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Irma Loredana Galgano

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L’Asia ha conquistato il mondo? Questo è davvero “Il secolo asiatico?”

03 mercoledì Apr 2019

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Fazi, Ilsecoloasiatico, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, ParagKhanna, recensione, saggio

Mentre l’Occidente tutto è stato impegnato nella lotta al terrorismo e nei vari tentativi di far tenere botta all’economia, fortemente provata dalla grande crisi, il continente asiatico ha continuato a crescere, svilupparsi, innovarsi al punto da diventare non solo il principale concorrente ma superare nettamente gli avversari. Ovvero Europa e Stati Uniti.
La «zona economica asiatica», quella parte di mondo compresa tra la penisola arabica e la Turchia a occidente e il Giappone e la Nuova Zelanda a oriente, frutta il «50% del Pil globale e due terzi della crescita economica globale». L’Asia produce ed esporta, oltre a importare e a consumare, «più beni di qualsiasi altra regione al mondo», e gli asiatici «commerciano e investono più tra di loro che con l’Europa o il Nord America».

In Asia si trovano molte delle economie, delle banche e imprese tecnologiche e industriali, nonché «la maggior parte degli eserciti più grandi al mondo». Ignorare tutto questo per decenni non ha prodotto uno svilimento della crescita e del progresso portato comunque avanti da tanti paesi del blocco asiatico. Ignorarlo tuttora, nella speranza che le ormai vetuste potenze occidentali ritrovino d’un tratto il loro vigore e splendore, quasi per magia, è un atteggiamento per certo controproducente. Parag Khanna avverte tutti di preparasi a «vedere il mondo dal punto di vista asiatico», perché l’asianizzazione del mondo nel ventunesimo secolo è orami una realtà, esattamente come lo è stata l’occidentalizzazione dello stesso nel secolo passato.

Esce in prima edizione a marzo 2019 con Fazi Editore Il secolo asiatico? di Parag Khanna, tradotto da Thomas Fazi dalla versione originale in inglese The future in Asian. Commerce, Conflict, and Culture in the 21th century. Un saggio molto articolato, lungo ben 522 pagine, tutte necessarie. Parallelamente a un’attenta analisi geo-politica ed economica, Khanna porta avanti nel testo anche un dettagliato resoconto storiografico di quanto accaduto e perché, utilissimo al lettore per meglio comprendere alcune dinamiche di cui poco si continua a parlare ancora adesso, purtroppo.

Esordisce l’autore ricordando le parole attribuite a Napoleone, allorquando il generale francese, due secoli or sono, avrebbe detto, parlando della Cina: lasciatela dormire, perché al suo risveglio il mondo tremerà. A svegliarsi non è stata solo la Cina ma l’intero continente asiatico e a tremare non è solo la Francia ma l’intero Occidente. Per farsene un’idea basta leggere i titoli, gli articoli e, soprattutto, i commenti alla firma degli accordi tra Italia e Cina, ratificati proprio in questi giorni. Il filo rosso che lega questa sorta di linea difensiva mediatica sembra essere la paura che l’Italia venga sopraffatta dalla dirompente economia cinese, che questo Paese asiatico possa sopraffare la nostra economia e rompere i legami con i vecchi e forti alleati di sempre. Il tutto proposto come un qualcosa che potrebbe accadere. In realtà la firma dei 29 punti dell’accordo siglati tra Italia e Cina non vanno a intaccare un bel nulla né a modificare niente del cambiamento che è già realtà e che tocca il nostro Paese come tutto l’Occidente in maniera trasversale.

La Belt and Road Initiative (Bri), definita come la nuova Via della Seta, è «il più grande piano coordinato di investimenti infrastrutturali della storia umana», l’equivalente di ciò che ha rappresentato per il XX secolo «la creazione delle Nazioni Unite, della Banca Mondiale e del piano Marshal». Un qualcosa che è già realtà con o senza la ratifica degli accordi tra Italia e Cina. Si può pensare a esso in maniera positiva o negativa ma non si potrà mai negare che rappresenta un cambiamento epocale, iniziato nel maggio del 2017, quando «sessantotto paesi che comprendono i due terzi della popolazione e la metà del Pil mondiale si sono riuniti a Pechino».
Cambiamenti epocali, esattamente come quelli avvenuti nel secolo scorso e di cui mai nessuno ha dubitato o messo in dubbio l’utilità e le procedure. Eppure questi di oggi spaventano tanto. Perché? Il motivo è semplice: «la Bri è stata concepita e lanciata in Asia e sarà guidata dagli asiatici». E, soprattutto, gli occidentali non solo non sono riusciti a stopparla sul nascere ma non sembrano avere neanche idea di come riuscire a fermarla.

L’Asia ha da tempo ormai imparato a fare i conti con l’impatto della storia occidentale sul suo presente, «adesso tocca all’Occidente fare i conti con l’impatto dell’Asia sul proprio futuro».
Siamo alle prime fasi dell’asianizzazione del mondo, per cui molte incognite ancora sussistono. Si chiede l’autore come gestirà l’Asia tutte le trasformazioni geopolitiche, economiche, sociali e tecnologiche. Come risponderanno le potenze occidentali all’ascesa dell’Asia e, soprattutto, come si adegueranno gli asiatici a tali reazioni.
È una Storia che si sta ancora scrivendo ma che non basterà ignorare o criticare per essere arrestata. Ipotizzando lo si possa o lo si debba poi effettivamente fare.

Il secolo asiatico? di Parag Khanna è una lettura impegnativa ma fuori di dubbio utile necessaria illuminante. Un testo valido nella scrittura e nel contenuto. Un libro per certo consigliato.


Articolo originale qui


Disclosure: Fonte immagine di copertina, sinossi, biografia dell’autore e scheda libro www.fazieditore.it



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Il Buddhismo contro l’imbarbarimento del caos. “Le ragioni del Buddha” di Diego Infante (Meltemi, 2018)

08 sabato Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DiegoInfante, LeragionidelBuddha, Meltemi, monocolooccidentale, Occidente, Oriente, recensione, saggio

Dare un senso al proprio stare al mondo. Domande esistenziali che tutti e ognuno, magari inconsciamente e inconsapevolmente, si pongono o dovrebbero porsi. E, laddove non trovano libero sfogo o accesso, generano con ogni probabilità un processo lesivo dell’essere interiore che, inevitabilmente si ripercuote in quello esteriore, nelle relazioni e nello stare al mondo e nel mondo.
Qual è lo scopo del vivere l’esistenza terrena? Quale il senso di “vivere” gran parte di essa rinchiusi in prigioni di cemento più o meno grandi o in scatole di ferro accessoriate con ruote e ogni “confort”?

La società moderna «costituisce il brodo di coltura ideale per il sorgere di nuove domande», non più «esigenze dettate dalla sussistenza, quanto la necessità» di dare, appunto, un senso al proprio stare al mondo. Che non può e non deve ridursi al consumo di risorse e all’accumulo di beni materiali e denaro.

In un’epoca in cui l’istruzione, l’informazione, la comunicazione sembrano svolgersi sempre più caoticamente, a colpi di lanci e smentite, promesse e dinieghi, slogan e titoloni… una vorticosa giostra che pare essere stata creata apposta per nascondere il vuoto, di senso soprattutto, il libro di Infante assume quasi un valore catartico. Un invito non ad abbracciare una qualsivoglia religione o ideologia quanto, piuttosto, a praticare una accurata e profonda riflessione sul mondo come su noi stessi. Riflettere, per esempio, sul dualismo kantiano tra il mondo noumenico e quello del fenomeno. Sulla realtà come volontà e come rappresentazione, ovvero «il mondo come noi ne facciamo esperienza».

Si pensi alla realtà immaginata e costruita per i bambini occidentali, fatta di sontuose feste di compleanno, regali sotto l’albero, beni di consumo mutevole e superflui, spesso inutili eppure spacciati e sentiti come assolutamente necessari. Una rappresentazione talmente distorta di quella che è la realtà, di quello che è il mondo reale da apparire surreale se non proprio paradossale che in tanti, adulti prima ancora dei bambini, tuttora ci credano. Il mondo fuori dai format televisivi, cinematografici e pubblicitari, quello in cui vivono milioni di persone che si cerca costantemente di incantare con la ‘felicità consumistica’ del mondo occidentale, la cui economia verte interamente «sul foraggiamento dei desideri».

«Non è peregrino affermare che l’Occidente abbia costruito il proprio paradigma nella più completa ignoranza del meccanismo per cui per ogni azione si generano forze inverse e contrarie». E volendo contestualizzare il discorso nel dibattito, in questo periodo caldissimo, sui migranti, si nota che la discussione si sviluppa sul tema dell’accoglienza, nella declinazione dei favorevoli e dei contrari, della necessità o nel dovere che l’Occidente deve assumersi per dare una possibilità a tutti loro di costruirsi una nuova vita, quanto più simile possibile a quella immaginata o vissuta per se stessi. Nessuno, o quasi, pensa invece che la soluzione vada ricercata nella rinuncia dell’Occidente tutto in primo luogo ai suoi innumerevoli e inappagabili “desideri” che si traducono in consumo, in spreco di risorse, suolo e spazio che non competono solo agli occidentali bensì agli abitanti dell’intero pianeta.

Cita Infante nel testo una esemplare frase di Tiziano Terzani: «Se l’Homo sapiens, quello che siamo ora, è il risultato della nostra evoluzione dalla scimmia, perché non immaginarsi che quest’uomo, con una nuova mutazione, diventi un essere più spirituale, meno attaccato alla materia, più impegnato nel suo rapporto con il prossimo e meno rapace nei confronti del resto del mondo?»
Di sicuro questa mutazione non avverrà fin quando il paradigma di una felicità raggiungibile solo attraverso l’economia di appagamento dei desideri sarà considerato un imperativo. Solo attraverso la rinuncia, la ricerca interiore prima che esteriore, la solidarietà e l’empatia contrapposte all’individualismo sfrenato si potrà sperare in un reale e profondo cambiamento. Inutile utopia per alcuni, speranza per altri.

Di sicuro c’è che finora tutte le ideologie indistintamente davano «la certezza morale necessaria per giustificare la violenza in funzione di un mondo migliore», inducendo ad accettare come «un fatto scontato che qualcuno debba morire perché gli altri possano vivere liberi e felici». La citazione di Pankaj Mishra restituisce nella giusta ottica gli errori di fondo di una cultura basata sul profitto e sul benessere propri, e sul disinteresse pressoché totale per gli altri, usati spesso solo come anonimi destinatari di una beneficenza e di gesti caritatevoli volti a rappresentare la propria presunta bontà d’animo nonostante la conscia violenza inflitta, direttamente o indirettamente, al mondo e ai suoi abitanti. In altre parole ipocrisia e apparenza, che poi, in fondo, sono le fondamenta della cultura dell’immagine e della rappresentazione su cui sembra essere stato costruito tutto l’impianto del progresso occidentale.

Nelle differenze enormi con gli insegnamenti buddhisti Infante riesce a trovare se non proprio similitudini almeno potenziali punti di incontro che potrebbero costituire altrettanti punti di partenza per un buddhismo che accompagni l’Occidente nel suo percorso accelerativo: «l’accelerazione potrebbe innescare la messa in discussione e quindi il capovolgimento di prospettiva». Un “viaggio” per guardare lontano laddove la distanza può fungere «da specchio per guardare vicino e soprattutto dentro».
Esattamente la svolta che fu caratteristica di «un grande viaggiatore qual è stato Tiziano Terzani»: un viaggio dentro e non fuori. Un viaggio la cui meta non era un luogo fisico ma un posto della mente, uno stato d’animo, «una condizione di pace con se stesso e col mondo».

Anche Le ragioni del Buddha di Diego Infante rappresenta, per certi versi, un viaggio che il lettore compie attraverso la narrazione dell’autore sul sentiero da lui tracciato o su quello della propria mente. Un viaggio lento, a volte accidentato, ma pregno di significati. Un peregrinare tra domande e risposte seguendo i lineamenti di uno stile narrativo intenso, molto ricercato. Una ricercatezza che si denota sia nel fraseggio come anche nell’impiego di vocaboli di non largo utilizzo. Un percorso di scrittura e un ragionamento avallati da numerose citazioni e riferimenti bibliografici che spaziano dai testi di Baumer a Dumont o Kumar, il più volte citato Terzani e numerosi altri autori. Un libro articolato, ben strutturato e ben riuscito nello scopo dichiarato e prefissosi dall’autore.


Source: Si ringrazia l’autore Diego Infante per la segnalazione e il materiale.


Articolo originale qui


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“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018)

04 martedì Set 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AdamTooze, Loschianto, Mondadori, monocolooccidentale, NWO, Occidente, Oriente, recensione, saggio, terrore

Cento anni dopo il primo conflitto mondiale i governi e i popoli dell’intero pianeta si pongono i medesimi interrogativi, di nuovo.
Come si accumulano rischi enormi, poco compresi e poco controllabili? In che modo quadri di riferimento anacronistici e obsoleti ci impediscono di capire cosa sta succedendo intorno a noi? Il motore di ogni instabilità è forse lo sviluppo disomogeneo e combinato del capitalismo globale? Possiamo raggiungere una stabilità e una pace perpetue?
Di nuovo, le medesime domande perché sono queste che «accompagnano le grandi crisi della modernità».

In Crashed, edito in Italia da Mondadori ad agosto 2018 nella versione tradotta da Chiara Rizzo e Roberto Serrai e intitolata Lo schianto, Adam Tooze analizza gli ultimi dieci anni, dal 2008 al 2018, dalle origini della crisi prima finanziaria poi economica che ha investito, a quanto hanno detto, a più riprese l’intero sistema globale. Per la gran parte menzogne o giustificazioni a provvedimenti che i governanti hanno ritenuto essere improrogabili. Per gestire la crisi dell’eurozona dopo il 2010, per esempio, condotta seguendo una logica che non è stata altro che «una ripetizione dei salvataggi bancari del 2008, ma questa volta sotto mentite spoglie».

E così, mentre ai contribuenti europei venivano richiesti enormi sacrifici, i medesimi chiesti in precedenza ai cittadini americani, «banche e altri istituti di credito erano pagati col denaro riversato nei paesi che beneficiavano del salvataggio». Tutto perché al centro della crisi eurozona venivano messe le politiche del debito sovrano. «Come i responsabili della UE sono ora disposti ad ammettere pubblicamente», questo non aveva alcun fondamento sul piano economico. La sostenibilità del debito pubblico può diventare un problema, a lungo termine. La Grecia, per esempio, era insolvente. Ma l’eccessivo debito pubblico non era il denominatore comune della più ampia crisi dell’eurozona. Il denominatore comune era «la pericolosa fragilità di un sistema finanziario eccessivamente legato all’indebitamento» e troppo dipendente «da finanziamenti a breve termine basati sul mercato».

La Federal Reserve statunitense si è proposta fin da subito come fornitore di liquidità di ultima istanza per il sistema bancario globale. Ma cosa vuol significare davvero il fatto che la finanza e l’economia globali dipendono, in ultima istanza, dalla decisioni del governo americano?
La crisi dei mercati emergenti (Messico, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia, Argentina) degli anni Novanta ha mostrato a tutto il mondo «con quanta facilità uno Stato possa perdere la propria sovranità». Nel 2008, «nessuna delle vittime degli anni Novanta» è stata costretta a ricorrere al Fondo monetario internazionale. Una lezione che i paesi dell’eurozona sembrano non aver imparato neanche ora.

La crisi nell’eurozona è stata affrontata in maniera disomogenea, «una confusione di visioni contrastanti» che hanno portato alla messa in scena di un «dramma sconfortante di occasioni mancate, di fallimenti nella leadership e di fallimenti nelle azioni collettive». Generando un danno sociale e politico da cui «il progetto della UE potrebbe non riprendersi mai più».

La crisi finanziaria ed economica del 2007-2013 si è trasformata, tra il 2013 e il 2017, «in una crisi politica e geopolitica globale dell’ordine mondiale uscito dalla guerra fredda», le cui ovvie implicazioni politiche «non dovrebbero essere schivate». Pulsioni di rinnovamento e aneliti di cambiamento sono giunti da ogni parte ma «contro la sinistra le brutali tattiche di contenimento hanno fatto il loro lavoro». Si pensi a quanto accaduto, per esempio in Grecia. Invece non altrettanto è accaduto per la destra che ha resistito ed è avanzata nel consenso e nella determinazione. Si pensi a quanto sta accadendo, per esempio, in Austria.

Questa «nuova politica» del periodo successivo alla crisi è stata demonizzata come populismo, trattata alla stregua degli anni Trenta o attribuita alla «malvagia influenza della Russia», invece va osservata, sottolinea Tooze, come un segno della vitalità della democrazia europea davanti al «deplorevole fallimento dei governi» riassumibile forse nelle parole di Jean-Claude Juncker citate nel testo: «Quando le cose si fanno serie, bisogna mentire».

La tesi portata avanti da Tooze ne Lo schianto è di collocare la crisi bancaria nel suo contesto più ampio, politico e geopolitico, oltre che, naturalmente, finanziario ed economico perché è necessario «confrontarci con l’economia del sistema finanziario». La narrazione offerta dall’autore tenta di mostrare «la percezione dall’interno del funzionamento – o del non funzionamento – della circolazione del potere e del denaro» e di chiarire le dimensioni dell’interdipendenza del sistema globale nonché «l’estrema dipendenza del sistema finanziario globale dal dollaro». E l’importanza delle conseguenze di tutto ciò. Per tutti.


Articolo originale qui


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La musica come rinascita spirituale. “Il pianoforte segreto” di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringheri, 2018)

31 martedì Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ilpianoforte segreto, Occidente, Oriente, recensione, romanzo, ZhuZiaoMei

Da sempre la musica, ma andrebbe detto l’arte in generale, detiene un immenso potere: quello di muovere e smuovere le masse, il popolo. Ed è per questo che gli artisti, soprattutto quelli definiti “ribelli” o “rivoluzionari” perché non accettano di livellarsi agli altri, che non mentono ma raccontano senza veli la verità, sono considerati pericolosi per «la loro costante messa in discussione della realtà, e la loro sempre maggiore richiesta di libertà».

Tutto ciò era ben chiaro anche a Mao Zedong il quale affermava che «i cinesi non saranno mai più un popolo di schiavi», riferendosi al capitalismo e all’Occidente e a tutte quelle che considerava devianze e perversioni culturali. Mai più schiavi delle idee e ideologie altrui quindi… solo delle proprie. Infatti il suo regime non ha creato progresso, civiltà, cultura, innovazione. Quella che lui stesso e i suoi sostenitori chiamavano “Rivoluzione Culturale” altro non è stata che una dittatura di colore opposto a quelle più tristemente note. Che ha avuto i suoi seguaci, i suoi oppositori, i perseguitati e i reietti. Gli impuri, come la famiglia di origine di Zhu Xiao-Mei, rei di essere “musicisti e intellettuali”.

Bollati Boringheri pubblica a giugno di quest’anno la versione tradotta da Tania Spagnoli de La Rivière et son secret di Zhu Xiao-Mei, appellandola Il pianoforte segreto. Si percepisce, nel libro di Zhu Xiao-Mei, una grazia, una semplicità, una naturalezza, nel racconto come nella scrittura, che sono affatto comuni.
Un libro che non è il racconto di chi vuol apparire, o di chi vuol insegnare, no, Il pianoforte segreto narra “semplicemente” una storia. Vuole aprire al mondo una biografia che non è solo quella personale dell’autrice bensì di una nazione intera, la Cina, alle prese con un potere che, professando uguaglianza e parità, ha finito con il generare solo ingiustizia e povertà, economica e culturale.
Anche le idee migliori quando diventano ideologie imposte ad altri e rappresentano quindi delle imposizioni esplodono per intero nella loro accezione negativa.

Il pianoforte segreto può essere definito un libro lento. Una scrittura che si sofferma nei dettagli, precisa nel raccontare aspetti che, se anche in un primo momento possono apparire secondari o addirittura irrilevanti, si sveleranno poi tutti fondamentali per poter ammirare il quadro che l’autrice ha dipinto con la sua penna, o meglio ancora l’aria che le sue mani hanno sentito e suonato al pianoforte. In questo modo Xiao-Mei ha scritto lo spartito della sua esistenza che si intreccia a quella di tanti altri giovani cinesi illusi prima e disillusi poi dalla Rivoluzione Culturale tanto attesa, di tanti uomini e donne, anche occidentali, che con impegno e dedizione trovano il loro personale riscatto, emblema e simbolo di un’evoluzione più ampia che nasce e può nascere solo allorquando si accetta di «mescolare le culture e farle dialogare».

Mao affermava che la Cina «è povera e bianca, ma su una pagina bianca si possono scrivere dei bei poemi». Purtroppo a fare eco alle sue parole non arrivarono i poemi bensì la carestia, la povertà, il nero di una cultura svuotata e oscurata, le sedute di denuncia e autocritica, gli istituti di correzione e tutto quanto poteva servire per nascondere quanto più a lungo possibile il fallimento della sua ideologia.

Le pagine prima bianche del suo libro Xiao-Mei invece le ha riempite di parole utili. Necessarie innanzitutto alle vittime della Rivoluzione Culturale. Ma anche a coloro i quali, come la stessa autrice, quella Rivoluzione l’hanno superata e hanno avuto la possibilità di una «rinascita spirituale», grazia all’arte in generale ma, soprattutto, alla musica. Grazie ad essa Zhu Xiao-Mei afferma di aver ritrovato la propria umanità.
Un libro assolutamente consigliato, Il pianoforte segreto di Zhu Xiao-Mei, anche per conoscere a fondo un periodo storico ancora alquanto sconosciuto in Occidente.


Articolo originale qui


Disclosure: Fonte trama libro e biografia dell’autrice www.bollatiboringheri.it


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Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018)

26 giovedì Apr 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Laterza, Lultimalezione, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, ZygmuntBauman

Esce in prima edizione a gennaio 2018 per Laterza L’ultima lezione di Zygmunt Bauman nella versione tradotta da Valentina Pianezzi e Fabio Galimberti, che si è occupato de L’eredità del XX secolo e come ricordarla; contenente anche un saggio di Wlodek Goldkorm. Un libro con un grande insegnamento positivo, come sottolinea nella prefazione Fabio Cavallucci: «La crisi della storia, le avversità della natura, persino la natura spesso malvagia dell’uomo non possono impedirci di continuare a operare, a costruire, a lavorare per un mondo migliore». Un saggio frutto delle più profonde e importanti analisi di Bauman orientate dallo sforzo costante di individuare i fili nascosti della trama della vita sociale e di trasformare in senso comune le idee maturate nella propria ricerca intellettuale. Unico modo per garantire «quell’osmosi feconda tra riflessione e vita condivisa», come evidenzia lo stesso editore nella sua nota.

Un filosofare, quello di Zygmunt Bauman, che nasce spesso da «teorizzazioni delle sue vicende biografiche», ricorda a margine del saggio Goldkorm. Una biografia che ne ha di cose da raccontare, pregna di esperienze difficili e che hanno portato l’autore a vedere davvero il mondo con occhi diversi. Una visione globale del pianeta che abbraccia soprattutto i popoli e non, come si vorrebbe, soltanto le economie. Un’analisi obiettiva e a tratti ‘spietata’ degli errori commessi e protratti nell’affrontare conseguenze gravi, come le migrazioni globali di popoli, con una visione ancora troppo nazionalista e faziosa.

Un rifiuto nel vedere e soprattutto nel tentare di capire quanto sta accadendo nel mondo, il perché intere popolazioni sono costrette a migrare, nel razionalizzare, coscientemente o meno, che quanto sta accadendo a loro è, alla fin fine, casuale, nel senso che potrebbe un giorno accadere anche a noi. E se da un lato è vero che qualsiasi cosa accade nell’universo è casuale, lo è anche che le guerre «possiamo fare in modo che non scoppino». Tuttavia nello Stato moderno si preferisce scegliere la strada del rifiuto e della negazione con «l’esclusione di tutto ciò che è ingestibile e pertanto indesiderabile». Arrivando ripetutamente agli “omicidi categoriali”, allorquando «uomini, donne e bambini sono stati sterminati perché assegnati a una categoria di esseri da sterminare». E Bauman parla in maniera approfondita degli ebrei, degli armeni, dei kulaki, dei musulmani, degli induisti… sottolineando come «tutti i continenti della terra hanno avuto i loro hutu che hanno massacrato i loro vicini tutsi, e ovunque i tutsi del luogo hanno ripagato con la stessa moneta i loro persecutori».

Edith Birkin, “A Camp of Twins – Auschwitz” – 1980/1982

Quello che conta è arrivare in cima e rimanerci, essere il più forte. L’inattaccabile. Mascherando la ferocia con la necessità di sopravvivere, un valore che «vale la pena perseguire di per sé, non importa quanto elevato possa essere il costo per gli sconfitti, e fino a che punto possano uscirne depravati e degradati i vincitori». Una lezione che Bauman stesso definisce “terrificante”.

Nel nostro mondo di modernità liquida, di rapida disintegrazione dei legami sociali e dei loro contesti tradizionali, le comunità, così come le società, possono essere soltanto conquiste, «artifizi di uno sforzo produttivo». E l’omicidio categoriale va inteso ormai come un sottoprodotto, «un effetto collaterale o una scoria della loro produzione». Per Bauman, la rilevanza dell’olocausto «risiede nel suo ruolo di laboratorio», dove sono state condensate, portate in superficie e rese visibili «certe potenzialità, precedentemente diluite e sparpagliate, delle forme moderne e largamente condivise di convivenza umana». La lezione più importante che dà è il rivelare «il potenziale genocidiale innato nelle nostre forme di vita e le condizioni in presenza delle quali tale potenziale più produrre i suoi frutti letali».

Per tagliare alle radici la tendenza genocida «si deve dichiarare inammissibile il sistema dei due pesi e delle due misure», del trattamento differenziato e della separazione, che getta le basi per «una battaglia per la sopravvivenza condotta come gioco a somma zero». La “concorrenza sfrenata per la violenza” si alimenta dello stesso «disordine mondiale su cui prospera la concorrenza sfrenata per i profitti». Non esistono soluzioni locali a problemi globali e, in un pianeta in via di globalizzazione, «i problemi umani possono essere affrontati e risolti solo da un’umanità solidale».

Un grande saggio L’ultima lezione di Zygmunt Bauman, un testo che espone senza pregiudizi quanto accade o è accaduto e che propone delle soluzioni assolutamente non di parte, come è giusto che sia, se risolutive si vuole esse siano. Un libro assolutamente da leggere.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Gruppo Editoriale Laterza per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore www.laterza.it


Articolo originale qui


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Il collasso della modernizzazione: dal crollo del socialismo di caserma alla crisi dell’economia mondiale” di Robert Kurz (Mimesis, 2017 a cura di Samuele Cerea)

07 sabato Ott 2017

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Tag

Ilcollassodellamodernizzazione, Mimesis, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RobertKurz, saggio, SamueleCerea

Gli effetti collaterali involontari del moderno «sistema della merce», durante la sua «fase storica ascendente», hanno eclissato per molto tempo «la sua natura negativa». Si è preferito vederne solo gli aspetti positivi al punto che le crisi apparivano, o volevano essere interpretate, come mere «interruzioni nel suo processo di ascesa» e considerate sempre «superabili in linea di principio». A cosa ha condotto questo atteggiamento protratto e diffuso è sotto gli occhi di tutti.

Mimesis editore propone quest’anno, nella versione tradotta dal tedesco e curata da Samuele Cerea, Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz. Libro uscito per Eichborn Verlag nel 1991 e, per certi versi, terribilmente profetico.

Scrive infatti l’autore, ventisei anni fa, che se pure la crisi del sistema della merce non dovesse superare i limiti che ha finora raggiunto, «il subsistema occidentale non potrebbe sopravvivere al collasso globale». In alcune regioni dell’Asia, in Arabia e nel Nordafrica la reislamizzazione si è trasformata «nel surrogato di un’ideologia militante, diretta contro l’Occidente», che così sta alimentando «un becchino di tipo nuovo, privo di obiettivi trascendenti ma pronto a tutto».

Un estremismo che diventa «brodo di coltura per iniziative violente e suicide» che potrebbero diventare, e in realtà lo sono poi diventate, «aggressioni militari disperate su grande scala contro i centri del mercato mondiale». Un fondamentalismo islamico accomunato solo dal nome all’antica cultura islamica premoderna che mostra e ha mostrato per certo tratti barbarici ma che «non sono certamente più barbarici delle pretese che i signori ‘civilizzati’ delle istituzioni finanziarie internazionali avanzano, senza battere ciglio, nei confronti di una parte sempre maggiore dell’umanità».

Un saggio, quello di Kurz, che fa rabbrividire il lettore e, al contempo, gli permette di comprendere i motivi reali per cui il filosofo tedesco, «assai poco incline ai compromessi» non poteva che «suscitare forti reazioni di amore e odio» nella comunità intellettuale internazionale, in quella economica e anche nel pubblico raramente incline ad accettare e metabolizzare il catastrofismo insito in alcuni ragionamenti, come quelli portati avanti da Kurz, anche e soprattutto quando corrispondono a realtà e verità.

Il collasso della modernizzazione è fuor di dubbio, come sottolinea Samuele Cerea nell’introduzione al libro, «un’analisi radicale e spietata della società capitalistica», ma lo è altrettanto del socialismo di Stato essendo «la differenza tra le forme dell’economia di mercato e quella dell’economia pianificata solo relativa». La loro base comune è il lavoro o, per meglio dire, «il lavoro astratto, cioè l’attività umana assoggettata all’automovimento del denaro».

Certamente è stato «un grossolano errore interpretare il tracollo storicamente asincrono dei paesi del socialismo di Stato e dei paesi del Terzo mondo come la prova di superiorità dell’Occidente, cioè dell’avanguardia storica del capitalismo globale, e del suo modello». Che poi è esattamente ciò che si voluto credere in tutti questi anni e allora non si può non chiedersi, insieme al curatore, fino a che punto «l’opinione pubblica, gli intellettuali, i media, ma soprattutto l’establishment politico ed economico» siano consapevoli «della catastrofe che incombe su di una società globale che sembra fare acqua da tutte le parti».

Per Kurz l’Occidente è stato un «bizzarro trionfatore» frastornato dalla «sua stessa superiorità e dalle conseguenze del proprio trionfo». Questa vanagloria la si può facilmente ritrovare nella mancata oculatezza nell’analisi delle conseguenze della «crisi particolare del sistema perdente» che poteva, e in effetti lo ha fatto, innestare una «crisi globale in grado di minacciare anche il presunto vincitore».

Molto interessante risulta per il lettore la descrizione fatta da Kurz del paradosso insito quanto ignorato delle moderne economie. La produzione non è finalizzata al consumo personale ma a un «mercato anonimo» e il senso del processo non è la soddisfazione delle necessità concrete ma «la metamorfosi del lavoro in denaro (salario o profitto)». E così accade che «l’astratto interesse monetario» spinge ogni produttore verso quei prodotti e quelle forme produttive che gli garantiscono il massimo guadagno, nel modo più rapido e diretto, «a dispetto dei contenuti e delle conseguenze, per quanto deprecabili». Senonché lo stesso produttore «nel suo alter ego di consumatore» manifesta l’interesse precisamente opposto. Insomma, peggio di un cane che morde la sua stessa coda perché la ragione di tutto ciò è solamente il denaro.

Produttori e consumatori «si sfidano l’un l’altro in un confronto perpetuo», con il risultato che «ciascun produttore tende a tutti gli altri delle trappole» in cui tutti e ciascuno «finiscono invariabilmente per cadere a causa dell’universalità del legame sociale».

L’Occidente – «che è ormai entrato nella sua fase di crisi» – e l’Est – «che si è convertito a discepolo della logica capitalistica della concorrenza dopo il suo tracollo» – alla fine «si ingannano vicendevolmente». L’Est guarda di continuo al «passato splendore» mentre l’Occidente attende il suo definitivo tracollo per poter fruire di «nuovi mercati che però esistono solo nella sua fantasia» e lo stesso accade per le «centinaia di milioni di individui in Africa». Ciò che tutti sembrano dimenticare e che Kurz invece sottolinea è che «necessità concrete e aspirazioni umane non possono generare nessun mercato», ossia alcun potere di acquisto produttivo. Quest’ultimo infatti nasce solo dallo «sfruttamento di forza-lavoro umana in forma aziendale» e per giunta a un livello «conforme allo standard mondiale di produttività».

Il Terzo mondo, che ha già quasi «ultimato la sua fase di collasso», rappresenta per Kurz «il modello autentico della ‘modernizzazione di recupero‘». Le strutture interne della modernizzazione del Terzo mondo e quelle dei paesi del socialismo reale «si dimostrano, a posteriori, sorprendentemente affini». Soprattutto se si fa «astrazione dai camuffamenti ideologici e politici». A posteriori sembrano essersene accorti anche «gli istituti di credito internazionali, allineati all’economia di mercato occidentale», come la Banca mondiale o il Fondo Monetario Internazionale (FMI), ovvero «i principali creditori delle economie del collasso». Tuttavia anche qui, come per le nuove riforme di mercato nei paesi dell’Est, «la causa viene scambiata con l’effetto».

Il FMI, la Banca mondiale e gli altri grandi creditori occidentali stanno «spingendo da tempo il Terzo mondo verso la destabilizzazione interna, sociale e politica». Cosicché «controreazioni violente, per quanto parossistiche e insensate, saranno inevitabili». La Storia recente e contemporanea ha dimostrato, purtroppo, la veridicità di queste affermazioni. Per la massa crescente degli «esclusi», la «barbarie ‘ufficiale’ del denaro» appare ancor «più soggettivamente terrificante dell’aperto dominio della mafia».

Il collasso della modernizzazione. Dal crollo del socialismo da caserma alla crisi dell’economia mondiale di Robert Kurz, nella versione in italiano curata da Samuele Cerea è un saggio da leggere assolutamente.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Fonte biografia autori e tema del saggio www.mimesisedizioni.it

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Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

21 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Darknet, FedericaFantozzi, Illogista, internet, intervista, Italia, Marsilio, Occidente, Oriente, paura, Rete, romanzo, terrore, Terrorismo

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Da poco pubblicato da Marsilio, Il logista di Federica Fantozzi è un romanzo dal ritmo incalzante, dalla narrazione forte che alterna suspence e descrizione, azioni statiche e scene di immediato impatto emotivo e sensoriale… elementi tutti che concorrono a definire l’ottima struttura di un libro che può servire al lettore a dare grandi input di riflessione sulla società, sulla malvagità, sulla criminalità e il terrorismo, sulle relazioni con il mondo esterno e con se stessi.

Ne abbiamo parlato con l’autrice nell’intervista che gentilmente ci ha consesso.

Il logista sembra contrapporre due mondi, quello arabo e quello occidentale, e due realtà, quella del benessere e quella della disperazione. Perché ha deciso di scrivere questo libro?

In realtà la disperazione è ovunque, tra i ricchi come tra i poveri. Il benessere può mascherarla ma non eliminarla. A me non interessava contrapporre il mondo arabo a quello occidentale bensì indagare i motivi che attirano sempre più persone giovani nella rete del terrorismo. E non sono convinta che la ragione principale sia la povertà: è il vuoto dentro. La solitudine, l’assenza di prospettive, lo sfilacciarsi dei legami familiari e sociali. Un cocktail micidiale che rende la vita priva di significato e, dunque, inutile. Infatti il jihadismo, come il terrorismo degli anni ’70, comincia a fare presa anche sui ceti sociali più elevati.

Agli occhi degli Occidentali, dai tempi delle Crociate contro gli infedeli, il mondo arabo e l’Islam vengono caricati continuamente di simboli misteriosi e negativi. Nel testo lei riprende l’immagine dello scorpione e il lettore viaggia attraverso il tempo e i continenti dalla Gran Bretagna all’antico Egitto, passando per l’Italia e il Medio Oriente. Il suo scopo è rimarcare il filo conduttore che lega insieme popoli e culture oppure quello di delineare le peculiarità che hanno contraddistinto i vari popoli e che ancora lo fanno?

Lo spunto è stato quello a cui lei fa riferimento: l’Islam è stato associato allo scorpione, a sua volta simbolo del maligno e dell’oscurità, all’epoca delle Crociate. Quando i cristiani, immersi nella sfolgorante luce di Dio, combattevano gli infedeli musulmani. Come fa notare Adam a un certo punto del romanzo, nella storia le prospettive cambiano e adesso è la Jihad a dare la caccia a chi non conosce né pratica il Corano. Credo che ogni lettore debba trarre le proprie conclusioni, io ho solo voluto raccontare una storia. Ma certo, nel nome delle diverse religioni attraverso i secoli sono state perpetrate molte nefandezze.

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Ne Il logista lei racconta, attraverso gli occhi della protagonista, una Roma decadente. Quali ragioni l’hanno spinta a rappresentare in questo modo la Capitale d’Italia?

La cosa divertente è che non avevo intenzione di rappresentare Roma in quel modo: sporca, insicura, decadente. È semplicemente uscita così, pagina dopo pagina. Me l’ha fatto notare per prima una persona a cui avevo fatto leggere le bozze e ho deciso di renderlo un elemento forte della narrazione. Il punto è che, da romana, evidentemente percepisco così la mia città. È un dato apolitico, non attribuisco la colpa esclusivamente a questo sindaco piuttosto che al precedente, ma resta la spiacevole sensazione che tale degrado si trascinerà a lungo.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Il Male nascosto dietro lo scorpione è l’estremismo islamico di matrice jihadista. Ma l’Isis è il Male assoluto oppure viene considerato tale perché irrompe con la forza nel mondo occidentale?

È vero, e profondamente ingiusto, che noi tendiamo a considerare l’Isis come il Male assoluto solo quando tocca le nostre società. Mentre le stragi di donne e bambini in Iraq, Afghanistan, Sri Lanka o Somalia passano spesso inosservate. È altrettanto vero che il dolore, le emozioni potenti, la solidarietà, difficilmente attraversano il video del piccolo schermo. Personalmente, ho deciso di scrivere il romanzo dopo essere stata inviata dal mio giornale, «l’Unità», a Parigi nei giorni successivi al massacro del Bataclan. Una settimana durissima e commovente. Senza quell’esperienza vissuta dal vivo forse non avrei avuto la spinta necessaria per raccontare Il logista.

C’è stato un tempo e neanche troppo lontano in cui gli jihadisti erano considerati, da americani e occidentali, “i nostri eroi” perché combattevano per sconfiggere “l’Impero del Male” rappresentato dai sovietici che avevano invaso l’Afghanistan. Poi sono diventati i “barbari” che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente. Quanta responsabilità occidentale c’è, secondo lei, nell’esplosione dello “scorpione jihadista”?

L’Occidente ha responsabilità fortissime, basti pensare anche a Bin Laden e Saddam Hussein. Non c’è dubbio che l’espansionismo politico, lo sfruttamento da parte di pochi delle risorse globali, le crescenti diseguaglianze che la Rete rende immediatamente percepibili siano alla base di moltissimi conflitti del nostro tempo. Si tratta però di temi che servirebbe un’enciclopedia e non un romanzo per sviscerare. E io, invece, ho voluto creare alcuni personaggi lasciando al lettore il compito – e, spero, il piacere – di indagare se hanno o meno un cuore di tenebra.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

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Ne Il logista la protagonista Amalia Pinter da cacciatrice si scopre preda in un vorticoso andirivieni di azioni e suspense che caratterizzano e definiscono il ritmo incalzante del libro. La sua idea sembra essere stata quella di creare un gioco degli specchi. Si può ipotizzare una situazione simile anche per l’attuale scenario geopolitico euro-occidentale e medio-orientale?

Ma certo. Siamo tutti cacciatori e prede allo stesso tempo. Ci illudiamo di controllare il gioco, ma il rischio di venire usati, incastrati o manipolati è dietro l’angolo. Questo vale in ambito geopolitico (pensiamo ai sospetti che la Russia abbia condizionato le elezioni americane o al potere dell’Fbi rispetto alla Casa bianca), economico (lo scandalo Dieselgate o i Panama Papers) e personale. Quest’ultimo è l’aspetto che mi fa più paura: i falsi profili che creano identità parallele, le foto rubate e divulgate in oscuri gruppi Facebook, l’esistenza stessa di Darknet.


http://www.sulromanzo.it/blog/muoversi-tra-gli-specchi-per-indagare-il-mondo-e-se-stessi-il-logista-di-federica-fantozzi

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Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

10 venerdì Feb 2017

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Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

Il 31 gennaio 2017 esce con Mondadori La fine del terrorismo di Benedetta Berti, nella versione tradotta da Teresa Albanese. TED Senior Fellow e ricercatrice al Foreign Policy Research Institute e al Modern War Institute a West Point, Benedetta Berti ha trascorso gli ultimi dieci anni “sul campo”, in luoghi impervi e pericolosi a studiare la nascita e l’evoluzione dei gruppi armati ribelli, politici e/o terroristici allo scopo di capirne l’essenza. Questa la via da lei stessa indicata nel libro per riuscire a “superarli”. Una sconfitta che passa attraverso la conoscenza e l’analisi di fatti e dati, non mediante il caos ingenerato dalla paura.

Nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione infinite sono le “informazioni” che circolano su terrorismo e anti-terrorismo, notizie spesso falsate faziose o imprecise. Per questo e anche per altre motivazioni la Berti sostiene che sia necessario riportare tutto alla linearità di una conoscenza basata su dati certi, informazioni sicure e analisi che siano fedeli alla realtà dei fatti. Solo in questo modo si riuscirà a comprendere il fenomeno terroristico e forse anche a superarlo.

Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

L’introduzione a La fine del terrorismo si apre al lettore con una citazione di Diego Gambetta. Parole forti, immagini tanto chiare quanto cruenti di ciò che mafia e Isis rappresentano o intendono rappresentare.  A cosa “servono” o “possono servire” mafia e Isis per l’Italia e l’Occidente?

Più che a “servire” all’Italia o all’Occidente, credo che il punto fondamentale sia che, oggi come in passato, gruppi armati violenti di matrice religiosa, politica o criminale sfruttano e traggono vantaggio dalla loro reputazione violenta. Più questi gruppi vengono analizzati e descritti come brutali, irrazionali e misteriosi, più ci sembrano minacciosi. Quello che non possiamo capire o spiegare ci fa inevitabilmente paura, questo però è un circolo vizioso: la paura non ci aiuta a capire, né tantomeno a fare le scelte più giuste ed efficaci per la nostra società e sicurezza. Allora, credo che sia importante andare oltre. Oggi come ieri, per capire ISIS così come le organizzazioni criminali nostrane, dobbiamo andare oltre la reputazione e il velo di mistero e analizzare le logiche interne, organizzative, politiche ed economiche di questi gruppi.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

La chiave di lettura da lei indicata per una maggiore comprensione delle «attuali tendenze nella violenza politica e nel terrorismo internazionale» è la comprensione in «termini semplici e razionali». Perché ritiene necessario seguire questa strada?

Perché, oggi più che mai, ci troviamo di fronte a un mondo caotico dove, tra sensazionalismo, informazioni disorientanti e decine di versioni contrastanti, diventa quasi impossibile capire che cosa stia davvero succedendo quando si parla di terrorismo e violenza politica. In questo contesto, credo sia importante cercare di spiegare le dinamiche globali legate alla violenza politica: dall’ascesa al declino dell’ISIS, alle nuove forme di terrorismo “autoctono” partendo da dati solidi e da un’accurata analisi del contesto storico, politico e geo-politico. Nel libro cerco di descrivere le complesse ragioni che hanno portato a una crescita del terrorismo a livello mondiale e anche di capire come i gruppi armati – come ISIS ma non solo – sono in grado di sfidare stati con maggiori risorse finanziarie e militari. Nel fare questo, mi propongo di spiegare la logica militare, politica ed economica di questi gruppi. Non per volerne giustificare le azioni, ma semplicemente perché capire la logica e la strategia della violenza politica odierna in modo semplice e razionale ci aiuta ad avere un dibattito pubblico basato sui fatti e non sulla paura; ci aiuta a trovare politiche più efficaci e a non essere manipolati.

Quali sono le immagini stereotipate relative ai gruppi armati che maggiormente influenzano l’opinione pubblica e l’operato dei governi?

Ce ne sono molte; e avendo passato gli ultimi dieci anni “sul campo” studiando i gruppi armati (in Medio Oriente, America Centrale, Latina, Africa orientale e altrove) credo che uno dei problemi principali sia la tendenza a sottovalutare l’evoluzione dei gruppi armati moderni, oltre alla facilità con la quale si fa di tutta l’erba un fascio, senza soffermarsi su come diversi contesti producano distinte dinamiche di violenza politica. In particolare, sottovalutare questi gruppi non aiuta a capirli meglio, né tantomeno a contrastarli. Per esempio, tendiamo a non prestare sufficiente attenzione alle motivazioni economiche e ai modelli finanziari usati dai gruppi armati; questo però ci porta a trascurare una delle componenti fondamentali della loro strategia e, spesso, del loro successo. Nel libro, anche attraverso esempi e storie ottenute in anni di ricerca, racconto di come molte organizzazioni terroristiche abbiano sviluppato complessi modelli di business, impegnandosi in attività economiche lecite e illecite, sfruttando la globalizzazione per aumentare la loro ricchezza. Ancora più interessanti sono le dinamiche di “governance” e le “politiche sociali” di questi attori violenti; per non parlare poi delle attività di marketing e comunicazione.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

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Quali sono i punti in comune e quali invece le divergenze tra la violenza politica di oggi e quella del passato?

Il libro parte dal semplice ma importante fatto che l’uso delle armi, della violenza e del terrorismo non sono tattiche nuove. Ci sono però numerose differenze tra gruppi terroristici “tradizionali” – come ad esempio le Brigate Rosse – e le principali organizzazioni violente attive negli ultimi due, tre decenni. Un punto fondamentale è che il contesto è cambiato: i gruppi armati non-statali, da organizzazioni terroristiche a milizie, sono sempre più spesso i protagonisti dei conflitti armati, che oggi avvengono prevalentemente a livello di guerre civili, interne e/o irregolari. Inoltre, nel libro guardo attentamente anche a come i processi di globalizzazione e di crisi degli stati abbiano offerto l’opportunità a molti gruppi armati di aumentare il loro potere, il loro status e le loro capacità di esercitare controllo sulla popolazione civile. Si può anche aggiungere che i gruppi armati moderni – sia di stampo politico che criminale – tendano ad essere più globali, più orientati ad agire attraverso complesse reti di alleati e partner, anche grazie all’accesso alle nuove tecnologie militari e di comunicazione. Negli anni dopo l’11 settembre, anche le dinamiche e le tattiche del terrorismo globale sono cambiate, e nel libro cerco di analizzare il come e il perché questo sia avvenuto.

È vero che un’organizzazione come l’Isis è riuscita ad affermarsi e a crescere sempre più perché si è sostituita e ha in parte sopperito alle carenze di governi corrotti e inefficienti?

Sicuramente sì.  Quando guardiamo alla mappa della violenza politica a livello mondiale, troviamo senza dubbio un nesso tra stati deboli inefficienti e caratterizzati da violenza interna e l’ascesa di gruppi armati che si propongono come un’alternativa allo stato e al sistema politico. Dall’ISIS ai Talebani, un contesto di guerra insicurezza repressione corruzione ha creato terreno fertile per questi attori violenti. Inoltre, non c’è dubbio che, almeno nelle prime fasi della sua espansione, anche un gruppo repressivo e violento come ISIS ha dedicato energie nel cercare di guadagnarsi una parvenza di legittimità, utilizzando per esempio l’inefficacia dello stato e cercando di sopperire a queste carenze come ad esempio la manutenzione stradale, la distribuzione del pane, per citarne solo alcune, rafforzando così la pretesa di essere uno “stato” di nome e di fatto.

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Quale sarà il futuro della violenza politica e quale quello di chi cerca di combatterla?

Anche se è impossibile sapere che cosa ci aspetterà nel futuro, credo che un’analisi attenta della realtà ci possa aiutare a capire alcune delle sfide in materia di violenza politica in generale e terrorismo in particolare. Per esempio, tutto indica che il ginepraio che caratterizza la situazione mondiale: insicurezza, inefficienza dello Stato, corruzione e repressione continuerà ad aiutare gruppi insurrezionali a emergere, e che la diffusione di nuove tecnologie militari e di comunicazione contribuirà alla maggiore pericolosità di molti di questi gruppi. Questa analisi sembra suggerire anche che contrastare il terrorismo dovrà essere sempre di più un’attività complessa e integrativa, a livello militare e di forza pubblica, ma anche sociale politico economico e culturale.

http://www.sulromanzo.it/blog/qual-e-la-strada-per-sconfiggere-il-terrorismo-intervista-a-benedetta-berti

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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

22 giovedì Dic 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, PierreJeanLuizard, recensione, RosenbergSellier, saggio, terrore, Terrorismo

Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’histoire di Pierre-Jean Luizard è pubblicato in Italia da Rosenberg&Sellier a novembre 2016 nella versione tradotta da Lorenzo Avellino con prefazione di Alberto Negri e introduzione di Franco Cardini.

Pierre-Jean Luizard afferma che «lo Stato islamico prospera là dove gli stati hanno fallito», ma per capire i meccanismi che hanno portato al fallimento di questi stati e alla conseguente nascita di movimenti ribelli bisogna analizzare la Storia almeno degli ultimi cento anni. Ed è esattamente ciò che l’autore fa nel testo.

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura impegnativa che l’autore della introduzione alla versione italiana, Franco Cardini, sostiene non possa essere compresa fino in fondo se non la si fa precedere dallo studio di una serie di titoli che si premura di elencare.

In realtà, anche se a un lettore non esperto della materia può sfuggire qualche passaggio, il messaggio che Luizard vuole diffondere arriva forte e chiaro.

Le vecchie potenze mandatarie hanno difficoltà ad accollarsi il proprio passato coloniale. Non è facile ammettere che la “missione colonizzatrice” dell’Europa è servita «da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Non volendo riconoscere «il passato e soprattutto gli errori e le responsabilità» si ha molta difficoltà a vedere «un futuro “diverso” per il Medio Oriente». Non riuscire a vedere un “futuro diverso” per il Medio Oriente significa che difficilmente si troverà uno soluzione efficace al “problema terrorismo”.

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Quella offerta da Luizard non è una visione catastrofica o complottistica della realtà. Semplicemente l’autore analizza i fatti storici succedutisi a partire dal primo conflitto mondiale, ponendo in risalto quelli più o meno consciamente tralasciati o ignorati da parte di storici e giornalisti, per regalare al lettore una panoramica abbastanza ampia delle crisi:

  • Israelo-palestinese.

  • Israelo-siriana.

  • Sirio-libanese.

Della guerra irano-irachena, di quella “malintesa” combattuta in Afghanistan, dei conflitti confessionali, della genesi del terrorismo di matrice islamica, del ruolo delle diplomazie occidentali… Un modo efficace per cercare di far capire a noi occidentali “il resto del mondo”.

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La sconfitta militare del Califfato, molto reclamizzata dai media e dai politici occidentali, viene volutamente indicata come l’unica strada percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica. Luizard sostiene che «anche se il califfato perderà tutta la sua base territoriale, si diffonderà come tante metastasi in zone escluse dall’attuale territorializzazione». È una storia già nota, quella che ci raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basta ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

Dopo l’uccisione di Osama bin Laden Al-Qã’ida «si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria» dove ha dato vita al «fronte Jabhat al-Nuşra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato».

Alberto Negri, nella prefazione al libro, sottolinea come il Califfato gli sia apparso in questi anni «una sorta di mostro provvidenziale per cambiare le frontiere del Medio Oriente» e aggiunge che è un po’ «come lo fu Al-Qã’ida dopo l’11 settembre per intervenire prima in Afghanistan e poi in Iraq». Bisognerebbe interrogarsi su come nascono questi “mostri” del terrorismo internazionale e su quali siano in realtà i legami con le diplomazie occidentali.

Una storia che per Negri ha inizio con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, allorquando americani e sauditi avevano creato a Peshàwar «il più grande centro jihãdista del mondo», con il sostegno del Pakistan e dei pashtun della zona tribale. Allora gli jihãdisti erano considerati «i nostri eroi», erano quelli che combattevano contro «l’Impero del Male». Solo in seguito sono diventati i «barbari» che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Due anni prima della rivolta del 2011 Nibras Kazimi, un ricercatore arabo, affermava che la Siria era «il terreno ideale per una guerra santa». Era il nemico perfetto, come sottolinea lo stesso titolo del saggio – Syria through jihadist eyes: a perfect enemy – pubblicato negli Stati Uniti. Un Paese pieno di «difetti agli occhi degli occidentali»:

  • Non intendeva fare la pace con Israele se non con un patto che prevedesse la restituzione del Golan (al-Jawlãn) occupato dall’esercito ebraico nel 1967.

  • Continuava ad avere rapporti con Mosca.

  • Era alleato da decenni con la repubblica islamica sciita dell’Iran e sosteneva gli Hezbollah, «l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006».

  • Appartiene a quell’ «asse della resistenza» che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo.

La Siria confina con «paesi ribollenti» – Turchia, Libano, Iraq, Israele, Giordania -, ha una popolazione a maggioranza sunnita ma comandata da una minoranza, gli alauiti, ritenuta eretica.

Quando Al-Asad ha rifiutato l’offerta degli Emirati Arabi, che offrivano «il triplo del bilancio statale (circa 150 miliardi di dollari) per rompere l’alleanza con l’Iran», nelle cancellerie occidentali si diffuse «la convinzione che il regime avrebbe avuto vita breve», come Ben’ Alĩ in Tunisia, Mubãrak in Egitto e Al-Qadhdhãfĩ in Libia. L’ambasciatore statunitense in Siria e quello francese «andarono in visita a Hamã dai ribelli», presumendo che Al-Asad barcollasse e fosse opportuno «guadagnare credito con l’opposizione islamista». Per Negri ciò ha rappresentato un esplicito via libera per far affluire in Siria migliaia di «combattenti islamici» provenienti da ogni parte del Medio Oriente e del Nord-Africa.

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Ibrãhĩm ‘Awed Ibrãhĩm ‘Alí al-Badrĭ, il vero nome di Al-Baghdãdĩ nato a Sãmarrã nel 1971, «si è vantato di essere un imam con dotti studi sufi e un’origine che affonda nella tribù di Maometto», ma nel suo «oscuro percorso» di davvero notevole c’è che gli americani lo arrestarono nel 2004 per rilasciarlo nel 2009 «in maniera inspiegabile»: l’anno dopo era il capo di Al-Qã’ida. «Questi sono i fatti che ognuno può interpretare come preferisce» ma Negri avanza il sospetto che questa guerra allo Stato islamico sia soltanto il primo tempo della vicenda: «nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra».

I media, le cancellerie occidentali e di conseguenza anche l’opinione pubblica diffusa preferiscono, in genere, far partire il racconto dei fatti relativi al terrorismo estremista di matrice islamica dall’attacco alle Twin Towers e Washington dell’11 settembre 2001, ma per comprendere una «storia da conoscere» è certamente utile «un breve sguardo al passato».

Al-Qã’ida in Iraq «ha scavato nel desiderio di rivincita dei sunniti», una minoranza che prima deteneva tutto il potere ma che con «l’occupazione americana» è diventata un gruppo di reietti trattati come paria. L’Isis ha saputo «sfruttare il profondo malcontento sunnita». Con la fusione tra sunniti di «due nazioni frantumate» si colmava il divario demografico in Iraq e «si costruiva il califfato».

La Storia di Iraq e Siria «appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalistici» che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente «conosciuto fino a oggi».

Leggerlo o affermarlo oggi può risultare molto strano o addirittura provocatorio ma c’è stato un tempo in cui «l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente». Con «l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi», il ministro delle Colonie Winston Churchill mise a capo degli stati sotto mandato britannico «i monarchi arabi del clan hashemita degli Husayn», sovrani della Mecca. «Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania». Emiri e sceicchi allora erano «al servizio del piano coloniale» per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. «La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico» di Abũ Bakr al-Baghdãdĩ sono adesso «funzionali a un progetto completamente diverso»: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto «la bandiera nera di un nuovo califfato».

Sia la Siria che l’Iraq oggi sono «degli ex-stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografia» e nessuno, né in Occidente né in Medio Oriente, ha un piano politico alternativo «al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale». Per l’autore siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, «evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale», oppure si deve affrontare la «balcanizzazione del Medio Oriente». Gli europei, che hanno assistito «senza fare nulla di positivo» alla disintegrazione della Jugoslavia e ora «appaiono impotenti» di fronte all’Ucraina, «sono in materia degli esperti».

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L’ascesa del califfato tra Iraq e Siria «non è stata esattamente una buona notizia» per le monarchie assolute del Golfo «sostanzialmente antidemocratiche», che l’Occidente si ostina ad appoggiare «rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti». Il presidente americano Barack Obama in otto anni di presidenza «ha venduto a Riad, impegnata nella guerra in Yemen, circa 100 miliardi di dollari di armamenti e firmato un contratto per 38 miliardi con Israele».

La Siria è stata per decenni una sorta di «kombinat militare-mercantile sostenuto dall’Unione Sovietica» che ha consolidato una «classe di privilegiati favorendo i cristiani e le dinastie sunnite». Prima dell’ascesa del partito Ba’th, gli alauiti erano fermi al gradino sociale più basso, erano fellah, contadini, uomini di fatica. «Il colpo di stato di al-Asad li portò nelle accademie militari, negli apparati pubblici, in mezzo alla borghesia urbana» e così si sono presi «la rivincita su secoli di emarginazione».

Al-Baghdãdĩ ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena, ma le vere e profonde cause della rivolta sono state «la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad», rivelatesi una «formidabile propaganda per l’Isis». Non a caso infatti i periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza, inoltre una delle prime misure degli jihadisti è stata «la promozione di azioni emblematiche contro la corruzione».

Più che una versione «pura» dell’Islam «gli jihadisti forniscono un franchising», che in Europa dà «un’etichetta al malessere individuale e di gruppo» e «riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento». La strategia dello Stato islamico consisterebbe per l’autore nel passare rapidamente da una logica di “etichettamento” di circostanza a quella di un’adesione reale a uno “Stato di diritto islamico”, «certo estraneo alle pratiche occidentali e al diritto internazionale, ma che si vuole comunque uno stato di diritto». Il solo bottino di guerra di Mosul, «stimato in 313 milioni di euro», conferisce allo Stato islamico una potenza finanziaria senza precedenti, eppure i paesi occidentali e gli stati arabi «continuano a considerarlo al pari di una semplice organizzazione terrorista».

Interpretazioni inspiegabili, al pari della reazione dei media occidentali dal 2014 in poi che hanno trattato lo Stato islamico come una sorta di «Ufo politico, un esercito di jihadisti spuntati non si sa dove che nessuno sembrava poter fermare».

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Lo scopo del libro, dichiarato nell’introduzione dallo stesso Luizard, è quello di spiegare il rapido successo dello Stato islamico e di capire come e perché le potenze occidentali sono cadute «nella trappola che è stata tesa loro coinvolgendole nella sua guerra».

Come è possibile che una coalizione talmente ampia da abbracciare «tutta la società civile del mondo intero» spiegata contro quello che viene indicato il “Pericolo Pubblico Numero Uno” non riesca ad avere la meglio su una realtà politico-militare che in fondo si è dimostrata abbastanza labile? Davvero bisogna credere che manchi o non si riesca a trovare un valido e comune disegno politico oppure «l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno o a qualcosa?»

Gli arabi, o comunque i musulmani sunniti, sono i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo «hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso». Non potrebbero mai farlo «né i crociati occidentali né gli eretici sciiti iraniani» senza trasformare, agli occhi «del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo», gli adepti del califfo in altrettanti martiri della fede perché, come affermava Tertulliano, «il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli».

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna di Pierre-Jean Luizard è come una sorgente in piena per un disperso nel deserto, un libro necessario per sedare la “sete” di conoscenza su una delle vicende storiche e geopolitiche solo in apparenza tra le più discusse: la nascita del terrorismo estremista di matrice islamica e il ruolo giocato dall’Occidente.

Pierre-Jean Luizard: Storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). Ha vissuto per lunghi periodi in diversi paesi del Medio Oriente ed è membro del Gruppo di sociologia delle regioni e della laicità (Gsrl) a Parigi.

Source: Si ringrazia il contatto dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale

 

 

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Il mondo parallelo delle guerre segrete in “Prigionieri dell’Islam” di Lilli Gruber

11 mercoledì Mag 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

Prigionieri dell’Islam (Rizzoli, 2016) della giornalista Lilli Gruber è un libro ambizioso, che si propone di creare un po’ di ordine nel caos delle informazioni, che circolano in un Occidente in piena crisi, riguardo quanto sta accadendo nel mondo arabo «in pieno naufragio».

Un libro che accoglie in sé: la cronistoria degli attacchi terroristici all’Occidente, a partire dall’11 settembre 2001; un’analisi geopolitica della situazione occidentale, mediorientale, delle primavere arabe, dell’Iran, della Turchia, della Siria… il resoconto dettagliato delle esperienze dirette dell’autrice come inviata; la trascrizione delle interviste fatte come giornalista; riferimenti diretti alla trasmissione televisiva che conduce; episodi e riflessioni legati alla propria vita privata e sentimentale.

Un intreccio di informazioni e stili che a volte funziona altre meno. La struttura del testo è circolare, l’autrice ritorna spesso sullo stesso punto o argomento, arricchendo di volta in volta quanto detto di nuovi particolari oppure analizzando il tutto da un’angolazione diversa.

Il discorso che la Gruber vuole portare avanti in Prigionieri dell’Islam sembra chiaro fin dal principio: non si possono incolpare tutti i musulmani per quanto sta accadendo nel mondo arabo e in Occidente, dobbiamo riconoscere le responsabilità dello stesso Occidente. La situazione in oggetto è molto complessa, colpe ed errori vanno imputati a entrambe le parti in causa (Occidente e anti-Occidente) e naturalmente l’autrice non ha una soluzione ai problemi in corso né per quelli prospettati dal prosieguo o dalla degenerazione delle attuali circostanze.

Ma il vero limite di un libro come questo è l’ostinazione al voler definire una situazione globale analizzandola dal solo punto di vista occidentale. Ammettere in qualche modo le responsabilità delle grandi potenze ma fermarsi nell’esatto momento in cui ci si rende conto che un mondo diverso equivale anche a un Occidente diverso, alla rinuncia dei tanti, troppi, privilegi accaparratisi da chi il mondo lo ha sempre conquistato non solo abitato.

Nel Prologo di Prigionieri dell’Islam la Gruber racconta di aver assistito alla conversione di una giovane ragazza napoletana presso la comunità islamica di viale Jenner a Milano. «Non passa giorno senza che bussi alla porta un nuovo aspirante musulmano», le dicono.

Perché l’Islam attrae sempre più nuovi proseliti? Questo quanto si connette alla diffusione del terrorismo islamico?

Per l’autrice «nel caos di un mondo arabo in pieno naufragio e nelle incertezze di un Occidente in crisi, l’Isis rappresenta un’alternativa concreta».

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Nell’Introduzione al libro l’autrice si sofferma sul resoconto dettagliato di come gli eventi di Parigi del 13 novembre 2015 siano entrati con irruenza nel suo privato lasciando esterrefatti lei e il compagno, il quale proprio mentre gli attacchi avevano luogo era su un volo diretto a Roma e partito da Parigi.

Racconta di come tutto ciò l’abbia riportata indietro nel tempo, all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e a due giorni dopo l’accaduto, quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’AmericaGeorge W. Bush «accende la fiaccola che darà fuoco al mondo: quella della “guerra al terrore”».

Viene da chiedersi se quindici anni di “guerra al terrore” non abbiano portato solo altra guerra e terrore.

La Gruber ipotizza, timidamente, che faccia tutto parte di una sorta di piano, organizzato e giostrato per il potere e il denaro. «Nulla è impossibile nel mondo parallelo delle guerre segrete» “combattute” tra governi e servizi di spionaggio, fatte di embarghi, destabilizzazioni, minacce dirette o indirette, palesi o latenti, infiltrazioni e corruzioni varie… In punta di piedi allude a come il potere decisionale, in fin dei conti, sia sempre e solo nelle mani delle grandi potenze e che a muovere i loro gesti non sia sempre il mero desiderio di proteggere i popoli.

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I limiti di queste “guerre segrete” si sono visti già nel marzo 2011, quando «le capitali occidentali sperano che Assad alzi bandiera bianca», come Ben Ali e Mubarak, ma «gli occidentali sono molto meno influenti in Siria che in Tunisia o in Egitto. L’esercito è corrotto, ovvio, ma l’infiltrazione da parte di potenze straniere è meno capillare che in altri Paesi arabi».

Le operazioni di ingerenza occidentale nel mondo arabo sembrano essersi rivelate dei fallimenti sia dove l’estirpazione del regime è riuscita, come in Tunisia ed Egitto, sia dove non è andata a buon fine, come in Siria. Allora il lettore si chiede il motivo per cui si portano avanti azioni e politiche già rivelatesi fallimentari oppure se nel “mondo parallelo” si sono registrate delle vittorie che non è dato a tutti conoscere.

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

In Prigionieri dell’Islam si legge che, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno intrapreso la guerra contro il terrorismo per annientare al-Qaeda ma anche «per trasformare il mondo musulmano al grido di “esportare la democrazia”».

Con quali risultati? A costo di sacrificare cosa?

In seguito all’uccisione di Osama Bin-Laden e allo smantellamento di gran parte delle cellule che componevano l’organizzazione tutto l’Occidente ha creduto, su input di capi di stato, di governo e organi di stampa, che il terrorismo di matrice islamica fosse stato sconfitto. L’Isis e non solo hanno dimostrato al mondo intero che non è così.

Per la Gruber dall’inizio di aprile 2016 i miliziani dell’Isis sono in difficoltà, le operazioni speciali americane stanno eliminando uno dopo l’altro tutti i capi e ciò lo si può interpretare come l’inizio della fine di questo “mostro” che ha preso il posto di al-Qaeda come nemico numero uno degli Occidentali. Ma c’è poco da esultare perché ci si deve aspettare che, da un momento all’altro, possa «resuscitare altrove e tornare a seminare paura.»

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La Gruber conclude il suo Prigionieri dell’Islam con l’esortazione alla disobbedienza, ma non quella di Gandhi bensì quella di Obama.

«Le dimostrazioni più evidenti della sua disobbedienza sono il riavvicinamento con l’Iran e il rifiuto di muovere guerra alla Siria».

Parla anche dell’umiltà di papa Francesco, dell’ultimo sermone del profeta Maometto nel quale invitava i suoi fedeli a trasmettere il proprio messaggio, di Gesù Cristo e del fatto che cacciasse i mercanti dal tempio, dell’ingresso di nuovi attori (Cina e Russia) pronti a dire la loro sugli squilibri del pianeta, ma soprattutto tiene a sottolineare che «il Medioriente, il Golfo e i loro tormenti non devono minacciare le relazioni tra i colossi del mondo globalizzato».

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Con le sue 352 pagine il libro di Lilli Gruber si presenta al lettore carico di informazioni, di nozioni, di citazioni… ma la situazione analizzata è talmente complessa che tanti sono i dubbi e gli interrogativi che restano.

Ci si chiede chi siano i veri prigionieri dell’Islam: gli arabi o gli occidentali? È l’Islam l’unico vero carceriere di cui aver paura? Che relazione c’è tra il terrorismo di matrice islamica e le “guerre segrete” combattute nel “mondo parallelo” di governi e servizi di spionaggio?

Per la Gruber terrorismo, Islam e immigrazioni «congiungendosi in un triangolo, formano una trappola mortale» che «cambia la nostra vita». Ma chi ha fatto scattare questa trappola? Se i tre vertici del triangolo sono una conseguenza dell’ingerenza occidentale nel mondo arabo non dovrebbe essere l’Occidente il primo a invertire la rotta?

La verità è che l’Occidente è “prigioniero” anche di sé stesso, come ricorda pure l’autrice parlando della disobbedienza del presidente degli Stati Uniti d’America: «Mi colpisce il fatto che l’uomo più potente del mondo abbia il coraggio di riconoscere che è lui stesso prigioniero delle convenzioni, dei preconcetti, dei diktat dell’ideologia».

La morsa che stringe l’Occidente e il mondo intero sembra essere alimentata quindi da molto altro oltre il terrorismo, le migrazioni e l’integrazione, ovvero i vertici del triangolo che per la Gruber ci rendono tutti “prigionieri dell’Islam”.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-mondo-parallelo-delle-guerre-segrete-in-prigionieri-dell-islam-di-lilli-gruber

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