».

Per Maffesoli, l’intuizione fondamentale del libro della Rufino sta nel tentativo dell’autrice di cercare il modo per «integrare nella maniera più a buon mercato l’insicurezza, come canalizzare libido ed energia, personali e collettive». Un po’ svolgendo la funzione sociale che da sempre hanno avuto le «Feste dei folli, le inversioni sociali, i carnevali», ovvero quella di «ritualizzare l’insicurezza» mediante queste «configurazioni antropologiche che hanno saputo far metabolizzare l’istinto aggressivo, che è proprio dell’animo umano». Inutile negarlo o regalarlo ai margini, alle “periferie”. Etichettarlo come afferente a gruppi etnici e sociali specifici. Il risultato è questo “vuoto” conseguenza diretta di «quest’energia fondamentale “slancio vitale (Bergson) o anche “libido” (Jung)» che, non potendo essere repressa, viene manifestata sotto forma di in-sicurezza, paura, smarrimento, violenza fisica e verbale che ha trovato terreno fertile anche nella Rete e nei social network e che ha origine da seri «problemi di coesione sociale, ordine, sicurezza, identità».

Come un’illusione ottica, «la globalizzazione e, direi, la comunicazione globale» non produce “conoscenza” o sapere ma “narrazioni”, «labili narrazioni come quelle giornalistiche, di ogni fonte, che dominano i fatti e sono fagocitanti rispetto a tutte le conoscenze e a tutti i saperi». Una vera e propria «ideologia destrutturante» in quanto la narrazione giornalistica è, in buona sostanza, un «produttore di fatti di cui non è possibile o è quantomeno difficile verificare la fondatezza, della notizia e della sua interpretazione». Ragion per cui «la percezione del dato sfuma in immagini e parole cui si fatica a dare un volto e un senso» e la comunicazione allora «rimane mera informazione». A lungo andare le narrazioni giornalistiche creano «un vuoto interpretativo e cognitivo». Inoltre questo tipo di comunicazione acquisisce sempre maggiore spazio. Quello «lasciato vuoto dalle istituzioni».

Annamaria Rufino più volte ripete ne IN-SECURITY la necessità di «un’azione coordinata e consapevole» da parte delle istituzioni in maniera tale da «correggere un sistema arido di comunicazione e di interpretazione», oltre che di «consapevolezza dei sistemi sicuritari», in quanto l’insicurezza percepita in modo diffuso e incontrollabile «si è trasformata paradossalmente nell’indicatore principale utilizzato per misurare i difetti d’ingranaggio tra sistema istituzionale e sociale» di un modello, quello occidentale, che «si è dissolto proprio nel momento in cui ha raggiunto la sua massima estensione».

Uno strumento valido di aiuto potrebbe essere, secondo la Rufino, «riabilitare alla sicurezza attraverso una comunicazione responsabile», individuando i «punti cruciali del complesso meccanismo dell’insicurezza» così da disattivare «il diffuso atteggiamento difensivo che si trasforma in violenza e aggressione, attive e passive, verbali e fisiche». La sfida a questo punto, che l’autrice pone ai suoi lettori in forma di domanda, è la concreta possibilità di una comunicazione sostenibile che contrasti le derive totalizzanti del non-luogo medio-globale.

Un libro interessante IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale di Annamaria Rufino, in grado di stimolare il lettore verso un dibattito solo in apparenza aperto e diffuso. Una riflessione valida e concreta sul problema della in-sicurezza e della paura, della comunicazione e dell’informazione nell’era dichiarata della loro massima diffusione.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia dell’autrice www.mimesisedizioni.it

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