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Irma Loredana Galgano

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“Storia delle banche centrali e dell’asservimento del genere umano” di Stephen Mitford Goodson (Gingko Edizioni, 2018)

22 lunedì Apr 2019

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economia, GingkoEdizioni, monocolooccidentale, NWO, recensione, saggio, StephenMitfordGoodson, Storiadellebanchecentrali

Un’analisi storica, prima ancora che economica, quella portata avanti da Stephen Mitford Goodson in Storia delle banche centrali e dell’asservimento del genere umano, uscito in Italia con Gingko Edizioni a ottobre 2018, nella versione tradotta da Isabella Pellegrini del titolo originale A History of Central Banking and the Enslavement of Mankind (Black House Publishing Ltd, London).
Un libro che vuole dimostrare l’assunto che i problemi legati all’usura abbiano ostacolato l’essere umano, riducendolo in schiavitù, fin dall’inizio della civilizzazione.

Storia delle banche centrali di Stephen Mitford Goodson, almeno nella parte iniziale, sembra un’enciclopedia storica “parallela” al resoconto storiografico fedele al mainstream. È un racconto dettagliato, pieno di riferimenti bibliografici e fonti documentali. Una versione e una visione che si è per certo liberi di non condividere ma che potrebbe aiutare a meglio comprendere tanti punti e nodi focali della storia occidentale.
Soprattutto nella prima parte, il libro di Goodson è ricco di citazioni e riferimenti a fonti bibliografiche e documentali e risulta molto interessante per il lettore. Nella seconda invece il livello generale dell’opera risente, in particolare, di alcune affermazioni proprie dell’autore che lasciano trasparire una certa ingenuità o, peggio ancora, un pregiudizio.

Il testo di Goodson parla molto delle attività legate a famiglie di ebrei come anche delle idee economiche e finanziarie di Gottfried Feder, economista noto soprattutto per essere il mentore di Adolf Hitler e questi sono temi sempre delicati, basta un attimo per essere tacciati di antisemitismo o filonazismo. Goodson lo scorre lento il filo del rasoio e racconta nel dettaglio, con tanto di riferimenti bibliografici e documentali, tutto quanto è riuscito a scoprire. Ma non è in questo che pecca di ingenuità o pregiudizio. Il suo resoconto abbraccia l’intera storia globale occidentale di cui le azioni degli usurai e banchieri ebrei ne costituirebbero solo una parte.

«A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, nel mondo occidentale un numero sempre maggiore di donne sposate, fuorviate dalla malevola propaganda femminista e da quella per la parità dei sessi, è stato costretto ad adoperarsi per la ricerca di un impiego affinché la propria famiglia riuscisse a far fronte al pagamento di interessi in continua crescita».
«Il risultato diretto di questo sistema finanziario iniquo è stata la compromissione di una vita familiare normale».

Ecco due esempi di cosa il lettore non avrebbe mai voluto leggere in un testo, a suo modo rivoluzionario, come quello di Goodson. D’altronde egli stesso inizia il suo resoconto sui danni inferti all’umanità dal sistema usuraio e bancario riconducendoli addirittura al periodo del crollo dell’impero romano d’occidente, allorquando di “malevola propaganda femminista” e “parità dei sessi” proprio non si può parlare.
Che necessiti un cambiamento radicale della società, un ridimensionamento dei poteri della finanza internazionale, delle banche e un approccio diverso verso moneta e denaro è fuor di dubbio vero ma, forse, l’approccio più ottimale è quello avanzato da Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald in Creare una società dell’apprendimento (Einaudi, 2018). Focalizzarsi su apprendimento e conoscenza per ottenere un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale. Gli autori lo riferiscono alla potenziale crescita dei paesi in via di sviluppo e a un riequilibrio rispetto a quelli sviluppati, ma la loro teoria ben si adatta a essere estesa a tutte le economie.

Nelle stesse parole di Goodson, d’altronde, si legge un certo rammarico per quei paesi, compreso il suo, che hanno scelto di seguire semplicemente il metodo più diffuso e quotato, senza neanche provare a interrogarsi su possibili ed eventuali alternative. E questo può o potrà avvenire solo attraverso una profonda conoscenza di storia, geopolitica, economia e via discorrendo.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Gingko Edizioni per la disponibilità e il materiale



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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018)

04 martedì Set 2018

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AdamTooze, Loschianto, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, Oriente, recensione, saggio, terrore

Cento anni dopo il primo conflitto mondiale i governi e i popoli dell’intero pianeta si pongono i medesimi interrogativi, di nuovo.
Come si accumulano rischi enormi, poco compresi e poco controllabili? In che modo quadri di riferimento anacronistici e obsoleti ci impediscono di capire cosa sta succedendo intorno a noi? Il motore di ogni instabilità è forse lo sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo globale? Possiamo raggiungere una stabilità e una pace perpetue?
Di nuovo, le medesime domande perché sono queste che «accompagnano le grandi crisi della modernità».

In Crashed, edito in Italia da Mondadori ad agosto 2018 nella versione tradotta da Chiara Rizzo e Roberto Serrai e intitolata Lo schianto, Adam Tooze analizza gli ultimi dieci anni, dal 2008 al 2018, dalle origini della crisi prima finanziaria poi economica che ha investito, a quanto hanno detto, a più riprese l’intero sistema globale. Per la gran parte menzogne o giustificazioni a provvedimenti che i governanti hanno ritenuto essere improrogabili. Per gestire la crisi dell’eurozona dopo il 2010, per esempio, condotta seguendo una logica che non è stata altro che «una ripetizione dei salvataggi bancari del 2008, ma questa volta sotto mentite spoglie».

E così, mentre ai contribuenti europei venivano richiesti enormi sacrifici, i medesimi chiesti in precedenza ai cittadini americani, «banche e altri istituti di credito erano pagati col denaro riversato nei paesi che beneficiavano del salvataggio». Tutto perché al centro della crisi eurozona venivano messe le politiche del debito sovrano. «Come i responsabili della UE sono ora disposti ad ammettere pubblicamente», questo non aveva alcun fondamento sul piano economico. La sostenibilità del debito pubblico può diventare un problema, a lungo termine. La Grecia, per esempio, era insolvente. Ma l’eccessivo debito pubblico non era il denominatore comune della più ampia crisi dell’eurozona. Il denominatore comune era «la pericolosa fragilità di un sistema finanziario eccessivamente legato all’indebitamento» e troppo dipendente «da finanziamenti a breve termine basati sul mercato».

La Federal Reserve statunitense si è proposta fin da subito come fornitore di liquidità di ultima istanza per il sistema bancario globale. Ma cosa vuol significare davvero il fatto che la finanza e l’economia globali dipendono, in ultima istanza, dalla decisioni del governo americano?
La crisi dei mercati emergenti (Messico, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia, Argentina) degli anni Novanta ha mostrato a tutto il mondo «con quanta facilità uno Stato possa perdere la propria sovranità». Nel 2008, «nessuna delle vittime degli anni Novanta» è stata costretta a ricorrere al Fondo monetario internazionale. Una lezione che i paesi dell’eurozona sembrano non aver imparato neanche ora.

La crisi nell’eurozona è stata affrontata in maniera disomogenea, «una confusione di visioni contrastanti» che hanno portato alla messa in scena di un «dramma sconfortante di occasioni mancate, di fallimenti nella leadership e di fallimenti nelle azioni collettive». Generando un danno sociale e politico da cui «il progetto della UE potrebbe non riprendersi mai più».

La crisi finanziaria ed economica del 2007-2013 si è trasformata, tra il 2013 e il 2017, «in una crisi politica e geopolitica globale dell’ordine mondiale uscito dalla guerra fredda», le cui ovvie implicazioni politiche «non dovrebbero essere schivate». Pulsioni di rinnovamento e aneliti di cambiamento sono giunti da ogni parte ma «contro la sinistra le brutali tattiche di contenimento hanno fatto il loro lavoro». Si pensi a quanto accaduto, per esempio in Grecia. Invece non altrettanto è accaduto per la destra che ha resistito ed è avanzata nel consenso e nella determinazione. Si pensi a quanto sta accadendo, per esempio, in Austria.

Questa «nuova politica» del periodo successivo alla crisi è stata demonizzata come populismo, trattata alla stregua degli anni Trenta o attribuita alla «malvagia influenza della Russia», invece va osservata, sottolinea Tooze, come un segno della vitalità della democrazia europea davanti al «deplorevole fallimento dei governi» riassumibile forse nelle parole di Jean-Claude Juncker citate nel testo: «Quando le cose si fanno serie, bisogna mentire».

La tesi portata avanti da Tooze ne Lo schianto è di collocare la crisi bancaria nel suo contesto più ampio, politico e geopolitico, oltre che, naturalmente, finanziario ed economico perché è necessario «confrontarci con l’economia del sistema finanziario». La narrazione offerta dall’autore tenta di mostrare «la percezione dall’interno del funzionamento – o del non funzionamento – della circolazione del potere e del denaro» e di chiarire le dimensioni dell’interdipendenza del sistema globale nonché «l’estrema dipendenza del sistema finanziario globale dal dollaro». E l’importanza delle conseguenze di tutto ciò. Per tutti.


Articolo originale qui


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99 vs 1: queste le percentuali di una ricchezza che impoverisce tutti. “99%” di Gianluca Ferrara, il libro sui paradossi del mondo moderno (Dissensi, 2016)

03 martedì Lug 2018

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99%, Dissensi, GianlucaFerrara, NWO, recensione, saggio

Nel 2012 Gianluca Ferrara scrive e pubblica 99%, un libro che vuole denunciare la sproporzione enorme nella distribuzione della ricchezza. Nel 2016 il libro esce in seconda edizione perché l’autore non si capacita del fatto che l’odierno sistema «persevera nel folle intento di accumulare ricchezze a scapito dell’abnorme crescita delle diseguaglianze e del dramma ambientale».

Una percentuale che non è solo lo slogan usato dai giovani di Occupy Wall Street, è una cifra reale. Stando ai dati diffusi da Oxfam, l’1% della popolazione più ricca del pianeta gode di un patrimonio maggiore del restante 99%. 62 uomini tra i più ricchi al mondo hanno un patrimonio stimato equivalente a quello di 3.6miliardi più poveri.

È sotto gli occhi di tutti, per non vederlo o non capirlo bisognerebbe mentire, innanzitutto a se stessi. Ragion per cui viene naturale chiedersi: perché non si decide di invertire la rotta? Cambiare sistema? Redistribuire la ricchezza, almeno quella afferente i bisogni primari, che dovrebbe essere proprietà di tutta l’umanità?

Nei quattro anni intercorsi tra la prima e la seconda edizione del libro la rotta non è stata invertita, il sistema non è stato cambiato e la ricchezza non è stata redistribuita così Ferrara decide di ripubblicare 99% rincarando la dose di accuse nella prefazione al nuovo testo. Come dargli torto.

Il testo di Ferrara è, per certi versi, molto cruento. Nel senso che il suo stile di scrittura diretto rende molto bene i concetti espressi e anche la situazione tragica in cui versa l’intero sistema. Ma non è la negatività il filo conduttore del libro e il fine ultimo inseguito. No, tutt’altro. L’autore vuole invece lanciare un messaggio attivo e, soprattutto, reattivo: «La situazione è veramente troppo ingarbugliata e critica per lasciare spazio al pessimismo e alle negatività. È il momento di agire!»

Nella prefazione all’edizione del 2012, Vandana Shiva ricorda lo stile organizzativo dei movimenti del popolo, sviluppatisi un po’ ovunque, basati sulla più profonda e diretta democrazia: l’auto-organizzazione e l’autogestione. «È così che funzionano la vita e la democrazia». Quello che Mahatma Gandhi chiamava Swaraj. «Quelli del sistema dominante, abituati alla gerarchia e al dominio, non capiscono l’organizzazione orizzontale e chiamano questi movimenti “senza guida”, senza direzione». In tutto il mondo ormai la democrazia rappresentativa sembra aver raggiunto i suoi limiti democratici, «i soldi guidano le elezioni e il denaro gestisce il governo».

Oggi il concetto di libertà, della persona , è stato in realtà sostituito dalla “democrazia del libero mercato”. Che significa «libertà per le imprese di sfruttare chi vogliono, cosa vogliono, dove vogliono e come vogliono». Ma significa anche «fine della libertà per le persone e la natura in tutto il mondo».

I nuovi movimenti stanno «occupando gli spazi politici ed economici per creare una democrazia vivente con la gente e la terra – al posto delle corporazioni e dell’avidità – al centro di essa».

Come è stato possibile arrivare ad accettare che i nostri abiti siano fabbricati sfruttando «la forza lavoro di poveri senza diritti resi schiavi in fabbriche-lager» oppure permettere che i nostri fondi pensione e i nostri risparmi fossero «usati per speculazioni che affamano milioni di impoveriti o che vengano utilizzati per finanziare investimenti in armamenti» senza la minima manifestazione pubblica, totalitaria e di piazza da parte del popolo ripetutamente ingannato?

È da questo genere di domande che ha origine il libro di Gianluca Ferrara ed è a simili interrogativi che cerca di arrivare e far arrivare il lettore.

Il saggio di Ferrara non si basa solo su delle riflessioni o considerazioni personali dell’autore bensì su una lunga e articolata bibliografia che spazia dalle opere di Barnard a quelle di Bauman, da Chomsky a Cacciari, da Molinari a Latouche, da Napoleoni a Strada, da Zanotelli a Terzani… solo per citarne una ristretta parte. E porta avanti un discorso ragionato basato su un ottimo metodo critico e di apprendimento. Una lettura per certo consigliata per comprendere a fondo i meccanismi di questo “sviluppo economico” che sta portando in realtà al sottosviluppo, che promette crescita «ma causa distruzione e mette in pericolo di vita» l’intero pianeta.

Gianluca Ferrara: Ha collaborato con riviste e quotidiani nazionali. Ha scritto diversi saggi. Direttore editoriale di Dissensi Edizioni, è stato eletto in Senato nel marzo 2018 con il Movimento Cinque Stelle.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Dissensi Edizioni per la disponibilità e il materiale


The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo? 

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“Sono i deboli le prime vittime dell’evasione fiscale”. Intervista a Angelo Mincuzzi 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

PLUTONOMY vs DEMOCRACY: far vincere la Democrazia contro la Shock Economy è il vero potere del popolo

09 sabato Giu 2018

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Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


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The Corporation e Piigs: fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?

05 martedì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Europa, Italia, italiani, NWO, Piigs, TheCorporation, USA

La questione in fondo si riduce a due semplici quesiti: fin dove sono disposti ad arrivare i business men per raggiungere il loro tanto agognato profitto? Fino a che punto cittadini e governi sono disposti a rinunciare a doveri e diritti pur di rispettare le impunite leggi del libero mercato?

Originariamente il ruolo e lo scopo delle Corporation era tutt’altro rispetto a quello attuale e somigliava più a una cordata di persone o società che appaltavano un grosso lavoro dallo Stato, il quale stabiliva rigidamente tempi, costi e regole. Così sono stati costruiti la gran parte dei ponti americani e le immense ferrovie che attraversano il Paese.
Oggi sono persone giuridiche cui vengono riconosciuti tutti i diritti delle persone e anche più, in quanto sono indicate come particolari. Per legge hanno il solo scopo di tutelare gli azionisti e non la comunità o la forza lavoro. «Non hanno un’anima da salvare o un corpo da incarcerare» e sono prive di «coscienza morale» come sottolinea Noam Chomsky, uno dei tanti intervistati del documentario The Corporation appunto, prodotto da Jennifer Abbott, Mark Achbar e Joel Bakan nel 2003.

La Corporation è ormai un’istituzione dominante nella realtà contemporanea. Grandi, enormi società di capitali con poteri altrettanto sconfinati e controlli sempre più limitati.
Le Corporation oggi sono globali ed essendo tali, in sostanza, i governi hanno perso qualsiasi forma di controllo su di loro. A dirlo è l’ex amministratore delegato della Goodyear, una delle Corporation che si scoprì aveva preso parte al complotto ordito per spodestare il presidente Roosevelt. Oggi queste azioni, questi complotti sono inutili perché «il Capitalismo è il padrone incontrastato». Rappresenta ormai a tutti gli effetti «l’Oligarchia regnante del nostro sistema».

Un sistema che nel 2008 ha portato il mondo intero ad affrontare una delle crisi economiche più terribili mai presentatesi dove, ancora una volta, a rimetterci sono stati i deboli e i meno furbi. In Europa, per esempio, a farne le spese sono stati i Paesi additati come deboli o peggio come piigs. Infelice acronimo che voleva sottolineare le porcine economy dei Paesi con un’economia debole e un debito pubblico insostenibile, «i Paesi maiali sono Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna». Un acronimo che è diventato anche il titolo del documentario di Adriano Cutraro, Federico Greco, Mirko Melchiorre girato nel 2017.

Come il documentario The Corporation anche Piigs risulta essere molto illuminante per quello che si scopre e non si conosceva e per quello che viene invece confermato da chi, magari, in altre sedi tende a negare o minimizzare.

Stefano Fassina sostiene che la distinzione tra economie forti e deboli all’interno dell’eurozona, e che dà adito a stereotipi e luoghi comuni duri da scalfire, sia in realtà «una lettura strumentale» fatta, «come sempre avviene nella Storia, da chi è più forte, da chi orienta la comunicazione, da chi orienta l’interpretazione» e lo fa per «scaricare su una parte problemi che invece erano sistemici». E va avanti sottolineando il fatto che i Paesi virtuosi erano tali proprio per i problemi dei Paesi periferici: «la Germania cresceva per le esportazioni e la Grecia, che era in debito, riceveva dei prestiti perché qualcuno premeva per importare Mercedes dalla Germania».

Chi esercitava dette pressioni? Gli interessi di chi stanno tutelando in questo modo gli Stati e l’UE?
Possiamo ipotizzare che anche in Europa le Corporation, che chiamiamo Multinazionali o Società di Capitali, si beffano dei diritti dei cittadini e delle leggi per raggiungere i loro tanto amati profitti? Ma laddove i Governi accettano e acconsentono il loro “gioco” non vengono minati i principi fondamentali della Democrazia?

Yanis Varoufakis sostiene che, in realtà, «la Democrazia non è mai stata la caratteristica principale dell’Unione Europea». E racconta nel dettaglio le risposte che si è sentito dare nel momento in cui vi si è recato per contrattare i termini di una eventuale soluzione per il suo Paese. Soluzione che per molti versi poteva sembrare una vera e propria punizione, per un popolo, quello greco, che aveva osato alzare la testa e la voce contro i ferrei diktat dell’austerity. Per esempio, l’Europa nello «spostare le perdite delle banche sulle spalle dei contribuenti più deboli ha rivelato il suo autoritarismo».

Sergio Mattarella lo scorso 26 maggio ha sottolineato come la funzione e il ruolo del Presidente della Repubblica sia di garanzia e non può quindi né deve subire imposizioni di alcun tipo, dichiarando di poter accettare tutte le nomine proposte tranne quella del Ministro dell’Economia. «La designazione del Ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato di fiducia o di allarme per gli operatori economici e finanziari». L’incertezza della nostra posizione nell’euro «ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori italiani e stranieri che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende».

Paolo Barnard, sempre all’interno del documentario Piigs, afferma che il debito pubblico è un problema quando uno stato contrae passivi con una moneta non sua. Gli fanno eco Stephanie Kelton e Paul De Grawe. «I Paesi eurozona riscuotono le tasse in euro, spendono in euro ma non hanno sovranità monetaria». Il risultato di questo è che «i mercati possono mettere in sofferenza lo Stato italiano, vendendo in massa i titoli sapendo che il governo non ha euro per ripagare i detentori dei titoli».

Federico Rampini invece sottolinea la necessità di «riprendere l’economia perché è il nostro futuro». E rimarca «l’analfabetismo economico» di cui soffrono gli italiani. Che non suona tanto come un’offesa quanto come una mera constatazione del fatto che si stenta a capire i concetti base di economia. Si continua a credere che tutto ciò che riguarda l’economia rimanga «nel mondo magico» della stessa. Bisogna invece iniziare a riflettere sul fatto che «tutto è economia»: le guerre, lo sfruttamento, l’abbandono dello stato sociale, della sanità, dell’istruzione…

Per i broker di Wall Street l’Undici Settembre è stata una «benedizione camuffata». Tutti quelli che non erano nelle Torri Gemelle e si sono salvati hanno immediatamente investito in oro e hanno raddoppiato il capitale. A raccontarlo alla telecamera degli operatori di The Corporation è un broker di Wall Street.
Quando l’America bombardò l’Iraq nel 1991, tutti i broker tifavano affinché Saddam Hussein continuasse a dare problemi, a incendiare pozzi, così il prezzo del petrolio sarebbe continuato a salire e loro a guadagnare. «Noi speravamo in una pioggia di bombe su Saddam». Quella, al pari dell’Undici Settembre, era una tragedia, una vera e propria catastrofe con bombardamenti, guerre, morti… il broker si rende conto di questo ma ammette che anche «la devastazione crea opportunità».

Fin dove si spingono questi operatori dei mercati, mediatori o investitori che siano? Esiste un limite oltre il quale si rifiutano di pescare nel torbido?

Stando ai dati forniti da un Rapporto del Dipartimento del Tesoro, in una sola settimana 56 Corporation americane sono state multate per aver commerciato con nemici ufficiali degli Stati Uniti, «compresi terroristi, tiranni e regimi dittatoriali». Le Corporation sono in grado di produrre grande ricchezza ma anche «enormi danni, molto spesso taciuti».

Le politiche governative e statali non possono e non devono piegarsi sempre e comunque agli umori del libero mercato, in considerazione anche e soprattutto del fatto che a guadagnarci, come anche a rimetterci, sono sempre gli stessi. Da un lato le grandi società di capitali, gli investitori e i broker e dall’altro i piccoli investitori e le popolazioni.
Ancora il Presidente Mattarella, sempre nel corso dell’intervento per motivare la bocciatura di Paolo Savona a Ministro dell’Economia, sottolinea come la manifesta volontà di uscire dall’euro è cosa ben diversa «da un atteggiamento vigoroso, nell’ambito dell’Unione Europea, per cambiarla in meglio dal punto di vista italiano». E i cambiamenti necessari da porre in essere sarebbero davvero tanti.

A chiusura del documentario Piigs c’è la lunga e amara analisi di Giuliano Amato sulla sovranità monetaria e su quella economica dei Paesi membri e dell’intera Unione Europea. Egli stesso ammette che la soluzione da loro trovata e poi posta in essere è stata sconsigliata da molti economisti, specie americani. «La vostra Banca Centrale se non è la Banca Centrale di uno Stato non può assolvere alla stessa funzione a cui assolve la Banca Centrale di uno Stato che, quando lo Stato lo decide, diventa il pagatore senza limiti di ultima istanza». Che poi è quanto affermato anche da Paolo Barnard. Ma gli “architetti” ideatori dell’eurozona, tra cui appunto lo stesso Amato, non hanno voluto dar retta a questi economisti, stabilendo addirittura nei Trattati dei «vincoli che impedissero di aiutare chi era in difficoltà». L’Unione Europea in sostanza non si assume la responsabilità degli impegni dei singoli stati e la Banca Centrale Europea non può comprare direttamente i titoli pubblici dei singoli stati. Non sono previste agevolazioni creditizie e finanziarie per i singoli stati… insomma, moneta unica dell’eurozona ma ciascuno deve essere in grado di provvedere a se stesso. «Era davvero difficile che funzionasse e ne abbiamo visto tutti i problemi», chiosa Giuliano Amato.

«Certo che ci saranno trasferimenti di sovranità. Ma non sarebbe intelligente da parte mia richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo» (Jean-Claude Juncker, Presidente della Commissione Europea, Europe Agency, 24 giugno 2007).

I problemi, che già sapevano esserci in potenza, sono aumentati notevolmente dopo la crisi del 2008 ma, soprattutto, in conseguenza delle misure intraprese per “superarla”. Politiche che, nell’opinione di Stefano Fassina, «hanno aggravato i problemi invece di risolverli».
Si pensi, per esempio, al Fiscal Compact. Il Patto di Pareggio di Bilancio. L’anticristo del Bilancio di un’istituzione pubblica che, paradossalmente, può garantire maggiore benessere ai cittadini lavorando in sofferenza. Perché l’istituzione pubblica è l’unica società esistente al mondo che non ha scopo di lucro, quindi non opera per il profitto ma per i servizi ai cittadini. Basti pensare al New Deal lanciato dal Presidente americano Roosevelt che, forse anche per politiche come questa, si inimicò le Corporation che tramarono per destituirlo.
«Il pareggio di Bilancio dà priorità alla stabilità dei prezzi mettendo in secondo piano il diritto al lavoro, alla salute e a un salario dignitoso… per esempio».

Ma se tutti sapevano l’inutilità, o meglio la nocività di questi provvedimenti per i singoli Stati e, soprattutto, per i cittadini, perché sono stati posti in essere comunque? Sono stati imposti a reale beneficio di chi? Del mercato? Delle Corporation, che in Europa diventano le Multinazionali?

A seguito del veto del Presidente Mattarella, il capo politico del Movimento Cinque Stelle Luigi Di Maio diffonde un video nel quale sottolinea che il governo del cambiamento sia stato stoppato non per Paolo Savona e l’impossibilità di trovargli un sostituto, bensì perché chiunque, nel corso della sua carriera, fosse stato in qualche misura critico sull’euro non andava bene. Non poteva andare bene. «Se siamo in queste condizioni non siamo in una Democrazia libera». Nel Contratto di Governo non c’è l’uscita dall’euro, è prevista la modifica dei Trattati, la rivisitazione di alcune regole europee. Il veto quindi si basava su opinioni non su reali intenzioni. Eppure il tutto andava fermato o cambiato. Perché?

Nel momento stesso in cui Luigi Di Maio ha palesato l’eventualità di procedere con l’iter per la messa in stato di accusa del Presidente il dibattito sui media ma, soprattutto, sui social si è infervorato generando due aperte fazioni che, prontamente, si sono schierate a favore o contro Sergio Mattarella. Gli interventi vertevano tutti o quasi sul diritto costituzionale o meno che aveva o che ha il Presidente della Repubblica di opporsi alla nomina di un singolo Ministro e su quali motivazioni detta scelta debba basarsi. Nessuno però o quasi si è posto l’unico interrogativo utile, ovvero: i mercati e gli investitori sono una motivazione valida?
La risposta è arrivata, qualche giorno più tardi le dichiarazioni di Mattarella, da Günther Oettinger, commissario UE al Bilancio: «I mercati insegneranno agli italiani a votare nella giusta direzione» (“The markets will teach the Italians to vote for the right thing”). Il giornalista Bernd Thomas Riegert ha poi rimosso questo tweet e lo ha sostituito adducendo come motivazione il fatto di non aver riportato fedelmente la citazione di Oettinger. Il succo di quanto scrive in seguito non si discosta poi tanto dalla prima versione. Si tratta semplicemente di un messaggio meno chiaro, meno esplicito ma di eguale sostanza.
Un modo meno “aggressivo” di dire la stessa cosa, diciamo nei termini usati anche dal Presidente Mattarella.

Gli italiani però si sono offesi per le sue parole, quelle del commissario UE, e questi allora si è pubblicamente scusato. Va bene, scuse accettate ma la sostanza non cambia. È vero oppure non lo è che i mercati influenzano i governi? È vero oppure non lo è che se un Ministro dell’Economia non piace ai mercati il ministro non lo può fare? È vero oppure non lo è che, se i singoli Paesi mantengono la responsabilità sui debiti pubblici pur avendo abbandonato la sovranità monetaria, è necessario quantomeno rinegoziare i Trattati?

Nell’intervista rilasciata per il documentario Piigs, Noam Chomsky evidenzia quanto sia «interessante osservare le reazioni in Europa quando qualche politico suggerisce che forse la gente dovrebbe avere voce su ciò che la riguarda». Citando, per esempio, i Referendum popolari indetti in Grecia nel 2015. «La reazione è stata di incredulità: Come osate chiedere alla gente cosa deve accadergli? Non sono affari loro. Devono seguire gli ordini. Prendiamo noi le decisioni…».
Yanis Varoufakis ricorda che al primo Eurogruppo cui ha presenziato propose un accordo, un compromesso tra la Troika e il Governo greco, «a metà tra le loro imposizioni e il mandato elettorale». Wolfgang Schauble rispose: «Le elezioni non possono essere permesse se modificano il programma economico della Grecia».

«La Grecia è stata selvaggiamente punita per aver osato chiedere un Referendum e i tecnocrati europei hanno imposto misure ancora più dure, per togliere loro dalla testa l’idea folle che la democrazia possa avere un qualche valore». (Noam Chomsky)

Fin dove si spingono i tentacoli del libero mercato? È questa l’Europa che vogliamo?


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Il ‘trumpismo’ decreterà la fine della più ‘grande’ democrazia occidentale? “TRUMPLAND” di Luca Celada (manifestolibri, 2018)

30 mercoledì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LucaCelada, manifestolibri, monocolooccidentale, NWO, Occidente, recensione, saggio, TRUMPLAND

 

Stando a quanto scrive Luca Celada in TRUMPLAND. Scheletri e fantasmi dell’America nazional-populista, edito da manifestolibri, il rischio di vedere l’inabissamento della democrazia americana c’è ed è anche molto alto. Il ‘trumpismo’ imporrà «una necessaria resa dei conti? O è semplicemente il prologo al degrado definitivo, all’inferno hobbesiano che anticipa secoli bui di un declino oscurantista?». Celada teme che ciò possa riguardare non solo l’America ma l’Occidente intero con ripercussioni sull’intero pianeta.

L’autore sembra dimenticare però che, per la gran parte degli abitanti del pianeta, questo “buio” così temuto per l’Occidente è realtà da secoli ormai. Per tutto il tempo che è servito allo stesso Occidente a cercare di convincere tutti che il libero mercato, incluso quello finanziario, avrebbe rappresentato la crescita estrema del pianeta. Una folle corsa verso il tanto agognato benessere che sta involvendo e rapidamente anche in una rovinosa caduta libera verso la distruzione, l’autodistruzione. Il presidente degli Stati Uniti viene indicato come un problema e, per tanti versi, lo è ma il nocciolo fondamentale è che non si riesce a vedere oltre, a guardare a un mondo che sia profondamente e realmente diverso, che non sia per intenderci neoliberista, capitalista, lobbista e finanziario.

Il dilemma americano, sottolinea Celada, è in gran parte quello di tutto l’Occidente, «e coincide con quello delle sinistre, che ovunque stentano a trovare una risposta adeguata alla crisi del tardo neoliberismo». Invece di dedicare ogni energia e ogni strumento a disposizione per risolvere questo vero problema le sinistre, in America come in Europa, rifiutano finanche di ammettere le sconfitte elettorali, la constatazione di essersi staccate dalla realtà nella quale vive il popolo che loro amano sempre più chiamare semplicemente “elettorato”.

È vero, come sostiene Celada in TRUMPLAND, che i proclami del presidente non servono, ma altrettanto inutili sono le ideologie e fors’anche le idee laddove non trovano la concretizzazione in leggi e provvedimenti efficaci. L’amministrazione Obama che tanto viene osannata e giudicata tra le migliori, e forse lo è anche stata, ha comunque continuato a siglare accordi esteri per la fornitura di armi e materiale bellico e la tanto declamata riforma sanitaria continuava a lasciare senza copertura sanitaria decine di migliaia di cittadini americani e, anche per coloro che rientravano nell’assistenza, le coperture erano risicole. “Meglio di niente” si potrebbe obiettare. Anche se lo spirito migliore sarebbe non di scegliere il male minore ma chiedere a gran voce il giusto. Il punto piuttosto è un altro: gli americani abbienti sono disposti ad accollarsi questi oneri? Il risultato elettorale delle presidenziali del 2016 parlano abbastanza chiaro.

Angelo Mincuzzi, autore insieme a Hervé Falciani de La cassaforte degli evasori (Chiarelettere, 2015), in un’intervista ha dichiarato: “tra i documenti della banca risulta chiaramente come i clienti della HSBC preferissero perdere i soldi in operazioni finanziarie sbagliate, a volte anche venire truffati dai gestori, ma la cosa che non volevano assolutamente era pagare le tasse su quei soldi”. Pagare le tasse equivale a contribuire a sostenere il welfare. E loro non lo vogliono fare.
È vero che la presidenza Trump l’ha strappata per i voti dei grandi elettori ma lo è anche che quasi 63milioni di americani hanno scelto di votare per lui. E non sono certo pochi.

Se almeno, in tutti questi anni, la gran parte dei media e dei giornalisti non si fossero, al pari di governi e amministratori, piegati ai diktat del mercato e della finanza forse non si sarebbe mai arrivati al punto in cui invece si è rovinosamente giunti.
La domanda da porsi è: “in che percentuale media e stampa raccontano e hanno raccontato la verità, sempre e comunque?”

Nel suo documentario, omonimo del libro di Celada, Micheal Moore sostiene che «ogni dipendente licenziato, anonimo, dimenticato, che fa parte della cosiddetta classe media, ama Trump. Lui è il cocktail umano esplosivo che loro stavano aspettando. La bomba a mano umana che potevano tirare legalmente sul sistema che gli aveva rubato la vita». Chi li ha portati a questo livello di rabbia e disperazione?

Elencare i difetti e gli errori di Trump serve fino a un certo punto. Se i media americani, per esempio, avessero sempre raccontato la verità invece di portarlo a diventare una star amata dal pubblico per i suoi già improbabili programmi forse il popolo americano non avrebbe preso così tanto sul serio la sua candidatura alle presidenziali. Troppo spesso e per troppo tempo i cronisti, di tutto l’Occidente, sono stati al servizio degli “stregoni della notizia” e quindi ogni loro allontanamento da questa “retta” linea viene automaticamente vissuto come una sorta di tradimento anche dallo stesso presidente americano il quale, «sparando a zero dalla postazione Twitter della Casa Bianca sulle riviste che gli negano la copertina di uomo dell’anno, chiedendo la chiusura di network, declassando l’intera categoria dei giornalisti a “nemici della patria”», in fondo non fa che manifestare il suo stupore. Quante copertine e quante apologie gli hanno dedicato osannando le sue doti di imprenditore e uomo d’affari e celando tutto il resto? Relazioni e amicizie che naturalmente continua a coltivare anche ora che è diventato presidente.

Per Celada l’America ancora non si capacita di ciò che è accaduto ma stiamo parlando di un Paese davvero “grande”, immenso, vasto e per comprendere gli americani non bisogna seguire l’informazione da format o da spot che viene propinata al pubblico mondiale in tutte le salse. Il Paese più democratico e liberale che esista al mondo. No, la vera America e la sua reale popolazione è quella che sta dietro le telecamere, lontano dai riflettori, “nascosta” e disseminata lungo un vastissimo territorio conquistato e dominato proprio in nome del tanto caro a Trump imperativo o mantra come dir si voglia che vede e vuole la supremazia assoluta e incondizionata dei bianchi su tutte le altre etnie.

Luca Celada non disdegna di sottolineare più volte all’interno del libro la sua consapevolezza che il neo presidente americano, la first family e le loro azioni rappresentano e incarnano, per certi versi, il male assoluto per l’America certo ma anche per l’intero pianeta. Ciò che realmente sorprende il lettore non è il resoconto dettagliato delle azioni di Trump, prevedibili e già note per chi sceglie di informarsi comunque e diversamente, bensì il fatto che l’autore, corrispondente Rai a Los Angeles per 20 anni e inviato per «Il Manifesto» abbia dovuto scrivere un libro e pubblicarlo con una casa editrice indipendente per raccontarle.

TRUMPLAND di Luca Celada è scritto con un ritmo serrato, come se l’autore avesse dovuto faticare per riuscire a far rientrare tutto quello che riteneva necessario scrivere e che, per questo, abbia dovuto “aumentare la velocità”. Lo stile è deciso. Celada voleva chiaramente che al lettore arrivasse in modo inequivocabile il messaggio e le informazioni che intendeva divulgare.


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Liberi dall’amianto? I numeri parlano chiaro e non danno certo conforto

27 domenica Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Italia, italiani, Legambiente, NWO

Tra il 1945 e il 1992 in Italia sono state prodotte 3.7milioni di tonnellate di amianto grezzo e importate 1.9milioni di tonnellate. Con la legge 257/1992 è stata decretata la cessazione dell’impiego dell’amianto sull’intero territorio nazionale. In 26 anni sono stati registrati 21.463 casi di mesotelioma maligno, di cui il 93% a carico della pleura e il 6.5% del peritoneo. Oltre 6mila morti l’anno.

In occasione della giornata mondiale delle vittime dell’amianto, che cade il 28 aprile, Legambiente ha pubblicato il dossier Liberi dall’amianto? e ribadito «l’urgenza e la necessità improrogabile per il nostro Paese di agire attraverso una concreta azione di risanamento e bonifica del territorio».

A distanza di 26 anni dall’approvazione della legge, «il Piano Regionale Amianto non è stato approvato in tutte le Regioni». L’indagine posta in essere da Legambiente ha stimato un totale di quasi 58milioni di metri quadri di coperture in cemento amianto. Si parla di 370mila strutture di cui oltre 20mila sono siti industriali, 50.744 edifici pubblici, 214.469 edifici privati, oltre 60mila le coperture in cemento amianto e 18.945 altra tipologia di siti.
Sono oltre 1.195 i siti ricadenti in I Classe, ovvero a maggiore rischio, e 12.995 quelli in II Classe.

Molto a rilento vanno avanti le attività di bonifica. Rilevamenti ISPRA del 2015 parlano di 369mila tonnellate di rifiuti contenenti amianto prodotti (71% al Nord, 18.4% al Centro e 10.6% al Sud), di cui 227mila tonnellate smaltite in discarica e 145mila tonnellate esportate nelle miniere dismesse della Germania a fronte di quasi 40milioni di tonnellate di amianto presenti sul territorio.

E molto scarse sono anche le attività di formazione del personale tecnico, con programmi e momenti di aggiornamento che risultano solo in otto Regioni (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Valle d’Aosta e Veneto) e nella Provincia Autonoma di Trento, nonché le attività di formazione e informazione rivolte ai cittadini. Scarse, sporadiche e comunque risalenti a diversi anni fa.

Stando ai dati forniti dal Ministero dell’Ambiente, aggiornati al novembre 2017, in Italia «ci sono circa 86mila siti interessati dalla presenza di amianto, di cui 7.669 risultano bonificati e 1.778 parzialmente bonificati». Tra questi rientrano anche i «779 impianti industriali (attivi o dismessi)» e «10 SIN (Siti di Interesse Nazionale da bonificare) che presentano problemi connessi al rischio amianto». Numeri che lo stesso Ministero dell’Ambiente «ritiene essere sottostimati» in quanto i dati raccolti dalle Regioni «non consentono una copertura omogenea del territorio nazionale».

Inoltre 20 anni di produzione normativa ha generato «una situazione ingarbugliata e spesso contraddittoria tra norma e norma». Alla risoluzione di questo problema era preposto il Testo Unico per il riordino, il coordinamento e l’integrazione di tutta la normativa in materia di amianto, presentato a novembre 2016 al Senato e realizzato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni e delle malattie professionali. «Il Testo Unico è al momento ancora fermo in Senato».

Il monitoraggio delle fibre disperse in aria è «una delle attività fondamentali che gli Enti preposti dovrebbero mettere in campo» per prevenire l’insorgere di rischi sanitari per i cittadini. I dati forniti dalle Regioni in tal senso «sono però scoraggianti».

Il V Rapporto fornito dall’INAIL attraverso il ReNaM (Registro Nazionale dei Mesoteliomi), risalente al 2015, sottolinea come «l’Italia è attualmente uno dei Paesi al mondo maggiormente colpiti dall’epidemia di malattie amianto correlate». L’incisività della malattia è rarissima fino a 45 anni («il 2% dei casi registrati»). L’età media della diagnosi è «69.2 anni, senza distinzione significativa di genere». Il 69.5% dei casi analizzati presenta un’esposizione professionale («certa, probabile, possibile»), il 4.8% famigliare, il 4.2% ambientale, l’1.6% per un’attività extralavorativa di svago o hobby.
Per quanto riguarda i casi da esposizione professionale, i settori di attività maggiormente coinvolti risultano essere:
Edilizia
Industria pesante

Sul sito del Ministero della Salute si legge che «la presenza delle fibre di amianto o asbesto nell’ambiente comporta inevitabilmente dei danni a carico della salute, anche in presenza di pochi elementi fibrosi». I danni a carico della salute sono “inevitabili” anche in presenza di pochi elementi fibrosi perché si tratta di «un agente cancerogeno». Particolarmente nocivo è il fibrocemento (“eternit”), una mistura di amianto e cemento particolarmente friabile e quindi soggetta a danneggiamento o frantumazione, infatti «i rischi maggiori sono legati alla presenza delle fibre nell’aria» che, una volta inalate, «si possono depositare all’interno delle vie aeree e sulle cellule polmonari». Asbestosi, mesotelioma (tumore che si sviluppa a carico della membrana che riveste i polmoni, pleura, o gli altri organi interni, peritoneo), tumore dei polmoni… queste le conseguenze che possono e in genere si manifestano anche a distanza di molti anni dall’esposizione e a bassi livelli di asbesto.

In questo opuscolo ministeriale informativo ci tengono a ribadire che, essendo un agente cancerogeno, «occorre evitare l’esposizione anche a bassi livelli di concentrazione» poiché basta «una minima esposizione per subirne gli effetti nocivi». Già. Ma se le tonnellate di amianto sparse, disseminate e abbandonate lungo tutto il territorio nazionale non vengono bonificate come si fa a evitare l’esposizione anche a minime quantità di asbesto, magari aerodisperso? La risposta a questa domanda però non si trova nell’opuscolo e nemmeno negli allegati a esso accorpati sul sito ministeriale.

Qualche indicazione viene data in caso di bonifica o smaltimento di manufatti già esistenti. Viene consigliato in questi casi di non procedere da autodidatta bensì di «rivolgersi sempre a personale qualificato» in maniera tale da «non recare danni maggiori a se stessi e agli altri».

Si legge ancora che l’articolo 4 della Legge 257/92 «prevedeva l’istituzione della Commissione per la valutazione dei problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto». L’ultimo mandato di suddetta Commissione si è concluso nel 2005, con proroga fino al 2006. Dopodiché è cessata l’attività di monitoraggio come anche quella di «produzione di documenti tecnici affidati a essa come compiti fondamentali». Per «mantenere tuttavia vivo l’interesse per le tematiche rimaste in sospeso e mettere in luce le nuove problematiche emergenti», il Ministero ha previsto la costituzione di un Gruppo di studio che, nel 2012, ha elaborato «un rapporto finale, che fotografa lo stato dell’arte della problematica».

Il rapporto sullo “stato dell’arte” ci dice che ogni Regione, ad accezione di Molise e P.A. di Bolzano, ha istituito un Centro Operativo (COR) con compiti di identificazione di tutti i casi di mesotelioma insorti nel proprio territorio e di analisi della storia professionale, residenziale, famigliare e ambientale dei soggetti ammalati. «La rilevazione avviene coinvolgendo tutte le fonti informative utili (ospedali pubblici e cliniche private) e conducendo la ricerca attiva dei casi». Nella relazione gli operatori del Gruppo di lavoro si dichiarano abbastanza soddisfatti della raccolta dati al riguardo. Stessa cosa non può dirsi per i tumori polmonari, in quanto «non esiste in Italia un sistema di registrazione esaustivo dei casi integrato dalla raccolta anamnestica delle circostanze che espongono ad amianto». Per l’asbestosi si fa invece riferimento alle «statistiche INAIL di denunce e di riconoscimento di malattie professionali» e viene precisato che «l’attendibilità delle statistiche INAIL sulle denunce e riconoscimento delle asbestosi non è mai stata valutata attraverso un confronto con un adeguato golden standard».

Diverse Regioni hanno approvato programmi di sorveglianza sanitaria per gli ex-esposti ad amianto. Ma si tratta di protocolli estremamente eterogenei, si passa infatti dalla «Regione Campania, che prevede la sistematica fornitura di strumenti diagnostici tecnologicamente avanzati e quella delle Regioni Piemonte e Friuli Venezia Giulia che delegano le decisioni, caso per caso, ai medici di base». Nella relazione si legge anche che, per quanto riguarda l’estero, «l’esperienza più esaustiva è quella finlandese», che integra uno screening per tutte le malattie correlate all’amianto (compresa l’offerta di Tac spirale), servizi di igiene e di analisi chimica, progetti di ricerca e cooperazione internazionale.

Anche la relazione del Gruppo di Lavoro pone l’accento sul censimento a macchie di leopardo e i ritardi nelle bonifiche, spesso fatte anche male. «Questi censimenti, nonostante il cospicuo e ripetuto impegno economico, hanno in realtà prodotto risultati di non eccessivo rilievo e di limitata fruibilità». Stesso discorso vale per la bonifica e lo smaltimento. Ci sono stati sicuramente dei miglioramenti nella conoscenza del processo di dismissione dell’amianto «ma se non esteso a tutte le Regioni non permette di avere un quadro completo a livello nazionale del trend in atto, con particolare riferimento al destino finale dei rifiuti di amianto, che attualmente non risulta ben conosciuto nel sue caratteristiche».

Le informazioni che si evincono dalla relazione sommate ai numeri del dossier di Legambiente fanno emergere un quadro davvero allarmante o, se si preferisce, disarmante della situazione italiana a 26 anni dalla messa al bando di questo elemento fibroso altamente nocivo per la salute dei cittadini. «Quanto fatto sino ad oggi non può quindi considerarsi un punto di arrivo in quanto l’esigenza di costante e sempre più approfondita conoscenza della tematica è elemento essenziale per assicurare oltre alla correttezza delle azioni anche la tutela degli operatori, dei cittadini, dell’ambiente».

Essendo molti i Paesi che ancora estraggono e lavorano fibra di amianto viene riscontrato, «con frequenze non eccessive ma certamente meritevoli di attenzione», l’arrivo sul territorio nazionale di merce non conforme ai dettami normativi in materia di amianto. L’obiettivo da porsi è, quindi, «evitare, per quanto possibile, l’ingresso in Italia di prodotti realizzati con componentistiche vietate dalla normativa vigente riguardanti materiali con fibre di amianto» e per raggiungere detto scopo è necessaria una «organica interazione tra i vari soggetti coinvolti o comunque cointeressati». Organi centrali, Regioni, Asl, dogane portuali e aeroportuali.

Anche il Gruppo di Lavoro ministeriale, come Legambiente, giunge alla conclusione che sia necessario redarre quanto prima un Testo Unico normativo di riferimento. «Diversi Ministeri (Ambiente, Industria, Sanità) hanno nel tempo legiferato per le proprie competenze, ma non sempre si è tenuto conto di altri precedenti provvedimenti di diverse amministrazioni con cui vi potevano essere elementi di non chiarezza applicativa».

Per la tutela degli operatori, dei cittadini e dell’ambiente ci si attenderebbe quindi quanto prima l’approvazione di un Testo Unico articolato ed esaustivo, un censimento che vada a coprire l’intero territorio nazionale e una bonifica altrettanto plenaria.

A giugno 2012 il Ministero della Salute pubblica il Quaderno n°15 sullo «stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate». Ma quali sono esattamente le patologie asbesto-correlate?
Sono respirabili tutte le fibre, «come generalmente quelle di asbesto», con diametro inferiore a 3.5micron. Le fibre comprese tra 5 e 10 micron di lunghezza, arrivando all’interstizio e per via linfatica alle sierose, «possono determinare lesioni interstiziali e pleuriche»:
Fibrosi
Ispessimenti e Placche pleuriche
Neoplasie
Quelle di lunghezza superiore ai 10micron, arrestandosi a livello alveolare, «possono provocare lesioni alveolari (alveolite asbestosica)».

Tra le patologie asbesto-correlate vengono quindi inserite:
Asbestosi
Pleuropatie asbesto-correlate (Placche pleuriche e Ispessimento pleurico diffuso)
Versamenti pleurici benigni (pleuriti benigne da asbesto)
Tumore polmonare
Mesotelioma (Mesotelioma pleurico e Mesotelioma maligno extrapleurico)

Vanno evidenziate poi le patologie extrapolmonari da asbesto. «Una possibile correlazione è stata evidenziata tra l’esposizione ad asbesto e le patologie autoimmunitarie». Gli effetti sull’apparato gastrointestinale «sono prevalentemente riconducibili all’insorgenza di tumore dello stomaco». Per quanto riguarda l’apparato riproduttivo, «una possibile correlazione è stata documentata con il tumore ovarico». La IARC (International Agency for Research on Cancer) definisce come «sufficiente l’evidenza di insorgenza di cancro alla laringe e dell’ovaio in seguito a esposizione ad asbesto e limitata quella per tumore della faringe, stomaco, colon-retto».

Negli Stati Uniti e in Svezia, dove i consumi di amianto sono diminuiti più precocemente, «si assiste già a una diminuzione dei tassi di mortalità e di incidenza». Laddove i consumi sono cresciuti, come nei Paesi in via di sviluppo, «le limitate statistiche disponibili suggeriscono che l’epidemia sia attualmente al suo esordio». Il declino del consumo di amianto in Italia è avvenuto «in ritardo rispetto ad altri Paesi occidentali». La bonifica e lo smaltimento dell’amianto messo al bando orami dal lontano 1992 sono ancora procedure in fase di rodaggio. Per il nostro Paese si prevede una diminuzione dei picchi di mortalità e incidenza a partire dal 2015-2020. Si prevede. O meglio si suppone. Si potrebbe anche immaginare che la gran parte dell’amianto prodotto e importato tra il 1945 e il 1992 fosse stato tempestivamente censito, smaltito e i siti, pubblici e privati, bonificati… già si potrebbe ma quello che proprio non si può fare è cambiare la realtà, lo stato delle cose. E quello è disastroso.

Tre verbi che devono diventare azioni concrete e diffuse: censire, bonificare, smaltire. Tutto e ovunque. E farlo in tempi brevi. Tutto il resto sono parole, o meglio chiacchiere inutili.


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L’Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo (Sperling&Kupfer, 2016)


 

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La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi?

20 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Mark Zuckerberg, ideatore e ceo del social network Facebook, il 12 gennaio 2018 scrive, sulla sua pagina social, un post che ha scatenato una grande eco mediatica. Il succo del suo comunicato riguarda l’imminente e progressivo cambiamento dell’algoritmo che gestisce la condivisione dei post e dei video perché, a suo dire, Facebook sta deragliando da quello che era lo scopo originario per cui lui stesso l’ha inventato.

Facebook sarebbe quindi stato ‘costruito’ per aiutare le persone a rimanere in contatto e avvicinarsi a quelle ritenute importanti, affettivamente parlando. Per questo motivo famigliari e amici devono restare il fulcro del mondo social racchiuso nell’universo del libro delle facce. La esplosione di contenuti pubblici starebbe quindi rompendo l’asse dell’equilibrio, allontanandosi dallo scopo principale del social, ovvero «help us connect with each other» (“aiutarci a connettersi tra noi”).
Zuckerberg si augura che il tempo passivo trascorso sui social, in particolare il suo, diminuisca e che gli utenti siano sempre più stimolati a interagire. Adottando queste misure lui dichiara di aspettarsi una diminuzione del tempo trascorso sul social ma, al contempo, si augura che sia tempo prezioso, di qualità.


«I expect the time people spend on Facebook and some measures of engagement will go down. But I also expect the time you do spend on Facebook will be more valuable.»


Il social network Facebook quindi, per mano dei suoi organizzatori, vuole spronare i suoi utenti a essere più attivi, cliccando like e commentando post personali, famigliari, di amici e conoscenti, foto e riflessioni… saranno quindi scoraggiate le condivisioni di post da pagine pubbliche, da link esterni, notizie, informazione e quant’altro possa distogliere l’attenzione e l’interesse degli utenti dallo scopo principale del social: “aiutarci a connettersi tra noi”.
Ora, a meno che una persona non abbia tutti i suoi affetti lontano e viva isolato su un eremo, davvero si fatica a comprendere fino in fondo la necessità della condivisione social e non di quella reale di immagini, foto, ricordi, impressioni, pensieri, riflessioni, considerazioni… che invece potrebbero e possono benissimo essere condivise de visu, via mail, in chat, su skype, al telefono… Ma l’aspetto più interessante e a tratti inquietante è il tentare di capire se davvero Zuckerberg sia così filantropo da boicottare volutamente il suo social network a beneficio dell’affettività dei suoi iscritti.

Due giorni dopo l’annuncio di Marc Zuckerberg già è virale la notizia, basata su dati della rivista Forbes, di una perdita di 3,3miliardi di dollari a causa del calo nella quotazione in borsa del titolo Facebook. Zuckerberg possedendo il 17% delle azioni ne avrebbe quindi subito un danno personale. Ora, considerando che sempre secondo la rivista Forbes, il patrimonio complessivo dell’ideatore di Facebook ammonterebbe a 72,4miliardi di dollari, quella subita è una perdita che, pur ammettendo non fosse stata calcolata, sarebbe per certo facilmente recuperabile.
La scelta di modificare l’algoritmo di condivisione non sarebbe piaciuta a investitori e sponsor e il titolo societario scende del 4,4%.
Lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di prevedere un leggero calo nella quantità del tempo che gli utenti trascorreranno sul social a seguito dei cambiamenti dell’algoritmo. È lecito supporre avesse anche preventivato un iniziale calo di fiducia da parte di investitori e sponsor?

Dopo un 2017 trascorso a tentare in vari modi di bloccare segnalare contrastare confutare le fake news Facebook sembra compiere una decisa virata che prevede, in buona sostanza, una riduzione delle notizie, presumibilmente quindi anche delle cosiddette bufale, e l’ammissione neanche troppo implicita che il social non è un organo idoneo alla diffusione dell’informazione. Non è per questo scopo che è stato creato.
La ricerca condotta dal team di Facebook in sinergia con esperti accademici avrebbe messo in luce che l’utilizzo dei social per connettersi con persone a cui teniamo sarebbe un toccasana per il nostro benessere.

Quindi creare un ambiente social con parenti, famigliari e amici, connettersi virtualmente con loro, condividere sul social momenti di vita, di affetto, di amore, di delusione, di tristezza, di passione… gioverebbe alla di ognuno “felicità e salute”. Essere sempre più il fulcro della propria filter bubble. Questo lo scopo reale di Facebook. Questo il ‘benessere’ di cui sembra parlare il suo fondatore, il quale anni fa ha dichiarato, parafrasando forse inconsapevolmente le parole del patron di Le Figaro, Hippolyte de Villemessant (“Per i miei lettori è più importante l’incendio di in solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid”), ha detto: “La morte di uno scoiattolo davanti casa può essere più pertinente per i tuoi interessi di quella di una persona in Africa”. Naturale a questo punto chiedersi cosa esattamente “è più pertinente” per “gli interessi” immediati e futuri del ceo di Facebook.

Il primo data center di Facebook fuori dagli Stati Uniti è stato impiantato a Luleå, in Svezia. Un anonimo enorme capannone grigio che racchiude in sé un’immensa memoria connessa. È prevista l’apertura prossima di strutture simili a Clonee in Irlanda e a Odense in Danimarca. I responsabili della struttura svedese più volte hanno ribadito al giornalista Diego Barbera, giunto in loco per un servizio, che «i dispositivi vengono trasportati in modo riservato e sicuro» affinché «sia impossibile accedere a qualsivoglia dato». Tutte «le informazioni sono conservate, e i vecchi supporti sono completamente distrutti». Massima protezione e cautela quindi nella raccolta dei dati che assolutamente non devono lasciare la struttura, né essere trafugati. Ma allora a cosa serve questo immenso archivio di dati e informazioni condivise dagli utenti del social network Facebook?

In un servizio di Stefania Rimini per la trasmissione Report, girato nell’ormai lontano 2011, illuminante già nel titolo (“Il prodotto sei tu”) ci si chiedeva come mai una società fondata dall’allora poco più che ventenne Marc Zuckerberg che, in apparenza, non comprava e non vendeva nulla, assolutamente gratuita, facesse tanto gola a investitori internazionali quali «la banca Goldman Sachs ma anche la Microsoft, il miliardario russo Yuri Milner e il magnate di Hong Kong Li Ka Shing». Una società all’epoca non ancora quotata in borsa che ha subito una crescita vorticosa ed esponenziale, nel numero degli iscritti come nel valore di mercato nella quale sembra «tutto bello tutto gratis ma se ti va di leggere i termini contrattuali che quasi nessuno legge, scopri che sì, non stai pagando per il prodotto… perché il prodotto sei tu».

Profili che ogni utente compila volontariamente al momento dell’iscrizione, con dati personali anche sensibili, consegnati autonomamente ma con quanta reale coscienza dell’uso che ne verrà fatto? Schede zeppe di informazioni personali, di gusti e preferenze, livello culturale e titoli di studio, professione, stato civile, sesso e orientamento sessuale, orientamento politico e religioso… che rischiano però di diventare dati troppo statici e obsoleti se non li si rinvigorisce con aggiornamenti continui. Nuovi like, nuove foto, nuovi commenti… espressioni a loro volta delle singole personalità che navigano in questo mare che il suo proprietario dichiara di voler far diventare sempre più un porto sicuro. Stare bene quando si accede al social, sentirsi in famiglia, condividere con gli affetti, con gli amici, con i conoscenti… tutto per far sentire al meglio l’utente, libero di manifestare e condividere il suo essere. A pieno beneficio di chi?

Non è naturalmente un problema precipuo di Facebook ma generale della Rete e dei social. Semplicemente è la costante premura del suo fondatore a creare e fortificare questa sorta di filter bubble a destare qualche sospetto di troppo.

Sempre nel 2011 esce per Il Saggiatore il libro di Eli Pariser Il filtro. Quello che internet ci nasconde (“The Filter Bubble. What The Internet Is Hiding From You”). Nel libro Pariser sottolinea l’impiego dei filtri per creare la bolla nella quale ognuno poi naviga in base alla “rilevanza” che è in pratica l’unico vero criterio seguito. Una bolla creata in base alle pagine che visitiamo, ai link che cerchiamo, agli interessi e via discorrendo. Quello verso cui non mostriamo interesse semplicemente scompare… dalla nostra filter bubble. Se due persone compiono la medesima indagine su un motore di ricerca, per esempio Google, i risultati saranno molto dissimili tra loro. Ciò è conseguenza della «personalizzazione del web», creata dagli indicatori impiegati per stabilire chi siamo e cosa potrebbe piacerci in base proprio agli interessi che abbiamo mostrato e che sono costantemente monitorati.

I nostri interessi devono essere mostrati e costantemente aggiornati a beneficio di chi li cataloga, li archivia, li studia e poi, magari, li utilizza come merce di scambio con chi questi dati li usa per creare prodotti ad hoc, studiati e realizzati sulle esigenze e sugli interessi dichiarati, proposti poi direttamente a chi ha manifestato il desiderio di possederli tramite pubblicità, newsletter, spot, link… Il tutto, naturalmente, in forma anonima e sicura per l’utente. Certo.

Il mondo cambia, il commercio anche, la globalizzazione avanza, la Rete è fondamentale e anche utile. Nessuna obiezione. Rimane però la curiosità di sapere con quanta coscienza l’utente compie le sue scelte, definisce i suoi interessi, manifesta e soddisfa i propri bisogni.

Per Pariser «la democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando internet ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni limita questo confronto».

A questo punto viene naturale chiedersi quanto potere abbiano effettivamente Google e Facebook, per citarne alcuni, nella creazione della di ognuno filter bubble e quanto invece sia dovuto alla incoscienza o proprio alla volontà dell’utente di dedicare il suo tempo e le sue energie solo per ciò che gli interessa e gli piace e annullare i problemi, le opinioni dissimili, gli argomenti per lui ostici. In base a queste considerazioni viene da affermare che la vera filter bubble la creiamo noi stessi, dentro e fuori la Rete e i social.

Sul portale di wearesocial.com si può leggere una dettagliata descrizione di cosa sia in realtà il social thinking, ovvero l’approccio alla «creatività per risolvere problemi di business e brand». La base di partenza sono i social insight – «comprensione del comportamento sociale delle persone e, di conseguenza prendere in considerazione i canali e le piattaforme per loro rilevanti» – permettendo così lo sviluppo di «idee creative che costruiscano valore per i brand e per le persone». Mentre gli insight tradizionali permettono di comprendere i comportamenti delle persone concentrandosi solo su motivazioni individuali, gli insight social «mettono questa comprensione nel contesto delle nostre relazioni interpersonali, delle community e della società fornendo evidenze spesso nascoste, inaspettate o inespresse».

Le social idea sono idee «powered by people». Sono idee con un altissimo potenziale e di grande valore, in altre parole sono preziose, esattamente come il tempo passato sui social a raccontarle, perché «sono in grado di creare o rafforzare relazioni e community, unire le persone, attivare conversazioni e stimolare all’azione». Addirittura possono o potrebbero «influenzare il comportamento delle persone e avere un impatto culturale». Molto più spesso però sono studiate per capire come «creino valore di business».

Il numero delle persone in Italia Europa e nel mondo connesse a internet è in costante aumento, lo stesso per il tempo trascorso sui vari social. In crescita anche la connessione tramite smartphone, in calo quella da pc. Social e video sono le ‘mete’ preferite dalla gran parte degli utenti connessi in Italia. Oltre la metà della popolazione online utilizza applicazioni di messaging e chat dai dispositivi mobile. Perché?

I motivi addotti per spiegare il fenomeno ormai di massa dell’adesione a social e chat sono numerosi e spaziano dalla paura della solitudine che attanaglierebbe tutti fuori dal web alla possibilità di trovare lì campo libero allo sfogo delle proprie frustrazioni, dell’aggressività altrimenti repressa e via dicendo. Ma la verità è che online, sui social, nelle chat, nei gruppi… non troviamo altro, troviamo esattamente ciò che incontriamo per strada, al bar, allo stadio, nei parchi e lungo le vie. La differenza forse è che nella auto-celebrazione di se stessi che spesso si fa sui social ci si illude di trovare un pubblico copioso interessato alle foto, ai pensieri, ai commenti, alle riflessioni, alle offese, agli sfoghi, ai like… il pubblico in effetti c’è ed è anche molto attento a ogni interazione, ma non è quello che si pensa.

Albine ha reso pubblico il Val-You Calculator, un ‘divertente’ test che consente a ognuno di calcolare quanto vale il suo profilo social per Facebook. Farlo equivale a ritrovarsi dinanzi a un risultato che dà una cifra irrisoria, soprattutto se non si è molto attivi sui social. Ma, a ben pensarci, stando alla stima di giugno 2017, Facebook ha raggiunto i 2miliardi di utenti. Ed ecco che una cifra irrisoria moltiplicata per 2miliardi diventa un colosso quotato in borsa, finanziato da investitori globali e con un potere sociale, culturale e commerciale enorme. Enorme.


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Neuromarketing e potere subipnotico dell’era digitale. “Il cervello aumentato l’uomo diminuito” di Miguel Benasayag (Erickson, 2016)

La Globalizzazione come produttore di periferie. “IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale” di Annamaria Rufino (Mimesis, 2017)

Quanto ha inciso l’essere ‘imbecille’ nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016)


 

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Riflettori puntati sul mondo della finanza in “Fine dell’oblio” di L.K. Brass

25 lunedì Dic 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Finedelloblio, IldealdellApocalisse, ImercantidellApocalisse, LkBrass, NWO, ordinemondiale, paura, recensione, romanzo, thriller

Continua la saga de Il deal dell’Apocalisse di L.K. Brass che con Fine dell’oblio aggiunge un altro capitolo alle avventure di Daniel e Anna, sempre impegnati nella loro crociata contro le ingiuste e occulte operazioni della finanza internazionale.

Troveranno nuovi compagni di viaggio che sono in realtà presenze del loro passato e, in contemporanea, dovranno, ancora una volta, dire addio ad affetti e amori. Un’esistenza straziante la loro, votata a combattere nemici tanto ‘invisibili’ quanto crudeli la cui unica fede è il denaro che porta al successo, che conduce al potere.

In Fine dell’oblio L.K. Brass si è divertito a inserire un lungo prologo e un paio di capitoli iniziali che, se pur necessari al compimento della storia, ritardano il reincontro del lettore con i protagonisti lasciati ne I mercanti dell’Apocalisse e le loro adrenaliniche vicende. A partire dal terzo capitolo però il lettore viene ricompensato e riesce a ‘inserirsi’ appieno nella vicenda narrata, a seguirla con interesse crescente e sperare di ritrovarla ancora nel prossimo libro.

In teoria la vicenda di Daniel Martin e Anna Laine potrebbe aver trovato la sua conclusione in maniera esaustiva anche con un minor numero di pagine e di libri ma quello portato avanti dall’autore sembra essere un progetto di più ampio respiro, nel quale le vicissitudini dei protagonisti ne costituiscono solo una parte. La capacità maggiore di scrittura di L.K. Brass risiede infatti nella volontà di raccontare ciò che in letteratura e al cinema viene sempre presentato come fantascientifico per quello che in realtà è, e di farlo anche molto bene. Azioni e operazioni che hanno luogo ogni giorno nel mondo reale come in quello surreale della finanza. E presentarlo come un vero problema, anche qualora la storia da lui narrata sia tutto frutto di fantasia.

Raccontare il danno causato all’economia reale dalle manipolazioni dei mercati finanziari. «Pensa alla mamma che stringe la sua bimba che si sta spegnendo per la fame, perché la farina ha raggiunto prezzi che lei non può pagare. Pensa ai bambini di Atene che arrivano a casa la sera e scoprono che i genitori si sono suicidati perché hanno perso tutto. Pensa se questo si moltiplicasse non due, non dieci, ma cento o mille volte»… Pensiamo che la moltiplicazione è già in atto, purtroppo. Bisogna pensarci, agire e risalire alla «fonte del danno».

L.K. Brass conferma con Fine dell’oblio la sua capacità di inventare storie interessanti e coinvolgenti, di raccontare il lato oscuro della finanza internazionale in maniera da renderlo comprensibile e accessibile a tutti, di denunciare i mali del mondo e di farlo in maniera ineccepibile creando libri assolutamente da leggere.


Source: Si ringrazia l’autore L.K. Brass per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro quarta di copertina; fonte biografia sito personale dell’autore

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“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016)

“Sono i deboli le prime vittime dell’evasione fiscale”. Intervista a Angelo Mincuzzi


Articolo disponibile anche qui

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“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea)

07 sabato Ott 2017

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Ilcollassodellamodernizzazione, Mimesis, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RobertKurz, saggio, SamueleCerea

Gli effetti collaterali involontari del moderno «sistema della merce», durante la sua «fase storica ascendente», hanno eclissato per molto tempo «la sua natura negativa». Si è preferito vederne solo gli aspetti positivi al punto che le crisi apparivano, o volevano essere interpretate, come mere «interruzioni nel suo processo di ascesa» e considerate sempre «superabili in linea di principio». A cosa ha condotto questo atteggiamento protratto e diffuso è sotto gli occhi di tutti.

Mimesis editore propone quest’anno, nella versione tradotta dal tedesco e curata da Samuele Cerea, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz. Libro uscito per Eichborn Verlag nel 1991 e, per certi versi, terribilmente profetico.

Scrive infatti l’autore, ventisei anni fa, che se pure la crisi del sistema della merce non dovesse superare i limiti che ha finora raggiunto, «il subsistema occidentale non potrebbe sopravvivere al collasso globale». In alcune regioni dell’Asia, in Arabia e nel Nordafrica la reislamizzazione si è trasformata «nel surrogato di un’ideologia militante, diretta contro l’Occidente», che così sta alimentando «un becchino di tipo nuovo, privo di obiettivi trascendenti ma pronto a tutto».

Un estremismo che diventa «brodo di coltura per iniziative violente e suicide» che potrebbero diventare, e in realtà lo sono poi diventate, «aggressioni militari disperate su grande scala contro i centri del mercato mondiale». Un fondamentalismo islamico accomunato solo dal nome all’antica cultura islamica premoderna che mostra e ha mostrato per certo tratti barbarici ma che «non sono certamente più barbarici delle pretese che i signori ‘civilizzati’ delle istituzioni finanziarie internazionali avanzano, senza battere ciglio, nei confronti di una parte sempre maggiore dell’umanità».

Un saggio, quello di Kurz, che fa rabbrividire il lettore e, al contempo, gli permette di comprendere i motivi reali per cui il filosofo tedesco, «assai poco incline ai compromessi» non poteva che «suscitare forti reazioni di amore e odio» nella comunità intellettuale internazionale, in quella economica e anche nel pubblico raramente incline ad accettare e metabolizzare il catastrofismo insito in alcuni ragionamenti, come quelli portati avanti da Kurz, anche e soprattutto quando corrispondono a realtà e verità.

Il collasso della modernizzazione è fuor di dubbio, come sottolinea Samuele Cerea nell’introduzione al libro, «un’analisi radicale e spietata della società capitalistica», ma lo è altrettanto del socialismo di Stato essendo «la differenza tra le forme dell’economia di mercato e quella dell’economia pianificata solo relativa». La loro base comune è il lavoro o, per meglio dire, «il lavoro astratto, cioè l’attività umana assoggettata all’automovimento del denaro».

Certamente è stato «un grossolano errore interpretare il tracollo storicamente asincrono dei paesi del socialismo di Stato e dei paesi del Terzo mondo come la prova di superiorità dell’Occidente, cioè dell’avanguardia storica del capitalismo globale, e del suo modello». Che poi è esattamente ciò che si voluto credere in tutti questi anni e allora non si può non chiedersi, insieme al curatore, fino a che punto «l’opinione pubblica, gli intellettuali, i media, ma soprattutto l’establishment politico ed economico» siano consapevoli «della catastrofe che incombe su di una società globale che sembra fare acqua da tutte le parti».

Per Kurz l’Occidente è stato un «bizzarro trionfatore» frastornato dalla «sua stessa superiorità e dalle conseguenze del proprio trionfo». Questa vanagloria la si può facilmente ritrovare nella mancata oculatezza nell’analisi delle conseguenze della «crisi particolare del sistema perdente» che poteva, e in effetti lo ha fatto, innestare una «crisi globale in grado di minacciare anche il presunto vincitore».

Molto interessante risulta per il lettore la descrizione fatta da Kurz del paradosso insito quanto ignorato delle moderne economie. La produzione non è finalizzata al consumo personale ma a un «mercato anonimo» e il senso del processo non è la soddisfazione delle necessità concrete ma «la metamorfosi del lavoro in denaro (salario o profitto)». E così accade che «l’astratto interesse monetario» spinge ogni produttore verso quei prodotti e quelle forme produttive che gli garantiscono il massimo guadagno, nel modo più rapido e diretto, «a dispetto dei contenuti e delle conseguenze, per quanto deprecabili». Senonché lo stesso produttore «nel suo alter ego di consumatore» manifesta l’interesse precisamente opposto. Insomma, peggio di un cane che morde la sua stessa coda perché la ragione di tutto ciò è solamente il denaro.

Produttori e consumatori «si sfidano l’un l’altro in un confronto perpetuo», con il risultato che «ciascun produttore tende a tutti gli altri delle trappole» in cui tutti e ciascuno «finiscono invariabilmente per cadere a causa dell’universalità del legame sociale».

L’Occidente – «che è ormai entrato nella sua fase di crisi» – e l’Est – «che si è convertito a discepolo della logica capitalistica della concorrenza dopo il suo tracollo» – alla fine «si ingannano vicendevolmente». L’Est guarda di continuo al «passato splendore» mentre l’Occidente attende il suo definitivo tracollo per poter fruire di «nuovi mercati che però esistono solo nella sua fantasia» e lo stesso accade per le «centinaia di milioni di individui in Africa». Ciò che tutti sembrano dimenticare e che Kurz invece sottolinea è che «necessità concrete e aspirazioni umane non possono generare nessun mercato», ossia alcun potere di acquisto produttivo. Quest’ultimo infatti nasce solo dallo «sfruttamento di forza-lavoro umana in forma aziendale» e per giunta a un livello «conforme allo standard mondiale di produttività».

Il Terzo mondo, che ha già quasi «ultimato la sua fase di collasso», rappresenta per Kurz «il modello autentico della ‘modernizzazione di recupero‘». Le strutture interne della modernizzazione del Terzo mondo e quelle dei paesi del socialismo reale «si dimostrano, a posteriori, sorprendentemente affini». Soprattutto se si fa «astrazione dai camuffamenti ideologici e politici». A posteriori sembrano essersene accorti anche «gli istituti di credito internazionali, allineati all’economia di mercato occidentale», come la Banca mondiale o il Fondo Monetario Internazionale (FMI), ovvero «i principali creditori delle economie del collasso». Tuttavia anche qui, come per le nuove riforme di mercato nei paesi dell’Est, «la causa viene scambiata con l’effetto».

Il FMI, la Banca mondiale e gli altri grandi creditori occidentali stanno «spingendo da tempo il Terzo mondo verso la destabilizzazione interna, sociale e politica». Cosicché «controreazioni violente, per quanto parossistiche e insensate, saranno inevitabili». La Storia recente e contemporanea ha dimostrato, purtroppo, la veridicità di queste affermazioni. Per la massa crescente degli «esclusi», la «barbarie ‘ufficiale’ del denaro» appare ancor «più soggettivamente terrificante dell’aperto dominio della mafia».

Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz, nella versione in italiano curata da Samuele Cerea è un saggio da leggere assolutamente.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte biografia autori e tema del saggio www.mimesisedizioni.it

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