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Irma Loredana Galgano

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Le sfide all’ordine mondiale: “Il ritorno delle tribù” di Maurizio Molinari (Rizzoli, 2017)

16 domenica Lug 2017

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Esce in prima edizione a maggio 2017 con Rizzoli il libro di Maurizio Molinari Il ritorno delle trbù. La sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale, dedicato dall’autore «Alla mia tribù». Leggendo il testo se ne comprende fin da subito il perché.
Il ritorno delle tribù appare come un articolo/commento lungo in cui l’autore racconta la sua versione di quanto sta accadendo in Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa, una personale analisi della «generale tendenza alla disgregazione che porta all’indebolimento degli Stati nazionali e dei rispettivi establishment».
Un libro che delude per il suo contenuto e stupisce per la presenza di alcuni refusi di punteggiatura, anche se bisogna ammettere che non sono di certo questi il vero problema.

Nelle affermazioni di Molinari il testo è volto «alla ricerca delle origini di rivolte, diseguaglianze e migrazioni per arrivare a descrivere le tribù d’Oriente e d’Occidente che ne sono protagoniste, mettendo in evidenza ciò che le distingue e ciò che le accomuna». In realtà, leggendolo, si ha l’impressione di consultare un vecchio testo di Storia nel quale gli accadimenti e le vicende geo-politiche vengono narrate descritte e commentate dall’unico punto di vista ritenuto giusto valido e attendibile: il monocolo occidentale. L’Universo dell’Occidente, che include anche Israele, guidato dagli Stati Uniti e la cui Legge sembra rappresentare per l’autore il Verbo divino. Come se tutti gli abitanti della Terra, indistintamente, debbano andare inesorabilmente verso l’unica direzione possibile e nota, la medesima tra l’altro che ha determinato e condizionato la Storia passata e presente e che si vorrebbe delimitasse anche quella futura.

Bisognerebbe riuscire ad ammettere quantomeno che le innumerevoli guerre e missioni portate avanti dai governi occidentali non sono rivolte a stabilire la pace e il benessere di tutti gli abitanti del Pianeta piuttosto a fermare chi si ribella all’ordine mondiale voluto e imposto dai suddetti governi.
Far leva sulla paura ingenerata dal terrorismo islamista oppure sulla cosiddetta invasione di migranti è facile e altrettanto facilmente può raccogliere consenso in chi legge. Una lettura meno critica del libro infatti potrebbe con molta semplicità dare la sensazione che gli jihadisti e i migranti siano l’unico vero problema da affrontare e che risolto ciò il Pianeta sarà salvo. È tanto evidente quanto elementare che così non è e così non sarà.

Molinari parla enne volte del «disegno apocalittico o escatologico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfo» nel suo libro, che è certamente contrario alla propaganda jihadista ma scritto con un’enfasi tale da apparire esageratamente e paradossalmente propagandistico a sua volta. Solo che l’apostolato sembra la cronistoria, a volte la giustificazione, delle strategie e delle tattiche degli americani, descritti come la punta, il vertice portabandiera delle imprese militari occidentali volte alla esportazione mondiale delle idee di democrazia progresso crescita e libertà. Secondo la visione dualista del mondo che vede gli occidentali, compresi gli ebrei, da una parte e tutti gli altri dalla parte opposta e in base alle cui regole di supremazia militare politica economica sono stati scritti e riportati oltre 2mila anni di Storia.

LEGGI ANCHE – La nascita dei ‘mostri’ del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

Il terrorismo jihadista, come qualsiasi altra forma di terrorismo, è da biasimare innegabilmente così come il dramma umano dei migranti e dei profughi non può lasciare indifferenti le società “civili” di tutto il mondo ma lo smanioso desiderio di accentuare ed enfatizzare la negatività dell’estremismo jihadista dell’autore sembra gli sia tornato utile per tralasciare, accennandoli appena, alcuni aspetti della vicenda affrancandosi di parlarne nel dettaglio.
Per esempio, l’accenno al Trattato di Sèvres del 1920 in base al quale le potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale promettevano l’indipendenza al popolo curdo e agli Accordi segreti di Sykes-Picot del 1916 siglati tra Inghilterra e Francia per spartirsi il dominio e il controllo sul Medio Oriente, nonché il fatto che tutti i confini degli stati dell’area mediorientale e del Nord Africa sono stati tracciati a tavolino sempre dalle potenze occidentali tenendo conto, presumibilmente, dei propri interessi politici ed economici senza sottolineare come la situazione che vivono queste aree oggi deriva da tutto ciò appare quasi ridicolo, per non dire fuorviante.
La quasi totalità delle rivolte e dei malcontenti in Africa e Medio Oriente ha origine proprio dal fatto che la suddetta suddivisione in “stati a tavolino” ha generato un tale caos che, aggiunto al mal operato di governi corrotti e all’incessante sfruttamento del territorio e delle risorse sempre da parte degli occidentali ha portato dritti dritti alla situazione catastrofica odierna. Come si fa a credere che spetta ancora solo alle potenze occidentali trovare la soluzione?

LEGGI ANCHE – Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

La stessa nascita del jihadismo è imputabile, almeno in parte, all’operato degli occidentali i quali prima hanno sfruttato questi “ribelli” considerandoli alla stregua di eroi che combattevano al loro fianco per sconfiggere l’Impero del Male, allora rappresentato dall’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan, e solo in seguito diventati essi stessi il Male perché hanno portato il terrore nel cuore dell’Occidente.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 la missione di tutto l’Occidente, più compatto che mai, era scovare colui che veniva da tutti indicato come il responsabile della tragedia: Osama bin Laden. La cui uccisione è stata proposta alla popolazione come l’unica via per debellare il Male, incarnato dalle cellule terroristiche di al-Qaeda. Versione ingenua o peggio fuorviante. Quel che in realtà è poi accaduto è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Ancor prima di Bin Laden un altro è stato il nemico da battere a ogni costo per mantenere sicure le certezze occidentali: Saddam Hussein, giustiziato nel 2006. La fine del dittatore iracheno ha generato la diaspora dei generali e degli uomini del suo esercito, molti dei quali hanno abbracciato le idee o sono stati ingaggiati dai terroristi islamisti con il compito di addestrare i nuovi adepti, compresi i foreign fighters. Oggi il nemico numero uno dell’Occidente è il Califffo. Ma cosa accadrà una volta che sarà sconfitto?
Ecco che si profila di nuovo il dubbio sull’affidabilità delle potenze occidentali a risolvere la situazione in Medio Oriente e Nord Africa.

LEGGI ANCHE – “Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016)

La soluzione auspicata da Maurizio Molinari ne Il ritorno delle tribù riguarda in realtà più il tentativo di superare la crisi economica conseguenza della globalizzazione che ha colpito il ceto medio occidentale e il cui malcontento sta consentendo, a suo dire, l’avanzata del populismo, indicato come il secondo dei mali da combattere. Il primo è il jihadismo. Uno interno e l’altro esterno che debbono essere affrontati separatamente ovvero, nelle parole dell’autore, «combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non vi fosse». La linea indicata da Molinari per superare i due mali che attanagliano le tribù occidentali è molto parziale e sembra non tenere in considerazione non solo la consequenzialità degli eventi ma anche il processo inarrestabile della globalizzazione che non può e non deve essere solo di merci e capitali ma di persone. Per cui se anche fino a questo punto le decisioni dei governi occidentali non hanno voluto tenere in considerazione le conseguenze delle loro decisioni non solo riguardo la propria tribù ma anche per le altre, ciò non è più accettabile. Come non può esserlo l’idea che l’autore vuol far passare di Israele, indicato addirittura come “isola” per la compattezza e l’omogeneità della tribù che fa quadrato contro ogni minaccia «all’esistenza del proprio Stato».

Quelle che l’autore indica come scelte volte alla salvaguardia del proprio Stato o della propria nazione, della sicurezza o della democrazia in realtà, tradotte in fatti, corrispondono a sanguinose guerre e interventi militari che causano centinaia di morti e migliaia di feriti, sfollati, profughi e migranti. E che generano anche sentimenti di odio e risentimento nei confronti degli stranieri invasori e invadenti oppure verso governi corrotti e collusi che si rivelano inadeguati e disinteressati al benessere pubblico e collettivo.

I problemi di cui parla Molinari, ovvero gli jihadisti e i migranti non sono la causa bensì la conseguenza e la conseguenza non la risolvi se non vai a incidere sulla causa, sia fuori che dentro il proprio Universo.
Molinari dedica il libro alla sua tribù perché è l’unico raggruppamento umano verso cui sembra nutrire un certo interesse.

Maurizio Molinari: giornalista e scrittore, direttore del quotidiano La Stampa.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Ornella dell’Ufficio stampa Rizzoli.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell’analisi di Noam Chomsky

02 lunedì Gen 2017

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“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

Chi sono i padroni dell’universo? Chi governa realmente il mondo? In quale modo e soprattutto perché lo fa?

Domande che tutti si pongono e alle quali Noam Chomsky ha cercato di dare delle risposte in base agli accadimenti, ai fatti, alle azioni e alle reazioni dei singoli Stati ai piccoli e grandi eventi della Storia, passata e presente.

Uscito a ottobre per Ponte alle Grazie nella versione tradotta da Valentina Nicoli, Who rules the world? di Noam Chomsky perde il suo punto di domanda ma non lascia cadere gli interrogativi che cerca di risolvere e soprattutto quelli nuovi che crea nel lettore.

A partire dal secondo conflitto mondiale la bilancia pende «in modo spropositato» dalla parte degli Stati Uniti d’America. Sono loro a «imporre ancora le regole del discorso globale, dalla questione israelo-palestinese all’Iran, all’America Latina, alla “guerra al terrore”, al sistema economico internazionale […]». Ma i «padroni dell’universo» sono tutte le «potenze capitalistiche (i paesi del G7) e le istituzioni da loro controllate (il Fondo monetario internazionale e le varie organizzazioni mondiali del commercio)». Chomsky ne spiega in dettaglio i perché sottolineando come questi poteri in realtà «non rappresentano le popolazioni», neanche negli stati che si definiscono tra i più democratici. I cittadini hanno sempre poca voce in capitolo sulle scelte politiche e si cerca di dargliene sempre meno.

La maggioranza dei cittadini è di fatto esclusa dal sistema politico mentre «l’esigua fascia che si trova al vertice di quella scala esercita un’influenza straordinaria». Inoltre per Chomsky le politiche governative sono ampiamente prevedibili. Basta dare un’occhiata ai finanziamenti destinati alle campagne elettorali per realizzare quale sarà la direzione dei provvedimenti, interni e internazionali. Studi di ricercatori in Usa, i cui dati sono riportati nel testo, sembrerebbero ampiamente confermare queste affermazioni.

Per Noam Chomsky il declino della democrazia in Europa non sembra molto diverso da quello americano. «Il processo decisionale sui temi di maggiore rilevanza si è spostato nelle mani delle burocrazie di Bruxelles e dei poteri finanziari che esse in larga misura rappresentano».

Uno degli esempi più eclatanti è stata, per l’autore, la reazione «furibonda» al referendum in Grecia del luglio 2015: «era inaccettabile l’idea che il popolo greco potesse dire la sua sulle sorti della sua società, fatta a pezzi dalle disumane misure di austerity della troika». Un atteggiamento che ha manifestato tutto lo «sfregio della democrazia» da parte di una classe politica “democratica” che dovrebbe essere al servizio dei cittadini.

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

In Chi sono i padroni del mondo Chomsky si sofferma a lungo sulla questione del terrorismo, sulla definizione di terrorista, sulle «responsabilità degli intellettuali», sui vari accadimenti, sulle guerre e soprattutto sugli «interventi umanitari» che si rivelano da sempre una «catastrofe per i presunti beneficiari».

Lo stemma della Colonia di Massachusetts Bay raffigurava un indiano con una pergamena che gli fuoriusciva dalla bocca e sulla quale c’era scritto: «Venite ad aiutarci». Nella versione distorta e faziosa della realtà quindi «i coloni britannici erano dei benefattori che hanno risposto all’appello dei poveri nativi per essere salvati dal loro destino amaro e pagano». Uno stemma che sintetizza alla perfezione «l’ideale americano» secondo cui ancora oggi gli “eletti” sono chiamati a intervenire in ogni angolo del pianeta per “salvare” nativi, pagani… secondo una visione del mondo ben diversa da quella reale.

Il “mondo” di cui parlano sempre i «padroni dell’universo» è in realtà cosa differente dal “mondo reale” e sta a indicare «la classe politica di Washington e di Londra (e chiunque sia d’accordo con loro)», in quanto se l’espressione “il mondo” «si applicasse davvero al mondo intero, anche altri potrebbero ambire al premio di criminale più odiato».

Nel maggio del 2011, su volere di Obama, sono stati inviati in Pakistan 69 incursori delle forze speciali, «per portare a termine l’assassinio, palesemente premeditato, dell’indiziato numero uno degli orrori dell’11 settembre, Osama bin Laden». I militari americani hanno colpito un bersaglio disarmato e privo di scorta, senza valutare neanche per un momento l’opzione di catturarlo per poi processarlo, come invece è stato fatto per i criminali di guerra nazisti, e tentare almeno di farlo “parlare”. Un’uccisione, per cui non è stato ritenuto necessario effettuare l’autopsia, definita dalla stampa, da quella parte almeno che Chomsky definisce “intellettuali responsabili”, «azione giusta e necessaria».

Ciò su cui l’autore invita a riflettere è il nome attribuito all’operazione: Geronimo, e si chiede perché Obama abbia voluto, consciamente o inconsciamente, «identificare Bin Laden con il capo apache che aveva guidato la coraggiosa resistenza del suo popolo contro gli invasori».

Quella scelta ricorda molto la superficialità e la leggerezza con cui «battezziamo le nostre armi letali con i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Blackhawk, Cheyenne». Un qualcosa che passa del tutto in sottotono ma immaginiamo le reazioni, di sicuro più forti, se «la Luftwaffe avesse chiamato i suoi caccia Ebreo o Zingaro».

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

Sempre con riferimento agli “intellettuali responsabili”, ovvero giornalisti storici critici che mentono sapendo di mentire, dimenticando le loro reali responsabilità nei confronti dei lettori per diventare degli sfacciati «apologeti dei misfatti americani e israeliani», Chomsky sottolinea più volte come questi siano giunti anche ad affermare che «mentre gli arabi ammazzano i civili di proposito, Stati Uniti e Israele, essendo società democratiche, non lo fanno intenzionalmente».

Come consueto l’autore riporta svariati esempi a supporto delle sue considerazioni, azioni similari che ricevono una interpretazione differente e di conseguenza il pubblico ne avrà una percezione diametralmente opposta.

In base a tutto ciò Chomsky invita il suo lettore ad «assumere la prospettiva del mondo reale» e chiedersi chi realmente siano i «criminali che vogliono la fine del mondo».

Il libro di Noam Chomsky è una lettura abbastanza impegnativa. Oltre trecento pagine di una rivisitazione storica secondo una chiave di lettura che non lascia molto spazio al fraintendimento e alla edulcorazione della realtà dei fatti, scritte tuttavia con uno stile che cerca di essere più semplice e chiaro possibile, accessibile a tutti coloro vogliano quantomeno provare a riflettere e mettere in discussione la ‘versione ufficiale’ della Storia e chiedersi, insieme all’autore, chi governa il mondo e, soprattutto, secondo quali principi e valori lo fa.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-padroni-del-mondo-il-lato-oscuro-delle-potenze-democratiche-nell-analisi-di-noam-cho

 

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“I mercanti dell’Apocalisse” di L.K. Brass

26 lunedì Set 2016

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Giunti, IldealdellApocalisse, ImercantidellApocalisse, LkBrass, NWO, ordinemondiale, recensione, romanzo, thriller

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Romanzo d’esordio dell’autore che si firma L.K. Brass, I mercanti dell’Apocalisse (Giunti, 2016) è un thriller che vuole mostrare al lettore il volto oscuro del mondo finanziario che ormai governa a tutti gli effetti il mondo, quello vero.
Daniel Martin, esperto informatico con un passato da hacker prima e agente segreto poi, comprende tardi di essere in pericolo, non realizza che sarà la sua stessa indecisione la condanna che porrà la parola fine alla sua vita, quella vissuta fino a quel momento almeno.
I mercanti dell’Apocalisse è un libro che nasce dall’idea di Brass di farne una serie e, in effetti, la vicenda in esso narrata sembra proprio un prologo che aiuta e invoglia il lettore a entrare e percorrere i sentieri del labirintico mondo che l’autore vuol fargli conoscere. Un universo fatto di byte, programmi, sistemi, misteri e segreti opportunamente celati dietro un’apparente normalità, falsa come falso è il mondo finanziario che la controlla.
A tratti sembra di rivedere le scene dei film della trilogia Matrix, firmata dai fratelli Lana e Andy Wachowski, ma solo per il senso di inquietudine che avvolge l’intera vicenda.
In Matrix l’intero genere umano è soggiogato dalle macchine di cui un tempo si serviva, ne I mercanti dell’Apocalisse i cattivi si servono delle macchine per controllare interi Stati. Ma chi sono questi cattivi.

«Quando abbiamo scoperto gli insider con Michael abbiamo fatto una stima ancora più precisa. Negli ultimi due anni le loro operazioni hanno fruttato circa sei miliardi e le scommesse contro i Paesi dell’euro come minimo settanta.»

Insider interni vendono informazioni a operatori del mercato finanziario che lavorano in maniera occulta ma costante per vanificare gli effetti delle misure poste in essere dalla Bce (Banca Centrale Europea) a tutela delle economie degli Stati deboli.
All’inizio dell’estate del 2007 delle insolvenze su mutui ipotecari concessi negli Stati Uniti generarono uno shock per la finanza mondiale con conseguenze definite epocali. A partire dal 2008 la crisi si è spostata in quella che viene definita “economia reale”.
Ci si chiede perché mai per investimenti sbagliati fatti da banchieri e finanzieri debbano farne le spese migliaia di lavoratori e risparmiatori in tutto il mondo.

«Anna continuò il suo racconto lasciandosi andare a un lungo sfogo. Scommettere con le economie di interi Paesi era un crimine senza appello. Sapeva che dietro le statistiche e il Pil c’erano le vite delle persone che pagavano a caro prezzo l’avidità di finanzieri senza scrupoli. »

Dalla sua uscita sul mercato librario, lo scorso marzo, si è letto molto su quanto, ne I mercanti dell’Apocalisse, ci fosse di autobiografico nel protagonista. Non importa quanto di personale Brass abbia voluto raccontare, ciò che bisognerebbe chiedersi è invece quanto ci sia di ognuno di noi nella gente vittima dei “mercati finanziari”.
Leggendo alcuni passaggi del libro che narrano delle menzogne e delle mezze verità spacciate per ineluttabili necessità con il contributo di governi e media ritornano alla mente le narrazioni di Michael Ende in Momo (Longanesi, 1984) il quale già nel 1973, anno di uscita del testo, denunciava l’inganno messo in atto dal sistema per rubare il tempo, e quindi la vita, alle persone con la promessa, falsa, di restituire loro tutto con gli interessi dopo il sessantaduesimo anno.
Lucio Anneo Seneca, vissuto a ridosso dell’anno zero, sosteneva che «il tempo è l’unica cosa che nessuno, nemmeno una persona riconoscente ci può restituire.»
Il tempo è fondamentale. Il tempo è lo spazio della vita. Maurizio Pallante ne I monasteri del terzo millennio (Lindau, 2013) descrive perfettamente le degenerazioni dell’attuale sistema che tenta di convincere tutti a identificare la vita con il lavoro e la produzione di oggetti o denaro e la rimanente parte di “tempo libero” come un vuoto da riempire con attività passatempo. Uno spazio quasi inutile.
L.K. Brass, forse per evidenziare il paradosso dell’attuale sistema, afferma che «tutto è pura finzione. Solo quando succede sui mercati finanziari è reale».
Ecco allora che un nuovo quesito si fa spazio nel lettore: perché lasciare tutto in mano a persone che fanno un gioco simile a quello d’azzardo anche dove quest’ultimo è vietato per ovvi motivi?
Si sofferma a lungo l’autore nelle descrizioni fatte dal protagonista Daniel Martin sulle similitudini tra finanza e gioco d’azzardo. Le differenze sulle conseguenze invece sono ben note.
I mercanti dell’Apocalisse di L.K. Brass è fuor di dubbio un gran bel libro che dice, senza tanti giri di parole, ciò che dovrebbe essere ormai chiaro a tutti e che invece si occulta e si finge di non capire solo perché un eventuale cambiamento forse spaventa più della crisi del sistema che in qualche modo ci si illude di riuscire a superare rimanendo indenni.

«La situazione economica sta precipitando. Uno stato è in default e sta trattando un condono quasi totale del debito, mentre un altro sta preparando segretamente l’uscita dall’euro. Le economie mondiali crescono, ma il divario fra le classi continua ad aumentare.»

L.K. Brass: Nato a Lugano, ha vissuto a Parigi, Vaduz, Chicago, Ginevra, Zurigo. Si occupa di sistemi informativi finanziari. I mercanti dell’Apocalisse è il suo primo romanzo.

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© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il mondo parallelo delle guerre segrete in “Prigionieri dell’Islam” di Lilli Gruber

11 mercoledì Mag 2016

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flussimigratori, immigrazione, LilliGruber, migranti, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, PrigionieridellIslam, recensione, Rizzoli, saggio, stroncatura, terrore, Terrorismo

 

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

Prigionieri dell’Islam (Rizzoli, 2016) della giornalista Lilli Gruber è un libro ambizioso, che si propone di creare un po’ di ordine nel caos delle informazioni, che circolano in un Occidente in piena crisi, riguardo quanto sta accadendo nel mondo arabo «in pieno naufragio».

Un libro che accoglie in sé: la cronistoria degli attacchi terroristici all’Occidente, a partire dall’11 settembre 2001; un’analisi geopolitica della situazione occidentale, mediorientale, delle primavere arabe, dell’Iran, della Turchia, della Siria… il resoconto dettagliato delle esperienze dirette dell’autrice come inviata; la trascrizione delle interviste fatte come giornalista; riferimenti diretti alla trasmissione televisiva che conduce; episodi e riflessioni legati alla propria vita privata e sentimentale.

Un intreccio di informazioni e stili che a volte funziona altre meno. La struttura del testo è circolare, l’autrice ritorna spesso sullo stesso punto o argomento, arricchendo di volta in volta quanto detto di nuovi particolari oppure analizzando il tutto da un’angolazione diversa.

Il discorso che la Gruber vuole portare avanti in Prigionieri dell’Islam sembra chiaro fin dal principio: non si possono incolpare tutti i musulmani per quanto sta accadendo nel mondo arabo e in Occidente, dobbiamo riconoscere le responsabilità dello stesso Occidente. La situazione in oggetto è molto complessa, colpe ed errori vanno imputati a entrambe le parti in causa (Occidente e anti-Occidente) e naturalmente l’autrice non ha una soluzione ai problemi in corso né per quelli prospettati dal prosieguo o dalla degenerazione delle attuali circostanze.

Ma il vero limite di un libro come questo è l’ostinazione al voler definire una situazione globale analizzandola dal solo punto di vista occidentale. Ammettere in qualche modo le responsabilità delle grandi potenze ma fermarsi nell’esatto momento in cui ci si rende conto che un mondo diverso equivale anche a un Occidente diverso, alla rinuncia dei tanti, troppi, privilegi accaparratisi da chi il mondo lo ha sempre conquistato non solo abitato.

Nel Prologo di Prigionieri dell’Islam la Gruber racconta di aver assistito alla conversione di una giovane ragazza napoletana presso la comunità islamica di viale Jenner a Milano. «Non passa giorno senza che bussi alla porta un nuovo aspirante musulmano», le dicono.

Perché l’Islam attrae sempre più nuovi proseliti? Questo quanto si connette alla diffusione del terrorismo islamico?

Per l’autrice «nel caos di un mondo arabo in pieno naufragio e nelle incertezze di un Occidente in crisi, l’Isis rappresenta un’alternativa concreta».

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Nell’Introduzione al libro l’autrice si sofferma sul resoconto dettagliato di come gli eventi di Parigi del 13 novembre 2015 siano entrati con irruenza nel suo privato lasciando esterrefatti lei e il compagno, il quale proprio mentre gli attacchi avevano luogo era su un volo diretto a Roma e partito da Parigi.

Racconta di come tutto ciò l’abbia riportata indietro nel tempo, all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e a due giorni dopo l’accaduto, quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’AmericaGeorge W. Bush «accende la fiaccola che darà fuoco al mondo: quella della “guerra al terrore”».

Viene da chiedersi se quindici anni di “guerra al terrore” non abbiano portato solo altra guerra e terrore.

La Gruber ipotizza, timidamente, che faccia tutto parte di una sorta di piano, organizzato e giostrato per il potere e il denaro. «Nulla è impossibile nel mondo parallelo delle guerre segrete» “combattute” tra governi e servizi di spionaggio, fatte di embarghi, destabilizzazioni, minacce dirette o indirette, palesi o latenti, infiltrazioni e corruzioni varie… In punta di piedi allude a come il potere decisionale, in fin dei conti, sia sempre e solo nelle mani delle grandi potenze e che a muovere i loro gesti non sia sempre il mero desiderio di proteggere i popoli.

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I limiti di queste “guerre segrete” si sono visti già nel marzo 2011, quando «le capitali occidentali sperano che Assad alzi bandiera bianca», come Ben Ali e Mubarak, ma «gli occidentali sono molto meno influenti in Siria che in Tunisia o in Egitto. L’esercito è corrotto, ovvio, ma l’infiltrazione da parte di potenze straniere è meno capillare che in altri Paesi arabi».

Le operazioni di ingerenza occidentale nel mondo arabo sembrano essersi rivelate dei fallimenti sia dove l’estirpazione del regime è riuscita, come in Tunisia ed Egitto, sia dove non è andata a buon fine, come in Siria. Allora il lettore si chiede il motivo per cui si portano avanti azioni e politiche già rivelatesi fallimentari oppure se nel “mondo parallelo” si sono registrate delle vittorie che non è dato a tutti conoscere.

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

In Prigionieri dell’Islam si legge che, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno intrapreso la guerra contro il terrorismo per annientare al-Qaeda ma anche «per trasformare il mondo musulmano al grido di “esportare la democrazia”».

Con quali risultati? A costo di sacrificare cosa?

In seguito all’uccisione di Osama Bin-Laden e allo smantellamento di gran parte delle cellule che componevano l’organizzazione tutto l’Occidente ha creduto, su input di capi di stato, di governo e organi di stampa, che il terrorismo di matrice islamica fosse stato sconfitto. L’Isis e non solo hanno dimostrato al mondo intero che non è così.

Per la Gruber dall’inizio di aprile 2016 i miliziani dell’Isis sono in difficoltà, le operazioni speciali americane stanno eliminando uno dopo l’altro tutti i capi e ciò lo si può interpretare come l’inizio della fine di questo “mostro” che ha preso il posto di al-Qaeda come nemico numero uno degli Occidentali. Ma c’è poco da esultare perché ci si deve aspettare che, da un momento all’altro, possa «resuscitare altrove e tornare a seminare paura.»

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La Gruber conclude il suo Prigionieri dell’Islam con l’esortazione alla disobbedienza, ma non quella di Gandhi bensì quella di Obama.

«Le dimostrazioni più evidenti della sua disobbedienza sono il riavvicinamento con l’Iran e il rifiuto di muovere guerra alla Siria».

Parla anche dell’umiltà di papa Francesco, dell’ultimo sermone del profeta Maometto nel quale invitava i suoi fedeli a trasmettere il proprio messaggio, di Gesù Cristo e del fatto che cacciasse i mercanti dal tempio, dell’ingresso di nuovi attori (Cina e Russia) pronti a dire la loro sugli squilibri del pianeta, ma soprattutto tiene a sottolineare che «il Medioriente, il Golfo e i loro tormenti non devono minacciare le relazioni tra i colossi del mondo globalizzato».

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Con le sue 352 pagine il libro di Lilli Gruber si presenta al lettore carico di informazioni, di nozioni, di citazioni… ma la situazione analizzata è talmente complessa che tanti sono i dubbi e gli interrogativi che restano.

Ci si chiede chi siano i veri prigionieri dell’Islam: gli arabi o gli occidentali? È l’Islam l’unico vero carceriere di cui aver paura? Che relazione c’è tra il terrorismo di matrice islamica e le “guerre segrete” combattute nel “mondo parallelo” di governi e servizi di spionaggio?

Per la Gruber terrorismo, Islam e immigrazioni «congiungendosi in un triangolo, formano una trappola mortale» che «cambia la nostra vita». Ma chi ha fatto scattare questa trappola? Se i tre vertici del triangolo sono una conseguenza dell’ingerenza occidentale nel mondo arabo non dovrebbe essere l’Occidente il primo a invertire la rotta?

La verità è che l’Occidente è “prigioniero” anche di sé stesso, come ricorda pure l’autrice parlando della disobbedienza del presidente degli Stati Uniti d’America: «Mi colpisce il fatto che l’uomo più potente del mondo abbia il coraggio di riconoscere che è lui stesso prigioniero delle convenzioni, dei preconcetti, dei diktat dell’ideologia».

La morsa che stringe l’Occidente e il mondo intero sembra essere alimentata quindi da molto altro oltre il terrorismo, le migrazioni e l’integrazione, ovvero i vertici del triangolo che per la Gruber ci rendono tutti “prigionieri dell’Islam”.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-mondo-parallelo-delle-guerre-segrete-in-prigionieri-dell-islam-di-lilli-gruber

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Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

27 mercoledì Apr 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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GiuliettoChiesa, intervista, monocolooccidentale, NicolaiLilin, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, Piemme, Putinofobia, saggio

 

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Putinofobia di Giulietto Chiesa (edito da Piemme) è un libro che analizza la paura che l’Occidente ha sempre provato nei confronti della seconda potenza mondiale: l’Unione Sovietica, ora diventata Russia.

Come sua consuetudine, Chiesa presenta dati e fatti secondo un criterio spazio-temporale che fin da subito lascia intendere al lettore che ben altro si chiarirà con la lettura del libro.

Si può essere d’accordo con le posizioni di Giulietto Chiesa o non condividerle, ma non si può negare che seguire il suo ragionamento conduce, inevitabilmente, ad allargare il proprio orizzonte, a porsi delle domande, a cercare delle risposte… come se all’improvviso, dopo aver sempre osservato il mondo dalla stessa postazione, si venisse catapultati nello spazio e lo si potesse osservare da lì, il nostro pianeta. Ogni cosa acquista una prospettiva nuova, differente.

Per Chiesa, la Russia potrebbe essere uno straordinario ponte di collegamento dell’Occidente con l’Asia e il resto del mondo ma ciò non accade perché gli occidentali non vogliono questo.

Nicolai Lilin, che ha curato la prefazione a Putinofobia, scrive che: «la politica dell’Occidente, che con tutte le forze cercava di frantumare il multiculturalismo ereditato dal regime sovietico per poter manovrare meglio le piccole regioni staccate dal grande polo legato al Cremlino, da subito ha sfruttato la propaganda russofoba come l’elemento principale su cui poter costruire i nazionalismi locali».

Perché lo ha fatto? Quali sono i motivi alla base della russofobia 2.0? Ne abbiamo parlato con Giulietto Chiesa nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

La russofobia occidentale non è un fenomeno nuovo. Quali sono le peculiarità della “russofobia 2.0 o Putinofobia”?

La russofobia risale ad almeno tre secoli fa, da quando esiste la Russia come grande Paese e questo dice già molte cose. La Russia viene vista come un avversario. La russofobia 2.0 è qualcosa di nuovo nel senso che è anche una forma di astio dei gruppi dirigenti europei e occidentali in genere nei confronti di una Russia che si credeva fosse ormai stata conquistata definitivamente e invece si rivela altra cosa da quelle che erano le nostre illusioni o speranze. C’è una sorta di rivincita dell’Occidente contro questa Russia incomprensibile.

Più che essere un ragionamento è una malattia. Una sorta di violenta ripulsa di ciò che è diverso da noi tanto più violenta quanto più i russi, a prima vista, sembrano uguali a noi. Sono uguali a noi. In questo sta il paradosso. E scopriamo spesso, in ritardo, con nostro disdoro e fastidio, che in realtà, sebbene siano così uguali a noi, sono anche molto diversi. Il tutto confluisce in questa specie di ripulsa che riguarda però solo i gruppi dirigenti o da quella parte costituita dagli opinion maker, cioè dai mass media. Non credo che questo sentimento sia molto diffuso, in Occidente, tra la gente comune, normale, piuttosto che sia un’operazione politica guidata dai gruppi dirigenti occidentali che vogliono tenere la Russia diciamo in disparte e usano tutti i mezzi a disposizione per farlo.

Quali sono i reali motivi alla base della character assassination alla quale la stampa occidentale ormai da anni sottopone Vladimir Putin?

Si usa il 2.0 in quanto qui c’è una differenza rispetto alle altre forme di russofobia della Storia. Adesso c’è un grande personaggio, di valore mondiale che può facilmente essere preso a bersaglio nel fuoco dei riflettori e accusato di tutte le nefandezze che servono per esemplificare il rifiuto dell’Occidente nei confronti della Russia. È accaduto altre volte, nel corso della storia, che la Russia schierasse personalità di grande calibro, ma Putin è questo 2.0, è il ventunesimo secolo che dimostra, indirettamente e involontariamente, che l’Occidente non è capace di accettare la Russia quale essa è.

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Nell’introduzione a Putinofobia Roberto Quaglia afferma che di solito i russofobi non sono consapevoli di essere tali. Da dove deriva questa fobia inconsapevole per la Russia?

In parte deriva dal fatto che l’Occidente non riesce a capire dove sta il problema, nel senso che guarda i russi e li vede uguali a sé stesso. Qui sta parte della verità. La loro cultura, come anche la letteratura, ha impregnato la nostra. Basti pensare a Tolstoj, a Dostoevskij…

Quando si va poi al contatto diretto di questo Paese, nella vita quotidiana, nel modo di pensare, di sentire il tempo e lo spazio, le dimensioni del pianeta… lo spirito dei russi è diverso da quello occidentale. E qui si arriva alla contraddizione. L’Occidente non capisce dove sta la differenza, che invece è molto semplice: la Russia non è solo Europa.

La Russia non è né prevalentemente europea né prevalentemente asiatica. Nel corso della storia è stata a volte più europea altre più asiatica. Ogni volta che diventa più asiatica l’Occidente inizia a perdere il controllo dei nervi.

Se la russofobia attuale è «una lente di ingrandimento» sulla nostra civiltà, lei che ci ha guardato profondamente attraverso cosa ha visto?

Ho visto che la Russia, se noi fossimo in grado di capirla, sarebbe uno straordinario ponte di comunicazione proprio per questa sua duplice essenza, europea e asiatica. È l’unico strumento che abbiamo noi europei per capire un po’ meglio l’Asia e il resto del mondo, che abbiamo colonizzato, ma ciò non vuol dire che lo abbiamo capito. Vuol dire solo che lo abbiamo vinto, conquistato, soggiogato.

La Russia può essere il tramite attraverso il quale l’Occidente può capire il resto il mondo. Ma l’Occidente questo non lo vuole, lo ha scartato da principio.

E io qui ho ampiamente attinto alla riflessione che faceva Arnold Toynbee nel suo purtroppo non molto famoso libro intitolato Il mondo e l’Occidente (Sellerio, 1992). Già il titolo è pieno di significati.

L’Occidente si è contrapposto a tutto il resto il mondo da quando è diventato “occidente”. Questo è il problema: l’Occidente sta aggredendo il resto del mondo. Non è capace di fare altro che aggredire anche la Russia. Per tre secoli, come dice Toynbee, l’Occidente ha potuto giovare di questa sua caratteristica, ma oggi, nel ventunesimo secolo, la tattica aggressiva non funziona più.

Stiamo assistendo all’inizio della fine di questi dominatori occidentali. Il che è molto grave, perché l’Occidente è anche il più armato. La tentazione di utilizzare la propria forza per continuare la dominazione diventerà sempre più concreta finché non vi sarà una riflessione di grande respiro culturale. Riflessione che, in verità, non vedo all’orizzonte.

Con il Madison Valleywood Project il governo americano vuole unire le forze di Hollywood e Silicon Valley per attuare una strategia contro l’Isis o per portare avanti la propaganda contro il nemico designato, in maniera analoga alle numerose azioni di cui si parla nel libro e messe in campo contro i russi?

Sarò più brutale. L’Occidente che si propone di fare ciò che dice lei è un sogno. Ignora il fatto l’Isis e il terrorismo islamico sono il prodotto dello stesso Occidente. Quindi tutte le strategie che vengono elencate per spiegare come questo è contro il terrorismo islamico sono in realtà delle fantasie che servono a manipolare l’opinione pubblica.

Il terrorismo islamico è un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando.

È un sistema largamente sperimentato nella storia di questo ultimo secolo e che ha sempre funzionato. Si usano, di volta in volta, dei capri espiatori che credono di lavorare per i propri interessi ma in realtà lavorano per “il re di Prussia”.

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L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetto in questo senso. Era il Comunismo sovietico il nemico mortale da combattere. Una volta abbattuto o suicidatosi, a seconda delle interpretazioni, l’Occidente è rimasto senza nemico. Ha proceduto per circa un decennio non solo senza nemici ma con un nuovo gigantesco alleato e vassallo e in pratica non è riuscito a spiegare, al resto del mondo, come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli.

Ha mostrato che il problema non è esterno all’Occidente, è interno, nel modello di sviluppo. Così nell’anno 2001 i dominatori dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America, hanno prodotto il mutamento di rotta della storia politica del mondo.

Hanno creato l’11 settembre del 2001 per mettere dinanzi agli occhi di tre miliardi di persone il nuovo nemico, cioè l’estremismo islamico.

Così è iniziata la guerra contro il terrorismo islamico che dura ormai da quindici anni. Sia il Presidente di allora, George Bush jr, sia il suo Ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, affermarono: «comincia una guerra che durerà 50 anni» e l’altro «durerà un’intera generazione». Questo era il piano: sostituire il terrore rosso con il terrore verde.

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Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Papa Francesco, e con lui tanti analisti, hanno parlato di una terza guerra mondiale combattuta in tutto il mondo senza un focolaio preciso. Siamo anche in una nuova versione della Guerra Fredda?

Io non parlo per conto terzi. Parlo per me stesso. Sono stato uno dei primi analisti al mondo a dire apertamente che stiamo entrando nella terza guerra mondiale. Quando si parla di questo non si può che riferirsi a una guerra atomica. Una guerra mondiale fatta a pezzettini non ha alcun senso, c’è sempre stata.

Durante la Guerra Fredda si sono combattute, per conto terzi, decine e decine di guerre locali che servivano per mantenere l’equilibrio tra le due potenze. Nel momento in cui è finito il bipolarismo ed è finita la Guerra Fredda, queste sono continuate ma non sono conflitti mondiali.

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Una guerra mondiale è lo scontro tra l’Occidente (Stati Uniti, Europa, Canada, Australia e pochi altri) e l’Asia. In questo senso l’Asia è tutto il resto il mondo. Solo che tutto il resto del mondo è impreparato a questo conflitto, lo sono solo gli Stati Uniti d’America e la Russia che dispongono del potenziale nucleare necessario.

Quando si scontreranno questi due Stati sarà lo scoppio della terza guerra mondiale. Ritengo sarà anche la fine dell’attuale civiltà umana. Ma molti non lo vedono perché non capiscono o non sanno qual è il carattere della guerra moderna, se lo sapessero non direbbero le sciocchezze prive di fondamento che dicono quando si parla di guerra diffusa e via discorrendo.

Il primo segnale di non-democrazia è il tentativo di ostacolare le opinioni divergenti. Possibile che gran parte della “massa democratica occidentale” non riesca a cogliere questo segnale nell’informazione dominante?

Purtroppo è possibile e reale. Nel libro precedente a questo, intitolato È arrivata la bufera (Piemme, 2015), spiego nel capitolo dedicato a Matrix cosa è già accaduto da quaranta-cinquanta anni a questa parte.

L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo.

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Ritengo realistico affermare che gran parte della popolazione vive dentro Matrix, dentro una prigione virtuale nella quale crede di essere libera, come accade appunto nel film, ma che è un universo irreale. Il mondo reale è altrove, fatto in un altro modo, è furibondo, feroce, senza tregua.

L’importante è non far capire alla gente in che situazione vive, lo capirà soltanto quando sarà il momento di finire tutti abbrustoliti. A quel punto molti se ne renderanno conto ma sarà un po’ tardi.

La grande massa della gente non sa nulla di ciò che la circonda. È stata bombardata da una miriade di proiettili che attraversano ogni secondo, ogni attimo della nostra vita e sono spesso non solo non percepiti e indolori ma addirittura piacevoli. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

La più grande arma costruita dall’Occidente per annichilire il senso comune, il buon senso, la razionalità, la solidarietà, la cooperazione, la consapevolezza della limitatezza delle risorse… tutto questo è stato cancellato dalla visione di miliardi di persone.

Parliamo di un’arma che spegne l’intelligenza e quindi, alla lunga, non potrà che produrre mostri. Come ci indica l’acquaforte di Francisco Goya: «il sonno della ragione genera mostri». L’Occidente è stato trasformato in un gigantesco formicaio di persone la cui ragione è stata addormentata.

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Lei paragona le inquietanti sensazioni che proviamo noi oggi, che viviamo un’epoca di grande cambiamento, a quanto devono aver provato i dinosauri. Siamo destinati all’estinzione?

Destinati no. Non credo in un qualche destino preordinato, è un qualcosa che forgiamo noi sempre, in un modo o nell’altro. Devo questa mia convinzione guarda caso alla lettura di uno straordinario romanzo russo, Guerra e Pace di Tolstoj, citato più volte in Putinofobia.

Noi popolo siamo protagonisti e, quando siamo in tanti, produciamo un movimento, un muoversi delle idee, delle correnti profonde della storia. Non esistiamo inutilmente. Esistiamo con la nostra forza fisica, con la presenza fisica e intellettuale.

Non credo ai complotti. La trasformazione in automi sta avvenendo ma non è il risultato di un complotto bensì della commistione tra l’informazione manipolata e il potere. E avviene in modo quasi automatico ormai. Il coordinamento dei nostri movimenti dall’esterno è avvenuto su un sesto della popolazione, che è l’Occidente. Il resto del mondo, secondo me, non è stato neanche minimamente scalfito da questo meccanismo.

Non credo che l’Occidente arriverà a dominare il mondo al punto che non ci possa più essere speranza. C’è ancora un grande movimento nel mondo. Non esiste un Nuovo Ordine Mondiale, non è mai esistito, esiste invece un “piccolo disordine occidentale”.

Riusciranno i popoli a organizzarsi e fermare la follia omicida e suicida dell’Occidente? Beh, la questione è aperta.

L’Occidente pensa di essere invincibile e questo è il suo tallone d’Achille. Se tale consapevolezza si farà strada in importanti settori intellettuali e dirigenti, sulla spinta di altri popoli non occidentali, noi potremo salvarci.

Noi europei non troveremo la soluzione del problema. Noi abbiamo creato il problema. Noi siamo il problema. Non credo potremo comprendere quanto sto dicendo in termini tali da modificare il corso delle cose che precipita verso lo scontro e cioè verso la terza guerra mondiale. Lo potremo fare solamente insieme agli altri popoli, alle altre culture, alle altre civiltà, alle altre religioni, alle altre tradizioni…

La soluzione la possiamo trovare solo tutti insieme. Chiunque progetti l’uscita da questa crisi, che è mondiale ed epocale, da solo, qui in Europa… beh si fa una grande illusione.

Se dovessi riassumere in poche parole, che restassero impresse nel lettore che legge Putinofobia, il senso di questo libro, direi: smettiamola di ritenere l’Occidente il centro del mondo. Non lo è più. Non perché sia buono o cattivo. Semplicemente non lo è più. Quanto più riusciranno a liberarci da questa idea tanto più potremo salvarci e preservare la nostra civiltà.

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Combattere l’Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

17 domenica Gen 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

La Storia, si sa, è fatta di cicli che si ripetono; Giambattista Vico li chiamava ricorsi. Ma quando sono gli errori a essere commessi ripetutamente cosa viene da pensare? Albert Einstein aveva etichettato come follia la propensione dell’uomo a fare sempre la stessa cosa aspettandosi ogni volta un risultato diverso.

Carlo Panella ne Il libro nero del Califfato, edito da BUR (Biblioteca Universale Rizzoli) ad aprile 2015, pone l’accento sugli errori commessi dall’Europa nel 1939 allorquando non capì la gravità del disegno progettato da Hitler e quelli, identici, commessi oggi nell’interpretazione del fenomenojihadista.

«Non rendersi conto che qualcuno ti fa la guerra per imporre la sua “cultura” è un errore. Errore ancora più grande è non capire perché ti vuole annientare».

Perché Hitler ci ha fatto guerra? Perché voleva annientare il popolo ebreo? Perché il Califfo ci fa guerra? Perché vuole annientarci? «Un abisso separa la nostra totale dimenticanza, la stupita ironia, il nostro scherno nei confronti dell’Apocalisse, dalla loro certezza che è immanente e imminente. Schiaccio il detonatore, mi uccido e uccido gli infedeli perché domani, tutti insieme, siamo chiamati al Giudizio Universale».

Il libro nero del Califfato è un testo che vuole focalizzare sulla centralità dello scisma islamico in atto nelle tragiche vicende che hanno visto coinvolto anche il territorio occidentale nei recenti attacchi di Parigi. Ne abbiamo parlato in un’intervista con l’autore Carlo Panella.

«L’Europa ha commesso gli stessi errori nel 1939 e ora li ripete»: il non capire che qualcuno ci combatte per affermare il predominio della propria civiltà e il non cogliere le ragioni per le quali qualcuno vuole annientarci. Cosa spinge il Califfo verso la volontà di annientare l’Occidente? E quali sono i termini di questa guerra di civiltà?

La ragione fondamentale alla base delle azioni del Califfato, come di tutti i movimenti jihadisti, è quella di conquistare potere politico ovunque, in particolare nelle zone che furono sottoposte al dominio islamico in passato, per imporre la legge divina, la sharia. È quello che sta facendo non soltanto in Mesopotamia e in Libia ma anche attraverso atti che noi, erroneamente, definiamo di terrorismo, come gli attentati di Parigi, e che invece sono solamente delle punizioni shariatiche per delle trasgressioni alla legge di Dio.

«Charlie Hebdo» per blasfemia, il Bataclan perché la musica, qualsiasi non solo quella occidentale, è proibita, colpiti bar e ristoranti per punire la promiscuità tra uomini e donne. Tutti segnali molto chiari che l’Occidente non interpreta anche perché abbiamo una visione “egoistica” del mondo. Pensiamo che loro ci vogliano fare paura o che siano dei terroristi. È scontato dire che vogliono farci paura, in realtà tutte le loro azioni mirano a far applicare la sharia.

Non rendersene conto vuol dire ignorare lo scisma religioso interno al mondo islamico. Non è tutto l’Islam ma un Islam scismatico quello che ci attacca. Che ci fa la guerra e quindi noi dobbiamo farla a lui. Farla sul serio però, non quello che l’Occidente sta facendo ora, ovvero bombardando in Siria e Iraq, ma andando a combattere sul terreno o comunque appoggiando chi sta combattendo. Non lo facciamo per varie ragioni ma principalmente perché l’Occidente non ha ideali, quindi non ha coscienza di sé stesso.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

Nel testo sottolinea gli errori del direttore della Cia, di Cameron, di Hollande e della Mogherini i quali affermano che il terrorismo non è Islam. «È Islam, invece: è uno scisma musulmano». Ci spiega i caratteri di questo scisma?

Brennan, Mogherini, Obama… pensano si tratti di una banda di criminali e la trattano come tale, una sorta di bounty killer, quando invece è uno scisma dei Saud e Muhammad al-Wahhab, un teologo islamico. Fece un’azione militare all’inizio dell’Ottocento andando a occupare La Mecca e Medina, si alleò con le tribù dell’Anbar, in pratica le stesse di oggi. È stato l’asse portante della rivolta indiana del 1857 e di quella sudanese del 1880 pur restando nell’ombra e riemergendo con forza durante la rivoluzione khomeinista. Perché l’elemento fondamentale di questo scisma è la pratica liquidatoria di tutte le dottrine idolatriche.

Loro ritengono che i cristiani e gli sciiti siano idolatri perché mentre loro hanno un solo Dio, questi adorano anche i santi o gli imam. Hanno questo atteggiamento persecutorio nei confronti degli idolatri, che verifichiamo anche in questi giorni in Iraq, mosso dalla volontà di venerazione di un unico Dio.

Non conoscere questi elementi, fare dei comodi appelli al bene contro il male o frasi del tipo non si uccide in nome di Dio è una difesa culturalmente miserrima che, ahimè, coinvolge anche il Papato che, peraltro, difronte alla persecuzione dei cristiani in atto da parte di questo movimento islamico, fa ben poco, nonostante le migliaia di martiri cristiani che questi scismatici uccidono ogni anno in tutto il mondo.

Come si colloca in questo scisma l’irrisolto conflitto israeliano-palestinese?

Una delle tante verità che ha spiegato questa vicenda è il fatto che la centralità del conflitto israelo-palestinese per sistemare il Medio Oriente era una bufala. Anzi spiega il contrario. Quanto sta avvenendo in Mesopotamia, in Yemen… in posti in cui mai c’è stato l’intervento occidentale, dimostra che la ragione per cui questo conflitto non si risolve non è in una dimensione di terra contro pace,come si è detto per decenni, ma in un non possumus di tipo islamico dentro, peraltro, questo scisma, per cui i palestinesi musulmani non sono disposti ad accettare l’esistenza dello Stato di Israele. Il tutto concretizzato dalla gestione fatta da Hamas.

Hamas e parte dello scisma non discutono minimamente della questione territoriale. Hanno avuto Gaza gratuitamente nel 2006 da Sharon, ma non fanno la pace con gli ebrei perché devono imporre la sharia su tutto Israele.

Il conflitto israelo-palestinese andrebbe risolto ma ciò non può avvenire perché nel mondo musulmano esiste da sempre il rifiuto della coesistenza tra uno Stato ebraico, uno Stato arabo e uno radicale e non a caso questo rifiuto inizia con una leadership religiosa, Haj Amin al-Husseini, il Gran Mufti di Gerusalemme alleato dei nazisti.

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L’altro grande nodo delle aspirazioni universalistiche dell’Islam è rappresentato dall’Iran. Ora che le sanzioni sono state revocate lei affermerebbe che la «deterrenza atomica per esportare la rivoluzione» ha funzionato?

Direi di sì. Sono riusciti a convincere le classi dirigenti occidentali della loro volontà di non destabilizzare il Medio Oriente nel momento stesso in cui con strumenti tradizionali lo facevano in maniera parossistica. In Iraq, in Siria appoggiando Assad, in Yemen, a Gaza, in Libano…

Gli iraniani non sono arabi, hanno delle èlite dirigenti estremamente raffinate, pongono all’Occidente il problema di una rivoluzione popolare vincente, hanno un’ideologia di morte basata sul martirio, di nuovo di tipo nazista, gestiscono il Paese in maniera autoritaria però l’incapacità di affrontare la situazione iraniana fa sì che l’Occidente chiami Rouhani affidabile riformista nonostante lo stesso premio Nobel Ebadi continui a dire che da quando c’è lui le condanne a morte in Iran sono duplicate. Assisitiamo al paradosso del riformista che duplica le condanne a morte formalmente per reati comuni, ma per la gran parte sappiamo tutti essere dovute a reati politici o di semplice dissidenza ideologica o verbale.

Contrapposto a quello wahabita c’è questo scisma khomeinista basato sulla ideologia del martirio e obbligo del musulmano di uccidersi per uccidere gli infedeli e, esattamente come per il fenomeno wahabita, non vogliamo prendere atto della radicalità culturale di questa ideologia autoritaria.

Lei ritiene che l’Occidente si rifiuti di comprendere «che queste migliaia di “John” sono uomini di fede» in quanto prenderne coscienza comporterebbe implicazioni terribili. Quali sono queste “implicazioni terribili”?

Affrontare il problema del consenso di massa che tutti gli inviati dicono… leggete cosa scrive Cremonesi sul «Corriere della Sera» intorno a Mosul. Ripete più volte: «La popolazione sunnita appoggia in maniera convinta gli uomini dell’Isis».

Dovrebbe bastare per rendersi conto che c’è un’adesione di massa a un’ideologia di morte, autoritaria e violenta, e ciò costringe a prendere atto che dentro l’Islam c’è uno scisma operante. E che questa parte scismatica, che uccide in nome di Dio, non viene contrastata a sufficienza se non con poche dichiarazioni verbali, proprio perché molti dei valori che i jihadisti difendono sono simili se non proprio uguali a quelli di gran parte del mondo islamico.

Elemento questo che non viene preso debitamente in considerazione, sfugge, si mistifica la realtà e si risponde in maniera meccanica con dei bombardamenti che, peraltro, non fanno che aumentare il consenso delle popolazioni civili colpite verso questa nuova forma di autoritarismo, non maggioritario ma di massa.

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In un altro passaggio del libro, definisce i terroristi islamici «simbolo di un male dell’anima che penetra in profondità persino nelle nostre metropoli». In cosa consiste questo male?

Noi non siamo figli di Set ma di Caino. C’è questo rifiuto dei contemporanei di affrontare di petto quello che è l’insegnamento non soltanto della Bibbia ma anche della mitologia greca: la propensione dell’uomo al male, all’assassinio, addirittura al fratricidio.

Ormai l’ideologia che gira, anche ad alti livelli della nostra cultura, è molto simile a quella delle Miss. «Vogliamo la pace nel mondo» è il corale desiderio espresso. Invece questa capacità di attrazione che ha una nuova ideologia di morte dentro un corpo religioso millenario pone dei problemi enormi per quanto riguarda la comprensione dell’uomo e della sua dimensione.

Problemi questi che sono contrapposti al politically correct, al mainstream buonista che pervade tutti gli ambienti della nostra cultura. Siamo difronte a una manifestazione del male dell’animo umano sviluppatasi ora in ambito musulmano, nel Novecento esplose in ambito europeo, che è inquietante e pone problemi drammatici.

Voi amate la vita, noi la morte è il messaggio che lanciano i jihadisti e questo alla nostra cultura, oltre che alla nostra sicurezza, pone dei problemi che si preferisce evitare.

Si sofferma a lungo nel libro sulle differenze tra Al-Qaeda, Isil e Califfato eppure tutte attirano «migliaia di giovani come falene». Perché? E perché l’Occidente stenta a capirne le motivazioni?

Al-Qaeda differisce dal Califfato per una ragione molto semplice: è essenzialmente una struttura organizzativa di tipo classico, non ha avuto la capacità di fare il salto di qualità che il Califfato ha fatto proclamandosi Stato e gestendo un territorio.

Attirano tanti giovani foreign fighter. Una grande capacità di attrazione di questa ideologia di morte che è dentro il corpus dottrinario dell’Islam. Il loro primo teologo di riferimento, Ibn Taymiyya, vissuto alla fine del 1200, sosteneva che il jihad è il sesto principio dell’Islam, più importante del Ramadan e della preghiera stessa. La loro sharia è identica a quella applicata in Arabia Saudita. I loro presidenti storici risalgono al 1800.

Da noi tutto questo viene frainteso, si fa finta che sia colpa nostra. Non c’entra niente l’Occidente. Questo non è un fenomeno di reazione a vere o presunte colpe dell’Occidente. È un fenomeno che nacque, all’interno del mondo musulmano, nel 1740 con lo scismawahabita, è diventato carsico per quasi un secolo e ora è riemerso con una capacità di attrazione di consenso che ebbe non soltanto il nazismo ma anche l’applicazione e la gestione della shoah. L’uccisione, lo sterminio di sei milioni di ebrei fu possibile perché c’era consenso in larga parte del popolo tedesco. Lo stesso fenomeno lo rileviamo oggi.

Quali sono stati i veri errori commessi da Bush e Blair nel 2003? E quanto si è rivelato efficace in realtà il cambio di strategia voluto da Obama?

L’errore fondamentale gravissimo compiuto da Bush e Blair nel 2003 è stato quello di sottovalutare la radicalità del conflitto tra sciiti e sunniti in Iraq e in Mesopotamia, il non aver compreso che questo elemento religioso era ed è centrale.

In Iraq è stato messo alla guida un personale tecnico-amministrativo che non aveva la minima idea di dove si trovasse e questo ha avuto conseguenze disastrose perché ha radicato, nella componente sunnita, un rifiuto totale dell’amministrazione americana e ha favorito l’impianto dei jihadisti. Ciò è stato in parte risolto dal cambio di strategia imposto dal generale Petraeus ma non ci sono stati comunque grandi risultati, a causa della disastrosa dottrina Obama. Il totale abbandono dell’area ha consentito la persecuzione dei sunniti da parte degli sciiti. Parossistica conseguenza di ciò è la caduta dei sunniti nelle braccia del Califfato.

Pur con gli errori detti, la politica di Bush ci ha lasciato in eredità l’unico alleato affidabile, il Kurdistan iracheno, mini-Stato democratico di fatto nascente e crescente, affidabile sia dal punto di vista politico che militare. Non a caso alleato dell’Italia che, giustamente, lo aiuta.

Il non-interventismo di Obama ci ha lasciato senza alleati, senza interlocutori e con un numero di morti civili che raggiunge la cifra di 300-400mila unità, tra Iraq, Siria e Yemen.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

Il 2011 è stato un anno di grande fermento nel mondo arabo, con le rivolte in Tunisia, Siria, Egitto. Quali sono stati i reali motivi, secondo lei? E in seguito cosa è successo durante i mesi di governo della Fratellanza Musulmana?

I motivi erano gli stessi della Rivoluzione iraniana del 1979. Dopo la decolonizzazione, i “cattivi imperialisti” hanno cercato di instaurare in tutto il Medio Oriente delle democrazie, subito destabilizzate da gruppi militari di provenienza filo-nazista, che si sono poi alleati con l’Unione Sovietica, che hanno instaurato dei regimi all’insegna della corruzione e dell’autoritarismo. Incapaci di fare fronte alle richieste di partecipazione e alle tensioni sociali che venivano soprattutto dai giovani.

Le Primavere arabe hanno avuto la capacità di abbattere dei regimi ma, quando si è trattato di gestire direttamente, hanno dimostrato che nel mondo arabo-musulmano non c’è una élite in grado di amministrare lo Stato e così sono andati al potere uomini dei vecchi regimi che hanno saputo riciclarsi.

Lei sostiene ne Il libro nero del Califfato che il vuoto di potere che è derivato dall’eliminazione del regime di Gheddafi in Libia ha contribuito alla «germinazione di terrorismo e jihadismo». Perché?

Non si è minimamente pensato, né nel momento in cui è stato fatto l’intervento né negli anni successivi, a quale potesse essere la gestione della Libia una volta battuto Gheddafi.

Si è fatto finta che sia stato ucciso da una rivolta popolare, il che non è vero in quanto Gheddafi è stato ucciso da forze militari della Nato, e si è lasciato il Paese nel caos con un livello di incompetenza e di non comprensione del territorio spaventosi, soprattutto a fronte dell’arretratezza delle classi dirigenti libiche.

Ora si è cercato di rettificare questo abbandono ma l’idiozia euro-americana nell’abbattere il regime di Gheddafi senza poi minimamente gestire le fasi successive credo andrà studiata nei secoli come manuale di quello che non va fatto in generale nel mondo.

Una lunga e saggia esperienza americana di Nation building nei Paesi in cui sono intervenuti sta ormai scemando verso un dilettantismo drammatico e tutto ciò crea terreno di coltura per la nascita e il radicamento dell’Isis e dei jihadisti.

Combattere l'Isis sul campo, le ragioni. Intervista a Carlo Panella

Nel 2006 fu lanciato l’anatema contro la rivista satirica «Charlie Hebdo» e nel gennaio del 2015 c’è stato l’attentato. Pochi giorni dopo, il 14 febbraio 2015, il Califfato minaccia l’Italia: «Prima ci avete visti su una collina della Siria. Oggi siamo a Sud di Roma… in Libia». Cosa dobbiamo aspettarci?

Dobbiamo aspettarci degli attentati. Tanto più perché facciamo guerra all’Isis. Fortunatamente finora la fase è stata quella di attentati fatti da volontari, islamici di seconda generazione che sono andati a cercare il jihad in Afghanistan, in Yemen o in Mesopotamia e poi sono tornati. Non abbiamo avuto alcun attentato per mano di una centrale operativa specifica creata ad hoc dall’Isis, ma questo passaggio verrà a maturazione a breve.

Non possiamo prevedere dove, se in Italia o in Inghilterra o altrove, ma di sicuro ci saranno attentati, anche perché, a differenza di Al-Qaeda, l’Isis ha una valenza anti-cristiana molto marcata.

Come si combatte il terrorismo?

Creando una rete di alleati nel campo avverso. La follia della gestione obamiana della crisi è tale per cui noi non abbiamo alleati.

Siamo alleati con gli uni e con gli altri, vogliamo fare la pace, far fare la pace a sciiti e sunniti, tra i khomeinisti e gli anti-khomeinisti. In Yemen Obama bombarda gli sciiti con i sauditi e in Iraq e Mesopotamia invece a essere bombardati sono gli alleati dei sauditi e ciò va a favore degli sciiti.

È un quadro parossistico, vergognoso che farà sì che questa crisi complessiva continuerà a svilupparsi fino a quando, finalmente, un nuovo o una nuova presidente non prenderà incarico nel gennaio 2017. Abbiamo davanti oltre un anno di tempo durante il quale questa crisi diventerà sempre più ampia.

http://www.sulromanzo.it/blog/combattere-l-isis-sul-campo-le-ragioni-intervista-a-carlo-panella

 

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirestein

29 martedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

A ottobre è uscito per Mondadori Il Califfo e l’Ayatollah di Fiamma Nirenstein, un libro che osserva «quello che abbiamo di fronte con gli occhiali dell’analisi e non con quelli dell’illusione» per cercare di capire cosa in realtà sia il terrorismo internazionale.

Il terrorismo si presenta agli occhi degli occidentali come un enigma, una sfinge, al punto che siamo stati persino «incapaci di darne una definizione sancita dall’Onu tanto alligna in noi l’incertezza sia sulla sua ragionevolezza sia su come combatterlo». Una situazione, quella medio-orientale, complessa e di difficile interpretazione per cui facilmente si cade nell’inganno del fraintendimento, come nel caso delle rivolte della Primavera araba, le quali mostrarono molti segnali della loro vera natura «che noi abbiamo ignorato del tutto nel nostro infinito egocentrismo».

Eppure sarà proprio da uno scenario tanto tragico quanto lo scontro fra sunniti e sciiti «che può nascere la speranza di una nuova stabilità». È questo il messaggio che vuol lanciare Fiamma Nirenstein con il suo libro, scritto per dimostrare che gli errori occidentali (sfruttamento, opportunismo legato al mercato petrolifero, colonialismo) comunque non legittimano il terrorismo né tantomeno ne sono la causa. Ne abbiamo parlato nell’intervista che, gentilmente, ci ha concesso.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

L’immagine che più colpisce all’interno del suo libro è quella dell’Occidente accerchiato da una tenaglia a due ganasce: l’ISIS sunnita e la Repubblica Islamica Iraniana di stampo sciita, entrambe accomunate però da un’aspirazione universalistica in nome dell’Islam. Al di là delle divergenze teologiche, cosa li accomuna?

Li accomuna il progetto di conquista del mondo intero e la volontà di convertirlo alla loro dottrina, l’Islam, anche se uno è sunnita e l’altro sciita.

Li accomuna poi la maniera con cui cercano di portare a compimento il progetto. L’assoluta mancanza di rispetto per i diritti umani che, come descrivo nel libro, si riscontra nelle azioni dell’Isis ma anche nella Repubblica Islamica Iraniana dove vige la shari’a.

Le azioni dell’Isis sono più visibili e più terrificanti ai nostri occhi ma la situazione è da film dell’orrore anche in tutto il mondo iraniano.

Entrambi inoltre hanno ambizioni imperialistiche. L’Iran ormai controlla il Libano, parte della Siria tramite l’assistenza ad al-Assad con l’aiuto degli Hezbollah, lo Yemen, l’Iraq… la sua aspirazione possiamo convenire che sia diventata, almeno in parte, una realtà. Mentre l’Isis ha fondato lo Stato Islamico che comprende una parte della Siria e una dell’Iraq, che tende a espandersi.

L’Isis lo fa in maniera più evidente, dichiarando di voler combattere contro l’Occidente e sottometterlo ai capi e all’ideologia islamista.

È lecito pensare a una futura alleanza tra Isis e Iran o almeno a un accordo, oppure prevarranno la controversia religiosa e l’impossibilità della convivenza tra due universalismi islamici che hanno la loro base in Medio Oriente?

Il terrorismo ha consentito già molte alleanze ai danni dell’Occidente. Basti pensare che si dice che Osama Bin-Laden, sunnita e fondatore di Al-Qaeda, si è nascosto a Teheran per un periodo. Hamas, sunnita, si è appoggiata per molto tempo all’Iran e parte dei suoi capi vivevano a Damasco.

Gli esempi da poter fare sono molti… Ora l’elemento guerra è più forte tra sunniti e sciiti perché c’è il campo di battaglia siriano che spinge in questa direzione. Ma sì, è relativamente realistico pensare a possibili alleanze.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Restiamo un attimo in Medio Oriente. Nell’epigrafe del libro, ringraziando Bernard Lewis, lei afferma che occorrono coraggio e sapienza per comprenderlo. Perché?

È evidente nell’odio irragionevole che caratterizza una parte dell’opinione pubblica, anche occidentale, nei confronti di Israele. Molto spesso si cercano delle scappatoie, la mente rifugge dal vedere le cose come stanno veramente. Inoltre ci vuole molto anticonformismo e tanto buonsenso, come quello che ci ha insegnato il professor Lewis, per non indulgere in fantasie che vedono l’Occidente colpevole e responsabile di chissà cosa nei confronti del Medio Oriente. Ciò non fa che allontanarci dalla comprensione della realtà, la quale è comunque molto complessa e di ardua interpretazione.

Troppe ancora sono le immagini stereotipate. Pensiamo alla figura di Yasser Arafat, da molti visto come un eroe che si è battuto per la libertà del popolo palestinese quando in realtà non è che l’inventore del terrorismo internazionale.

Troppe le cose che in fondo si finge di non capire, come il fraintendimento della Rivoluzione Islamica Iraniana considerata una rivoluzione sociale dovuta alle terribili condizioni in cui era stato ridotto l’Iran. Nessuno era in grado di leggere i testi di Khomeini, in cui si spiegava chiaramente quale era il disegno perseguito, ovvero la creazione di uno Stato Islamico Integralista. Soltanto Bernard Lewis, che conosceva il persiano e che aveva letto quei testi, sapeva con precisione cosa stava accadendo.

Occorrono conoscenza, pazienza, capacità di discernimento, intento e buona volontà per sbrogliare la Storia dai nostri pregiudizi.

«Il Medio Oriente e l’Africa si prendono la loro vendetta per essere stati tanto incompresi». Si tratta solo d’incomprensione o è anche il frutto di politiche occidentali non proprio attente alle conseguenze?

Certamente ci sono state delle politiche occidentali di sfruttamento, di opportunismo legato al mercato petrolifero, di colonialismo… guai a dimenticarsene. Ma ciò di certo non legittima il terrorismo.

L’intento del mio libro è proprio dimostrare questo, cercare di spiegare i motivi di quanto accaduto a Parigi, attentati non legati al fatto che l’Occidente è o è stato colonialista, bensì motivati dall’intento imperialista che il terrorismo nutre a sua volta. E non sono animati né da ragioni sociali né da ragioni storiche, solo da una spinta ideologica. I terroristi sono mossi da una volontà religiosa di dominio.

In Israele accade la stessa cosa. Il terrorismo che c’è nello Stato non ha nulla a che vedere con lo scontro territoriale, altrimenti si sarebbe già giunti a un accordo. Una proposta che prevede due Stati per due popoli fatta decine di volte, a cui io personalmente sono favorevole. Ma gli estremisti hanno un’altra idea, ovvero che Israele deve appartenere solo alla umma musulmana e che gli ebrei se ne devono andare.

Cosa significa oggi per il Medio Oriente trovarsi in balia dell’Isis e della minaccia atomica dell’Iran? Si tratta davvero di un conflitto interno al mondo mediorientale, come ritengono alcuni, oppure l’intervento dell’Occidente è ineludibile e necessario?

L’Occidente non deve combattere solo per intervenire nello scontro tra sunniti e sciiti, ora più evidente che mai, ma deve farlo soprattutto per difendersi.

Siccome il disegno di entrambe le fazioni è imperialista e il mezzo che hanno deciso di impiegare è il terrorismo, è chiaro che noi o restiamo vittime del terrorismo oppure dobbiamo difenderci. Se ciò si tradurrà poi nello andare boots on the ground, come si dice “con gli stivali sul terreno”,o meno è solo una questione tattica non strategica. Una cosa è certa: c’è da combattere e da difendersi.

Si tratta di fare una guerra difensiva, di necessità, senza alcun carattere imperialista. Noi occidentali, siccome abbiamo avuto le terribili esperienze delle guerre mondiali, siamo molto restii a questo, giustamente. Rimane sempre un dubbio, un sospetto sulle intenzioni… la paura del riaffacciarsi delle guerre di conquista. Ma ora non si tratta di questo.

Il mondo è punteggiato, in maniera sempre più virulenta, da attentati terroristici che ormai coprono tutta la carta geografica e l’intenzione viene dichiarata continuamente dall’Isis. Da parte dell’Iran è meno esplicita ma tutti gli studi e tutta l’esperienza confermano la minaccia.

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Banche, pozzi petroliferi, finanziatori stranieri, acquisto di armi dall’Occidente, una casa di produzione (Al-Itisaam establishment for the Media Production), una casa cinematografica (Al-Hayat Media Center) e una società di comunicazione (Al-Furqan): più che un gruppo terroristico, l’Isis sembra una holding della guerra santa. Le sembra esagerata una tale lettura?

No, lei dice benissimo. Le cifre di cui l’Isis gode, per finanziare il proprio progetto, sono enormi. Centinaia di migliaia di dollari di budget. Questa è infatti una grande differenza rispetto ad altre organizzazioni, quali Hamas. L’Isis non dipende da donazioni, ha dato vita a un sistema di guadagno che va dalle rapine alle richieste di riscatto, al commercio di opere d’arte, occupa territori dove ci sono pozzi petroliferi importanti e vende petrolio.

In Iran, d’altra parte, proprio mentre noi parliamo cadono le sanzioni, daranno al Paese centinaia di migliaia di dollari e non abbiamo alcuna garanzia che tutto questo denaro non venga poi impiegato per progetti antagonisti innanzitutto a Stati Uniti e Israele, indicati come il grande e il piccolo Satana. Definizione mai smentita, anzi più volte ribadita da Khamenei sia durante che al termine dellaTrattativa 5+1.

Inoltre una Commissione apposita istituita dagli americani, di cui sono stati pubblicati i risultati pochi giorni fa, ci dimostra che tutte le condizioni dell’Accordo ancora non sono state poste in essere. L’Iran doveva mantenere solo 3000 centrifughe di vecchia costruzione e invece ha ancora centrali di ultima generazione che in breve possono produrre uranio arricchito necessario per una bomba, non ha ancora liquidato le sue riverse di uranio, non ha distrutto le fabbriche di plutonio arricchito… e l’elenco è ancora lungo, lo si trova facilmente anche nel mio libro.

Lei sostiene che dobbiamo guardare all’Isis «come all’affacciarsi su di noi di un’apocalisse in senso tecnico», con gli attentati che rispondono a una strategia ben precisa che lega insieme terrorismo e propaganda. Insomma, una guerra vera e propria?

Sì, la si può considerare una guerra non convenzionale vera e propria. C’è un uso spietato dei civili, l’impiego dei mezzi di comunicazione di massa contemporanei, come i social network, sia per diffondere informazioni che per trovare adesioni.

Purtroppo funziona. Basti guardare ai giovani foreign fighter che scelgono di arruolarsi tra le loro fila, non per motivi sociali, molti di loro hanno studiato, hanno famiglie che li amano, hanno un lavoro… sono mobilitati, vittime di malattie ideologiche esattamente come noi occidentali lo siamo stati nel secolo scorso, pensiamo al Nazismo, al Comunismo…

Dobbiamo ammettere di trovarci di fronte a una malattia ideologica e affrontarla come tale, oltre che con le armi, altrimenti non riusciremo a vincere.

Un esempio molto importante è quello palestinese. Si parla sempre della loro volontà di creare un proprio Stato, se ciò fosse vero l’avrebbero fatto da tempo. Tante volte gli è stata offerta questa possibilità. Ciò che li spinge, come si vede anche durante l’ultimaIntifada definita dei coltelli, è un’incredibile macchina della propaganda. Consiglio di visionare il materiale che si trova sul sito Palestinian Media Watch per vedere tutto quello che viene trasmesso dai media palestinesi, altrimenti non si comprende questa macchina dell’odio che spinge tanti giovani ad accoltellare, a investire con le automobili…

La minaccia islamica, tra Isis e Iran. Intervista a Fiamma Nirenstein

Nel suo libro, c’è un’altra immagine che colpisce molto, quando paragona la paura del Vecchio Continente a quella «avvertita quando l’immortale Impero romano ha cominciato a sgretolarsi». Fino a che punto possiamo parlare di sgretolamento del Vecchio Continente?

Possiamo far cominciare lo sgretolamento del Vecchio Continente, ma in realtà di tutto l’Occidente, da quando l’Onu ha cambiato completamente la sua natura.

All’interno delle Organizzazioni Unite si sono formate delle maggioranze legate prima all’Unione Sovietica, quella dei Paesi denominati “non allineati” e dei Paesi arabi e musulmani in generale, che hanno completamente rovesciato l’idea originaria dell’Onu. Nata in seguito agli orrori della seconda guerra mondiale avrebbe dovuto combattere per la difesa della libertà, per la promozione dei deboli e delle donne, per l’uguaglianza dei cittadini e per la diffusione di tutte le idee, indipendentemente da chi appartenessero. È accaduto l’esatto contrario. Tutti i nostri valori sono stati minati da un’organizzazione internazionale che ha cominciato palesemente a combatterli.

Da presenza compatta e morale in difesa della libertà e della democrazia siamo diventati una comunità incerta e impaurita, con un fortissimo senso di colpa legato al continuo fraintendimento e stravolgimento delle proprie idee da parte avversa.

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© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

10 giovedì Dic 2015

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Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

È innegabile che, dopo la strage al Bataclan, siamo scesi in guerra.

Ma chi è il nostro nemico? Qual è il suo scopo? E quello di chi lo combatte? Come si vince la guerra contro il terrorismo? Quali sono i principali errori commessi dall’Occidente? Domande che è opportuno porsi e risposte che potrebbero anche lasciare increduli o irritare ma che è giusto conoscere.

Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista esce domani, 11 dicembre, per Mondadori, scritto a quattro mani da Franco Cardini, docente di Storia Medievale alla Scuola Normale di Pisa, saggista e studioso dei rapporti tra il mondo cristiano euromediterraneo e l’Islam, e da Marina Montesano, docente di Storia Medievale all’Università di Messina, studiosa di storia della cultura medievale e dei contatti tra Oriente e Occidente letti attraverso le fonti della storia delle crociate e del pellegrinaggio.

Poche settimane di lavoro sono bastate a Franco Cardini e Marina Montesano per raccogliere e riunire per iscritto tutti gli errori commessi e le idiozie pensate o dette riguardo quanto sta accadendo e rischia di trascinare tutti nell’ennesima carneficina voluta dagli uomini per “salvare il mondo (occidentale) e condurlo alla pace”.

Proprio di tali errori abbiamo parlato con Franco Cardini, in quest’intervista rilasciata in anteprima a Sul Romanzo, pochi giorni prima dell’uscita di Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori contro il terrorismo islamista.

Fin dal titolo, una presa di posizione molto netta. Quali sono le idiozie e gli errori più comuni e pericolosi che l’Occidente sta commettendo nei confronti del terrorismo islamista?

Ve ne sono di più tipi. C’è quella dei politici e dei capi di Stato ad esempio, che in linea di massima fingono di non capire, o non capiscono, che siamo davanti a un movimento politico, che è quello jihadista, che non ha nulla di religioso a parte qualche slogan, che vuole l’unione di tutti i musulmani per combattere l’Occidente.

Ci troviamo dinanzi a un postulato ideologico che sembra fatto apposta per attaccare un ambiente che si sta proletarizzando. L’Islam conta un miliardo e seicento milioni di persone, la maggior parte delle quali appartiene a ceti sociali bassi, sia culturalmente sia economicamente, ma che comunque guardano allo sviluppo europeo. Che hanno presente, seppur in modo molto schematico, le ragioni per cui il mondo occidentale è diventato ricco e si è diffuso con la sua potenza, non soltanto per la forza delle sue invenzioni e delle sue scoperte, ma anche per il sistema coloniale, che è stato un sistema di sfruttamento.

Difronte a questa realtà non si può reagire combattendola come fosse uno sbocco di violenza irrazionale, non si riuscirà a vincere con gli aerei, con i droni o con le truppe di terra.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Perché secondo lei si continuano a impiegare questi metodi indicandoli come risolutivi?

Le potenze occidentali e anche il mondo musulmano alleato delle prime, soprattutto le monarchie del golfo Persico e della penisola arabica, non riescono a mettersi d’accordo. Questo sarebbe già un elemento di stupidità se non venisse anche il sospetto, e nel libro si parla pure di questo, che in realtà non si combatte questo nemico perché tutto sommato non è tale ma fa comodo a qualcuno.

Da un lato c’è la difficoltà dei politici, il loro impantanarsi in dichiarazioni di guerra totale al fenomeno jihadista, che appaiono molto ferme ma non lo sono affatto. Ricordiamo che la coalizione contro il cosiddetto Stato Islamico non è invenzione recente, non è nata dopo l’attentato di Parigi del 13 novembre, è in piedi da un anno e mezzo.

Così una coalizione composta dalle principali potenze occidentali, inclusi noi anche se siamo il fanalino di coda, dai Paesi arabi-musulmani (Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, Egitto…), compresi Paesi musulmani che non sono arabi, come la Turchia, non ha fatto niente se non impantanarsi in questioni particolari come il caso della Siria.

Cos’è successo in realtà in Siria?

Intorno alla questione siriana è sorta una ferocissima polemica soprattutto in merito al fatto che il presidente Assad resti in carica o si ritiri. Quanto accaduto è dovuto alla grave mancanza di previdenza e intelligenza dei politici… Assad aveva proposto da tempo una riforma costituzionale in Siria che avrebbe portato alle elezioni sulla base di un pluripartitismo. Ebbene la sua proposta non è stata accettata, le potenze occidentali l’hanno ritenuta strumentale e demagogica, quando in realtà sarebbe stato un modo per pacificare, almeno temporaneamente, il Paese e andare a libere elezioni. Ora la Siria è inquinata da forze jihadiste aderenti all’ISIS che hanno in pratica fagocitato tutte le altre formazioni anti-Assad.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Qual è stato il ruolo, se ne hanno avuto uno, dei media internazionali?

I media continuano a non informarci correttamente, parlando un linguaggio per un verso allarmistico e per un altro molto generico. Lasciano intendere che tutto l’Islam è pericoloso, il che non ha il minimo fondamento.

Nel mondo islamico ci sono continue lotte: quelle tra i gruppi religiosi, gli sciiti e i sunniti, e poi tra Stati musulmani, che spesso non si limitano all’aspetto politico diventando veri e propri scontri militari.

I nostri mass media continuano a non informarci di tutto ciò, mostrando invece una sorta di colata lavica che sta avanzando e che può travolgere l’Occidente. Sembra tutto studiato per generare in noi apprensione, disorientamento, per indurci ad azioni inconsulte. E a ben riflettere ciò è proprio quello che vogliono le centrali terroristiche. Se ci lasciamo terrorizzare facciamo il loro gioco. Non capire una cosa così semplice è da idioti.

In quest’ottica, come valuta la reazione del governo francese ai recenti attentati che hanno colpito Parigi?

Lascia senza parole la reazione inconsulta del presidente Hollande. Se ne capisce purtroppo la logica politica ma questa è un’aggravante.

Non si reagisce a una cosa grave come quelle accaduta in territorio francese, fatta da cittadini francesi o belgi che tali restano anche se di fede musulmana, con un’azione unilaterale di bombardamento indiscriminato su un centro urbano, anche se poi hanno sostenuto di aver ucciso solo terroristi, non si capisce bene sulla base di quali fonti o risultanze.

Bombardando un centro urbano non si uccidono solo militari (i terroristi si comportano come tali) ma anche la popolazione civile. Ora noi non siamo in guerra con Raqqa, una città che dipende formalmente dal governo iracheno, un Paese alleato, amico. Noi italiani stiamo addestrando l’esercito e la polizia iracheni. Raqqa è occupata dalle forze dello Stato Islamico, tenuta in ostaggio da una banda di briganti, e non si possono bombardare dei civili che oltretutto sono già delle vittime.

Hollande è presidente di un Paese, la Francia, che fa parte dell’ONU e dell’Unione europea e non può procedere unilateralmente solo sulla base di un bisogno di fare una rappresaglia che, se proprio la vogliamo chiamare col suo nome, è una vendetta, consumata però ai danni di persone del tutto innocenti rispetto a quello che è successo a Parigi.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Quali saranno le dirette conseguenze di queste azioni?

Regalare simpatie al Califfo. Mettiamoci nei panni di una persona a cui sono stati ammazzati dei famigliari a causa dei bombardamenti fatti dall’aviazione di un Paese che sostiene di essere nemico dello Stato Islamico. Le simpatie dei superstiti penderanno sempre più per il Califfo, e ciò è proprio quello che lui vuole.

Prima ha parlato delle influenze della disinformazione. Queste, unitamente alle azioni dei governi, quanto vanno a incidere sull’opinione pubblica?

Non si può spargere disordine, paura indiscriminata, apprensione. È un’idiozia. Equivale a fare il gioco dei terroristi.

Gli operai musulmani picchiati, le facciate delle moschee sporcate con sangue di maiale, le famiglie che rivendicano la tradizione del presepe in odio ai bambini musulmani… Io sono invecchiato sentendo la storia, che annualmente si ripete, di qualche famiglia che protesta per il presepe nella scuola, ma a ben guardare è sempre stato uno scontro tra italiani, i musulmani non hanno mai detto nulla in proposito.

L’Islam considera Gesù un grande profeta e ha una forte venerazione per la Madonna. I musulmani non hanno alcun preconcetto, sono alcuni italiani che portano avanti campagne per una scuola laica o, per contro, azioni motivate dall’intenzione di ferire l’altro che deve essere un nemico per principio.

Come si combatte il terrorismo?

Senza dubbio c’è un pericolo ma, da che mondo è mondo, il terrorismo non lo si batte con i bombardamenti. Lo si fa con l’intelligence, con l’infiltrazione, individuando i centri terroristici, distruggendo alle radici le ragioni per cui qualcuno potrebbe decidere di andare a fare il terrorista.

Ci sono ragazzi che vanno a fare i soldati col Califfo che sono stati allevati da noi, con i nostri valori… sono drogati, spaesati, marginalizzati, si può dire tutto ma bisogna pur chiedersi perché a un certo punto la nostra società li delude talmente da spingerli a unirsi a una banda di tagliatori di teste.

Il Califfo è un nemico che si riuscirà a sconfiggere?

Si riuscirà a batterlo. Insomma il Califfo ha una cinquantina di migliaia di persone al suo seguito, non di più. Certo sono ben armati, sono ben addestrati e bisogna interrogarsi su chi gli dà i soldi per finanziarsi.

Una delle ragioni per cui i turchi hanno abbattuto l’aereo russo sembra riconducibile al fatto che la Russia fosse sul punto di bombardare un convoglio di petrolio pompato dal Califfo che si stava dirigendo verso la Turchia.

In una situazione internazionale come la nostra, nella quale ogni cosa è costantemente monitorata, tutti i movimenti di conti, anche di importo non particolarmente rilevante, sono controllati, ebbene in questo sistema dovremmo credere al racconto che non si riesce a individuare la fonte finanziaria alla quale attinge il Califfo?

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

C’è chi teme che nei prossimi decenni vi sarà una lenta e inesorabile islamizzazione del continente europeo. Che cosa ne pensa e cosa direbbe ai sostenitori di questa ipotesi?

Noi cristiani d’Europa, pur non avendo una forte identità religiosa, siamo cinquecento milioni di persone abbastanza ricche nel complesso, o comunque in rapporto alla media islamica. I musulmani che per il momento sono tra noi, considerando quelli che arrivano e quelli che si convertono, ammontano circa a una decina di milioni di persone in tutta Europa. Quelli che paventano queste teorie qualche calcolo lo hanno mai fatto?

Inoltre bisognerebbe chiedersi: con quali strumenti ci convertirebbero? Io vedo le moschee che sono molto modeste, spesso non gliele facciamo neanche aprire. I loro giornali sono altrettanto modesti. Non hanno un’università…

Capirei che qualcuno avesse paura di essere colonizzato dai protestanti, che hanno moltissimi mezzi. Dagli ebrei, che sono pochi ma hanno molti mezzi e sono molto colti. Io non ho mai visto alcun accenno di colonizzazione da parte degli islamici.

Ritornando alla Turchia, lei ritiene possa essere visto come un Paese-ponte fra Occidente e Oriente oppure un tentativo mal riuscito di integrazione di un territorio di pace fra Cristianesimo e Islam?

La Turchia è un Paese che si è fortemente occidentalizzato, anche in maniera autoritaria. Già nell’Ottocento scelte fatte da sultani andavano in questa direzione, poi c’è stata una grande rivoluzione europeizzatrice condotta da Mustafa Kemal Atatürk.

In questo momento c’è una situazione di reflusso e anche di simpatie islamistiche, per un verso di volontà di riforma nei confronti delle tradizioni musulmane e per l’altro proprio di inclinazioni a favore dello Stato Islamico.

Erdogan, che certo non nutre simpatia verso l’IS, è un politico che ha ricevuto vantaggi dal cauto ritorno a una condizione nella quale la fede islamica ha più peso rispetto al passato. In questo momento, non ha più tanto interesse a entrare in Europa come un tempo. Le sue richieste furono bocciate e gli fu addirittura chiesto di condurre delle prove di lealismo verso l’Europa. Noi abbiamo abolito la pena di morte mentre in Turchia ancora c’è, però l’UE si sente parte dell’Occidente e noi sappiamo che Paesi occidentali mantengono la pena di morte, gli Stati Uniti d’America, per esempio, dove viene applicata piuttosto spesso. Per cui si poteva anche venire incontro a questo processo di europeizzazione della Turchia, che era sincero. Non lo è altrettanto adesso, perché il clima è cambiato.

Erdogan ora ha altre possibilità: ha davanti a sé il mondo musulmano in crescita, è diventato, insieme ad altri Stati quali l’Egitto e l’Arabia Saudita, uno dei principali Paesi musulmani sunniti del mondo, ha davanti a sé anche la possibilità di attrarre Paesi musulmani sunniti del centro dell’Asia che hanno una forte componente etnica turca. Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan, Kyrgyzstan… grandi produttori di petrolio e di materie prime, verso i quali Erdogan sta facendo una politica di fratellanza etnica volta alla creazione di un potenziale mercato comune. Ovvio poi che ciò lo mette in rotta di collisione con la Russia, ma questi due Paesi sono geo-politicamente destinati a essere nemici.

In questa fase, a Erdogan l’Europa sta stretta, magari è interessato a rimanere nella NATO che attualmente è un’organizzazione paralizzata da una buona dose di ambiguità nei confronti dello Stato Islamico.

La Francia tende a risolvere principalmente la questione siriana eliminando Assad, altri Paesi NATO non sono dello stesso avviso, molti Stati membri ritengono che tra l’IS e alcuni Paesi arabi nostri alleati ci siano dei rapporti. Non si osa dire che c’è un rapporto di amicizia, di collaborazione o di complicità ma questo è nelle cose perché molto probabilmente tra la compagine dello Stato Islamico e quella dell’Arabia Saudita, del Qatar e della stessa Turchia ci sono delle relazioni anche a livello governativo.

Lo stiamo vedendo: se i Paesi occidentali della Nato lo volessero davvero, il Califfo sarebbe spazzato via in pochi giorni.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Cosa andrebbe fatto?

Tanto per cominciare ci vorrebbe una campagna di terra. E proprio su questa gli Stati membri non trovano un accordo.

Erdogan sostiene che sarebbe pronto a farla. Noi sappiamo perché la vuol fare: il suo esercito passerebbe dalla Siria e dal Kurdistan, sistemerebbe secondo gli interessi turchi questi Paesi e poi arriverebbe al Califfo e, a quel punto, chissà cosa farebbe. Naturalmente non possiamo permettere che ciò accada. D’altra parte non si può attaccare il Califfo se non con forze musulmane sunnite, perché questi tiene a presentarsi come il più puro rappresentante dell’Islam sunnita. Attaccandolo con un esercito di soldati musulmani sunniti si dimostra al mondo islamico che non è lui il puro rappresentante dell’Islam sunnita.

Il fatto è che queste forze musulmane noi non le abbiamo e Erdogan non vuole mettercele a disposizione, lo stesso vale per il presidente egiziano. Inoltre sono pochissime. Il Maghreb africano non si vuole impegnare. E allora noi con chi la vogliamo fare questa campagna di terra contro il Califfo? Con gli occidentali che lui chiama crociati? Oppure con gli iraniani? È proprio quello che il Califfo vuole. Essere attaccato dagli occidentali e dagli iraniani per dimostrare all’Islam sunnita che lui è il miglior sunnita del mondo, il più degno di esserne il capo, attaccato dai crociati cristiani e dagli eretici sciiti iraniani.

E le campagne aeree?

Batterlo solo per via aerea non è possibile, in quanto le forze del Califfo non sono tante e per poter attaccare efficacemente un’armata militare piccola in un territorio enorme bisogna prima farla concentrare e per fare ciò occorre un’azione di terra. Altrimenti si uccidono solo dei civili inermi, come è già accaduto e sta ancora accadendo purtroppo in Afghanistan.

Il Califfo, evidentemente, ha forti intelligenze in molti Paesi dell’Occidente e dell’Islam sunnita. Per questo continua a sopravvivere. Costituisce di sicuro un pericolo nel vicino Oriente ma va fatto un discorso diverso, in quanto il Califfo non organizza direttamente attacchi terroristici che invece partono da cellule autonome. Se poi queste forze autonome lavorano nella sua direzione e fanno attacchi terroristici efficaci il Califfo se ne appropria, ci mette il suo marchio, come un franchising, dando così l’idea di avere una forza territoriale nel vicino Oriente compatta e un’altra terroristica diffusa in Europa. Ma si tratta solo di un errore visuale ottico.

Gli errori occidentali contro il terrorismo islamista. Intervista a Franco Cardini

Eppure è proprio questo errore ottico a spaventare maggiormente l’Occidente. Perché?

È un altro esempio di idiozia il non capire la trappola mediatica nella quale entriamo quando crediamo che il Califfo sia il grande burattinaio del terrorismo europeo.

Il Califfo semplicemente si serve di un terrorismo europeo che è endemico, spontaneo, indipendente da lui che non ci mette un soldo, non ci mette nemmeno uno dei suoi uomini, non fa progetti, lascia che questo terrorismo generi da solo e chiaramente sta riuscendo nel suo intento.

http://www.sulromanzo.it/blog/gli-errori-occidentali-contro-il-terrorismo-islamista-intervista-a-franco-cardini

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l’ultima grande utopia del Novecento

03 giovedì Dic 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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GuerinieAssociati, intervista, Lultimautopia, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, RenzoGuolo, saggio, terrore, Terrorismo

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Gli attentati di Parigi del 13 novembre hanno richiamato, con maggiore forza, l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica sulla questione dei foreign fighter. Cittadini europei o immigrati di seconda generazione che scelgono di abbracciare l’Islam più radicale e combattere per lo jihad, addestrati in campi allestiti in Medio Oriente, spesso ritornano in Europa e il motivo si teme possa essere la realizzazione di attentati kamikaze.

Lo stesso commando responsabile degli assalti di Parigi era composto da nove persone, di cui sei cittadini europei. Allora in molti si chiedono quale sia l’utilità della chiusura delle frontiere auspicata da alcune forze politiche come deterrente all’ingresso in Europa di stranieri considerati potenziali attentatori. Altri invece cercano di focalizzare l’interesse sui foreign fighter perché rappresenterebbero quest’ultimi il reale pericolo da cui difendersi.

Chi sono i foreign fighter? Da dove provengono? A quali ceti sociali appartengono? Perché scelgono di convertirsi all’Islam radicale? Davvero questo rappresenta l’ultima grande utopia del Novecento?

Abbiamo rivolto queste domande a Renzo Guolo, docente di Sociologia della politica e Sociologia della religione presso l’Università degli Studi di Padova e di Sociologia dell’islam nel Master di Studi sull’Islam d’Europa, oltre che autore di L’ultima utopia. Gli jihadisti europei (Guerini e Associati, 2015).

Il dibattito attuale sull’Isis, anche a seguito degli attentati del 13 novembre a Parigi, si sofferma spesso sul fenomeno dei foreign fighter, a cui è dedicato il suo saggio L’ultima utopia. Cos’attrae dell’Islam radicale al punto da decidere di andare a combattere per la sua affermazione? È solo la mancanza di ideologie forti in Occidente?

La dimensione ideologica è un elemento rilevante, conferma il fatto che tra i cosiddetti foreign fighter abbiamo un profilo sociale e culturale molto diversificato. Troviamo giovani che provengono dalle banlieue parigine o da Molenbeek, come nel caso degli attentati di novembre, con situazioni di marginalità sociale alle spalle ma anche giovani che provengono da ceti medi. L’ideologia offre loro una sorta di senso che probabilmente dentro al mare fluttuante della modernità liquida non riescono a trovare. Per cui, in condizioni particolari quali il malcontento per la modernità o per la marginalità, questa ideologia che promette di sovvertire e combattere l’ordine mondiale può apparire un elemento che attrae, che dà una forte identità in situazioni in cui queste persone sembrano averne bisogno.

Nel delineare un identikit dei foreign fighter europei, lei nota una trasversalità di fondo che rende difficile stabilire delle caratteristiche fisse, ma ne individua due comuni: sono in prevalenza giovani e diventano musulmani sunniti. Perché l’integralismo islamico riesce a far presa in modo così forte sui giovani europei?

Parliamo di immigrati di seconda generazione per i quali il bagaglio religioso è considerato o un mero elemento culturale o comunque qualcosa di diverso dall’Islam tradizionale, per cui quando decidono di ritrovarlo come ideologia mobilitante imboccano la via del radicalismo proprio per la sua messa in discussione finanche della religione stessa. Per questo tipo di militanti lo jihad è quasi una sorta di sesto pilastro dell’Islam ma se si va a vedere la dottrina islamica non c’è alcun obbligo del credente rispetto a questa dimensione. È evidente che la religione viene vissuta non più come tradizione ma come sostegno alla mobilitazione politica. Il 90% del mondo islamico è sunnita e il radicalismo islamico si è sviluppato, così come noi lo conosciamo ovvero nella forma dello jihadismo, al suo interno, mentre nel mondo sciita di fatto è diventato Stato con la Rivoluzione iraniana del 1979. Anche nel campo dell’Islam politico-radicale in sostanza sono state riprodotte le fratture confessionali antiche.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Tra i foreign fighter in Siria e in Iraq spiccano anche immigrati di seconda generazione. A quale loro esigenza, che non trova riscontro in Occidente, potrebbe rispondere l’Isis? Si può parlare di un’integrazione mancata?

Sì, l’integrazione mancata è un elemento chiave. Lo vediamo attraverso i percorsi per gli immigrati di seconda generazione per esempio nei sobborghi metropolitani londinesi oppure nelle banlieue francesi. Un’integrazione mancata è evidente nel grande percorso che è stato fatto nel tempo dai giovani di banlieue se pensiamo al Movimento di rivolta della fine degli anni ’80. Rompevano le vetrine e si appropriavano dei beni e, paradossalmente, chiedevano l’integrazione attraverso il consumo. Oppure ancora nella rivolta nelle periferiedel 2005 contro l’idea francese dei valori universali veicolati del modello assimilazionista. Testimonianze tutte del fatto che il processo di integrazione si era fermato.

L’Isis è riuscito, facendosi Stato, a mostrare l’Islam radicale come ultima ideologia capace di sovvertire lo status quo appena descritto. E questi ragazzi hanno maturato una sorta di nichilismo religioso con l’idea di distruggere tutto, rovesciare un ordine in cui non ci si può più riconoscere per cercare di instaurarne un altro.

Per comprendere gli accadimenti e le scelte compiute dai foreign fighter lei suggerisce di ampliare il raggio di azione degli studi verso l’analisi del concetto di radicalizzazione e non fermarsi ai risultati delle osservazioni sul terrorismo. Quali sono i punti sostanziali su cui bisogna focalizzare l’attenzione per scandagliare al meglio il fenomeno?

Il concetto di radicalizzazione ci consente di capire cosa succede prima che queste persone scelgano di aderire all’Islam radicale e quindi, in qualche modo, di mettere in atto azioni di prevenzione da parte delle istituzioni, delle società. Proprio perché la radicalizzazione è un processo, si tratta di comprendere quali sono i fattori sociali che possono indurre queste persone ad aderire. Oggi ammontano a circa 5000 gli europei tra i foreign fighter in Siria e Iraq o che ci sono stati in questi anni. Il numero è altissimo. Capire i processi che portano alla radicalizzazione permette anche di comprendere quali scelte politiche e sociali compiere per cercare almeno di ridurre il fenomeno.

Lei indica tra i luoghi della radicalizzazione le moschee, il carcere e soprattutto la Rete. Non è la prima volta che a questa viene imputata una responsabilità in tal senso. Quanto ha inciso sullo jihadismo attuale e quanto lo ha condizionato l’essere nell’era della digitalizzazione?

Ha inciso moltissimo perché un tempo per leggere, ad esempio, il testo di un predicatore islamista radicale bisognava conoscere qualcuno che potesse renderlo disponibile, oppure procurarselo… ma diventava difficile. Oggi invece se voglio leggere i teorici radicali o certe interpretazioni specifiche, la Rete offre un’enorme possibilità di accesso. In più questa è interattiva e ciò consente anche di comunicare con ambienti islamisti radicali. La capacità di proliferazione è molto più accentuata. Basti pensare all’attenzione spasmodica che l’Isis assegna alla costruzione non solo del messaggio ma della produzione mediatica dei docu-film fino ai reportage di combattimento e ai videogiochi di guerra in versione islamista radicale.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Uno dei temi più sentiti dello jihadismo è quello di Shahīd, cioè l’essere testimone della fede attraverso concrete operazioni di testimonianza. Spesso ciò equivale a trasformarsi in veri e propri martiri. Come si inseriscono i foreign fighter in questo? E come interpretano il martirio?

Nell’ideologia radicale il cosiddetto martirio ha un ruolo centrale. Nel momento in cui si aderisce a questi gruppi si dà per scontato che ci sia la consapevolezza a considerare lo jihad come un obbligo personale. Per molti giovani che provengono dalle periferie disagiate questo elemento può diventare un gesto che va a riscattare una vita vissuta come sbagliata, segnata da condotte illecite o poco legate ai principi religiosi. Per altri l’idea di diventare martiri coincide col testimoniare, con la propria scelta, un percorso in cui si dimostra che si è stati coerenti fino in fondo. È evidente che la credenza del martirio deve essere fatta propria in pieno. Non è escluso il ripensamento. Pensiamo al caso, probabilmente, dell’ultimo membro del commando di Parigi che sembra essersi sottratto a questo compito. In fondo si tratta di togliere la vita ad altre persone e a se stessi.

Restando in tema, alcuni giornalisti sostengono che il martirio, ovvero l’immolarsi per la causa, spesso equivalente al diventare un kamikaze, in realtà abbia poche valenze religiose o spirituali ma sia dettato da un bisogno economico estremo. In altre parole i martiri acconsentono a diventare tali perché in cambio hanno ricevuto la promessa di un indennizzo/risarcimento per i familiari. Ritiene che questa si possa effettivamente spiegare solo ricorrendo a tale motivazione? Ed è possibile formulare una tale ipotesi anche per i foreign fighter? 

Ci sono casi molto diversi, può esserci anche l’elemento della compensazione materiale. Ma non è questo l’elemento determinante, che io penso sia legato all’idea di sacrificio di sé per una causa superiore. Lo abbiamo visto anche con i tanti casi di suicidio in Iraq e Siria: molti foreign fighter che si sono fatti saltare in aria lo hanno visto come la logica conclusione di un percorso di rifiuto dell’esistenza precedente ed è come se si cercasse, con questa scelta, di tagliare i ponti con tutto quello che era terreno per porsi in un piano extra-mondano. Il motto che ripetono spesso è: non c’è altra ricompensa più grande del martirio, visto come un qualcosa che regala una forte identità personale e consente di metterla al servizio della causa.

Chi sono i foreign fighter? Il radicalismo islamico, l'ultima grande utopia del Novecento

Il titolo del suo saggio è molto emblematico, ma “ultima” è da intendersi nel senso di “definitiva” o nel senso di “più recente”, l’ultima in ordine cronologico? Cioè, ritiene possibile pensare a un’utopia in grado di fronteggiare quella proposta dall’Isis?

Le utopie si presentano ciclicamente, quando ho scelto il titolo “ultima” l’ho legata sia al fatto che io leggo il radicalismo islamico come l’ultima grande utopia del Novecento, anche se i suoi effetti si vedono nel nuovo millennio, e al contempo è come se fosse l’ultima perché oltre questa sembra non esserci più niente. Questa può essere l’ultima utopia che si realizza anche attraverso la morte, per cui diventa una dimensione in cui la vicenda extra-terrena ha altrettanta e forse maggiore rilevanza di quanto accade nel regno del qui e ora.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-foreign-fighter-il-radicalismo-islamico-l-ultima-grande-utopia-del-novecento

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’Italia, colonia degli inglesi

26 giovedì Nov 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Chiarelettere, ColoniaItalia, GiovanniFasanella, intervista, MarioJoseCereghino, NWO, ordinemondiale, saggio

L'Italia, colonia degli inglesi

Perché per tutto il Novecento gli inglesi hanno considerato l’Italia una loro “colonia”? Perché hanno messo in moto una vera e propria “macchina della propaganda occulta” per pilotare le decisioni dei governi attraverso il condizionamento dell’opinione pubblica? Cosa sarebbe accaduto se così non fosse stato? Cosa è diventata l’Italia oggi?

Ne abbiamo parlato con Giovanni Fasanella, co-autore con Mario José Cereghino, di Colonia Italia. Giornali, Radio e Tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top-secret di Londra (Chiarelettere, 2015).

Tramite lo studio incrociato dei documenti desecretati, custoditi negli Archivi di Stato di Londra, e di articoli e reportage dell’epoca, Fasanella e Cereghino hanno ricostruito i vari passaggi seguiti, e a volte precedenti, ai grandi eventi della Storia italiana del secolo scorso nonché delle vicende legate a grandi personaggi, uomini politici e membri noti della classe dirigente: la Disinformatia che ha preceduto l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra, la propaganda fascista, gli scandali De Gasperi e Piccioni, Mattei e la politica energetica dell’Eni, il caso Moro, la strage di piazza Fontana… focalizzando su ciò che ha rappresentato il mezzo per arrivare alla società contemporanea, il motore dello sviluppo industriale e capitalistico, il motivo di tanti conflitti, il destino di intere popolazioni: l’oro nero.

Il titolo del libro è tanto preciso quanto inquietante. Davvero possiamo parlare dell’Italia come di una vera e propria colonia inglese?

Così l’Italia è stata considerata dagli inglesi. Perché la posizione geografica del nostro Paese, proprio al centro del Mediterraneo, era di fondamentale importanza strategica per gli interessi inglesi in mare, nel Nord e nell’Africa tutta, nel Medio Oriente. Quindi, dal punto di vista britannico, controllare l’Italia significava controllare meglio i propri interessi, le proprie rotte commerciali e i propri domini coloniali. Per esercitare con più efficacia questo controllo sulle scelte politiche dei partiti e dei governi italiani, era necessario innanzitutto avere il controllo dei mezzi di comunicazione: giornali, radio, televisioni, ma anche intellettuali e opinion leader. Controllare i mezzi di comunicazione di massa che potevano influenzare l’opinione pubblica la quale, a sua volta, poteva condizionare le scelte dei governi.

L'Italia, colonia degli inglesi

A partire da quale momento storico si comincia a parlare di “colonia Italia”?

Va precisato che questo ovviamente non significa che tale, ovvero “colonia”, si sentisse e operasse la classe dirigente italiana del dopoguerra.

L’idea che gli inglesi avevano dell’Italia come di un loro protettorato nasceva dai tempi del Risorgimento visto il contributo offerto dagli inglesi al processo unitario italiano, ma anche e soprattutto dall’esito della seconda guerra mondiale. Dal punto di vista britannico, l’Italia questa guerra l’aveva persa e c’è una differenza tra il modo in cui americani e inglesi hanno considerato il “problema italiano”. Per gli americani eravamo un Paese co-belligerante, con cui insieme si era sconfitto il fascismo. Mentre gli inglesi ci consideravano vinti, battutti. Quando, dopo la guerra, le potenze vincitrici si divisero il mondo in aree di influenza, da un lato i Paesi-satellite dell’Unione sovietica, dall’altro la Nato, dentro il contesto atlantico l’Italia venne considerata dagli inglesi, con il beneplacito degli americani, un loro protettorato, una loro “colonia”.

Con quali mezzi veniva effettuato il controllo?

Dai documenti visionati è emersa l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta attraverso la quale gli inglesi controllavano il sistema italiano dell’informazione e quindi l’opinione pubblica. Documenti custoditi negli archivi di Stato di Londra, desecretati, anche se non completamente. Da questi abbiamo appreso anche i meccanismi di reclutamento e di funzionamento. Questa “macchina” produceva veline vere e proprie, analisi sui grandi fatti, sulle situazioni… e, a volte, persino articoli già preconfezionati destinati alla pubblicazione sui giornali italiani.

Ci sono testimonianze dell’effettivo impiego di questi articoli?

Purtroppo sì e portano anche la firma di autorevoli giornalisti. È necessaria però una precisazione: nel libro noi raccontiamo il punto di vista degli inglesi e, in appendice, pubblichiamo una lista di trecento nomi, che rappresentano la mera punta dell’iceberg di quelli che gli stessi inglesi chiamano “clienti” della propaganda occulta, cioè i destinatari diretti dei loro materiali, avvicinati e/o attenzionati. Parliamo di giornalisti, opinionisti, direttori di testate… Ma non è dato stabilire il grado di consapevolezza con cui hanno agito, fino a prova contraria dobbiamo immaginare che sia avvenuto a loro insaputa.

L'Italia, colonia degli inglesi

Ci sono stati dei periodi in cui questa “macchina della propaganda occulta” ha agito con più fervore?

È successo alla vigilia della prima guerra mondiale, quando attraverso la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, le nostre autorità politiche furono indotte a rompere l’alleanza con gli imperi centrali, Germania e Austro-Ungheria, e passare prima alla neutralità e poi a entrare direttamente in guerra al fianco degli Alleati.

Saltiamo il periodo fascista e la seconda guerra mondiale, che sono contesti molto particolari, ma nell’immediato dopoguerra, ad esempio, questa macchina della propaganda fu trasformata addirittura in “macchina del fango” contro Alcide de Gasperi e il suo erede politico Attilio Piccioni.

Nel submandato britannico il governo italiano mise Enrico Mattei alla presidenza dell’Agip per scioglierla, perché gli inglesi non volevano che l’Italia avesse una compagnia petrolifera di Stato. Perché alla fine il filo che attraversa tutta questa storia è il petrolio.

Senonché Mattei, con l’appoggio di De Gasperi, fonda l’Eni che da subito inizia una politica molto aggressiva in Nord Africa e Medio Oriente, aree che gli inglesi consideravano «seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa».

La reazione di Winston Churchill, premier del governo britannico allorquando l’Eni violò l’embargo imposto dalla Gran Bretagna all’Iran di Mossadeq, il quale aveva espulso dalla Persia le compagnie petrolifere britanniche, come si legge in un documento, fu di imporre ai propri apparati una lezione agli italiani per far loro capire quanto quella politica disturbasse gli interessi del governo inglese. Mentre in Iran organizzavano il colpo di Stato per rovesciare Mossadeq, contemporaneamente in Italia attivarono la macchina del fango contro De Gasperi e Piccioni.

Due grandi scandali del dopoguerra che esplosero contestualmente furono quello delle false lettere Guareschi-De Gasperi e il casoWilma Montesi che vide coinvolto Piero, figlio di Attilio Piccioni. Alla fine sia De Gasperi che Piccioni, travolti dalla macchina del fango, furono entrambi costretti a uscire dalla scena politica italiana.

L'Italia, colonia degli inglesi

Noi abbiamo ricostruito, con lo studio dei documenti inglesi, tutte le varie fasi di quegli scandali e abbiamo scoperto come a innescarli prima e alimentarli poi fossero stati giornali anglofili, giornali e giornalisti in contatto con la macchina della propaganda occulta britannica e, quando questi scandali scemavano, a riaccenderli ci pensavano ancora giornali e giornalisti di area anglofila.

Tutto ciò è successo con Enrico Mattei, negli anni della presidenza Eni, ed è successo anche con Aldo Moro. C’era una grande parte della classe dirigente italiana che non accettava l’idea di essere un protettorato britannico e conduceva una politica, soprattutto energetica, in contrasto con i diktat degli interessi britannici.

Mattei nei documenti viene definito «un pericolo mortale per gli interessi nel mondo, una verruca, un’escrescenza da rimuovere con ogni mezzo». Nel 1972, tre mesi prima che morisse nell’incidente aereo, che incidente non fu bensì un sabotaggio, in un documento si legge: «abbiamo tentato di fermare Mattei in ogni modo, non ci siamo riusciti, forse è arrivato il momento di cablare la pratica alla nostra intelligence».

L'Italia, colonia degli inglesi

E lo stesso trattamento venne riservato poi ad Aldo Moro. Tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta, diversi furono i tentativi di colpo di Stato per fermare la politica morotea, compreso il famoso golpe borghese bloccato sul filo di lana dagli americani. Nella prima metà del 1976 dopo l’ennesimo tentativo fallito, a causa dell’intervento americano e tedesco non francese, leggiamo ancora nei documenti: «Impossibile attuare un colpo di Stato militare classico, approccio a una diversa azione sovversiva contro Moro». Quale potesse essere questa diversa azione sovversiva non è dato conoscere perché quella parte di documento è ancora secretata.

Un ruolo simile possono averlo avuto anche in quella che è stata definita “strategia della tensione” seguita alla strage di piazza Fontana?

Nel libro adombriamo il sospetto, direi anche qualcosa di più di un sospetto, sul ruolo di una mente britannica, con ovviamente una mano o una manovalanza italiana, nella strage di piazza Fontana e in tutto quello che venne dopo. Fra i tanti documenti che pubblichiamo, ce n’è uno importante, del capo della macchina della propaganda occulta dell’Ambasciata britannica a Roma nel quale si sottolineano gli scarsi effetti avuti, paragonati a «una pallina di ping pong scagliata contro Golia. Bisogna passare ad altri metodi e spetta a noi architettarli».

Quali altri metodi? Ancora una volta non ci è dato conoscere. Siamo nel 1979 e sappiamo quello che accadde successivamente. Ricostruendo la Storia tramite i quotidiani e i documenti dell’epoca dimostriamo nel testo che già una settimana prima della strage di piazza Fontana la stampa britannica dà la chiave di lettura politica di quello che sarebbe successo dopo.

La strategia della tensione è strage di Stato, cioè un fenomeno tutto interno che esclude completamente il contesto internazionale. Questo fu una sorta di depistaggio preventivo teso a dare un’interpretazione distorta dei fatti.

Senza l’influenza britannica come sarebbe stata la storia dell’Italia del secolo scorso?

È difficile fare la Storia con i se e con i ma. Possiamo dire tuttavia che, nonostante tutto, si annoverano tanti nomi di grande spessore nella classe dirigente italiana del Novecento. Grazie a loro il nostro Paese è cresciuto, ha fortificato il proprio tessuto economico, ha avuto un grande prestigio internazionale, capace di esercitare la propria egemonia e la propria leadership nel Mediterraneo, un punto di riferimento per i Paesi in via di sviluppo. Grazie a quella politica l’Italia, un Paese che secondo gli inglesi si sarebbe ripreso dalla guerra ma moderatamente, è arrivata a un certo punto ad essere la quarta, la quinta potenza economica a livello mondiale, scavalcando persino la Gran Bretagna. Mentre l’Italia cresceva, la Gran Bretagna perdeva via via il proprio status di impero coloniale, di grande potenza globale.

Poi tutto questo si è interrotto bruscamente, drammaticamente col sequestro e l’assassinio di Aldo Moro a cui ha fatto seguito un periodo di crisi, sempre più profonda, politica, istituzionale, economica, di leadership. L’Italia ha perso prestigio sia dal punto di vista interno che internazionale. Quello che è oggi lo vediamo tutti: il Paese più povero, che ha smantellato gran parte del proprio apparato produttivo nei settori di eccellenza, svenduto attraverso le privatizzazioni gestite dalle grandi banche d’affari anglosassoni, con una classe dirigente mediocre, povera sotto ogni punto di vista, incapace di una visione strategica e screditata sulla scena internazionale.

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