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Irma Loredana Galgano

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L’Asia ha conquistato il mondo? Questo è davvero “Il secolo asiatico?”

03 mercoledì Apr 2019

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Fazi, Ilsecoloasiatico, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, ParagKhanna, recensione, saggio

Mentre l’Occidente tutto è stato impegnato nella lotta al terrorismo e nei vari tentativi di far tenere botta all’economia, fortemente provata dalla grande crisi, il continente asiatico ha continuato a crescere, svilupparsi, innovarsi al punto da diventare non solo il principale concorrente ma superare nettamente gli avversari. Ovvero Europa e Stati Uniti.
La «zona economica asiatica», quella parte di mondo compresa tra la penisola arabica e la Turchia a occidente e il Giappone e la Nuova Zelanda a oriente, frutta il «50% del Pil globale e due terzi della crescita economica globale». L’Asia produce ed esporta, oltre a importare e a consumare, «più beni di qualsiasi altra regione al mondo», e gli asiatici «commerciano e investono più tra di loro che con l’Europa o il Nord America».

In Asia si trovano molte delle economie, delle banche e imprese tecnologiche e industriali, nonché «la maggior parte degli eserciti più grandi al mondo». Ignorare tutto questo per decenni non ha prodotto uno svilimento della crescita e del progresso portato comunque avanti da tanti paesi del blocco asiatico. Ignorarlo tuttora, nella speranza che le ormai vetuste potenze occidentali ritrovino d’un tratto il loro vigore e splendore, quasi per magia, è un atteggiamento per certo controproducente. Parag Khanna avverte tutti di preparasi a «vedere il mondo dal punto di vista asiatico», perché l’asianizzazione del mondo nel ventunesimo secolo è orami una realtà, esattamente come lo è stata l’occidentalizzazione dello stesso nel secolo passato.

Esce in prima edizione a marzo 2019 con Fazi Editore Il secolo asiatico? di Parag Khanna, tradotto da Thomas Fazi dalla versione originale in inglese The future in Asian. Commerce, Conflict, and Culture in the 21th century. Un saggio molto articolato, lungo ben 522 pagine, tutte necessarie. Parallelamente a un’attenta analisi geo-politica ed economica, Khanna porta avanti nel testo anche un dettagliato resoconto storiografico di quanto accaduto e perché, utilissimo al lettore per meglio comprendere alcune dinamiche di cui poco si continua a parlare ancora adesso, purtroppo.

Esordisce l’autore ricordando le parole attribuite a Napoleone, allorquando il generale francese, due secoli or sono, avrebbe detto, parlando della Cina: lasciatela dormire, perché al suo risveglio il mondo tremerà. A svegliarsi non è stata solo la Cina ma l’intero continente asiatico e a tremare non è solo la Francia ma l’intero Occidente. Per farsene un’idea basta leggere i titoli, gli articoli e, soprattutto, i commenti alla firma degli accordi tra Italia e Cina, ratificati proprio in questi giorni. Il filo rosso che lega questa sorta di linea difensiva mediatica sembra essere la paura che l’Italia venga sopraffatta dalla dirompente economia cinese, che questo Paese asiatico possa sopraffare la nostra economia e rompere i legami con i vecchi e forti alleati di sempre. Il tutto proposto come un qualcosa che potrebbe accadere. In realtà la firma dei 29 punti dell’accordo siglati tra Italia e Cina non vanno a intaccare un bel nulla né a modificare niente del cambiamento che è già realtà e che tocca il nostro Paese come tutto l’Occidente in maniera trasversale.

La Belt and Road Initiative (Bri), definita come la nuova Via della Seta, è «il più grande piano coordinato di investimenti infrastrutturali della storia umana», l’equivalente di ciò che ha rappresentato per il XX secolo «la creazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e del piano Marshal». Un qualcosa che è già realtà con o senza la ratifica degli accordi tra Italia e Cina. Si può pensare a esso in maniera positiva o negativa ma non si potrà mai negare che rappresenta un cambiamento epocale, iniziato nel maggio del 2017, quando «sessantotto paesi che comprendono i due terzi della popolazione e la metà del Pil mondiale si sono riuniti a Pechino».
Cambiamenti epocali, esattamente come quelli avvenuti nel secolo scorso e di cui mai nessuno ha dubitato o messo in dubbio l’utilità e le procedure. Eppure questi di oggi spaventano tanto. Perché? Il motivo è semplice: «la Bri è stata concepita e lanciata in Asia e sarà guidata dagli asiatici». E, soprattutto, gli occidentali non solo non sono riusciti a stopparla sul nascere ma non sembrano avere neanche idea di come riuscire a fermarla.

L’Asia ha da tempo ormai imparato a fare i conti con l’impatto della storia occidentale sul suo presente, «adesso tocca all’Occidente fare i conti con l’impatto dell’Asia sul proprio futuro».
Siamo alle prime fasi dell’asianizzazione del mondo, per cui molte incognite ancora sussistono. Si chiede l’autore come gestirà l’Asia tutte le trasformazioni geopolitiche, economiche, sociali e tecnologiche. Come risponderanno le potenze occidentali all’ascesa dell’Asia e, soprattutto, come si adegueranno gli asiatici a tali reazioni.
È una Storia che si sta ancora scrivendo ma che non basterà ignorare o criticare per essere arrestata. Ipotizzando lo si possa o lo si debba poi effettivamente fare.

Il secolo asiatico? di Parag Khanna è una lettura impegnativa ma fuori di dubbio utile necessaria illuminante. Un testo valido nella scrittura e nel contenuto. Un libro per certo consigliato.


Articolo originale qui


Disclosure: Fonte immagine di copertina, sinossi, biografia dell’autore e scheda libro www.fazieditore.it



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Il Buddhismo contro l’imbarbarimento del caos. “Le ragioni del Buddha” di Diego Infante (Meltemi, 2018)

08 sabato Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DiegoInfante, LeragionidelBuddha, Meltemi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, recensione, saggio

Dare un senso al proprio stare al mondo. Domande esistenziali che tutti e ognuno, magari inconsciamente e inconsapevolmente, si pongono o dovrebbero porsi. E, laddove non trovano libero sfogo o accesso, generano con ogni probabilità un processo lesivo dell’essere interiore che, inevitabilmente si ripercuote in quello esteriore, nelle relazioni e nello stare al mondo e nel mondo.
Qual è lo scopo del vivere l’esistenza terrena? Quale il senso di “vivere” gran parte di essa rinchiusi in prigioni di cemento più o meno grandi o in scatole di ferro accessoriate con ruote e ogni “confort”?

La società moderna «costituisce il brodo di coltura ideale per il sorgere di nuove domande», non più «esigenze dettate dalla sussistenza, quanto la necessità» di dare, appunto, un senso al proprio stare al mondo. Che non può e non deve ridursi al consumo di risorse e all’accumulo di beni materiali e denaro.

In un’epoca in cui l’istruzione, l’informazione, la comunicazione sembrano svolgersi sempre più caoticamente, a colpi di lanci e smentite, promesse e dinieghi, slogan e titoloni… una vorticosa giostra che pare essere stata creata apposta per nascondere il vuoto, di senso soprattutto, il libro di Infante assume quasi un valore catartico. Un invito non ad abbracciare una qualsivoglia religione o ideologia quanto, piuttosto, a praticare una accurata e profonda riflessione sul mondo come su noi stessi. Riflettere, per esempio, sul dualismo kantiano tra il mondo noumenico e quello del fenomeno. Sulla realtà come volontà e come rappresentazione, ovvero «il mondo come noi ne facciamo esperienza».

Si pensi alla realtà immaginata e costruita per i bambini occidentali, fatta di sontuose feste di compleanno, regali sotto l’albero, beni di consumo mutevole e superflui, spesso inutili eppure spacciati e sentiti come assolutamente necessari. Una rappresentazione talmente distorta di quella che è la realtà, di quello che è il mondo reale da apparire surreale se non proprio paradossale che in tanti, adulti prima ancora dei bambini, tuttora ci credano. Il mondo fuori dai format televisivi, cinematografici e pubblicitari, quello in cui vivono milioni di persone che si cerca costantemente di incantare con la ‘felicità consumistica’ del mondo occidentale, la cui economia verte interamente «sul foraggiamento dei desideri».

«Non è peregrino affermare che l’Occidente abbia costruito il proprio paradigma nella più completa ignoranza del meccanismo per cui per ogni azione si generano forze inverse e contrarie». E volendo contestualizzare il discorso nel dibattito, in questo periodo caldissimo, sui migranti, si nota che la discussione si sviluppa sul tema dell’accoglienza, nella declinazione dei favorevoli e dei contrari, della necessità o nel dovere che l’Occidente deve assumersi per dare una possibilità a tutti loro di costruirsi una nuova vita, quanto più simile possibile a quella immaginata o vissuta per se stessi. Nessuno, o quasi, pensa invece che la soluzione vada ricercata nella rinuncia dell’Occidente tutto in primo luogo ai suoi innumerevoli e inappagabili “desideri” che si traducono in consumo, in spreco di risorse, suolo e spazio che non competono solo agli occidentali bensì agli abitanti dell’intero pianeta.

Cita Infante nel testo una esemplare frase di Tiziano Terzani: «Se l’Homo sapiens, quello che siamo ora, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest’uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto con il prossimo e meno rapace nei confronti del resto del mondo?»
Di sicuro questa mutazione non avverrà fin quando il paradigma di una felicità raggiungibile solo attraverso l’economia di appagamento dei desideri sarà considerato un imperativo. Solo attraverso la rinuncia, la ricerca interiore prima che esteriore, la solidarietà e l’empatia contrapposte all’individualismo sfrenato si potrà sperare in un reale e profondo cambiamento. Inutile utopia per alcuni, speranza per altri.

Di sicuro c’è che finora tutte le ideologie indistintamente davano «la certezza morale necessaria per giustificare la violenza in funzione di un mondo migliore», inducendo ad accettare come «un fatto scontato che qualcuno debba morire perché gli altri possano vivere liberi e felici». La citazione di Pankaj Mishra restituisce nella giusta ottica gli errori di fondo di una cultura basata sul profitto e sul benessere propri, e sul disinteresse pressoché totale per gli altri, usati spesso solo come anonimi destinatari di una beneficenza e di gesti caritatevoli volti a rappresentare la propria presunta bontà d’animo nonostante la conscia violenza inflitta, direttamente o indirettamente, al mondo e ai suoi abitanti. In altre parole ipocrisia e apparenza, che poi, in fondo, sono le fondamenta della cultura dell’immagine e della rappresentazione su cui sembra essere stato costruito tutto l’impianto del progresso occidentale.

Nelle differenze enormi con gli insegnamenti buddhisti Infante riesce a trovare se non proprio similitudini almeno potenziali punti di incontro che potrebbero costituire altrettanti punti di partenza per un buddhismo che accompagni l’Occidente nel suo percorso accelerativo: «l’accelerazione potrebbe innescare la messa in discussione e quindi il capovolgimento di prospettiva». Un “viaggio” per guardare lontano laddove la distanza può fungere «da specchio per guardare vicino e soprattutto dentro».
Esattamente la svolta che fu caratteristica di «un grande viaggiatore qual è stato Tiziano Terzani»: un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio la cui meta non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, «una condizione di pace con se stesso e col mondo».

Anche Le ragioni del Buddha di Diego Infante rappresenta, per certi versi, un viaggio che il lettore compie attraverso la narrazione dell’autore sul sentiero da lui tracciato o su quello della propria mente. Un viaggio lento, a volte accidentato, ma pregno di significati. Un peregrinare tra domande e risposte seguendo i lineamenti di uno stile narrativo intenso, molto ricercato. Una ricercatezza che si denota sia nel fraseggio come anche nell’impiego di vocaboli di non largo utilizzo. Un percorso di scrittura e un ragionamento avallati da numerose citazioni e riferimenti bibliografici che spaziano dai testi di Baumer a Dumont o Kumar, il più volte citato Terzani e numerosi altri autori. Un libro articolato, ben strutturato e ben riuscito nello scopo dichiarato e prefissosi dall’autore.


Source: Si ringrazia l’autore Diego Infante per la segnalazione e il materiale.


Articolo originale qui


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“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018)

04 martedì Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AdamTooze, Loschianto, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, Oriente, recensione, saggio, terrore

Cento anni dopo il primo conflitto mondiale i governi e i popoli dell’intero pianeta si pongono i medesimi interrogativi, di nuovo.
Come si accumulano rischi enormi, poco compresi e poco controllabili? In che modo quadri di riferimento anacronistici e obsoleti ci impediscono di capire cosa sta succedendo intorno a noi? Il motore di ogni instabilità è forse lo sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo globale? Possiamo raggiungere una stabilità e una pace perpetue?
Di nuovo, le medesime domande perché sono queste che «accompagnano le grandi crisi della modernità».

In Crashed, edito in Italia da Mondadori ad agosto 2018 nella versione tradotta da Chiara Rizzo e Roberto Serrai e intitolata Lo schianto, Adam Tooze analizza gli ultimi dieci anni, dal 2008 al 2018, dalle origini della crisi prima finanziaria poi economica che ha investito, a quanto hanno detto, a più riprese l’intero sistema globale. Per la gran parte menzogne o giustificazioni a provvedimenti che i governanti hanno ritenuto essere improrogabili. Per gestire la crisi dell’eurozona dopo il 2010, per esempio, condotta seguendo una logica che non è stata altro che «una ripetizione dei salvataggi bancari del 2008, ma questa volta sotto mentite spoglie».

E così, mentre ai contribuenti europei venivano richiesti enormi sacrifici, i medesimi chiesti in precedenza ai cittadini americani, «banche e altri istituti di credito erano pagati col denaro riversato nei paesi che beneficiavano del salvataggio». Tutto perché al centro della crisi eurozona venivano messe le politiche del debito sovrano. «Come i responsabili della UE sono ora disposti ad ammettere pubblicamente», questo non aveva alcun fondamento sul piano economico. La sostenibilità del debito pubblico può diventare un problema, a lungo termine. La Grecia, per esempio, era insolvente. Ma l’eccessivo debito pubblico non era il denominatore comune della più ampia crisi dell’eurozona. Il denominatore comune era «la pericolosa fragilità di un sistema finanziario eccessivamente legato all’indebitamento» e troppo dipendente «da finanziamenti a breve termine basati sul mercato».

La Federal Reserve statunitense si è proposta fin da subito come fornitore di liquidità di ultima istanza per il sistema bancario globale. Ma cosa vuol significare davvero il fatto che la finanza e l’economia globali dipendono, in ultima istanza, dalla decisioni del governo americano?
La crisi dei mercati emergenti (Messico, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia, Argentina) degli anni Novanta ha mostrato a tutto il mondo «con quanta facilità uno Stato possa perdere la propria sovranità». Nel 2008, «nessuna delle vittime degli anni Novanta» è stata costretta a ricorrere al Fondo monetario internazionale. Una lezione che i paesi dell’eurozona sembrano non aver imparato neanche ora.

La crisi nell’eurozona è stata affrontata in maniera disomogenea, «una confusione di visioni contrastanti» che hanno portato alla messa in scena di un «dramma sconfortante di occasioni mancate, di fallimenti nella leadership e di fallimenti nelle azioni collettive». Generando un danno sociale e politico da cui «il progetto della UE potrebbe non riprendersi mai più».

La crisi finanziaria ed economica del 2007-2013 si è trasformata, tra il 2013 e il 2017, «in una crisi politica e geopolitica globale dell’ordine mondiale uscito dalla guerra fredda», le cui ovvie implicazioni politiche «non dovrebbero essere schivate». Pulsioni di rinnovamento e aneliti di cambiamento sono giunti da ogni parte ma «contro la sinistra le brutali tattiche di contenimento hanno fatto il loro lavoro». Si pensi a quanto accaduto, per esempio in Grecia. Invece non altrettanto è accaduto per la destra che ha resistito ed è avanzata nel consenso e nella determinazione. Si pensi a quanto sta accadendo, per esempio, in Austria.

Questa «nuova politica» del periodo successivo alla crisi è stata demonizzata come populismo, trattata alla stregua degli anni Trenta o attribuita alla «malvagia influenza della Russia», invece va osservata, sottolinea Tooze, come un segno della vitalità della democrazia europea davanti al «deplorevole fallimento dei governi» riassumibile forse nelle parole di Jean-Claude Juncker citate nel testo: «Quando le cose si fanno serie, bisogna mentire».

La tesi portata avanti da Tooze ne Lo schianto è di collocare la crisi bancaria nel suo contesto più ampio, politico e geopolitico, oltre che, naturalmente, finanziario ed economico perché è necessario «confrontarci con l’economia del sistema finanziario». La narrazione offerta dall’autore tenta di mostrare «la percezione dall’interno del funzionamento – o del non funzionamento – della circolazione del potere e del denaro» e di chiarire le dimensioni dell’interdipendenza del sistema globale nonché «l’estrema dipendenza del sistema finanziario globale dal dollaro». E l’importanza delle conseguenze di tutto ciò. Per tutti.


Articolo originale qui


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La musica come rinascita spirituale. “Il pianoforte segreto” di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringheri, 2018)

31 martedì Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ilpianoforte segreto, Occidente, Oriente, recensione, romanzo, ZhuZiaoMei

Da sempre la musica, ma andrebbe detto l’arte in generale, detiene un immenso potere: quello di muovere e smuovere le masse, il popolo. Ed è per questo che gli artisti, soprattutto quelli definiti “ribelli” o “rivoluzionari” perché non accettano di livellarsi agli altri, che non mentono ma raccontano senza veli la verità, sono considerati pericolosi per «la loro costante messa in discussione della realtà, e la loro sempre maggiore richiesta di libertà».

Tutto ciò era ben chiaro anche a Mao Zedong il quale affermava che «i cinesi non saranno mai più un popolo di schiavi», riferendosi al capitalismo e all’Occidente e a tutte quelle che considerava devianze e perversioni culturali. Mai più schiavi delle idee e ideologie altrui quindi… solo delle proprie. Infatti il suo regime non ha creato progresso, civiltà, cultura, innovazione. Quella che lui stesso e i suoi sostenitori chiamavano “Rivoluzione Culturale” altro non è stata che una dittatura di colore opposto a quelle più tristemente note. Che ha avuto i suoi seguaci, i suoi oppositori, i perseguitati e i reietti. Gli impuri, come la famiglia di origine di Zhu Xiao-Mei, rei di essere “musicisti e intellettuali”.

Bollati Boringheri pubblica a giugno di quest’anno la versione tradotta da Tania Spagnoli de La Rivière et son secret di Zhu Xiao-Mei, appellandola Il pianoforte segreto. Si percepisce, nel libro di Zhu Xiao-Mei, una grazia, una semplicità, una naturalezza, nel racconto come nella scrittura, che sono affatto comuni.
Un libro che non è il racconto di chi vuol apparire, o di chi vuol insegnare, no, Il pianoforte segreto narra “semplicemente” una storia. Vuole aprire al mondo una biografia che non è solo quella personale dell’autrice bensì di una nazione intera, la Cina, alle prese con un potere che, professando uguaglianza e parità, ha finito con il generare solo ingiustizia e povertà, economica e culturale.
Anche le idee migliori quando diventano ideologie imposte ad altri e rappresentano quindi delle imposizioni esplodono per intero nella loro accezione negativa.

Il pianoforte segreto può essere definito un libro lento. Una scrittura che si sofferma nei dettagli, precisa nel raccontare aspetti che, se anche in un primo momento possono apparire secondari o addirittura irrilevanti, si sveleranno poi tutti fondamentali per poter ammirare il quadro che l’autrice ha dipinto con la sua penna, o meglio ancora l’aria che le sue mani hanno sentito e suonato al pianoforte. In questo modo Xiao-Mei ha scritto lo spartito della sua esistenza che si intreccia a quella di tanti altri giovani cinesi illusi prima e disillusi poi dalla Rivoluzione Culturale tanto attesa, di tanti uomini e donne, anche occidentali, che con impegno e dedizione trovano il loro personale riscatto, emblema e simbolo di un’evoluzione più ampia che nasce e può nascere solo allorquando si accetta di «mescolare le culture e farle dialogare».

Mao affermava che la Cina «è povera e bianca, ma su una pagina bianca si possono scrivere dei bei poemi». Purtroppo a fare eco alle sue parole non arrivarono i poemi bensì la carestia, la povertà, il nero di una cultura svuotata e oscurata, le sedute di denuncia e autocritica, gli istituti di correzione e tutto quanto poteva servire per nascondere quanto più a lungo possibile il fallimento della sua ideologia.

Le pagine prima bianche del suo libro Xiao-Mei invece le ha riempite di parole utili. Necessarie innanzitutto alle vittime della Rivoluzione Culturale. Ma anche a coloro i quali, come la stessa autrice, quella Rivoluzione l’hanno superata e hanno avuto la possibilità di una «rinascita spirituale», grazia all’arte in generale ma, soprattutto, alla musica. Grazie ad essa Zhu Xiao-Mei afferma di aver ritrovato la propria umanità.
Un libro assolutamente consigliato, Il pianoforte segreto di Zhu Xiao-Mei, anche per conoscere a fondo un periodo storico ancora alquanto sconosciuto in Occidente.


Articolo originale qui


Disclosure: Fonte trama libro e biografia dell’autrice www.bollatiboringheri.it


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Non più contrapposizione di Stati ma guerra di tutti contro tutti. Psicoanalisi e “Guerre senza limite”: nuovi strumenti di conoscenza e analisi (Rosenberg&Sellier, 2017. A cura di Marie-Hélène Brousse)

18 mercoledì Lug 2018

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Guerresenzalimite, MarieHeleneBrousse, Occidente, paura, recensione, RosenbergSellier, saggio, terrore

“Guernica”, Pablo Picasso, olio su tela, 1937

Seguendo la ferrea logica che porta la nostra civiltà a una segregazione sempre più massiccia, a erigere muri, alla delazione, al sospetto paranoico abbiamo assistito alla caduta delle identità collettive. E ora non resta che l’identità individuale, «l’Io che non vuole sapere dell’alterità», considerata una «minaccia costante contro la sua unità, contro la sua sicurezza, contro il suo potere». Il legame sociale attuale, caratterizzato dal predominio del “senza limite”, «trova nella forma contemporanea della guerra una declinazione pragmatica», una guerra che è essa stessa “senza limite”, non più una contrapposizione tra Stati, ma di tutti contro tutti.

Pubblicato nel 2015 in Francia con il titolo originale La psychanalyse à l’épreuve de la guerre da Berg International Éditeurs, Guerre senza limite, curato da Marie-Hélène Brousse, esce in Italia in prima edizione a maggio 2017 con Rosenberg&Sellier, nella versione curata da Paola Bolgiani. Un saggio che raccoglie i contributi di un nutrito gruppo di psicoanalisti che hanno lavorato sul tema della guerra e della relazione fra la psicoanalisi e la guerra.

Un’esperienza sempre traumatica che segna tutti i soggetti che vi sono confrontati, anche indirettamente, la guerra è senz’altro «un laboratorio dello psichismo», dal momento che essa è lungi dall’essere terminata, piuttosto trasformata è diventata multipla, diversa, che «si sposa con la modernità» e le sue forme contemporanee manifestano i tratti di quell’epoca che è la nostra, in questo inizio di XXI secolo. Una società nella quale le trasformazioni del legame sociale rendono necessario il progetto di «una nuova psicologia delle masse» per capire a fondo «quel che la guerra insegna alla psicoanalisi e quel che la psicoanalisi può insegnare sulla guerra», forte dei nuovi strumenti e dati a disposizione.

Il testo si articola in diverse sezioni, ognuna delle quali con uno scopo ben preciso, ma tutte interconnesse secondo il filo logico del ragionamento che ruota intorno al concetto di guerra, all’esperienza di guerra (diretta e indiretta), ai traumi che essa genera, alla guerra come paradigma del legame sociale per una nuova psicologia delle masse.

Ricorrente nel discorso comune è la “ricerca della pace”. Si afferma che l’Europa, dopo i traumi dei conflitti mondiali, abbia finalmente raggiunto lo scopo. L’Europa è in pace. Gli europei si dichiarano pacifisti. Non si può allora non chiedersi, e gli autori lo fanno, come si debba in realtà interpretare questa “pace a casa propria” allorquando si deve legarla al traffico, al commercio e alla vendita di armi che l’Europa e gli europei continuano a praticare.

Lacan partiva dal «reale della guerra» che ci accompagna in modo costante «come una dimensione ineliminabile del potere moderno» e sosteneva che «il potere capitalista ha bisogno di una guerra ogni vent’anni». Per reggere. Per funzionare. La spesa militare è infatti una costante dei fautori del capitalismo. Fa girare l’economia, come suol dirsi. Dapprima con gli armamenti, poi con la ricostruzione, poi la macabra giostra deve ripartire per un altro giro… ed ecco trascorsi i venti anni.

I contributi che compongono il saggio Guerre senza limite analizzano sia questi aspetti, che potrebbero essere definiti macroscopici, del fenomeno, sia quelli più intimi, attinenti il microcosmo di ognuno. Gli effetti deleteri che il contatto con la guerra ha, inevitabilmente, con i soggetti che la vivono o la subiscono.

Per Freud la guerra «autorizza e legittima l’aggressività propria dell’essere umano, che spinge verso le sue inclinazioni più oscure». Ma quando ti trovi faccia a faccia con la morte, vedi morire i tuoi compagni, le mutilazioni, le torture, le lesioni… l’aspetto per così dire “liberatorio” della guerra diventa aleatorio ed è molto facile sviluppare problemi psichici.

Paralisi di vario tipo.
Tic.
Spasmi.
Tremori.
Stati dissociativi.
Riduzione del campo visivo.
Cecità.
Sordità.
Afonia.
Mutismo.

“Psicoanalisi”, Michele Cara, pennarelli e matite su carta, 2011

Sono alcune tra le più frequenti conseguenze psichiche e psicofisiche della guerra. Solo chi l’ha vissuta lo può sapere. Agli altri, per i quali la guerra è quella vista in televisione, al cinema o come un videogame, i reduci appaiono addirittura strani. Persone che per assurdo faticano a incontrarsi, a capirsi.

In un mondo ormai al contempo «mondializzato e in piena implosione geopolitica ed economica», appare ragionevole affermare che «non c’è che la guerra, e tangenzialmente un’unica guerra». La guerra che una «civiltà decaduta dai suoi titoli di civiltà fa contro se stessa». Eppure uno spiraglio di speranza ancora si intravede laddove si può affermare che «non siamo costretti dall’evoluzione a rimanere fissati alle condizioni del passato, possiamo evolvere verso il meglio». Dovremmo. Dobbiamo.


Articolo originale qui



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Source: Si ringrazia Marta Guerci dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale


 

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09 sabato Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Tag

Capitalism, Democracy, Democraziadiretta, Europa, Italia, italiani, NWO, Occidente, Piigs, ShockEconomy, terrore, TheCorporation

«Questo è il Capitalismo: tutti cercano di guadagnare sulle disgrazie altrui.»

A dirlo è un agente immobiliare della Florida ai microfoni del documentarista Michael Moore per Capitalism: a love story, lavoro che risale all’anno 2009.

Ma se il Capitalismo è il male, come ha fatto a resistere così a lungo?

Il sistema sarebbe costituito e basato su quella che viene definita propaganda, ovvero l’abilità di convincere le persone, che restano quindi vittime dello stesso sistema, a sostenere il medesimo e a credere che sia buono, la scelta migliore.

Ma come si fa a convincere milioni di persone in tutto il mondo che l’unica scelta utile per il benessere collettivo sia il Capitalismo?

Naomi Klein in Shock Economy, pubblicato la prima volta nel 2007, racconta la privazione sensoriale. Tecniche di persuasione volte a indurre la monotonia, la perdita di capacità critica, il vuoto mentale. Ma che significa “perdita di capacità critica”?

Sostanzialmente si tratta dell’incapacità, troppo spesso indotta anche da istruzione, informazione e pubblicità pilotate, di porsi delle domande, di analizzare dati e fatti con spirito critico appunto, invece di immagazzinare passivamente notizie e, soprattutto, immagini stereotipate e artefatte.

«Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa.»

A dirlo è un’operaia della Republic in sciopero da giorni con i colleghi contro la repentina chiusura della fabbrica e la ferma volontà di non corrispondere ai lavoratori i salari e la liquidazione già maturata. La lotta civile da loro portata avanti si è conclusa con il riconoscimento dei propri diritti e il versamento di quanto dovuto.

Combattere, lottare, protestare, scioperare solo per vedere riconosciuti i«servizi basilari»o essenziali, che in realtà sarebbero diritti. Perché in fondo ha ragione Erri De Luca che in Piigs sostiene che, con il Capitalismo sfrenato e deregolato, «i diritti sono diventati servizi. E i servizi hanno un costo e quindi vi può accedere solo chi se li può permettere».

Ea coloro che non possono permetterseli che succede? Già.

Questa «corrente selvaggia del Capitalismo» nel quale viviamo, il Capitalismo senza limiti, «ha conquistato il pianeta». Ed è basato sulle idee di un economista di nome Milton Friedman, per il quale tutto deve essere privatizzato tranne «la spesa militare, i tribunali e alcune strade e autostrade». Ma quando i doveri a cui dovrebbe adempiere il governo, lo Stato, vengono delegati a società private, che hanno naturalmente scopo di lucro, che succede?

Nel Rapporto 2005 della Citibank, stilato per i suoi investitori più ricchi, gli operatori di uno dei gruppi bancari più grandi che opera e ha interessi praticamente in tutto il mondo, compresa l’Italia, giungevano alla conclusione che «gli Stati Uniti non erano più una Democrazia, ma erano diventati una Plutonomia». Una società controllata esclusivamente da e per l’1% dell’élite che dispone di ricchezze maggiori di quelle del 95% della popolazione. «I ricchi sono la nuova aristocrazia e non si vede la fine della miniera che stanno sfruttando». Tutto bello, dal loro punto di vista, se non fosse per un problema, un intoppo cui ancora non erano riusciti a trovare la soluzione. Secondo Citigroup la minaccia peggiore e a breve termine sarebbe stata la richiesta, da parte della società, di una suddivisione più equa della ricchezza. Citigroup lamentava il fatto che i non ricchi potessero anche non avere potere economico, ma avevano lo stesso potere di voto dei ricchi. Infatti ogni persona ha diritto a un voto, indipendentemente dal suo potere economico. «Ed ecco quello che davvero li spaventa: che i non ricchi possano ancora votare. E hanno il 99% dei voti».

C‘è qualcosa che non torna però in questo ragionamento. Se i non ricchi rappresentano il 99% e hanno quindi un potere di voto enorme perché il tutto non cambia e loro lo sopportano passivamente? Per la propaganda?

In parte è vero ma ciò sarebbe dovuto a un effetto indiretto di essa. L’emulazione. Secondo quanto si legge nel Rapporto Citigroup, i non ricchi sopportano tutto perché «la maggior parte di essi è convinta che un giorno potrà anch’essa diventare ricca».

Cosa succede quando realizza che non accadrà mai? Succedono le rivolte, le rivoluzioni, gli scioperi, gli scontri, le proteste… a volte pacifici e consumati nelle cabine elettorali, altre volte nelle piazzecon risultati più o meno tragici, ma sempre per i non ricchi. Il Cile di Pinochet, i Desaparecidos in Argentina, la Gran Bretagna della Iron Lady Margaret Thatcher, la Russia di Yeltsin e poi ci sono le rivolte in Grecia e in Spagna contro l’austerità dell’Unione Europea… Tutte duramente represse in nome del benessere del Capitalismo.

Il Capitalismo per poter funzionare necessita ancora del consenso e dell’appoggio incontrastato della popolazione, di quel 95% di cui scrivono i relatori della Citigroup che ha il diritto di voto e quindi il potere di mandare al governo esecutori o meno degli interessi degli investitori, degli operatori finanziari, delle Corporation, delle banche… Un metodo per aggirare l’ostacolo del diritto di voto, o quantomeno indirizzarlo verso la direzione voluta,però è stato trovato.

«Se ti servi della paura riesci a far fare alla gente ciò che vuoi».

Ancora Friedman, quando insegnava economia all’Università di Chicago, durante le sue lezioni affermava: «la terapia di shock economico può stimolare le società ad accettare la più pura forma di capitalismo deregolato». La Dottrina dello Shock, che la Klein ha studiato e analizzato nel suo libro, ovvero «il sistematico saccheggio della sfera pubblica dopo un disastro», quando le persone sono molto concentrate su un’emergenza, su una catastrofe che può essere un evento naturale o il risultato di politiche e tattiche, può essere un terremoto, un’alluvione, uno tsunami oppure una rivolta, un conflitto, un attentato terroristico… Non importa, perché sempre e comunque il Capitalismo, deregolato e senza limiti, per tramite dei suoi fautori e operatori, troverà il modo per trarne profitto, un grande profitto che finirà sempre e comunque nelle mani di quella élite dell’1% che da sola detiene in mano le ricchezze praticamente dell’intero pianeta. E per ricchezze non vanno intesi solo denaro e preziosi ma i beni, quelli sìdavvero preziosi, che il pianeta fornisce per la vita dei suoi abitanti, come l’acqua e l’aria pulite, per esempio.

L‘opinione di Michael Moore sul Capitalismo è molto drastica, per lui «è il male. Non si può regolamentare. Bisogna sostituirlo con qualcosa di buono. E questo qualcosa si chiama Democrazia». Ma per farlo è necessario, innanzitutto, che le popolazioni sviluppino la «resistenza allo shock» con la conoscenza, la lotta pacifica, la resilienza, lo sciopero, l’organizzazione e la solidarietà. Non da ultimo, e di pari passo con la conoscenza, il mantenimento della memoria collettiva, la rivalutazione degli insegnamenti del passato, della Storia, frutto di uno studio critico e diapprofondimento non di mnemonica assimilazione di contenuti e concetti preconfezionati. In maniera tale che i non ricchi smettano di desiderare, di sognare di diventare ricchi pensando che questo porti loro felicità e benessere e non avidità e insano potere, come invece accade, e ritrovino o trovino in prima istanza l’importanza, la sacralità della vita, degli esseri umani, delle risorse del nostro pianeta e smettano di idolatrare persone, come Phil Gramm, per esempio, ex-senatore Usa e vice-presidente di UBS Investment Bank, il quale ha dichiarato di considerare Wall Street «un luogo sacro».In realtà è tutt’altro che un luogo sacro. Somiglia piuttosto a «un folle Casinò, dove si scommette su qualunque cosa».Anche sulla vita umana.

Nel suo intervento durante il dibattimento in Senato precedente la votazione per il governo del cambiamento, Mario Monti ha detto: «Non il Presidente del Consiglio, ma l’intero vostro Governo nascerebbe oggi come governo dimezzato se altre forze politiche non avessero dato, in un momento difficilissimo della vita del Paese, prova di grande responsabilità». Ovvero l’appoggio al suo governo e alle misure di austerità imposte come “sacrificio necessario” per evitare al Paese, cioè all’Italia, la “vergogna” dellaGrecia, ossia la Troika. Ma attenzione, avverte ancora Monti, «non è escluso che l’Italia possa dover subire ciò che ha evitato allora, l’umiliazione della Troika». Shock Economy.

Le misure economiche poste in essere dall’allora Governo presieduto dallo stesso Monti e che egli dichiara hanno portato l’Italia «fuori dalla grave crisi finanziaria»hanno riguardato, soprattutto, e continuano a riguardare il taglio della spesa pubblica per diminuire il deficit di Bilancio.

Detto in parole più semplici, il taglio della spesa pubblica diviene quasi sempre un taglio alle spese sociali, che equivalea diretaglio dei servizi.

In Italia, stando ai dati diffusi dal Censis, i finanziamenti dati alle Regioni e legati ai servizi sociali si sono ridotti di circa l’80% dal 2007 al 2014 (da 1.600milioni di euro a 297milioni di euro). Per quantificare un esempio, ma i tagli dal 2007 a oggi hanno riguardato anche la scuola pubblica e quindi l’istruzione, la sanità e quindi la salute dei cittadini e la loro assistenza. E via discorrendo…

Sempre del Censis i dati relativi all’indebitamento di oltre 7milioni di italiani per pagare le cure mediche. Ci sono poi anche quelli che non si indebitano ma, semplicemente, rinunciano a curarsi perché i soldi non li hanno. E questa è l’amara realtà conseguenza diretta dell’austerità, di quel “sacrificio necessario” richiesto da Monti, dal suo governo e da quelli successivi.

Una domanda però bisogna porsela: perché c’è stata la cosiddetta esplosione del debito pubblico italiano che ha reso necessario gli interventi di riordino dei conti pubblici pena la Troika?

Sul sito della Consob, l’Autorità italiana per la vigilanza dei mercati finanziari, si legge che la crisi finanziaria del 2007 ha avuto inizio, in realtà, negli Stati Uniti già a partire dal 2003, allorquando «cominciò ad aumentare in modo significativo l’erogazione di mutui ad alto rischio», ossia a clienti che in condizioni normali non avrebbero ottenuto credito perché «non sarebbero stati in grado di fornire sufficienti garanzie». Ciò è stato reso possibile dalla cosiddetta bolla immobiliare, favorita dalla Federal Reserve che ha consentito al prezzo degli immobili di salire mantenendo tassi di interesse bassi. Ma, soprattutto, dalla cartolarizzazione, ovvero dalla possibilità per gli istituti di credito, le banche, di trasferire i mutui, dopo averli “trasformati” in titoli, a soggetti terzi e recuperare così buona parte del credito vantato. In questo modo le istituzioni finanziarie «poterono espandere enormemente le attività in rapporto al capitale proprio», realizzando profitti molto elevati, ma esponendosi anche al «rischio di perdite ingenti».

«I titoli cartolarizzati sono stati sottoscritti da molti investitori sia negli Usa che in Europa».

Bill Black, uno dei supervisori bancari americani, ricorda, intervistato in Capitalism di Moore, che l’FBI «iniziò ad allertare l’opinione pubblica nel settembre del 2004 sul fatto che ci fosse un’epidemia di frodi sui mutui messa in atto dalle banche». Ma l’amministrazione Bush destinò centinaia di agenti specializzati in crimini finanziari ad altre mansioni, nonostante «stavamo entrando, durante tutto il periodo dell’amministrazione Bush, nella più grande ondata di crimini finanziari del Paese ma, in realtà, della storia mondiale».

Ritornando all’analisi della crisi fatta dalla Consob, si legge che le operazioni di cartolarizzazione generavano prodotti strutturati molto complessi, poco standardizzati e poco liquidi. I prodotti strutturati, inoltre, venivano scambiati prevalentemente over the counter (OTC), ossia «al di fuori dei mercati regolamentati, e in assenza di prezzi significativi, cioè di prezzi utilizzabili per una loro valutazione condivisa dagli operatori di mercato». In quella circostanza fu palese che le agenzie «avevano assegnato rating troppo generosi (anche per effetto di conflitti di interessi che creavano incentivi in tale direzione) e si erano dimostrate troppo caute nel rivedere il proprio giudizio sugli emittenti che incominciavano a manifestare i primi segnali di crisi».

«Le istituzioni finanziarie coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite».Tali titoli, ormai ampiamente diffusi sul mercato, persero ogni valore e diventarono illiquidabili. La banca di investimento Lehman Brothers avviò le procedure fallimentari il 15 settembre del 2008 e questo innescò un ulteriore processo di «tensione e incertezza sui mercati».

La crisi apparve sempre più nella sua «natura sistemica», con “turbolenze” senza precedenti che si estesero dal mercato dei prodotti strutturati ai mercati azionari e, progressivamente, all’intero sistema finanziario evidenziando un «elevato grado di interconnessione».

In breve tempo la crisi dei mutui si trasferì all’economia reale statunitense ed europea provocando «una caduta di reddito e occupazione». Sempre sul sito della Consob si legge che, nel complesso, gli aiuti erogati alle banche dei rispettivi sistemi nazionali in Europa ammontano a 3.166miliardi di euro, sotto forma di «garanzie (2.443miliardi), ricapitalizzazioni (472miliardi) e linee di credito e prestiti (251miliardi)». La Consob dichiara di far riferimento a dati MBRES del dicembre 2013.

3.166miliardi di euro.

«I salvataggi bancari accrebbero in modo significativo il debito pubblico dei paesi coinvolti, gettando i presupposti per la cosiddetta crisi del debito sovrano».

La crisi del debito sovrano dei paesi europei è dovuta quindi alla crisi finanziaria partita da Wall Street ed estesasi fino agli istituti finanziari europei che hanno poi ricevuto, in complesso, 3.166miliardi di euro di aiuti.

Ora la domanda che viene da porsi è: perché per far rientrare il debito pubblico non è stato richiesto un sacrificio alle banche invece che ai cittadini?

Ma sorgono anche altri interrogativi. Ipotizzando anche e volendo dare per buona la versione che sostiene l’effetto sorpresa della crisi del 2007, ovvero che ha avuto un effetto domino perché inaspettata, allora ci si chiede cosa in concreto sia stato fatto per evitare che accada di nuovo. I mercati finanziari deregolati sono stati regolamentati? Se gli aiuti a sostegno delle banche hanno come conseguenza l’esplosione dei debiti pubblici degli Stati è stato previsto un piano differente di intervento in caso di nuova crisi? Invece di darli alle banche tutti quei miliardi di euro non potrebbero essere destinati direttamente all’economia reale? Al welfare? Al pubblico impiego? Al sociale? All’istruzione? Alla sanità? Cosa hanno poi fatto le banche con quei soldi pubblici? Contano di restituirli?

Ripensando alle parole di Mario Monti sembrerebbe proprio di no. Piuttosto pare ci sia una qualche tanto grave quanto incomprensibile responsabilità dei cittadini e dell’allora opposizioni incapaci di comprendere fino in fondo la serietà della “vergogna della Troika”. Con il 92% del consenso in Parlamento il governo Monti sarebbe riuscito a portare l’Italia fuori dalla crisi finanziaria e ad avviare una «seppur lenta, ripresa». Forza Italia, Partito Democratico, Fratelli d’Italia… li nomina tutti come sostenitori tranne la Lega, unica forza politica di opposizione nel Parlamento di allora, e Movimento Cinque Stelle come esterno alle istituzioni. All’epoca c’erano solo il blog di Grillo e i meetup.

Uno dei punti chiave su cui si è tanto insistito, lo ha fatto il governo Monti e lo ha fatto anche il governo Renzi, era il precetto del 3%. Se il deficit restava al di sotto di questa percentuale la ripresa e con essa la crescita dell’Italia sarebbero arrivate più fervide che mai. In più sedi istituzionali e conferenze Matteo Renzi ha sottolineato la coerenza del suo esecutivo nel rispettare questa direttiva.

Restare al di sotto del 3% significa mantenere la politica di tagli alla spesa pubblica.

Ma da dove viene fuori questo 3%? Funziona davvero?

Guy Abeille, ex funzionario del Ministero delle Finanze francese, ai microfoni dei giornalisti di PresaDiretta, intervista poi ripresa anche nel documentario Piigs, dichiara che, una sera del 1981, l’allora Presidente Mitterrand lo chiama perché necessita di una norma che fissasse il tetto del debito pubblico. «Il Presidente voleva qualcosa di semplice, di pratico. Non cercava una teoria economica ma uno strumento a uso interno». Siccome tutte le soluzioni sembravano complicate, Abeille e colleghi hanno pensato di rapportare il deficit al Pil. Il risultato di questa elementare operazione matematica è stato 3. Ed ecco il 3%. «Nessun criterio scientifico».

Qualche anno più tardi, quando a Maastricht bisogna trovare una regola per l’unione monetaria, Trichet disse: «Noi abbiamo un numero che ha funzionato benissimo in Francia». Da quando il 3% è diventato una regola, continua Abeille, «tutti hanno dovuto legittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica, della gente che vota», gli economisti hanno elaborato mille spiegazioni scientifiche, ma «io posso garantire che le cose sono andate esattamente come ho raccontato».

Sembra una barzelletta ma in realtà è molto triste. Sarà per questo motivo, forse, che alla prima votazione utile il popolo italiano ha premiato proprio quelle forze politiche che hanno scelto, nel tempo, di rimanere fuori da quel 92% che ha preferito invece imporre “sacrifici” alla popolazione tra cui proprio la regola del 3%.

In effetti lo scrivevano anche i relatori del Rapporto Citigroup in America che il diritto di voto equanime può essere un grande problema, perché i non ricchi non hanno potere economico ma sono in tanti, tantissimi, e siccome ogni persona ha diritto a un solo voto, il loro complessivamente supera di gran lunga quello delle élite, ovvero di coloro che, da questa immensa crisi finanziaria che ha investito l’economia reale di praticamente tutti i Paesi, sono riusciti forse anche a guadagnarci. Ho scritto forse ma penso di sicuro.

La Consob segnala che, nel novembre 2012, è stato adottato il nuovo Regolamento europeo come contromossa della crisi che ha messo in discussione anche «la capacità di tenuta di quasi tutti i comparti della regolamentazione del sistema finanziario», per l’attitudine a «creare un sistema di incentivi distorto e deresponsabilizzante». Gli eventi occorsi hanno messo in evidenza «la necessità di una riforma degli assetti istituzionali della supervisione finanziaria in Europa e negli Usa» e di rivedere «l’approccio tradizionalmente improntato all’autodisciplina» in alcuni settori del mercato finanziario, tra i quali «quello relativo ad agenzie di rating, fondi speculativi e mercati cosiddetti over the counter». In Europa è stata disegnata una nuova «architettura istituzionale» volta a promuovere «regole armonizzate e prassi uniformi di vigilanza e applicazione delle norme».

Sulle politiche di austerity invece permane la visione condivisa di governi locali e comunitari.

Riacquistare la capacità critica, la forza di volontà, creare gli anticorpi alla dottrina della shock economy, riappropriarsi degli strumenti utili a dar voce alle popolazioni e ai loro diritti, lo sciopero, la piazza, la cabina elettorale… Ecco la vera forza del popolo, della Democrazia.

Michael Moore sostiene che, nonostante i contenuti, le case di produzione e distribuzione cinematografica scelgano di produrre e distribuire egualmente i suoi documentari perché convinte che forniranno comunque un incasso e che la gente, anche se li guarderà, poi non farà nulla di così rivoluzionario da mettere in bilico il sistema. Moore è convinto del contrario e continua a lavorare a sempre nuovi documentari-inchiesta. Chi ha ragione? Solo il popolo, le scelte e le decisioni che prenderà potranno dirlo.

Le parole dell’operaia della Republic in sciopero per far valere i propri diritti di lavoratrice e cittadina sintetizzano alla perfezione il mix di meraviglia ed entusiasmo che accompagna la scoperta della possibilità di liberarsi della privazione sensoriale cui si viene costantemente sottoposti: «Se ti è stato ripetuto per un’intera vita che le cose stanno come ti dicono gli altri, iniziare a pensare di cambiarle è una cosa grossa». Immaginate riuscirsi cosa sarà.


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Il ‘trumpismo’ decreterà la fine della più ‘grande’ democrazia occidentale? “TRUMPLAND” di Luca Celada (manifestolibri, 2018)

30 mercoledì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LucaCelada, manifestolibri, monocolooccidentale, NWO, Occidente, recensione, saggio, TRUMPLAND

 

Stando a quanto scrive Luca Celada in TRUMPLAND. Scheletri e fantasmi dell’America nazional-populista, edito da manifestolibri, il rischio di vedere l’inabissamento della democrazia americana c’è ed è anche molto alto. Il ‘trumpismo’ imporrà «una necessaria resa dei conti? O è semplicemente il prologo al degrado definitivo, all’inferno hobbesiano che anticipa secoli bui di un declino oscurantista?». Celada teme che ciò possa riguardare non solo l’America ma l’Occidente intero con ripercussioni sull’intero pianeta.

L’autore sembra dimenticare però che, per la gran parte degli abitanti del pianeta, questo “buio” così temuto per l’Occidente è realtà da secoli ormai. Per tutto il tempo che è servito allo stesso Occidente a cercare di convincere tutti che il libero mercato, incluso quello finanziario, avrebbe rappresentato la crescita estrema del pianeta. Una folle corsa verso il tanto agognato benessere che sta involvendo e rapidamente anche in una rovinosa caduta libera verso la distruzione, l’autodistruzione. Il presidente degli Stati Uniti viene indicato come un problema e, per tanti versi, lo è ma il nocciolo fondamentale è che non si riesce a vedere oltre, a guardare a un mondo che sia profondamente e realmente diverso, che non sia per intenderci neoliberista, capitalista, lobbista e finanziario.

Il dilemma americano, sottolinea Celada, è in gran parte quello di tutto l’Occidente, «e coincide con quello delle sinistre, che ovunque stentano a trovare una risposta adeguata alla crisi del tardo neoliberismo». Invece di dedicare ogni energia e ogni strumento a disposizione per risolvere questo vero problema le sinistre, in America come in Europa, rifiutano finanche di ammettere le sconfitte elettorali, la constatazione di essersi staccate dalla realtà nella quale vive il popolo che loro amano sempre più chiamare semplicemente “elettorato”.

È vero, come sostiene Celada in TRUMPLAND, che i proclami del presidente non servono, ma altrettanto inutili sono le ideologie e fors’anche le idee laddove non trovano la concretizzazione in leggi e provvedimenti efficaci. L’amministrazione Obama che tanto viene osannata e giudicata tra le migliori, e forse lo è anche stata, ha comunque continuato a siglare accordi esteri per la fornitura di armi e materiale bellico e la tanto declamata riforma sanitaria continuava a lasciare senza copertura sanitaria decine di migliaia di cittadini americani e, anche per coloro che rientravano nell’assistenza, le coperture erano risicole. “Meglio di niente” si potrebbe obiettare. Anche se lo spirito migliore sarebbe non di scegliere il male minore ma chiedere a gran voce il giusto. Il punto piuttosto è un altro: gli americani abbienti sono disposti ad accollarsi questi oneri? Il risultato elettorale delle presidenziali del 2016 parlano abbastanza chiaro.

Angelo Mincuzzi, autore insieme a Hervé Falciani de La cassaforte degli evasori (Chiarelettere, 2015), in un’intervista ha dichiarato: “tra i documenti della banca risulta chiaramente come i clienti della HSBC preferissero perdere i soldi in operazioni finanziarie sbagliate, a volte anche venire truffati dai gestori, ma la cosa che non volevano assolutamente era pagare le tasse su quei soldi”. Pagare le tasse equivale a contribuire a sostenere il welfare. E loro non lo vogliono fare.
È vero che la presidenza Trump l’ha strappata per i voti dei grandi elettori ma lo è anche che quasi 63milioni di americani hanno scelto di votare per lui. E non sono certo pochi.

Se almeno, in tutti questi anni, la gran parte dei media e dei giornalisti non si fossero, al pari di governi e amministratori, piegati ai diktat del mercato e della finanza forse non si sarebbe mai arrivati al punto in cui invece si è rovinosamente giunti.
La domanda da porsi è: “in che percentuale media e stampa raccontano e hanno raccontato la verità, sempre e comunque?”

Nel suo documentario, omonimo del libro di Celada, Micheal Moore sostiene che «ogni dipendente licenziato, anonimo, dimenticato, che fa parte della cosiddetta classe media, ama Trump. Lui è il cocktail umano esplosivo che loro stavano aspettando. La bomba a mano umana che potevano tirare legalmente sul sistema che gli aveva rubato la vita». Chi li ha portati a questo livello di rabbia e disperazione?

Elencare i difetti e gli errori di Trump serve fino a un certo punto. Se i media americani, per esempio, avessero sempre raccontato la verità invece di portarlo a diventare una star amata dal pubblico per i suoi già improbabili programmi forse il popolo americano non avrebbe preso così tanto sul serio la sua candidatura alle presidenziali. Troppo spesso e per troppo tempo i cronisti, di tutto l’Occidente, sono stati al servizio degli “stregoni della notizia” e quindi ogni loro allontanamento da questa “retta” linea viene automaticamente vissuto come una sorta di tradimento anche dallo stesso presidente americano il quale, «sparando a zero dalla postazione Twitter della Casa Bianca sulle riviste che gli negano la copertina di uomo dell’anno, chiedendo la chiusura di network, declassando l’intera categoria dei giornalisti a “nemici della patria”», in fondo non fa che manifestare il suo stupore. Quante copertine e quante apologie gli hanno dedicato osannando le sue doti di imprenditore e uomo d’affari e celando tutto il resto? Relazioni e amicizie che naturalmente continua a coltivare anche ora che è diventato presidente.

Per Celada l’America ancora non si capacita di ciò che è accaduto ma stiamo parlando di un Paese davvero “grande”, immenso, vasto e per comprendere gli americani non bisogna seguire l’informazione da format o da spot che viene propinata al pubblico mondiale in tutte le salse. Il Paese più democratico e liberale che esista al mondo. No, la vera America e la sua reale popolazione è quella che sta dietro le telecamere, lontano dai riflettori, “nascosta” e disseminata lungo un vastissimo territorio conquistato e dominato proprio in nome del tanto caro a Trump imperativo o mantra come dir si voglia che vede e vuole la supremazia assoluta e incondizionata dei bianchi su tutte le altre etnie.

Luca Celada non disdegna di sottolineare più volte all’interno del libro la sua consapevolezza che il neo presidente americano, la first family e le loro azioni rappresentano e incarnano, per certi versi, il male assoluto per l’America certo ma anche per l’intero pianeta. Ciò che realmente sorprende il lettore non è il resoconto dettagliato delle azioni di Trump, prevedibili e già note per chi sceglie di informarsi comunque e diversamente, bensì il fatto che l’autore, corrispondente Rai a Los Angeles per 20 anni e inviato per «Il Manifesto» abbia dovuto scrivere un libro e pubblicarlo con una casa editrice indipendente per raccontarle.

TRUMPLAND di Luca Celada è scritto con un ritmo serrato, come se l’autore avesse dovuto faticare per riuscire a far rientrare tutto quello che riteneva necessario scrivere e che, per questo, abbia dovuto “aumentare la velocità”. Lo stile è deciso. Celada voleva chiaramente che al lettore arrivasse in modo inequivocabile il messaggio e le informazioni che intendeva divulgare.


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Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018)

26 giovedì Apr 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Laterza, Lultimalezione, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, ZygmuntBauman

Esce in prima edizione a gennaio 2018 per Laterza L’ultima lezione di Zygmunt Bauman nella versione tradotta da Valentina Pianezzi e Fabio Galimberti, che si è occupato de L’eredità del XX secolo e come ricordarla; contenente anche un saggio di Wlodek Goldkorm. Un libro con un grande insegnamento positivo, come sottolinea nella prefazione Fabio Cavallucci: «La crisi della storia, le avversità della natura, persino la natura spesso malvagia dell’uomo non possono impedirci di continuare a operare, a costruire, a lavorare per un mondo migliore». Un saggio frutto delle più profonde e importanti analisi di Bauman orientate dallo sforzo costante di individuare i fili nascosti della trama della vita sociale e di trasformare in senso comune le idee maturate nella propria ricerca intellettuale. Unico modo per garantire «quell’osmosi feconda tra riflessione e vita condivisa», come evidenzia lo stesso editore nella sua nota.

Un filosofare, quello di Zygmunt Bauman, che nasce spesso da «teorizzazioni delle sue vicende biografiche», ricorda a margine del saggio Goldkorm. Una biografia che ne ha di cose da raccontare, pregna di esperienze difficili e che hanno portato l’autore a vedere davvero il mondo con occhi diversi. Una visione globale del pianeta che abbraccia soprattutto i popoli e non, come si vorrebbe, soltanto le economie. Un’analisi obiettiva e a tratti ‘spietata’ degli errori commessi e protratti nell’affrontare conseguenze gravi, come le migrazioni globali di popoli, con una visione ancora troppo nazionalista e faziosa.

Un rifiuto nel vedere e soprattutto nel tentare di capire quanto sta accadendo nel mondo, il perché intere popolazioni sono costrette a migrare, nel razionalizzare, coscientemente o meno, che quanto sta accadendo a loro è, alla fin fine, casuale, nel senso che potrebbe un giorno accadere anche a noi. E se da un lato è vero che qualsiasi cosa accade nell’universo è casuale, lo è anche che le guerre «possiamo fare in modo che non scoppino». Tuttavia nello Stato moderno si preferisce scegliere la strada del rifiuto e della negazione con «l’esclusione di tutto ciò che è ingestibile e pertanto indesiderabile». Arrivando ripetutamente agli “omicidi categoriali”, allorquando «uomini, donne e bambini sono stati sterminati perché assegnati a una categoria di esseri da sterminare». E Bauman parla in maniera approfondita degli ebrei, degli armeni, dei kulaki, dei musulmani, degli induisti… sottolineando come «tutti i continenti della terra hanno avuto i loro hutu che hanno massacrato i loro vicini tutsi, e ovunque i tutsi del luogo hanno ripagato con la stessa moneta i loro persecutori».

Edith Birkin, “A Camp of Twins – Auschwitz” – 1980/1982

Quello che conta è arrivare in cima e rimanerci, essere il più forte. L’inattaccabile. Mascherando la ferocia con la necessità di sopravvivere, un valore che «vale la pena perseguire di per sé, non importa quanto elevato possa essere il costo per gli sconfitti, e fino a che punto possano uscirne depravati e degradati i vincitori». Una lezione che Bauman stesso definisce “terrificante”.

Nel nostro mondo di modernità liquida, di rapida disintegrazione dei legami sociali e dei loro contesti tradizionali, le comunità, così come le società, possono essere soltanto conquiste, «artifizi di uno sforzo produttivo». E l’omicidio categoriale va inteso ormai come un sottoprodotto, «un effetto collaterale o una scoria della loro produzione». Per Bauman, la rilevanza dell’olocausto «risiede nel suo ruolo di laboratorio», dove sono state condensate, portate in superficie e rese visibili «certe potenzialità, precedentemente diluite e sparpagliate, delle forme moderne e largamente condivise di convivenza umana». La lezione più importante che dà è il rivelare «il potenziale genocidiale innato nelle nostre forme di vita e le condizioni in presenza delle quali tale potenziale più produrre i suoi frutti letali».

Per tagliare alle radici la tendenza genocida «si deve dichiarare inammissibile il sistema dei due pesi e delle due misure», del trattamento differenziato e della separazione, che getta le basi per «una battaglia per la sopravvivenza condotta come gioco a somma zero». La “concorrenza sfrenata per la violenza” si alimenta dello stesso «disordine mondiale su cui prospera la concorrenza sfrenata per i profitti». Non esistono soluzioni locali a problemi globali e, in un pianeta in via di globalizzazione, «i problemi umani possono essere affrontati e risolti solo da un’umanità solidale».

Un grande saggio L’ultima lezione di Zygmunt Bauman, un testo che espone senza pregiudizi quanto accade o è accaduto e che propone delle soluzioni assolutamente non di parte, come è giusto che sia, se risolutive si vuole esse siano. Un libro assolutamente da leggere.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Gruppo Editoriale Laterza per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore www.laterza.it


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“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea) 

 “È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016) 

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano 

Quando l’intreccio di un libro è quello di vite vere. “Il bambino del treno” di Paolo Casadio (Piemme, 2018) 

Il grido dei bambini vittime delle guerre. “Caro mondo” di Bana Alabed (Tre60, 2016) 

Prigioni mentali e dittature politiche in “193 gabbie” di Rezart Palluqi (Ensemble, 2016) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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AndreaFoffano, articolo, BanaAlabed, CaroMondo, GiuliettoChiesa, LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, paura, Piemme, PierreJeanLuizard, Putinofobia, recensione, RosenbergSellier, saggio, Siria, Solfanelli, terrore, Terrorismo, tre60

I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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In Terra Santa regnerà per sempre la guerra?

27 mercoledì Dic 2017

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monocolooccidentale, Occidente

Il giorno 6 dicembre 2017 tutti i media internazionali rilanciano la notizia bomba della decisione del presidente americano Donald Trump: l’ambasciata verrà spostata da Tel Aviv a Gerusalemme perché, a suo dire, «non si può continuare con formule fallimentari. La scelta di oggi su Gerusalemme è necessaria per la pace».

Per la pace? Di chi?

Il segretario generale della Lega araba, Ahmed Aboul Gheit, ha definito il gesto «una provocazione ingiustificata», aggiungendo che «la posizione religiosa nel cuore di tutti gli arabi, musulmani e cristiani, rende assurda qualsiasi manipolazione del suo status».

Alla decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, e il presidente Reuven Rivlin rispondono invocando «il cammino di pace». Per l’Olp – Organizzazione per la liberazione della Palestina invece agendo in questo modo il presidente americano «ha distrutto ogni speranza di soluzione di pace sulla base del principio dei due Stati». Il presidente palestinese Abu Mazen teme che il gesto «aiuterà le organizzazioni estremistiche a intraprendere una guerra di religione che danneggerà l’intera regione che attraversa momenti critici, e ci trascinerà dentro guerre senza fine».

Durante la 200esima sessione della Commissione esecutiva Unesco, tenutasi a Parigi il 13 ottobre 2016, fu approvata una risoluzione che in buona sostanza cercava di limitare gli interventi israeliani sulla spianata delle Moschee adducendo come motivazione il fatto che tale luogo riveste notevole importanza per le tre grandi religioni monoteiste, non solo per gli ebrei. Israele intanto aveva già inserito i due siti palestinesi (Al-Haram Al-Ibrāhīmī/Tomb of the Patriarchs a Al-Khalil/Hebron e il Bilāl ibn Rabāh Mosque/Rachel’s tomb a Betlemme) nell’elenco del proprio Patrimonio Nazionale e risposto alla richiesta di cancellarli invocando l’antisemitismo dilagante.

Nella risoluzione Unesco viene chiesto a Israele di:

  • Ripristinare lo status quo valso fino al settembre 2000, allorquando la gestione del sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif era di competenza della Fondazione religiosa Jordanian Awqaf Department. 

  • Fermare l’escalation di aggressioni e misure illegali poste in essere contro il personale della Jordanian Awqaf.

  • Fermare la continua occupazione del sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif da parte degli estremisti di destra e delle forze militari.

  • Fermare le continue aggressioni ai danni di civili, comprese figure religiose musulmane e preti.

  • Porre fine alle violazioni e alle restrizioni all’accesso al sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif, evitando in questo modo le conseguenti violenze e quanto accaduto nel 2015.

  • Rispettare l’integrità, l’autenticità e l’aspetto culturale del sito di Al-Aqşa Mosque/Al-Haram Al-Sharif e si afferma di essere rammaricati per i danni causati dalla polizia israeliana alle porte e alle finestre della Moschea di al-Qibli essendo il luogo di culto musulmano parte integrante del sito Patrimonio dell’umanità.

  • Rinunciare a tutti i progetti di costruzione relativi all’area del sito Patrimonio dell’umanità.

Il 23 dicembre 2017 Israele annuncia di voler lasciare l’Unesco entro la fine del 2018 «per i sistematici attacchi da parte dell’organizzazione delle Nazioni Unite contro lo Stato ebraico». Il portavoce del ministero degli Esteri, Emmanuel Nashon, avrebbe precisato che la decisione «è stata presa per i tentativi dell’Unesco di disconnettere la storia ebraica dalla terra di Israele».

Il 12 ottobre 2017 anche gli Stati Uniti d’America avevano annunciato di voler lasciare la «agenzia delle Nazioni Unite dopo mesi di tensioni sul nodo del Medio Oriente». Un annuncio prontamente avvalorato dal premier Netanyhau: «La decisione di Trump è coraggiosa e morale, perché l’Unesco è diventato un teatro dell’assurdo e perché piuttosto che preservare la storia la distorce». L’Unesco sarebbe così diventata «la sede di risoluzioni bizzarre, anti israeliane e in pratica antisemite».

Il Dipartimento di Stato Americano ha reso noto che, con la decisione di ritirarsi dall’Unesco, «gli Usa intendono diventare poi un osservatore permanente della missione per contribuire alle visioni, prospettive e competenze americane su alcune delle importanti questioni affrontate dall’organizzazione inclusa la tutela del patrimonio dell’umanità». Gli Stati Uniti intendono quindi diventare un ‘osservatore’ esterno rispetto all’organizzazione delle Nazioni Unite che conta quasi 200 stati membri ed è preposta a promuovere pace e sicurezza attraverso la collaborazione scientifica, culturale e nell’educazione.

Quando la Corte Penale Internazionale de L’Aia ha avviato un’indagine preliminare per verificare se in Palestina siano stati commessi dei crimini di guerra, il ministro degli esteri israeliano, Avigdor Lieberman, ha bollato la decisione come «scandalosa» in quanto avrebbe come unico scopo quello di «arrecare danno al diritto di Israele di difendersi contro il terrore». Già al momento dell’adesione al Trattato di Roma il Presidente palestinese Abu Mazen aveva fatto pervenire alla Corte un documento con il quale autorizzava l’apertura di procedimenti di inchiesta per presunti crimini di guerra commessi nei territori palestinesi occupati a partire dal 13 giugno 2014.

Avigdor Lieberman ha definito ‘scandalosa’ la decisione della Corte Penale Internazionale de L’Aia di condurre un esame preliminare sull’operato bellico del suo Paese nei ‘territori occupati’:

 

«Decisione scandalosa il cui unico scopo è giudicare e arrecare danno al diritto di Israele di difendersi contro il terrore. […] La stessa Corte che non ha trovato motivo di intervenire in Siria dove ci sono stati più di 200 mila morti, o in Libia o in altri posti, trova appropriato ‘esaminare’ il più morale esercito del mondo in una decisione basata interamente su considerazioni anti israeliane. […] Israele agirà nella sfera internazionale per ottenere lo smantellamento della Corte Penale Internazionale, che rappresenta l’ipocrisia e mette le ali al terrore».

 

Per Lieberman la decisione presa da Abu Mazen «sancisce la fine degli accordi di Oslo», siglati tra Israele e Olp nel 1993, che posero le basi degli obiettivi a lunga scadenza da raggiungere, compreso il ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania e il riconoscimento del diritto dei palestinesi all’autogoverno in quei territori.

Viene naturale chiedersi se quello israeliano sia davvero “il più morale esercito del mondo” o no.

Usa, Israele e Sudan sono tra i paesi firmatari il trattato istitutivo della Corte Penale Internazionale dell’Aja (Cpi), lo Statuto di Roma, anche se poi hanno dichiarato di non avere intenzione di ratificare.

Breaking the silence. Israeli soldiers talk about the occupied territories è un’associazione di ex militari israeliani di stanza a Hebron, fondata nel 2004 che raccoglie testimonianze di veterani e arruolati. Le documentazioni riportate sono molto cruente e spesso il sito, l’associazione e i suoi membri sono stati accusati di diserzione o spionaggio da parte del governo israeliano.

C’è una testimonianza video caricata da Breaking the silence sul canale Youtube nella quale un soldato, di cui è oscurato il volto, racconta dell’operazione Margine protettivo del 2014: «per l’esercito israeliano, se una persona si trova entro 200 metri da un carro armato, non è innocente. Non ha motivo di essere lì. Quindi anche se avessimo trovato una persona a due chilometri di distanza avremmo comunque aperto il fuoco, perché non era previsto ci fossero civili nella zona. Se avessimo trovato qualcuno, non sarebbe stato un civile. Per noi non esistevano civili. Se vedevamo qualcuno, gli sparavamo».

“Per noi non esistevano civili”.

145 testimonianze raccolte da Breaking the silence sono diventate La nostra cruda logica, pubblicato in Italia da Donzelli Editore con prefazione di Alessandro Portelli nel 2016. Si legge nella prefazione: «Nessuno di questi soldati ha neanche l’ombra di un’incertezza sul diritto di Israele a esistere, a difendersi, a vivere con sicurezza. Ma cominciano a domandarsi se questo sia il modo migliore, più morale e a lungo termine più realistico di perseguire questi fini, se questo corrisponda ai principi che hanno fondato il paese al quale appartengono e che amano e servono». I soldati «hanno paura, si sentono soli, sono confusi, non capiscono; sanno di essere circondati da ostilità; usano in senso anche molto estensivo il termine terrorista». Sembrano ritenere che «nei Territori, ogni palestinese è un potenziale terrorista».

«Ci sono un sacco di episodi. Le stronzate di ogni tipo che facevamo. Picchiavamo di continuo gli arabi, niente di speciale. Giusto per passare il tempo.»

«Avevi detto che pensavate di continuo a come surriscaldare l’atmosfera. Cosa significa? Beh, volevamo tenerci svegli, quindi cercavamo un modo per innervosire un po’ gli arabi, così gli sparavamo un sacco di pallottole di gomma, per tenerci impegnati, così il tempo a Hebron sarebbe passato un po’ più in fretta.»

«Uscivamo di pattuglia, ecco un esempio, qualche ragazzino magari ci guardava in questo modo, e non ci piaceva il suo sguardo – e allora veniva immediatamente colpito.»

Unità: Brigata Kfir; Località: Hebron; Anni: 2006-2007

I soldati affermano anche che episodi tipo quelli riportati nel libro o sul sito di Breaking the silence erano prassi, avvalorata e spesso concordata con gli stessi ufficiali al comando delle truppe. Mentono? Lo fanno anche i palestinesi che da anni denunciano questo genere di violenze?

Il 7 dicembre 2017 il leader di Hamas annuncia: «venerdì 8 dicembre sarà l’inizio di una nuova Intifada chiamata la liberazione di Gerusalemme». E già si registrano numerosi scontri e feriti a Gaza e Cisgiordania dove i palestinesi copiosi partecipano a manifestazioni di protesta contro la decisione del presidente Trump di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele e trasferirvi l’ambasciata americana.

I palestinesi rivendicano da tempo immemore ormai Gerusalemme Est come capitale di quel tanto atteso e sperato Stato palestinese il cui riconoscimento sarebbe pietra miliare nel processo di pace. Nelle dichiarazioni del presidente americano non ci sono riferimenti a quale parte della città o della sua totalità come capitale dello Stato di Israele ma in ogni caso parliamo di una decisione che avrà «ripercussioni pericolose sulla stabilità e sulla sicurezza del Medio Oriente», come ha sottolineato il re di Giordania Abdullah II commentando la decisione di Trump. Ancora più categorico il presidente turco Erdogan il quale considera l’eventuale riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele «una linea rossa per i musulmani».

Trump ha tenuto a sottolineare che l’annuncio risponde al «migliore interesse degli Stati Uniti, di Israele e dei palestinesi». E allora ci si chiede come una decisione unilaterale che fa nettamente pendere l’ago della bilancia verso una sola delle parti possa agevolare anche le altre.

Il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che «sta al popolo palestinese guidare la terza Intifada contro questa decisione, e sta alla Resistenza, palestinese e libanese, assumersi le proprie responsabilità per favorire l’unione di tutte le fazioni e i partiti palestinesi e sostenere la causa di Gerusalemme contro il complotto americano». Sottolineando anch’egli che gli Usa ormai non potranno più porsi come mediatori tra palestinesi e israeliani.

Quello che è riuscito a ottenere finora il presidente Trump non sembra essere un avanzamento nel processo di pace a beneficio di tutte le parti quanto, piuttosto, un inasprimento del muro contro muro che da sempre caratterizza la strenua lotta tra i governi e relativi popoli.

Abdel Bari Atwan dalle colonne del quotidiano online Rai Al Youm ipotizza l’ennesimo errore di valutazione di americani, sauditi e israeliani, dopo quanto già accaduto in Siria: «Washington e Riyadh stimavano una reazione apatica della popolazione araba mentre, al contrario, i palestinesi oggi lottano insieme al rinnovato sostegno dei loro fratelli arabi e musulmani per ottenere la vittoria». Si tratta davvero dell’ennesimo errore di valutazione oppure Tel Aviv è pronta alla repressione contro le proteste palestinesi forte anche del rinvigorito appoggio americano?

Donald Trump e Benjamin Netanyahu si sono mostrati decisi e soddisfatti per il prossimo trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme che verrà a quel punto indicata come legittima capitale dello Stato ebraico affermando che questo sarà un passo avanti nel cammino di pace.

Giovedì 21 dicembre 2017 è stata votata in sessione straordinaria all’Assemblea generale dell’Onu la decisione di Trump di spostare l’ambasciata americana e riconoscere Gerusalemme capitale dello Stato d’Israele. 128 nazioni hanno votato a favore della condanna, 9 contrarie, 35 astenute e 21 assenti. I nove contrari, oltre Stati Uniti e Israele sono: Guatemala, Honduras, Togo, Micronesia, Narau, Palau, Isole Marshall. Il 24 dicembre 2017 gli Stati Uniti hanno iniziato a negoziare un taglio di 285 milioni di dollari di fondi destinati all’Onu per il 2018 motivando il gesto a causa della “inefficienza e le spese facili dell’Onu”.

A partire dalle ore immediatamente successive a queste dichiarazioni scontri e sommosse si sono verificati in Terra Santa e manifestazioni di protesta hanno avuto luogo in varie parti del pianeta. Sono state convocate diverse riunioni ufficiali in regime di urgenza per valutare la situazione e i risvolti. Sono stati sparati tre razzi da Gaza a cui Israele ha risposto sparando colpi di cannone e lanciando un’offensiva con raid aerei. Morti, feriti, violenza, attacchi e contro-attacchi, provocazioni e offensive… un cammino, o meglio un percorso che di pacifico non sembra avere proprio nulla, purtroppo.

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© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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