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Irma Loredana Galgano

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“Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt” a cura di Jacopo Perazzoli (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019)

29 lunedì Giu 2020

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DomenicoRomano, FernandoDAniello, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, JacopoPerazzoli, JosephStiglitz, KishoreMahbubani, ordinemondiale, Perunmodellodisviluppoalternativo, recensione, saggio, WillyBrandt

Riscoprire il Rapporto Brandt, a distanza di quarant’anni dalla sua pubblicazione, può diventare molto utile per gli attuali attori politici come per la sfera pubblica in generale.

È questo lo scopo per cui Jacopo Perazzoli, ricercatore presso la Fondazione Feltrinelli e docente di Storia contemporanea all’Università degli studi di Milano, ha curato il volume Per un modello di sviluppo alternativo che raccoglie gli scritti di Fernando D’Aniello e Domenico Romano oltre alle parole dello stesso Willy Brandt.

Un libro che non vuole essere un mero esercizio agiografico né tantomeno un tentativo di ricercare elementi di attualità in quel documento. Il quarantesimo anniversario dalla pubblicazione deve essere, nelle intenzioni del curatore, un momento per comprendere che le grandi proposte possono essere realizzate se basate su solide analisi empiriche del quadro a cui si riferiscono. E che dette proposte possono avere un futuro concreto soltanto se la sfera politica se ne fa carico in maniera convinta. Ovvero il contrario esatto di ciò che è accaduto dopo la pubblicazione del Rapporto North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, nel febbraio del 1980 e del secondo memorandum del 1983, Common crisis. North-South: cooperation for world recovery.

Oggi, esattamente e forse ancora più di allora, persiste la necessità di trovare un nuovo modello di sviluppo globale capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo e di quelli poveri, anche di materie prime. Ovvero, come sintetizza Perazzoli, connettere prospettive differenti con l’obiettivo di individuare una crescita equilibrata.

Un dibattito che impegna economisti e studiosi, di oggi e di ieri. Joseph Stiglitz e Bruce Greenwald, convinti sostenitori della necessità di abbandonare, in economia, il neoclassicismo imperante e puntare su un modello di crescita economica basato sull’apprendimento, riprendono e sposano le teorie economiche di Kenneth Arrow.

Un maggiore innalzamento degli standard di vita potrebbe indurre una società dell’apprendimento molto più di quanto fanno e hanno finora fatto piccoli e isolati miglioramenti di efficienza economica o il sacrificio dei consumi correnti per intensificare il capitale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Buona parte della differenza tra i redditi pro capite di questi paesi e quelli dei paesi più avanzati è attribuibile a un gap di conoscenze. Adottare politiche in grado di trasformare le loro economie e le loro società in società dell’apprendimento li renderebbe in grado di colmare questo divario e ottenere una crescita dei redditi significativa. 1

Se un insegnamento può trarsi dal lungo lavoro della commissione presieduta da Willy Brandt, Perazzoli lo individua nella capacità di analizzare a fondo e senza pregiudizi lo stato dell’arte globale, rifuggendo dalla “pericolosa inclinazione ad individuare coloro che, a torto o ragione, possono essere ritenuti i responsabili delle complicate condizioni dell’oggi”.

La via da percorrere era ispirata dalla Ostpolitik, portata avanti dallo stesso Brandt durante il periodo in cui era stato cancelliere della Germania Federale (1969-1974), con la quale egli riteneva di aver dimostrato la possibilità di far emergere aree di interesse comune anche in presenza di irreversibili divergenze ideologiche. Se era stato possibile applicare questo principio al dialogo tra mondo capitalista e mondo comunista allora sarebbe stato possibile applicarlo anche alla negoziazione tra i vari paesi, sviluppati o meno che fossero.

James Bernard Quilligan, già policy advisor e press secretary della commissione, lavorando nel 2001 a un aggiornamento dei risultati prodotti, aveva individuato dodici capitoli su cui il gruppo Brandt si era espresso: lotta a fame e povertà, politiche per famiglia, donne, aiuti, debito, armamenti, energia e ambiente, tecnologica e diritto societario, commercio, monete e finanza, negoziazioni globali.

Le soluzioni a questi problemi, ricorda nel suo intervento Domenico Romano, sarebbero dovute arrivare tramite quattro tipi di intervento:

  • Riforme cooperative dell’ordine economico internazionale.
  • Un trasferimento di risorse economiche e tecnologiche molto intenso dal nord verso il sud, attraverso le multinazionali e tramite un aumento della quota Pil destinata agli aiuti allo sviluppo da parte dei paesi del nord.
  • Supporto al processo di disarmo e nuovi meccanismi di peace keeping internazionali, non tanto e non solo per ragioni etiche ma per liberare spazio per investire risorse nella crescita del sud del mondo.
  • Un programma energetico internazionale che tenesse stabili a un livello comunemente soddisfacente i prezzi e la fornitura di petrolio, in connessione con la ricerca di nuove fonti e forme di energia.

Il tutto sarebbe dovuto avvenire per il tramite di negoziazioni globali tra i protagonisti.

Romano sottolinea che, al di là delle singole soluzioni, l’aspetto centrale del Rapporto Brandt è individuabile in una coppia concettuale: interdipendenza e interesse comune.

L’interdipendenza creava lo spazio per l’interesse reciproco tra nord e sud. Il principale degli interessi comuni è “semplicemente” la sopravvivenza dell’umanità.


«È concreto il rischio che, nel 2000, gran parte della popolazione mondiale continui a vivere in condizioni di povertà. Non è escluso che allora il mondo risulti sovraffollato (e indubbiamente sarà iperurbanizzato), né che l’inedia di massa e i pericoli di distruzione aumentino inesorabilmente.»

Willy Brandt


Nell’attuale contesto economico dei paesi industrializzati, colpito anche da una disoccupazione elevata e vasti processi di trasformazione, è fuor di dubbio forte la volontà di voler proteggere l’economia nazionale a prezzo di uno squilibrio dell’economia internazionale. Ma Fernando D’Aniello ricorda che questo errore è stato commesso da Stati Uniti ed Europa già cinquant’anni or sono, allorquando “il mondo coloniale andò in bancarotta, il Nord America si rovinò, l’Europa fu avvolta dalle fiamme”.

Per Willy Brandt, un mutamento di carattere fondamentale non può essere frutto di carteggi bensì il risultato di ciò che, in un processo storico, prende forma o si abbozza nella mente degli uomini. Mutamenti e riforme non possono aver luogo a senso unico: devono essere favoriti da governi e popoli, sia delle nazioni industrializzate che di quelle emergenti. E, a tal proposito, egli riteneva doveroso invitare a collaborare in maniera più intensa la Repubblica Popolare Cinese, per dar modo anche ad altri di beneficiare della sua esperienza di massimo paese in via di sviluppo.

Solo tramite una vera democrazia globale, che riesca ad ascoltare e far partecipare anche le nazioni del Sud del mondo, quest’ultime accetteranno di sostenere la propria parte di responsabilità globale e non si sentiranno solo pedine su uno scacchiere.

Anche Kishore Mahbubani afferma sia giunto il momento, per l’Occidente tutto, di abbandonare molte delle sue politiche miopi e autodistruttive e perseguire una strategia completamente nuova nei confronti del Resto del Mondo. Una strategia che egli sintetizza con tre parole chiave e definisce appunto delle 3M: minimalista, multilaterale, machiavellica.

  • Il Resto del Mondo non ha bisogno di essere salvato dall’Occidente, né erudito nelle sue strutture di governo, né tantomeno convinto della sua superiorità morale. Certamente poi non ha bisogno di esserne bombardato. L’imperativo minimalista dovrà essere fare meno ma fare meglio.
  • Le istituzioni e i processi multilaterali forniscono la migliore piattaforma per ascoltare e comprendere le diverse posizioni a livello mondiale. Il Resto del Mondo conosce molto bene l’Occidente, ora questo deve imparare a fare altrettanto. Il miglior luogo, per Mahbubani, è l’Assemblea Generale dell’ONU, il solo forum dove tutti i 193 Paesi sovrani possono parlare liberamente.
  • Nel nuovo assetto mondiale la strategia servirà più della forza delle armi, per questo l’Occidente deve imparare da Machiavelli e sviluppare maggiore scaltrezza per proteggere i propri interessi a lungo termine. 2

Di solito, continuava Brandt nella relazione introduttiva al Rapporto, si pensa alla guerra in termini di conflitto militare se non di annichilimento. Ma sempre più si diffonde la consapevolezza che un pericolo non minore potrebbe essere costituito dal caos, frutto di fame diffusa, disastri economici, catastrofi ecologiche e terrorismo.

Tutti aspetti con i quali sono quotidianamente costretti a confrontarsi non solo e non soltanto più i paesi meno o a-sviluppati bensì sempre più anche quelli maggiormente sviluppati.

Le tensioni continue che agitano le società occidentali sembrano inarrestabili a causa di guerre e terrorismo che incidono in maniera diretta e indiretta per il tramite di attentati o migrazioni, crisi finanziarie ed economiche e, non da ultimo per ordine di importanza, pandemie che attaccano l’intero sistema. Eppure, ancora una volta, sembra assistere a un atteggiamento che è l’opposto di quanto hanno voluto indicare Brandt, Kishmore o Stiglitz. I più forti o i meno colpiti che stentano ad andare incontro ai meno forti o più colpiti.

Basti citare, a titolo di esempio, cosa sta accadendo in Europa all’idea di attuare un Recovery Fund che dovrebbe aiutare le nazioni più colpite dal Covid-19 a uscire dalla crisi. Paesi come Austria e Olanda si sono mostrati contrari fin da subito a qualsiasi forma di condivisione del debito, mentre tale prospettiva sarebbe ben accolta dai paesi più colpiti, come Italia e Spagna. Da Francia e Germania invece è stata avanzata una proposta di concessioni di denaro a fondo perduto.

Quest’ultima posizione in particolare è stata caldeggiata anche dal Premio Nobel per l’Economia 2001 nonché docente alla Columbia University Joseph Stglitz il quale ha pubblicamente dichiarato di trovare preoccupante il fatto che ancora ci siano paesi in Europa che vogliono imporre condizioni all’assistenza, preferendo erogare prestiti piuttosto che ragionare in termini di trasferimenti o comunque di altre e differenti forme di aiuto.

Lo stesso Brandt nel Rapporto del 1980 sottolineava come la mera concessione di prestiti per lo sviluppo non farebbe che aumentare il carico di debiti delle nazioni del terzo mondo, qualora essi servano a crearvi industrie senza contemporaneamente assicurare i mezzi di rimborso.

Per la gran parte è esattamente quello che poi è successo. Un ulteriore aumento del debito non è certo auspicabile, e non solo per i cosiddetti paesi del terzo mondo. In generale per tutti i paesi del Sud, anche europeo.

Bibliografia di riferimento

Fernando D’Aniello, Domenico Romano, Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019.

1Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Torino, Einaudi, 2018.

2Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi vince e chi perde, Milano, Bocconi Editore, 2019


Articolo disponibile anche qui


LEGGI ANCHE

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018)

26 giovedì Apr 2018

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Laterza, Lultimalezione, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, ZygmuntBauman

Esce in prima edizione a gennaio 2018 per Laterza L’ultima lezione di Zygmunt Bauman nella versione tradotta da Valentina Pianezzi e Fabio Galimberti, che si è occupato de L’eredità del XX secolo e come ricordarla; contenente anche un saggio di Wlodek Goldkorm. Un libro con un grande insegnamento positivo, come sottolinea nella prefazione Fabio Cavallucci: «La crisi della storia, le avversità della natura, persino la natura spesso malvagia dell’uomo non possono impedirci di continuare a operare, a costruire, a lavorare per un mondo migliore». Un saggio frutto delle più profonde e importanti analisi di Bauman orientate dallo sforzo costante di individuare i fili nascosti della trama della vita sociale e di trasformare in senso comune le idee maturate nella propria ricerca intellettuale. Unico modo per garantire «quell’osmosi feconda tra riflessione e vita condivisa», come evidenzia lo stesso editore nella sua nota.

Un filosofare, quello di Zygmunt Bauman, che nasce spesso da «teorizzazioni delle sue vicende biografiche», ricorda a margine del saggio Goldkorm. Una biografia che ne ha di cose da raccontare, pregna di esperienze difficili e che hanno portato l’autore a vedere davvero il mondo con occhi diversi. Una visione globale del pianeta che abbraccia soprattutto i popoli e non, come si vorrebbe, soltanto le economie. Un’analisi obiettiva e a tratti ‘spietata’ degli errori commessi e protratti nell’affrontare conseguenze gravi, come le migrazioni globali di popoli, con una visione ancora troppo nazionalista e faziosa.

Un rifiuto nel vedere e soprattutto nel tentare di capire quanto sta accadendo nel mondo, il perché intere popolazioni sono costrette a migrare, nel razionalizzare, coscientemente o meno, che quanto sta accadendo a loro è, alla fin fine, casuale, nel senso che potrebbe un giorno accadere anche a noi. E se da un lato è vero che qualsiasi cosa accade nell’universo è casuale, lo è anche che le guerre «possiamo fare in modo che non scoppino». Tuttavia nello Stato moderno si preferisce scegliere la strada del rifiuto e della negazione con «l’esclusione di tutto ciò che è ingestibile e pertanto indesiderabile». Arrivando ripetutamente agli “omicidi categoriali”, allorquando «uomini, donne e bambini sono stati sterminati perché assegnati a una categoria di esseri da sterminare». E Bauman parla in maniera approfondita degli ebrei, degli armeni, dei kulaki, dei musulmani, degli induisti… sottolineando come «tutti i continenti della terra hanno avuto i loro hutu che hanno massacrato i loro vicini tutsi, e ovunque i tutsi del luogo hanno ripagato con la stessa moneta i loro persecutori».

Edith Birkin, “A Camp of Twins – Auschwitz” – 1980/1982

Quello che conta è arrivare in cima e rimanerci, essere il più forte. L’inattaccabile. Mascherando la ferocia con la necessità di sopravvivere, un valore che «vale la pena perseguire di per sé, non importa quanto elevato possa essere il costo per gli sconfitti, e fino a che punto possano uscirne depravati e degradati i vincitori». Una lezione che Bauman stesso definisce “terrificante”.

Nel nostro mondo di modernità liquida, di rapida disintegrazione dei legami sociali e dei loro contesti tradizionali, le comunità, così come le società, possono essere soltanto conquiste, «artifizi di uno sforzo produttivo». E l’omicidio categoriale va inteso ormai come un sottoprodotto, «un effetto collaterale o una scoria della loro produzione». Per Bauman, la rilevanza dell’olocausto «risiede nel suo ruolo di laboratorio», dove sono state condensate, portate in superficie e rese visibili «certe potenzialità, precedentemente diluite e sparpagliate, delle forme moderne e largamente condivise di convivenza umana». La lezione più importante che dà è il rivelare «il potenziale genocidiale innato nelle nostre forme di vita e le condizioni in presenza delle quali tale potenziale più produrre i suoi frutti letali».

Per tagliare alle radici la tendenza genocida «si deve dichiarare inammissibile il sistema dei due pesi e delle due misure», del trattamento differenziato e della separazione, che getta le basi per «una battaglia per la sopravvivenza condotta come gioco a somma zero». La “concorrenza sfrenata per la violenza” si alimenta dello stesso «disordine mondiale su cui prospera la concorrenza sfrenata per i profitti». Non esistono soluzioni locali a problemi globali e, in un pianeta in via di globalizzazione, «i problemi umani possono essere affrontati e risolti solo da un’umanità solidale».

Un grande saggio L’ultima lezione di Zygmunt Bauman, un testo che espone senza pregiudizi quanto accade o è accaduto e che propone delle soluzioni assolutamente non di parte, come è giusto che sia, se risolutive si vuole esse siano. Un libro assolutamente da leggere.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Gruppo Editoriale Laterza per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore www.laterza.it


Articolo originale qui


LEGGI ANCHE

“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea) 

 “È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016) 

Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano 

Quando l’intreccio di un libro è quello di vite vere. “Il bambino del treno” di Paolo Casadio (Piemme, 2018) 

Il grido dei bambini vittime delle guerre. “Caro mondo” di Bana Alabed (Tre60, 2016) 

Prigioni mentali e dittature politiche in “193 gabbie” di Rezart Palluqi (Ensemble, 2016) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il volto inedito e gli amori impossibili degli ‘ospitalieri’ di Malta ne “La carezza del cavaliere” di Paolo Gambi

24 mercoledì Gen 2018

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Lacarezzadelcavaliere, ordinemondiale, PaoloGambi, recensione, romanzo, romanzostorico

Seconda prova narrativa per l’eclettico e spumeggiante Paolo Gambi. La carezza del cavaliere, un romance storico auto-prodotto, racconta al lettore le vicende e le vicissitudini di un nobile cavaliere sempre in bilico tra la vita reale e quella impostagli dall’Ordine. Un muro, neanche troppo invisibile, che separa i due mondi come il grande portone in legno divide e isola la sua lussuosa e silenziosa dimora dal circo frenetico della capitale appena fuori di esso. Un miscuglio di emozioni e sensazioni, esperienze e rimorsi che hanno contribuito a delineare i contorni di un’amara esistenza vista oramai dallo stesso Bertrando come «un enorme peccato. Un lunghissimo peccato d’omissione».

Rispettare tutte le regole imposte dall’Ordine e dal rango hanno costretto il protagonista a una vera e propria “omissione di vita” che lui stesso rimette al suo confessore-confidente in un momento, della sua lunga esistenza, in cui inizia a prevalere il senso di inquietudine e insofferenza per le briglie che lo hanno frenato, nella vita come nell’amore.

L’autore porta i suoi lettori, o meglio la loro fantasia, dentro i palazzi più antichi e aristocratici della capitale. Un mondo ai più sconosciuto, fatto di cerimoniali, pompa magna, etichetta e dressage, titoli nobiliari e un grande grandissimo vuoto… esistenziale, determinato perlopiù dall’essere ‘costretti’ a vivere una vita dentro una bolla che, per quanto dorata e luccicante possa essere, facilmente tende a diventare una prigione e una condanna.

Lo stile narrativo di Gambi è lento, modellato quasi a seguire il passo del venerando protagonista. Analitico e descrittivo ma mai eccessivamente pomposo o stucchevole. Spiccano le stoccate ironiche e satiriche che alleggeriscono di molto la lettura del testo e strappano ripetuti sorrisi in chi legge.

La carezza del cavaliere ricorda, per certi versi, una ‘crociata‘ contro le ipocrisie, una battaglia che troppo spesso assume i contorni semiseri di un’avventura donchisciottesca. Una vita di rinunce e regole per distinguersi da chi in fondo è molto più simile di quanto si pensi, in un mondo dove l’ossessione del distinguersi diventa, alla fin fine, omologazione allo stato puro.


«matrone romane a passeggio per dimenticare la propria infanzia a Frascati; squali dei palazzi con sguardi affilati dalla coscienza delle proprie malefatte, ma ammantati di perfette giacche e cravatte. Il tutto sotto lo sguardo attento della Malavita che governa la città»


Un libro, La carezza del cavaliere di Paolo Gambi, che si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura interessante a, al contempo, leggera e divertente.


Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale


LEGGI ANCHE

La Storia come non l’avete mai letta… ma come avreste sempre voluto studiarla. “Manuale distruzione” di Roberto Corradi (Sperling&Kupfer, 2016)

Quanto ha inciso l’essere imbecille nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La memoria troppo condivisa dei social network: i like diventano surrogato della realtà. Quando la filter bubble la creiamo noi, a quale prezzo e a beneficio di chi?

20 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Italia, italiani, NWO, ordinemondiale, paura

Mark Zuckerberg, ideatore e ceo del social network Facebook, il 12 gennaio 2018 scrive, sulla sua pagina social, un post che ha scatenato una grande eco mediatica. Il succo del suo comunicato riguarda l’imminente e progressivo cambiamento dell’algoritmo che gestisce la condivisione dei post e dei video perché, a suo dire, Facebook sta deragliando da quello che era lo scopo originario per cui lui stesso l’ha inventato.

Facebook sarebbe quindi stato ‘costruito’ per aiutare le persone a rimanere in contatto e avvicinarsi a quelle ritenute importanti, affettivamente parlando. Per questo motivo famigliari e amici devono restare il fulcro del mondo social racchiuso nell’universo del libro delle facce. La esplosione di contenuti pubblici starebbe quindi rompendo l’asse dell’equilibrio, allontanandosi dallo scopo principale del social, ovvero «help us connect with each other» (“aiutarci a connettersi tra noi”).
Zuckerberg si augura che il tempo passivo trascorso sui social, in particolare il suo, diminuisca e che gli utenti siano sempre più stimolati a interagire. Adottando queste misure lui dichiara di aspettarsi una diminuzione del tempo trascorso sul social ma, al contempo, si augura che sia tempo prezioso, di qualità.


«I expect the time people spend on Facebook and some measures of engagement will go down. But I also expect the time you do spend on Facebook will be more valuable.»


Il social network Facebook quindi, per mano dei suoi organizzatori, vuole spronare i suoi utenti a essere più attivi, cliccando like e commentando post personali, famigliari, di amici e conoscenti, foto e riflessioni… saranno quindi scoraggiate le condivisioni di post da pagine pubbliche, da link esterni, notizie, informazione e quant’altro possa distogliere l’attenzione e l’interesse degli utenti dallo scopo principale del social: “aiutarci a connettersi tra noi”.
Ora, a meno che una persona non abbia tutti i suoi affetti lontano e viva isolato su un eremo, davvero si fatica a comprendere fino in fondo la necessità della condivisione social e non di quella reale di immagini, foto, ricordi, impressioni, pensieri, riflessioni, considerazioni… che invece potrebbero e possono benissimo essere condivise de visu, via mail, in chat, su skype, al telefono… Ma l’aspetto più interessante e a tratti inquietante è il tentare di capire se davvero Zuckerberg sia così filantropo da boicottare volutamente il suo social network a beneficio dell’affettività dei suoi iscritti.

Due giorni dopo l’annuncio di Marc Zuckerberg già è virale la notizia, basata su dati della rivista Forbes, di una perdita di 3,3miliardi di dollari a causa del calo nella quotazione in borsa del titolo Facebook. Zuckerberg possedendo il 17% delle azioni ne avrebbe quindi subito un danno personale. Ora, considerando che sempre secondo la rivista Forbes, il patrimonio complessivo dell’ideatore di Facebook ammonterebbe a 72,4miliardi di dollari, quella subita è una perdita che, pur ammettendo non fosse stata calcolata, sarebbe per certo facilmente recuperabile.
La scelta di modificare l’algoritmo di condivisione non sarebbe piaciuta a investitori e sponsor e il titolo societario scende del 4,4%.
Lo stesso Zuckerberg ha dichiarato di prevedere un leggero calo nella quantità del tempo che gli utenti trascorreranno sul social a seguito dei cambiamenti dell’algoritmo. È lecito supporre avesse anche preventivato un iniziale calo di fiducia da parte di investitori e sponsor?

Dopo un 2017 trascorso a tentare in vari modi di bloccare segnalare contrastare confutare le fake news Facebook sembra compiere una decisa virata che prevede, in buona sostanza, una riduzione delle notizie, presumibilmente quindi anche delle cosiddette bufale, e l’ammissione neanche troppo implicita che il social non è un organo idoneo alla diffusione dell’informazione. Non è per questo scopo che è stato creato.
La ricerca condotta dal team di Facebook in sinergia con esperti accademici avrebbe messo in luce che l’utilizzo dei social per connettersi con persone a cui teniamo sarebbe un toccasana per il nostro benessere.

Quindi creare un ambiente social con parenti, famigliari e amici, connettersi virtualmente con loro, condividere sul social momenti di vita, di affetto, di amore, di delusione, di tristezza, di passione… gioverebbe alla di ognuno “felicità e salute”. Essere sempre più il fulcro della propria filter bubble. Questo lo scopo reale di Facebook. Questo il ‘benessere’ di cui sembra parlare il suo fondatore, il quale anni fa ha dichiarato, parafrasando forse inconsapevolmente le parole del patron di Le Figaro, Hippolyte de Villemessant (“Per i miei lettori è più importante l’incendio di in solaio nel Quartiere Latino che una rivoluzione a Madrid”), ha detto: “La morte di uno scoiattolo davanti casa può essere più pertinente per i tuoi interessi di quella di una persona in Africa”. Naturale a questo punto chiedersi cosa esattamente “è più pertinente” per “gli interessi” immediati e futuri del ceo di Facebook.

Il primo data center di Facebook fuori dagli Stati Uniti è stato impiantato a Luleå, in Svezia. Un anonimo enorme capannone grigio che racchiude in sé un’immensa memoria connessa. È prevista l’apertura prossima di strutture simili a Clonee in Irlanda e a Odense in Danimarca. I responsabili della struttura svedese più volte hanno ribadito al giornalista Diego Barbera, giunto in loco per un servizio, che «i dispositivi vengono trasportati in modo riservato e sicuro» affinché «sia impossibile accedere a qualsivoglia dato». Tutte «le informazioni sono conservate, e i vecchi supporti sono completamente distrutti». Massima protezione e cautela quindi nella raccolta dei dati che assolutamente non devono lasciare la struttura, né essere trafugati. Ma allora a cosa serve questo immenso archivio di dati e informazioni condivise dagli utenti del social network Facebook?

In un servizio di Stefania Rimini per la trasmissione Report, girato nell’ormai lontano 2011, illuminante già nel titolo (“Il prodotto sei tu”) ci si chiedeva come mai una società fondata dall’allora poco più che ventenne Marc Zuckerberg che, in apparenza, non comprava e non vendeva nulla, assolutamente gratuita, facesse tanto gola a investitori internazionali quali «la banca Goldman Sachs ma anche la Microsoft, il miliardario russo Yuri Milner e il magnate di Hong Kong Li Ka Shing». Una società all’epoca non ancora quotata in borsa che ha subito una crescita vorticosa ed esponenziale, nel numero degli iscritti come nel valore di mercato nella quale sembra «tutto bello tutto gratis ma se ti va di leggere i termini contrattuali che quasi nessuno legge, scopri che sì, non stai pagando per il prodotto… perché il prodotto sei tu».

Profili che ogni utente compila volontariamente al momento dell’iscrizione, con dati personali anche sensibili, consegnati autonomamente ma con quanta reale coscienza dell’uso che ne verrà fatto? Schede zeppe di informazioni personali, di gusti e preferenze, livello culturale e titoli di studio, professione, stato civile, sesso e orientamento sessuale, orientamento politico e religioso… che rischiano però di diventare dati troppo statici e obsoleti se non li si rinvigorisce con aggiornamenti continui. Nuovi like, nuove foto, nuovi commenti… espressioni a loro volta delle singole personalità che navigano in questo mare che il suo proprietario dichiara di voler far diventare sempre più un porto sicuro. Stare bene quando si accede al social, sentirsi in famiglia, condividere con gli affetti, con gli amici, con i conoscenti… tutto per far sentire al meglio l’utente, libero di manifestare e condividere il suo essere. A pieno beneficio di chi?

Non è naturalmente un problema precipuo di Facebook ma generale della Rete e dei social. Semplicemente è la costante premura del suo fondatore a creare e fortificare questa sorta di filter bubble a destare qualche sospetto di troppo.

Sempre nel 2011 esce per Il Saggiatore il libro di Eli Pariser Il filtro. Quello che internet ci nasconde (“The Filter Bubble. What The Internet Is Hiding From You”). Nel libro Pariser sottolinea l’impiego dei filtri per creare la bolla nella quale ognuno poi naviga in base alla “rilevanza” che è in pratica l’unico vero criterio seguito. Una bolla creata in base alle pagine che visitiamo, ai link che cerchiamo, agli interessi e via discorrendo. Quello verso cui non mostriamo interesse semplicemente scompare… dalla nostra filter bubble. Se due persone compiono la medesima indagine su un motore di ricerca, per esempio Google, i risultati saranno molto dissimili tra loro. Ciò è conseguenza della «personalizzazione del web», creata dagli indicatori impiegati per stabilire chi siamo e cosa potrebbe piacerci in base proprio agli interessi che abbiamo mostrato e che sono costantemente monitorati.

I nostri interessi devono essere mostrati e costantemente aggiornati a beneficio di chi li cataloga, li archivia, li studia e poi, magari, li utilizza come merce di scambio con chi questi dati li usa per creare prodotti ad hoc, studiati e realizzati sulle esigenze e sugli interessi dichiarati, proposti poi direttamente a chi ha manifestato il desiderio di possederli tramite pubblicità, newsletter, spot, link… Il tutto, naturalmente, in forma anonima e sicura per l’utente. Certo.

Il mondo cambia, il commercio anche, la globalizzazione avanza, la Rete è fondamentale e anche utile. Nessuna obiezione. Rimane però la curiosità di sapere con quanta coscienza l’utente compie le sue scelte, definisce i suoi interessi, manifesta e soddisfa i propri bisogni.

Per Pariser «la democrazia dipende dalla capacità dei cittadini di confrontarsi con punti di vista diversi. Quando internet ci offre solo informazioni che riflettono le nostre opinioni limita questo confronto».

A questo punto viene naturale chiedersi quanto potere abbiano effettivamente Google e Facebook, per citarne alcuni, nella creazione della di ognuno filter bubble e quanto invece sia dovuto alla incoscienza o proprio alla volontà dell’utente di dedicare il suo tempo e le sue energie solo per ciò che gli interessa e gli piace e annullare i problemi, le opinioni dissimili, gli argomenti per lui ostici. In base a queste considerazioni viene da affermare che la vera filter bubble la creiamo noi stessi, dentro e fuori la Rete e i social.

Sul portale di wearesocial.com si può leggere una dettagliata descrizione di cosa sia in realtà il social thinking, ovvero l’approccio alla «creatività per risolvere problemi di business e brand». La base di partenza sono i social insight – «comprensione del comportamento sociale delle persone e, di conseguenza prendere in considerazione i canali e le piattaforme per loro rilevanti» – permettendo così lo sviluppo di «idee creative che costruiscano valore per i brand e per le persone». Mentre gli insight tradizionali permettono di comprendere i comportamenti delle persone concentrandosi solo su motivazioni individuali, gli insight social «mettono questa comprensione nel contesto delle nostre relazioni interpersonali, delle community e della società fornendo evidenze spesso nascoste, inaspettate o inespresse».

Le social idea sono idee «powered by people». Sono idee con un altissimo potenziale e di grande valore, in altre parole sono preziose, esattamente come il tempo passato sui social a raccontarle, perché «sono in grado di creare o rafforzare relazioni e community, unire le persone, attivare conversazioni e stimolare all’azione». Addirittura possono o potrebbero «influenzare il comportamento delle persone e avere un impatto culturale». Molto più spesso però sono studiate per capire come «creino valore di business».

Il numero delle persone in Italia Europa e nel mondo connesse a internet è in costante aumento, lo stesso per il tempo trascorso sui vari social. In crescita anche la connessione tramite smartphone, in calo quella da pc. Social e video sono le ‘mete’ preferite dalla gran parte degli utenti connessi in Italia. Oltre la metà della popolazione online utilizza applicazioni di messaging e chat dai dispositivi mobile. Perché?

I motivi addotti per spiegare il fenomeno ormai di massa dell’adesione a social e chat sono numerosi e spaziano dalla paura della solitudine che attanaglierebbe tutti fuori dal web alla possibilità di trovare lì campo libero allo sfogo delle proprie frustrazioni, dell’aggressività altrimenti repressa e via dicendo. Ma la verità è che online, sui social, nelle chat, nei gruppi… non troviamo altro, troviamo esattamente ciò che incontriamo per strada, al bar, allo stadio, nei parchi e lungo le vie. La differenza forse è che nella auto-celebrazione di se stessi che spesso si fa sui social ci si illude di trovare un pubblico copioso interessato alle foto, ai pensieri, ai commenti, alle riflessioni, alle offese, agli sfoghi, ai like… il pubblico in effetti c’è ed è anche molto attento a ogni interazione, ma non è quello che si pensa.

Albine ha reso pubblico il Val-You Calculator, un ‘divertente’ test che consente a ognuno di calcolare quanto vale il suo profilo social per Facebook. Farlo equivale a ritrovarsi dinanzi a un risultato che dà una cifra irrisoria, soprattutto se non si è molto attivi sui social. Ma, a ben pensarci, stando alla stima di giugno 2017, Facebook ha raggiunto i 2miliardi di utenti. Ed ecco che una cifra irrisoria moltiplicata per 2miliardi diventa un colosso quotato in borsa, finanziato da investitori globali e con un potere sociale, culturale e commerciale enorme. Enorme.


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Quanto ha inciso l’essere ‘imbecille’ nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016)


 

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Riflettori puntati sul mondo della finanza in “Fine dell’oblio” di L.K. Brass

25 lunedì Dic 2017

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Finedelloblio, IldealdellApocalisse, ImercantidellApocalisse, LkBrass, NWO, ordinemondiale, paura, recensione, romanzo, thriller

Continua la saga de Il deal dell’Apocalisse di L.K. Brass che con Fine dell’oblio aggiunge un altro capitolo alle avventure di Daniel e Anna, sempre impegnati nella loro crociata contro le ingiuste e occulte operazioni della finanza internazionale.

Troveranno nuovi compagni di viaggio che sono in realtà presenze del loro passato e, in contemporanea, dovranno, ancora una volta, dire addio ad affetti e amori. Un’esistenza straziante la loro, votata a combattere nemici tanto ‘invisibili’ quanto crudeli la cui unica fede è il denaro che porta al successo, che conduce al potere.

In Fine dell’oblio L.K. Brass si è divertito a inserire un lungo prologo e un paio di capitoli iniziali che, se pur necessari al compimento della storia, ritardano il reincontro del lettore con i protagonisti lasciati ne I mercanti dell’Apocalisse e le loro adrenaliniche vicende. A partire dal terzo capitolo però il lettore viene ricompensato e riesce a ‘inserirsi’ appieno nella vicenda narrata, a seguirla con interesse crescente e sperare di ritrovarla ancora nel prossimo libro.

In teoria la vicenda di Daniel Martin e Anna Laine potrebbe aver trovato la sua conclusione in maniera esaustiva anche con un minor numero di pagine e di libri ma quello portato avanti dall’autore sembra essere un progetto di più ampio respiro, nel quale le vicissitudini dei protagonisti ne costituiscono solo una parte. La capacità maggiore di scrittura di L.K. Brass risiede infatti nella volontà di raccontare ciò che in letteratura e al cinema viene sempre presentato come fantascientifico per quello che in realtà è, e di farlo anche molto bene. Azioni e operazioni che hanno luogo ogni giorno nel mondo reale come in quello surreale della finanza. E presentarlo come un vero problema, anche qualora la storia da lui narrata sia tutto frutto di fantasia.

Raccontare il danno causato all’economia reale dalle manipolazioni dei mercati finanziari. «Pensa alla mamma che stringe la sua bimba che si sta spegnendo per la fame, perché la farina ha raggiunto prezzi che lei non può pagare. Pensa ai bambini di Atene che arrivano a casa la sera e scoprono che i genitori si sono suicidati perché hanno perso tutto. Pensa se questo si moltiplicasse non due, non dieci, ma cento o mille volte»… Pensiamo che la moltiplicazione è già in atto, purtroppo. Bisogna pensarci, agire e risalire alla «fonte del danno».

L.K. Brass conferma con Fine dell’oblio la sua capacità di inventare storie interessanti e coinvolgenti, di raccontare il lato oscuro della finanza internazionale in maniera da renderlo comprensibile e accessibile a tutti, di denunciare i mali del mondo e di farlo in maniera ineccepibile creando libri assolutamente da leggere.


Source: Si ringrazia l’autore L.K. Brass per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro quarta di copertina; fonte biografia sito personale dell’autore

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“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea)

07 sabato Ott 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ilcollassodellamodernizzazione, Mimesis, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RobertKurz, saggio, SamueleCerea

Gli effetti collaterali involontari del moderno «sistema della merce», durante la sua «fase storica ascendente», hanno eclissato per molto tempo «la sua natura negativa». Si è preferito vederne solo gli aspetti positivi al punto che le crisi apparivano, o volevano essere interpretate, come mere «interruzioni nel suo processo di ascesa» e considerate sempre «superabili in linea di principio». A cosa ha condotto questo atteggiamento protratto e diffuso è sotto gli occhi di tutti.

Mimesis editore propone quest’anno, nella versione tradotta dal tedesco e curata da Samuele Cerea, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz. Libro uscito per Eichborn Verlag nel 1991 e, per certi versi, terribilmente profetico.

Scrive infatti l’autore, ventisei anni fa, che se pure la crisi del sistema della merce non dovesse superare i limiti che ha finora raggiunto, «il subsistema occidentale non potrebbe sopravvivere al collasso globale». In alcune regioni dell’Asia, in Arabia e nel Nordafrica la reislamizzazione si è trasformata «nel surrogato di un’ideologia militante, diretta contro l’Occidente», che così sta alimentando «un becchino di tipo nuovo, privo di obiettivi trascendenti ma pronto a tutto».

Un estremismo che diventa «brodo di coltura per iniziative violente e suicide» che potrebbero diventare, e in realtà lo sono poi diventate, «aggressioni militari disperate su grande scala contro i centri del mercato mondiale». Un fondamentalismo islamico accomunato solo dal nome all’antica cultura islamica premoderna che mostra e ha mostrato per certo tratti barbarici ma che «non sono certamente più barbarici delle pretese che i signori ‘civilizzati’ delle istituzioni finanziarie internazionali avanzano, senza battere ciglio, nei confronti di una parte sempre maggiore dell’umanità».

Un saggio, quello di Kurz, che fa rabbrividire il lettore e, al contempo, gli permette di comprendere i motivi reali per cui il filosofo tedesco, «assai poco incline ai compromessi» non poteva che «suscitare forti reazioni di amore e odio» nella comunità intellettuale internazionale, in quella economica e anche nel pubblico raramente incline ad accettare e metabolizzare il catastrofismo insito in alcuni ragionamenti, come quelli portati avanti da Kurz, anche e soprattutto quando corrispondono a realtà e verità.

Il collasso della modernizzazione è fuor di dubbio, come sottolinea Samuele Cerea nell’introduzione al libro, «un’analisi radicale e spietata della società capitalistica», ma lo è altrettanto del socialismo di Stato essendo «la differenza tra le forme dell’economia di mercato e quella dell’economia pianificata solo relativa». La loro base comune è il lavoro o, per meglio dire, «il lavoro astratto, cioè l’attività umana assoggettata all’automovimento del denaro».

Certamente è stato «un grossolano errore interpretare il tracollo storicamente asincrono dei paesi del socialismo di Stato e dei paesi del Terzo mondo come la prova di superiorità dell’Occidente, cioè dell’avanguardia storica del capitalismo globale, e del suo modello». Che poi è esattamente ciò che si voluto credere in tutti questi anni e allora non si può non chiedersi, insieme al curatore, fino a che punto «l’opinione pubblica, gli intellettuali, i media, ma soprattutto l’establishment politico ed economico» siano consapevoli «della catastrofe che incombe su di una società globale che sembra fare acqua da tutte le parti».

Per Kurz l’Occidente è stato un «bizzarro trionfatore» frastornato dalla «sua stessa superiorità e dalle conseguenze del proprio trionfo». Questa vanagloria la si può facilmente ritrovare nella mancata oculatezza nell’analisi delle conseguenze della «crisi particolare del sistema perdente» che poteva, e in effetti lo ha fatto, innestare una «crisi globale in grado di minacciare anche il presunto vincitore».

Molto interessante risulta per il lettore la descrizione fatta da Kurz del paradosso insito quanto ignorato delle moderne economie. La produzione non è finalizzata al consumo personale ma a un «mercato anonimo» e il senso del processo non è la soddisfazione delle necessità concrete ma «la metamorfosi del lavoro in denaro (salario o profitto)». E così accade che «l’astratto interesse monetario» spinge ogni produttore verso quei prodotti e quelle forme produttive che gli garantiscono il massimo guadagno, nel modo più rapido e diretto, «a dispetto dei contenuti e delle conseguenze, per quanto deprecabili». Senonché lo stesso produttore «nel suo alter ego di consumatore» manifesta l’interesse precisamente opposto. Insomma, peggio di un cane che morde la sua stessa coda perché la ragione di tutto ciò è solamente il denaro.

Produttori e consumatori «si sfidano l’un l’altro in un confronto perpetuo», con il risultato che «ciascun produttore tende a tutti gli altri delle trappole» in cui tutti e ciascuno «finiscono invariabilmente per cadere a causa dell’universalità del legame sociale».

L’Occidente – «che è ormai entrato nella sua fase di crisi» – e l’Est – «che si è convertito a discepolo della logica capitalistica della concorrenza dopo il suo tracollo» – alla fine «si ingannano vicendevolmente». L’Est guarda di continuo al «passato splendore» mentre l’Occidente attende il suo definitivo tracollo per poter fruire di «nuovi mercati che però esistono solo nella sua fantasia» e lo stesso accade per le «centinaia di milioni di individui in Africa». Ciò che tutti sembrano dimenticare e che Kurz invece sottolinea è che «necessità concrete e aspirazioni umane non possono generare nessun mercato», ossia alcun potere di acquisto produttivo. Quest’ultimo infatti nasce solo dallo «sfruttamento di forza-lavoro umana in forma aziendale» e per giunta a un livello «conforme allo standard mondiale di produttività».

Il Terzo mondo, che ha già quasi «ultimato la sua fase di collasso», rappresenta per Kurz «il modello autentico della ‘modernizzazione di recupero‘». Le strutture interne della modernizzazione del Terzo mondo e quelle dei paesi del socialismo reale «si dimostrano, a posteriori, sorprendentemente affini». Soprattutto se si fa «astrazione dai camuffamenti ideologici e politici». A posteriori sembrano essersene accorti anche «gli istituti di credito internazionali, allineati all’economia di mercato occidentale», come la Banca mondiale o il Fondo Monetario Internazionale (FMI), ovvero «i principali creditori delle economie del collasso». Tuttavia anche qui, come per le nuove riforme di mercato nei paesi dell’Est, «la causa viene scambiata con l’effetto».

Il FMI, la Banca mondiale e gli altri grandi creditori occidentali stanno «spingendo da tempo il Terzo mondo verso la destabilizzazione interna, sociale e politica». Cosicché «controreazioni violente, per quanto parossistiche e insensate, saranno inevitabili». La Storia recente e contemporanea ha dimostrato, purtroppo, la veridicità di queste affermazioni. Per la massa crescente degli «esclusi», la «barbarie ‘ufficiale’ del denaro» appare ancor «più soggettivamente terrificante dell’aperto dominio della mafia».

Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz, nella versione in italiano curata da Samuele Cerea è un saggio da leggere assolutamente.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte biografia autori e tema del saggio www.mimesisedizioni.it

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Le sfide all’ordine mondiale: “Il ritorno delle tribù” di Maurizio Molinari (Rizzoli, 2017)

16 domenica Lug 2017

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Califfo, flussimigratori, Ilritornodelletribu, immigrazione, jihad, MaurizioMolinari, migranti, monocolooccidentale, NWO, ordinemondiale, recensione, Rizzoli, romanzo, saggio, Terrorismo

Esce in prima edizione a maggio 2017 con Rizzoli il libro di Maurizio Molinari Il ritorno delle trbù. La sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale, dedicato dall’autore «Alla mia tribù». Leggendo il testo se ne comprende fin da subito il perché.
Il ritorno delle tribù appare come un articolo/commento lungo in cui l’autore racconta la sua versione di quanto sta accadendo in Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa, una personale analisi della «generale tendenza alla disgregazione che porta all’indebolimento degli Stati nazionali e dei rispettivi establishment».
Un libro che delude per il suo contenuto e stupisce per la presenza di alcuni refusi di punteggiatura, anche se bisogna ammettere che non sono di certo questi il vero problema.

Nelle affermazioni di Molinari il testo è volto «alla ricerca delle origini di rivolte, diseguaglianze e migrazioni per arrivare a descrivere le tribù d’Oriente e d’Occidente che ne sono protagoniste, mettendo in evidenza ciò che le distingue e ciò che le accomuna». In realtà, leggendolo, si ha l’impressione di consultare un vecchio testo di Storia nel quale gli accadimenti e le vicende geo-politiche vengono narrate descritte e commentate dall’unico punto di vista ritenuto giusto valido e attendibile: il monocolo occidentale. L’Universo dell’Occidente, che include anche Israele, guidato dagli Stati Uniti e la cui Legge sembra rappresentare per l’autore il Verbo divino. Come se tutti gli abitanti della Terra, indistintamente, debbano andare inesorabilmente verso l’unica direzione possibile e nota, la medesima tra l’altro che ha determinato e condizionato la Storia passata e presente e che si vorrebbe delimitasse anche quella futura.

Bisognerebbe riuscire ad ammettere quantomeno che le innumerevoli guerre e missioni portate avanti dai governi occidentali non sono rivolte a stabilire la pace e il benessere di tutti gli abitanti del Pianeta piuttosto a fermare chi si ribella all’ordine mondiale voluto e imposto dai suddetti governi.
Far leva sulla paura ingenerata dal terrorismo islamista oppure sulla cosiddetta invasione di migranti è facile e altrettanto facilmente può raccogliere consenso in chi legge. Una lettura meno critica del libro infatti potrebbe con molta semplicità dare la sensazione che gli jihadisti e i migranti siano l’unico vero problema da affrontare e che risolto ciò il Pianeta sarà salvo. È tanto evidente quanto elementare che così non è e così non sarà.

Molinari parla enne volte del «disegno apocalittico o escatologico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfo» nel suo libro, che è certamente contrario alla propaganda jihadista ma scritto con un’enfasi tale da apparire esageratamente e paradossalmente propagandistico a sua volta. Solo che l’apostolato sembra la cronistoria, a volte la giustificazione, delle strategie e delle tattiche degli americani, descritti come la punta, il vertice portabandiera delle imprese militari occidentali volte alla esportazione mondiale delle idee di democrazia progresso crescita e libertà. Secondo la visione dualista del mondo che vede gli occidentali, compresi gli ebrei, da una parte e tutti gli altri dalla parte opposta e in base alle cui regole di supremazia militare politica economica sono stati scritti e riportati oltre 2mila anni di Storia.

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Il terrorismo jihadista, come qualsiasi altra forma di terrorismo, è da biasimare innegabilmente così come il dramma umano dei migranti e dei profughi non può lasciare indifferenti le società “civili” di tutto il mondo ma lo smanioso desiderio di accentuare ed enfatizzare la negatività dell’estremismo jihadista dell’autore sembra gli sia tornato utile per tralasciare, accennandoli appena, alcuni aspetti della vicenda affrancandosi di parlarne nel dettaglio.
Per esempio, l’accenno al Trattato di Sèvres del 1920 in base al quale le potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale promettevano l’indipendenza al popolo curdo e agli Accordi segreti di Sykes-Picot del 1916 siglati tra Inghilterra e Francia per spartirsi il dominio e il controllo sul Medio Oriente, nonché il fatto che tutti i confini degli stati dell’area mediorientale e del Nord Africa sono stati tracciati a tavolino sempre dalle potenze occidentali tenendo conto, presumibilmente, dei propri interessi politici ed economici senza sottolineare come la situazione che vivono queste aree oggi deriva da tutto ciò appare quasi ridicolo, per non dire fuorviante.
La quasi totalità delle rivolte e dei malcontenti in Africa e Medio Oriente ha origine proprio dal fatto che la suddetta suddivisione in “stati a tavolino” ha generato un tale caos che, aggiunto al mal operato di governi corrotti e all’incessante sfruttamento del territorio e delle risorse sempre da parte degli occidentali ha portato dritti dritti alla situazione catastrofica odierna. Come si fa a credere che spetta ancora solo alle potenze occidentali trovare la soluzione?

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La stessa nascita del jihadismo è imputabile, almeno in parte, all’operato degli occidentali i quali prima hanno sfruttato questi “ribelli” considerandoli alla stregua di eroi che combattevano al loro fianco per sconfiggere l’Impero del Male, allora rappresentato dall’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan, e solo in seguito diventati essi stessi il Male perché hanno portato il terrore nel cuore dell’Occidente.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 la missione di tutto l’Occidente, più compatto che mai, era scovare colui che veniva da tutti indicato come il responsabile della tragedia: Osama bin Laden. La cui uccisione è stata proposta alla popolazione come l’unica via per debellare il Male, incarnato dalle cellule terroristiche di al-Qaeda. Versione ingenua o peggio fuorviante. Quel che in realtà è poi accaduto è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Ancor prima di Bin Laden un altro è stato il nemico da battere a ogni costo per mantenere sicure le certezze occidentali: Saddam Hussein, giustiziato nel 2006. La fine del dittatore iracheno ha generato la diaspora dei generali e degli uomini del suo esercito, molti dei quali hanno abbracciato le idee o sono stati ingaggiati dai terroristi islamisti con il compito di addestrare i nuovi adepti, compresi i foreign fighters. Oggi il nemico numero uno dell’Occidente è il Califffo. Ma cosa accadrà una volta che sarà sconfitto?
Ecco che si profila di nuovo il dubbio sull’affidabilità delle potenze occidentali a risolvere la situazione in Medio Oriente e Nord Africa.

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La soluzione auspicata da Maurizio Molinari ne Il ritorno delle tribù riguarda in realtà più il tentativo di superare la crisi economica conseguenza della globalizzazione che ha colpito il ceto medio occidentale e il cui malcontento sta consentendo, a suo dire, l’avanzata del populismo, indicato come il secondo dei mali da combattere. Il primo è il jihadismo. Uno interno e l’altro esterno che debbono essere affrontati separatamente ovvero, nelle parole dell’autore, «combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non vi fosse». La linea indicata da Molinari per superare i due mali che attanagliano le tribù occidentali è molto parziale e sembra non tenere in considerazione non solo la consequenzialità degli eventi ma anche il processo inarrestabile della globalizzazione che non può e non deve essere solo di merci e capitali ma di persone. Per cui se anche fino a questo punto le decisioni dei governi occidentali non hanno voluto tenere in considerazione le conseguenze delle loro decisioni non solo riguardo la propria tribù ma anche per le altre, ciò non è più accettabile. Come non può esserlo l’idea che l’autore vuol far passare di Israele, indicato addirittura come “isola” per la compattezza e l’omogeneità della tribù che fa quadrato contro ogni minaccia «all’esistenza del proprio Stato».

Quelle che l’autore indica come scelte volte alla salvaguardia del proprio Stato o della propria nazione, della sicurezza o della democrazia in realtà, tradotte in fatti, corrispondono a sanguinose guerre e interventi militari che causano centinaia di morti e migliaia di feriti, sfollati, profughi e migranti. E che generano anche sentimenti di odio e risentimento nei confronti degli stranieri invasori e invadenti oppure verso governi corrotti e collusi che si rivelano inadeguati e disinteressati al benessere pubblico e collettivo.

I problemi di cui parla Molinari, ovvero gli jihadisti e i migranti non sono la causa bensì la conseguenza e la conseguenza non la risolvi se non vai a incidere sulla causa, sia fuori che dentro il proprio Universo.
Molinari dedica il libro alla sua tribù perché è l’unico raggruppamento umano verso cui sembra nutrire un certo interesse.

Maurizio Molinari: giornalista e scrittore, direttore del quotidiano La Stampa.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Ornella dell’Ufficio stampa Rizzoli.

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“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell’analisi di Noam Chomsky

02 lunedì Gen 2017

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Chisonoipadronidelmondo, NoamChomsky, NWO, ordinemondiale, PontealleGrazie, recensione, saggio

 

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

Chi sono i padroni dell’universo? Chi governa realmente il mondo? In quale modo e soprattutto perché lo fa?

Domande che tutti si pongono e alle quali Noam Chomsky ha cercato di dare delle risposte in base agli accadimenti, ai fatti, alle azioni e alle reazioni dei singoli Stati ai piccoli e grandi eventi della Storia, passata e presente.

Uscito a ottobre per Ponte alle Grazie nella versione tradotta da Valentina Nicoli, Who rules the world? di Noam Chomsky perde il suo punto di domanda ma non lascia cadere gli interrogativi che cerca di risolvere e soprattutto quelli nuovi che crea nel lettore.

A partire dal secondo conflitto mondiale la bilancia pende «in modo spropositato» dalla parte degli Stati Uniti d’America. Sono loro a «imporre ancora le regole del discorso globale, dalla questione israelo-palestinese all’Iran, all’America Latina, alla “guerra al terrore”, al sistema economico internazionale […]». Ma i «padroni dell’universo» sono tutte le «potenze capitalistiche (i paesi del G7) e le istituzioni da loro controllate (il Fondo monetario internazionale e le varie organizzazioni mondiali del commercio)». Chomsky ne spiega in dettaglio i perché sottolineando come questi poteri in realtà «non rappresentano le popolazioni», neanche negli stati che si definiscono tra i più democratici. I cittadini hanno sempre poca voce in capitolo sulle scelte politiche e si cerca di dargliene sempre meno.

La maggioranza dei cittadini è di fatto esclusa dal sistema politico mentre «l’esigua fascia che si trova al vertice di quella scala esercita un’influenza straordinaria». Inoltre per Chomsky le politiche governative sono ampiamente prevedibili. Basta dare un’occhiata ai finanziamenti destinati alle campagne elettorali per realizzare quale sarà la direzione dei provvedimenti, interni e internazionali. Studi di ricercatori in Usa, i cui dati sono riportati nel testo, sembrerebbero ampiamente confermare queste affermazioni.

Per Noam Chomsky il declino della democrazia in Europa non sembra molto diverso da quello americano. «Il processo decisionale sui temi di maggiore rilevanza si è spostato nelle mani delle burocrazie di Bruxelles e dei poteri finanziari che esse in larga misura rappresentano».

Uno degli esempi più eclatanti è stata, per l’autore, la reazione «furibonda» al referendum in Grecia del luglio 2015: «era inaccettabile l’idea che il popolo greco potesse dire la sua sulle sorti della sua società, fatta a pezzi dalle disumane misure di austerity della troika». Un atteggiamento che ha manifestato tutto lo «sfregio della democrazia» da parte di una classe politica “democratica” che dovrebbe essere al servizio dei cittadini.

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

In Chi sono i padroni del mondo Chomsky si sofferma a lungo sulla questione del terrorismo, sulla definizione di terrorista, sulle «responsabilità degli intellettuali», sui vari accadimenti, sulle guerre e soprattutto sugli «interventi umanitari» che si rivelano da sempre una «catastrofe per i presunti beneficiari».

Lo stemma della Colonia di Massachusetts Bay raffigurava un indiano con una pergamena che gli fuoriusciva dalla bocca e sulla quale c’era scritto: «Venite ad aiutarci». Nella versione distorta e faziosa della realtà quindi «i coloni britannici erano dei benefattori che hanno risposto all’appello dei poveri nativi per essere salvati dal loro destino amaro e pagano». Uno stemma che sintetizza alla perfezione «l’ideale americano» secondo cui ancora oggi gli “eletti” sono chiamati a intervenire in ogni angolo del pianeta per “salvare” nativi, pagani… secondo una visione del mondo ben diversa da quella reale.

Il “mondo” di cui parlano sempre i «padroni dell’universo» è in realtà cosa differente dal “mondo reale” e sta a indicare «la classe politica di Washington e di Londra (e chiunque sia d’accordo con loro)», in quanto se l’espressione “il mondo” «si applicasse davvero al mondo intero, anche altri potrebbero ambire al premio di criminale più odiato».

Nel maggio del 2011, su volere di Obama, sono stati inviati in Pakistan 69 incursori delle forze speciali, «per portare a termine l’assassinio, palesemente premeditato, dell’indiziato numero uno degli orrori dell’11 settembre, Osama bin Laden». I militari americani hanno colpito un bersaglio disarmato e privo di scorta, senza valutare neanche per un momento l’opzione di catturarlo per poi processarlo, come invece è stato fatto per i criminali di guerra nazisti, e tentare almeno di farlo “parlare”. Un’uccisione, per cui non è stato ritenuto necessario effettuare l’autopsia, definita dalla stampa, da quella parte almeno che Chomsky definisce “intellettuali responsabili”, «azione giusta e necessaria».

Ciò su cui l’autore invita a riflettere è il nome attribuito all’operazione: Geronimo, e si chiede perché Obama abbia voluto, consciamente o inconsciamente, «identificare Bin Laden con il capo apache che aveva guidato la coraggiosa resistenza del suo popolo contro gli invasori».

Quella scelta ricorda molto la superficialità e la leggerezza con cui «battezziamo le nostre armi letali con i nomi delle vittime dei nostri crimini: Apache, Blackhawk, Cheyenne». Un qualcosa che passa del tutto in sottotono ma immaginiamo le reazioni, di sicuro più forti, se «la Luftwaffe avesse chiamato i suoi caccia Ebreo o Zingaro».

“Chi sono i padroni del mondo”, il lato oscuro delle potenze democratiche nell'analisi di Noam Chomsky

Sempre con riferimento agli “intellettuali responsabili”, ovvero giornalisti storici critici che mentono sapendo di mentire, dimenticando le loro reali responsabilità nei confronti dei lettori per diventare degli sfacciati «apologeti dei misfatti americani e israeliani», Chomsky sottolinea più volte come questi siano giunti anche ad affermare che «mentre gli arabi ammazzano i civili di proposito, Stati Uniti e Israele, essendo società democratiche, non lo fanno intenzionalmente».

Come consueto l’autore riporta svariati esempi a supporto delle sue considerazioni, azioni similari che ricevono una interpretazione differente e di conseguenza il pubblico ne avrà una percezione diametralmente opposta.

In base a tutto ciò Chomsky invita il suo lettore ad «assumere la prospettiva del mondo reale» e chiedersi chi realmente siano i «criminali che vogliono la fine del mondo».

Il libro di Noam Chomsky è una lettura abbastanza impegnativa. Oltre trecento pagine di una rivisitazione storica secondo una chiave di lettura che non lascia molto spazio al fraintendimento e alla edulcorazione della realtà dei fatti, scritte tuttavia con uno stile che cerca di essere più semplice e chiaro possibile, accessibile a tutti coloro vogliano quantomeno provare a riflettere e mettere in discussione la ‘versione ufficiale’ della Storia e chiedersi, insieme all’autore, chi governa il mondo e, soprattutto, secondo quali principi e valori lo fa.

http://www.sulromanzo.it/blog/chi-sono-i-padroni-del-mondo-il-lato-oscuro-delle-potenze-democratiche-nell-analisi-di-noam-cho

 

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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

22 giovedì Dic 2016

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LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, PierreJeanLuizard, recensione, RosenbergSellier, saggio, terrore, Terrorismo

Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’histoire di Pierre-Jean Luizard è pubblicato in Italia da Rosenberg&Sellier a novembre 2016 nella versione tradotta da Lorenzo Avellino con prefazione di Alberto Negri e introduzione di Franco Cardini.

Pierre-Jean Luizard afferma che «lo Stato islamico prospera là dove gli stati hanno fallito», ma per capire i meccanismi che hanno portato al fallimento di questi stati e alla conseguente nascita di movimenti ribelli bisogna analizzare la Storia almeno degli ultimi cento anni. Ed è esattamente ciò che l’autore fa nel testo.

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura impegnativa che l’autore della introduzione alla versione italiana, Franco Cardini, sostiene non possa essere compresa fino in fondo se non la si fa precedere dallo studio di una serie di titoli che si premura di elencare.

In realtà, anche se a un lettore non esperto della materia può sfuggire qualche passaggio, il messaggio che Luizard vuole diffondere arriva forte e chiaro.

Le vecchie potenze mandatarie hanno difficoltà ad accollarsi il proprio passato coloniale. Non è facile ammettere che la “missione colonizzatrice” dell’Europa è servita «da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Non volendo riconoscere «il passato e soprattutto gli errori e le responsabilità» si ha molta difficoltà a vedere «un futuro “diverso” per il Medio Oriente». Non riuscire a vedere un “futuro diverso” per il Medio Oriente significa che difficilmente si troverà uno soluzione efficace al “problema terrorismo”.

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Quella offerta da Luizard non è una visione catastrofica o complottistica della realtà. Semplicemente l’autore analizza i fatti storici succedutisi a partire dal primo conflitto mondiale, ponendo in risalto quelli più o meno consciamente tralasciati o ignorati da parte di storici e giornalisti, per regalare al lettore una panoramica abbastanza ampia delle crisi:

  • Israelo-palestinese.

  • Israelo-siriana.

  • Sirio-libanese.

Della guerra irano-irachena, di quella “malintesa” combattuta in Afghanistan, dei conflitti confessionali, della genesi del terrorismo di matrice islamica, del ruolo delle diplomazie occidentali… Un modo efficace per cercare di far capire a noi occidentali “il resto del mondo”.

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La sconfitta militare del Califfato, molto reclamizzata dai media e dai politici occidentali, viene volutamente indicata come l’unica strada percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica. Luizard sostiene che «anche se il califfato perderà tutta la sua base territoriale, si diffonderà come tante metastasi in zone escluse dall’attuale territorializzazione». È una storia già nota, quella che ci raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basta ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

Dopo l’uccisione di Osama bin Laden Al-Qã’ida «si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria» dove ha dato vita al «fronte Jabhat al-Nuşra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato».

Alberto Negri, nella prefazione al libro, sottolinea come il Califfato gli sia apparso in questi anni «una sorta di mostro provvidenziale per cambiare le frontiere del Medio Oriente» e aggiunge che è un po’ «come lo fu Al-Qã’ida dopo l’11 settembre per intervenire prima in Afghanistan e poi in Iraq». Bisognerebbe interrogarsi su come nascono questi “mostri” del terrorismo internazionale e su quali siano in realtà i legami con le diplomazie occidentali.

Una storia che per Negri ha inizio con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, allorquando americani e sauditi avevano creato a Peshàwar «il più grande centro jihãdista del mondo», con il sostegno del Pakistan e dei pashtun della zona tribale. Allora gli jihãdisti erano considerati «i nostri eroi», erano quelli che combattevano contro «l’Impero del Male». Solo in seguito sono diventati i «barbari» che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Due anni prima della rivolta del 2011 Nibras Kazimi, un ricercatore arabo, affermava che la Siria era «il terreno ideale per una guerra santa». Era il nemico perfetto, come sottolinea lo stesso titolo del saggio – Syria through jihadist eyes: a perfect enemy – pubblicato negli Stati Uniti. Un Paese pieno di «difetti agli occhi degli occidentali»:

  • Non intendeva fare la pace con Israele se non con un patto che prevedesse la restituzione del Golan (al-Jawlãn) occupato dall’esercito ebraico nel 1967.

  • Continuava ad avere rapporti con Mosca.

  • Era alleato da decenni con la repubblica islamica sciita dell’Iran e sosteneva gli Hezbollah, «l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006».

  • Appartiene a quell’ «asse della resistenza» che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo.

La Siria confina con «paesi ribollenti» – Turchia, Libano, Iraq, Israele, Giordania -, ha una popolazione a maggioranza sunnita ma comandata da una minoranza, gli alauiti, ritenuta eretica.

Quando Al-Asad ha rifiutato l’offerta degli Emirati Arabi, che offrivano «il triplo del bilancio statale (circa 150 miliardi di dollari) per rompere l’alleanza con l’Iran», nelle cancellerie occidentali si diffuse «la convinzione che il regime avrebbe avuto vita breve», come Ben’ Alĩ in Tunisia, Mubãrak in Egitto e Al-Qadhdhãfĩ in Libia. L’ambasciatore statunitense in Siria e quello francese «andarono in visita a Hamã dai ribelli», presumendo che Al-Asad barcollasse e fosse opportuno «guadagnare credito con l’opposizione islamista». Per Negri ciò ha rappresentato un esplicito via libera per far affluire in Siria migliaia di «combattenti islamici» provenienti da ogni parte del Medio Oriente e del Nord-Africa.

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Ibrãhĩm ‘Awed Ibrãhĩm ‘Alí al-Badrĭ, il vero nome di Al-Baghdãdĩ nato a Sãmarrã nel 1971, «si è vantato di essere un imam con dotti studi sufi e un’origine che affonda nella tribù di Maometto», ma nel suo «oscuro percorso» di davvero notevole c’è che gli americani lo arrestarono nel 2004 per rilasciarlo nel 2009 «in maniera inspiegabile»: l’anno dopo era il capo di Al-Qã’ida. «Questi sono i fatti che ognuno può interpretare come preferisce» ma Negri avanza il sospetto che questa guerra allo Stato islamico sia soltanto il primo tempo della vicenda: «nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra».

I media, le cancellerie occidentali e di conseguenza anche l’opinione pubblica diffusa preferiscono, in genere, far partire il racconto dei fatti relativi al terrorismo estremista di matrice islamica dall’attacco alle Twin Towers e Washington dell’11 settembre 2001, ma per comprendere una «storia da conoscere» è certamente utile «un breve sguardo al passato».

Al-Qã’ida in Iraq «ha scavato nel desiderio di rivincita dei sunniti», una minoranza che prima deteneva tutto il potere ma che con «l’occupazione americana» è diventata un gruppo di reietti trattati come paria. L’Isis ha saputo «sfruttare il profondo malcontento sunnita». Con la fusione tra sunniti di «due nazioni frantumate» si colmava il divario demografico in Iraq e «si costruiva il califfato».

La Storia di Iraq e Siria «appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalistici» che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente «conosciuto fino a oggi».

Leggerlo o affermarlo oggi può risultare molto strano o addirittura provocatorio ma c’è stato un tempo in cui «l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente». Con «l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi», il ministro delle Colonie Winston Churchill mise a capo degli stati sotto mandato britannico «i monarchi arabi del clan hashemita degli Husayn», sovrani della Mecca. «Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania». Emiri e sceicchi allora erano «al servizio del piano coloniale» per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. «La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico» di Abũ Bakr al-Baghdãdĩ sono adesso «funzionali a un progetto completamente diverso»: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto «la bandiera nera di un nuovo califfato».

Sia la Siria che l’Iraq oggi sono «degli ex-stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografia» e nessuno, né in Occidente né in Medio Oriente, ha un piano politico alternativo «al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale». Per l’autore siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, «evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale», oppure si deve affrontare la «balcanizzazione del Medio Oriente». Gli europei, che hanno assistito «senza fare nulla di positivo» alla disintegrazione della Jugoslavia e ora «appaiono impotenti» di fronte all’Ucraina, «sono in materia degli esperti».

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L’ascesa del califfato tra Iraq e Siria «non è stata esattamente una buona notizia» per le monarchie assolute del Golfo «sostanzialmente antidemocratiche», che l’Occidente si ostina ad appoggiare «rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti». Il presidente americano Barack Obama in otto anni di presidenza «ha venduto a Riad, impegnata nella guerra in Yemen, circa 100 miliardi di dollari di armamenti e firmato un contratto per 38 miliardi con Israele».

La Siria è stata per decenni una sorta di «kombinat militare-mercantile sostenuto dall’Unione Sovietica» che ha consolidato una «classe di privilegiati favorendo i cristiani e le dinastie sunnite». Prima dell’ascesa del partito Ba’th, gli alauiti erano fermi al gradino sociale più basso, erano fellah, contadini, uomini di fatica. «Il colpo di stato di al-Asad li portò nelle accademie militari, negli apparati pubblici, in mezzo alla borghesia urbana» e così si sono presi «la rivincita su secoli di emarginazione».

Al-Baghdãdĩ ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena, ma le vere e profonde cause della rivolta sono state «la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad», rivelatesi una «formidabile propaganda per l’Isis». Non a caso infatti i periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza, inoltre una delle prime misure degli jihadisti è stata «la promozione di azioni emblematiche contro la corruzione».

Più che una versione «pura» dell’Islam «gli jihadisti forniscono un franchising», che in Europa dà «un’etichetta al malessere individuale e di gruppo» e «riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento». La strategia dello Stato islamico consisterebbe per l’autore nel passare rapidamente da una logica di “etichettamento” di circostanza a quella di un’adesione reale a uno “Stato di diritto islamico”, «certo estraneo alle pratiche occidentali e al diritto internazionale, ma che si vuole comunque uno stato di diritto». Il solo bottino di guerra di Mosul, «stimato in 313 milioni di euro», conferisce allo Stato islamico una potenza finanziaria senza precedenti, eppure i paesi occidentali e gli stati arabi «continuano a considerarlo al pari di una semplice organizzazione terrorista».

Interpretazioni inspiegabili, al pari della reazione dei media occidentali dal 2014 in poi che hanno trattato lo Stato islamico come una sorta di «Ufo politico, un esercito di jihadisti spuntati non si sa dove che nessuno sembrava poter fermare».

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Lo scopo del libro, dichiarato nell’introduzione dallo stesso Luizard, è quello di spiegare il rapido successo dello Stato islamico e di capire come e perché le potenze occidentali sono cadute «nella trappola che è stata tesa loro coinvolgendole nella sua guerra».

Come è possibile che una coalizione talmente ampia da abbracciare «tutta la società civile del mondo intero» spiegata contro quello che viene indicato il “Pericolo Pubblico Numero Uno” non riesca ad avere la meglio su una realtà politico-militare che in fondo si è dimostrata abbastanza labile? Davvero bisogna credere che manchi o non si riesca a trovare un valido e comune disegno politico oppure «l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno o a qualcosa?»

Gli arabi, o comunque i musulmani sunniti, sono i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo «hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso». Non potrebbero mai farlo «né i crociati occidentali né gli eretici sciiti iraniani» senza trasformare, agli occhi «del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo», gli adepti del califfo in altrettanti martiri della fede perché, come affermava Tertulliano, «il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli».

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna di Pierre-Jean Luizard è come una sorgente in piena per un disperso nel deserto, un libro necessario per sedare la “sete” di conoscenza su una delle vicende storiche e geopolitiche solo in apparenza tra le più discusse: la nascita del terrorismo estremista di matrice islamica e il ruolo giocato dall’Occidente.

Pierre-Jean Luizard: Storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). Ha vissuto per lunghi periodi in diversi paesi del Medio Oriente ed è membro del Gruppo di sociologia delle regioni e della laicità (Gsrl) a Parigi.

Source: Si ringrazia il contatto dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale

 

 

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“È solo denaro altrui”. L’incredibile viaggio nel mondo dei banchieri di Joris Luyendijk raccontato in “Nuotare con gli squali” (Einaudi, 2016)

24 giovedì Nov 2016

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Einaudi, JorisLuyendijk, Nuotareconglisquali, ordinemondiale, recensione, saggio

Per descrivere le sensazioni provate durante e dopo l’indagine condotta tra i banker della City londinese, Joris Luyendijk in Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, edito in Italia da Giulio Einaudi Editore, utilizza un’immagine di forte impatto emotivo: invoglia il lettore a immedesimarsi in un viaggiatore nel momento esatto in cui scopre che nella cabina di pilotaggio dell’aereo sul quale si trova non ci sono piloti. Vuota. E allora si chiede: chi sta ‘governando’ l’aereo?

Per comprendere a fondo quanto l’autore scrive nella prima parte del testo bisogna attendere di averlo letto per intero. Solo a quel punto infatti il lettore avrà un quadro completo dell’idea e del progetto portato avanti da Luyendijk nonché degli sconvolgenti risultati della ricerca condotta per circa due anni intervistando più o meno duecento banchieri.

Lo studio di Joris Luyendijk è una ricerca antropologica sul campo condotta in maniera indiretta. Gli è mancato ‘il campo’ di indagine. Ha potuto parlare e intervistare, anche più volte, numerosi banchieri che operano a vario titolo nella City ma nessuno di loro ha acconsentito ad aprirgli le porte del proprio ‘regno’. L’autore non è mai stato sul luogo di lavoro degli intervistati, non li ha visti agire e relazionarsi con i propri ‘simili’. Ciò pone dei limiti alla ricerca di cui Luyendijk è consapevole. In più punti del testo ha ammesso di aver cercato il riscontro ad alcune affermazioni, impossibili da verificare di persona, nel confronto tra le varie dichiarazioni degli intervistati.

Joris Luyendijk è un giornalista che ha messo a punto negli anni un proprio metodo per portare avanti le sue inchieste. Lui lo definisce curva di apprendimento. In sostanza egli parte dal presupposto che i lettori e lui stesso, non essendo esperti dell’argomento trattato, devono stimolare il proprio interesse mediante appunto l’apprendimento graduale di informazioni che li rendano sempre più curiosi e bramosi di conoscenza. Ha deciso di applicare questo metodo anche alla finanza in quanto trova assurdo che «tanta gente mostra così scarso interesse a proposito di tematiche direttamente connesse ai loro interessi», ipotizzando tra le possibili motivazioni «indifferenza, o apatia, o forse per l’eccessiva complessità di molti argomenti, ormai comprensibili solo agli addetti ai lavori».

«Se dite a qualcuno che i suoi soldi non sono al sicuro avrete tutta la sua attenzione; pronunciate il termine “riforme finanziarie” e la gente si disconnette.»

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Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, uscito in Italia nella versione tradotta da Emilia Benghi, sembra avere come parola chiave: semplificazione. L’intricato e misterioso universo della finanza internazionale viene presentato al lettore nella maniera più lineare immaginabile, per renderlo accessibile a quante più persone possibile. Lo scopo dichiarato da Luyendijk era proprio questo.

Una tra le domande più ricorrenti che l’autore porge agli intervistati riguarda la consapevolezza della crisi del 2008 e lo turba non poco il fatto che la quasi totalità dei banker con cui interagisce afferma di non averne avuto coscienza fino alla sua esplosione. Ma pressoché all’unisono ammettono che poteva degenerare in un disastro economico di dimensioni superiori e che potrebbe verificarsi di nuovo e anche in forma più grave. «L’elenco delle misure intraprese è lungo, ma lo schema di base resta identico: la risposta normativa al crac del 2008 ne ha combattuto i sintomi, non le cause».

Le banche, soprattutto quelle grandi, investono molto tempo e denaro nel tentativo di apparire quanto più sicure e organizzate possibile ma in realtà «molti bancari non hanno competenze richieste in altri settori economici». Alcuni hanno ammesso che «magari ti serve un po’ di formazione su qualche argomento tecnico, ma quando ho fatto il primo colloquio io non sapevo nemmeno la differenza tra equity e bond. La cosa indispensabile è credere in se stessi.» La loro ‘preparazione imperfetta‘ la vivono con molto distacco e disinteresse, in fondo, dicono, «non siamo scienziati nucleari.»

Ma i problemi non riguardano solo il singolo operatore, «i suoi lettori resterebbero sconvolti dalle lacune che esistono nei sistemi informatici di molte banche, società e ministeri». L’esperto informatico sembra nutrire «la preoccupazione concreta che un giorno una megabanca non sia più in grado di accedere ai suoi dati». Cosa accadrebbe allora?

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Le banche, grandi o piccole che siano, sono strutturate in compartimenti stagni e sono apertamente scoraggiati i confronti tra vari settori che non siano quelli verticali e istituzionali. Sono il regno e l’emblema della precarietà. Puoi ritrovarti senza lavoro e alla porta nel tempo di un trillo di cellulare. Sono vietati i contatti non autorizzati con la stampa, che nel caso si verifichino vengono puniti con provvedimenti disciplinari. Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia ma in realtà vogliono intendere la capacità di far fare soldi e di farli a loro volta. E chi è esterno a questo meccanismo perverso non può fare a meno di chiedersi se davvero conta solo questo e perché.

Non è solo una questione di soldi. È lo status che risucchia inesorabilmente molti nel «tunnel della dipendenza da lavoro», nel mondo dorato dei bonus milionari, dei viaggi in prima classe e delle vacanze in resort di lusso in località esotiche… un «sistema chiuso che ti allontana ancora di più dalla realtà» e per il quale «vendi l’anima al diavolo. Io l’ho venduta per le ricchezze terrene. In cambio il diavolo ha voluto il mio fallimento morale». Tanti banker nel momento in cui realizzano cosa stanno facendo hanno dei crolli emotivi che cercano di riempire con fiumi di alcol. Ragazzi per la gran parte sotto i trent’anni che non possono parlare tra di loro se non di lavoro, la concorrenza è troppa e la debolezza non è ben vista in quell’ambiente. Non possono parlare con famigliari amici affetti perché chi è estraneo a quel mondo stenta a comprendere e a condividerne le dinamiche. Si ritrovano a vivere le loro interminabili giornate di lavoro in un sistema chiuso dove «l’etica è questa: o sei con noi o contro di noi». Un ambiente “amorale” nel quale lo scopo diffuso è “ingannare” i clienti senza infrangere alcuna legge o norma.

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Status privilegi contatti sembra non abbiano risparmiato anche molta della classe e dei partiti politici tra le cui fila «ci devono essere un sacco di personaggi della stessa genia dei “padroni dell’universo” (gli amministratori delegati delle banche, ndr), per i quali la politica è comunque solo un gioco». Gli esempi addotti da Luyendijk sono davvero numerosi, purtroppo.

«L’ex premier labourista Tony Blair guadagna come minimo due milioni e mezzo di sterline l’anno come consulente della Jp Morgan.»

«In America, Francia e Regno Unito le leggi consentono alle banche e ai banker di comprare il potere politico – con l’ennesimo inghippo verbale le chiamano “donazioni per la campagna elettorale”, invece che “corruzione”.»

«Dopo l’incarico, rispettivamente di ministro delle Finanze e di ministro degli Esteri, Timothy Geithner e Hillary Clinton hanno tenuto un certo numero di conferenze per Goldman Sachs dietro un compenso di 200 000 dollari. A discorso.»

Joris Luyendijk esterna l’amara considerazione che lo induce al sospetto che «la democrazia non sia altro che il sistema con cui l’elettorato sceglie quale politico realizzerà i diktat dei mercati», e se si considera che uno dei motti più diffusi tra i banker è “it’s only Opm (Other People’s Money)” – “è solo denaro altrui” non si può non convenire con l’autore quando, giustamente, si indigna e ammette di aver paura perché «le istituzioni finanziarie sono in grado di mettere Paesi e blocchi di Paesi gli uni contro gli altri e lo fanno spudoratamente» operando con “la cabina di pilotaggio vuota”.

La finanza opera a livello globale mentre la politica governativa ha valore a livello nazionale. «Chi governa allora le istituzioni finanziarie che operano a livello globale con dimensioni e poteri giganteschi rispetto alle amministrazioni nazionali? Nessuno può farlo». Ecco le cabine di pilotaggio vuote che hanno permesso, tra l’altro, ai «governi italiano e greco, al fondo sanitario sovrano libico, allo stato dell’Alabama e infinite altre istituzioni e fondazioni» di trovare, negli anni scorsi, «cibo per cani nelle scatole di tonno prodotte dalla Goldman Sachs».

L’autore si dichiara basito per il fatto che il sistema, nonostante la crisi del 2008, ne sia uscito ben poco sconvolto. E non si può neanche continuare nell’illusione del controllo delle agenzie di rating che «sono pagate dalle stesse banche di cui dovrebbero valutare in modo indipendente i prodotti finanziari complessi». Per rendere ancora più chiara l’idea, Luyendijk invita il lettore a immaginare che «gli ispettori della guida Michelin siano pagati dallo chef di cui sono andati ad assaggiare i piatti. Quante stelle prenderà il ristorante?»

I Cdo (prestiti obbligazionari collateralizzati), gli strumenti di debito che hanno fatto esplodere la crisi del 2008 avevano ottenuto la Tripla A di Moody’s, ovvero il punteggio di “estrema qualità” attribuito ai titoli che dovrebbero essere “solo minimamente sensibili alle circostanze avverse”.

Joris Luyendijk ci tiene a sottolineare come, dal suo punto di vista, lo scopo del giornalismo debba essere quello di diffondere le informazioni relative agli argomenti di pubblico interesse su cui il giornalista si è documentato, e di farlo nella maniera più comprensibile possibile. Purtroppo lavori di ricerca come il suo nell’ambito del giornalismo contemporaneo internazionale se ne trovano ben pochi. In genere viene spacciato per giornalismo la riscrittura di comunicati o le notazioni a margine delle conferenze stampa. Quelle che Luyendijk considera delle “messe in scena” dove viene detto ciò che si desidera venga diffuso a mezzo stampa. L’informazione è un’altra cosa.

Il libro Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri unitamente al blog da cui è stato generato sono un ottimo modo per informare i lettori su molti aspetti della finanza e della politica internazionali.

(Fonte Biografia autore: www.einaudi.it)

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