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Irma Loredana Galgano

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“Il complotto Toscanini” di Filippo Iannarone (Piemme, 2018)

18 sabato Apr 2020

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FilippoIannarone, IlcomplottoToscanini, Italia, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone, edito da Piemme in prima edizione a gennaio 2018, si apre al lettore con una citazione di Lucio Anneo Seneca.
«Non osiamo molte cose non perché sono difficili, ma molte cose sono difficili perché non osiamo».
E l’autore, in questo libro, ha osato molto. Un esempio ben costruito e ben riuscito di come i fatti storici reali diventino poi, grazie alla fantasia e all’immaginazione, un canovaccio che rappresenta solo la base di partenza e, al contempo, una piccola parte seppur non marginale, della storia presentata al lettore.

Iannarone, attraverso la descrizione dei ricordi dei protagonisti o degli accadimenti della storia narrata, racconta i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, le speranze e le paure non di un gruppo o di una generazione, bensì di un’intera nazione.
Dopo gli orrori del conflitto, le atrocità della guerra, i combattimenti, i bombardamenti, la distruzione, le rovine… l’Italia sembra risorgere. E per tutti si profila non il desiderio di ricostruire il vecchio, il passato, ma di creare davvero un Paese nuovo, sotto l’egida del grande rinnovamento chiamato Repubblica.
Anche se l’ombra del male, della sofferenza, del dolore e della morte non abbandona nessuno di quelli che l’hanno guardata dritta negli occhi. Il male del conflitto, della guerra, del fanatismo, dell’estremismo, del fascismo e del nazismo.

Notevole anche il modo in cui l’autore riesce a descrivere il profondo rapporto che unisce i protagonisti, Luigi e Iolanda. Un legame che si è creato cercando di strapparlo al buio della vita che finisce. Un’esistenza, quella di Luigi, che è rinata giorno dopo giorno accanto a quella donna che poi sarebbe diventata sua moglie. Ad unirli l’amore, certo, ma anche la passione, il coraggio, gli ideali e gli intenti comuni. Elementi tutti che hanno contribuito a saldare un rapporto nel quale entrambi si vedono e si rispecchiano perfettamente.
Grande l’abilità narrativa di Iannarone nel comunicare al lettore questi sentimenti forti, intensi, lasciandoli trasparire da pochi piccoli gesti e parole legati, tra l’altro, alla “banale” quotidianità.

«La costruzione della comunicazione di buone notizie è ancor più importante in democrazia» perché «la percezione da parte della gente comune di vivere in un paese normale ci permetterebbe di avere meno problemi di ordine pubblico, di disperdere questa continua incitazione al conflitto sia da destra sia da sinistra». Iannarone centra un nodo dolente della democrazia, di tutte le democrazie occidentali, le quali hanno saputo costruire un’immagine mediatica di se stesse basata sulla libertà di pensiero e di idee e sulla libera circolazione delle stesse. Al contempo, hanno sempre puntato su una comunicazione che indichi la propaganda come un qualcosa che non appartiene alla democrazia bensì ai regimi dittatoriali.
Le democrazie in effetti non impongono se stesse, regalano invece una bella, positiva e propositiva immagine di sé.

Riesce l’autore a descrivere e trasmettere al lettore la società italiana degli anni Trenta, come anche di quella dell’immediato dopoguerra, sul finire degli anni Quaranta. Esemplare il modo in cui riesce a cogliere e descrivere anche le minime sfumature comportamentali rispetto ai suddetti periodi, i quali, seppur non lontani sulla linea del tempo, lo sono stati molto invece per tutto il resto. Egual ragionamento vale per i rapporti di genere e di classe. Leggendo Il complotto Toscanini si realizza quanto in effetti il mondo sia cambiato e quanto, invece, sia rimasto invariato o addirittura peggiorato.

Il rapporto tra Luigi e Iolanda, quello professionale molto rigido e gerarchico, la società italiana e le sue classi. I ruoli sociali e famigliari degli uomini e delle donne. Il che non vuol significare che le donne non lavorassero anche fuori di casa, allora come adesso. Vi era solo una più netta e definita distinzione tra i generi che al giorno d’oggi sembra essere stata colmata solamente in apparenza. In realtà si intravede solo una gran confusione, un’illusione di progresso e di parità. Una zona grigia che troppo spesso produce ombre deformi e pericolose.

L’emancipazione femminile di cui tanto si narra deve, per essere cosa seria e concreta, passare necessariamente attraverso la parità, l’eguaglianza e il rispetto reciproco di diritti e doveri. Altrimenti è una farsa. E, purtroppo, è quello a cui sembra di assistere quotidianamente. Come per la comunicazione anche per i diritti civili le battaglie come i traguardi sono tutt’altro che lontani ricordi da poter archiviare.

Ottima la struttura narrativa del libro. Una solida “impalcatura”che regge bene l’intreccio sviluppato lungo una doppia linea temporale. Il presente e il passato che si avvicendano nei vari capitoli che vanno a comporre il testo ma che si intersecano di continuo nel racconto, nello svolgersi delle vicende e nella narrazione dei ricordi o dei pensieri.

Dalla lettura del testo si evince chiaramente il dettagliato lavoro di ricerca preventivo eseguito da Iannarone, il quale deve essersi accuratamente documentato non solo sulla storiografia dell’epoca nella quale ha deciso di ambientare la sua storia, ma anche sui costumi e le abitudini del tempo. I protagonisti infatti vestono, parlano e hanno delle movenze che li identificano perfettamente nel periodo considerato.

Grazie a una cura particolare per i dettagli, a “pause narrative” nelle quali il colonnello Luigi Mari e il suo assistente, il tenente Vinicio Barbetti, fanno il punto della situazione e di quanto scoperto, alle analisi e ai racconti storico-letterari del colonnello o dei suoi intervistati, l’autore riesce a rendere famigliare per il lettore l’intera vicenda, pur nella sua complessità, i tanti personaggi e anche l’ambiente.

Nei ringraziamenti Iannarone sottolinea come lo abbia aiutato la grande passione per la musica e questo sarà certamente vero. Ma deve essergli occorso uno studio profondo e articolato per ricostruire nel suo libro ambienti e accadimenti cui è impossibile abbia presenziato. Ciò che i suoi occhi non hanno visto direttamente, la sua mente ha fatto propri grazie a un minuzioso processo di immedesimazione che poi deve aver trasferito al protagonista, Luigi Mari.

La storia raccontata ne Il complotto Toscanini è un’indagine investigativa indiretta, ovvero condotta da persone diverse dagli inquirenti incaricati ufficialmente, e posticipata nel tempo. Molti anni dopo l’omicidio. Il punto di partenza è una verifica su una celebrità, il maestro Toscanini, al fine di meglio valutare la sua candidatura a senatore a vita.
Nonostante questo, nulla manca al libro rispetto un più classico poliziesco. Piuttosto molto altro si ritrova nel testo di Iannarone.

Informazioni storiche, artistiche, letterarie che arricchiscono la narrazione senza appesantirla e, al contempo, dilatano il lavoro di indagine. Del tutto compatibile con il carattere peculiare dell’investigazione, non ufficiale appunto e non finalizzata a scovare il colpevole e assicurarlo alla giustizia.

Un testo molto valido, Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone. Un’ottima opera letteraria che merita senz’altro di essere letta anche come punto di riferimento e apprendimento.


Articolo originale qui



Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


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“L’Italia è finita. E forse è meglio così” di Pino Aprile (Edizioni Piemme, 2018)

21 venerdì Giu 2019

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LItaliaefinita, Piemme, PinoAprile, recensione, saggio

L’Italia e l’Europa così come le intendiamo noi oggi a breve non esisteranno più? È questo uno degli interrogativi cui cerca di dare risposta Pino Aprile nel suo nuovo libro, L’Italia è finita. E forse è meglio così, edito dalla casa editrice Piemme a ottobre 2018.
Lo Stivale al centro del Mediterraneo è sempre stato un laboratorio di innovazione, come anche un territorio da dominare. Anche oggi è così, solo che la “conquista” non avviene sul campo di battaglia bensì su quello economico-finanziario.

Cosa faranno gli italiani e gli europei tutti? Cederanno terreno e sovranità lasciando che l’attuale tendenza diventi incontrovertibile oppure ritroveranno il coraggio e la determinazione necessari a ogni popolo che si dichiari tale per risollevare le sorti del proprio Paese?

Con uno sguardo rivolto anche al passato, che rappresenta sempre e comunque l’origine dello stato attuale dei Paesi e dei governi, Aprile analizza ad ampio spettro le spinte separatiste che, come tanti piccoli o grandi focolai, stanno lentamente illuminando un’Europa la quale, esattamente come l’Italia, forse così tanto unita non lo è mai stata.
Un’analisi impietosa, quella condotta da Pino Aprile ne L’Italia è finita, critica e rigida ma mai catastrofica. La speranza che i popoli, prima ancora dei governi o dei vari partiti politici, si ravvedano, si mobilitino e uniti combattano per invertire il flusso separatista e divisionista sembra essere e rimanere il filo conduttore dell’intero libro.

*****

Tra una manciata di anni l’Italia, e forse l’Europa, non esisteranno più. Almeno come le conosciamo ora. Si spezzeranno per il fallimento della loro economia. E l’attuale governo giallo-verde potrebbe persino essere l’ultimo di un’Italia unita. Lo dicono autorevoli studi e indagini ben noti agli addetti ai lavori. Né l’una, l’Italia, né l’altra, l’Europa, reggeranno alla spinta disgregatrice: divide et impera è una massima che i mercati finanziari conoscono bene. D’altronde, già oggi l’Italia non è più la stessa, così come non lo sono gli italiani: grandi aziende, grattacieli, interi quartieri, fertili terreni, squadre di calcio appartengono ad arabi, cinesi, capitali stranieri. A noi guardano con preoccupazione – o con speranza – le altre nazioni, perché sin dai tempi della conquista romana o della diffusione del cattolicesimo, siamo il laboratorio per innovazioni che si sono propagate in tutto il continente e oltre. A volte anche nefaste. Steve Bannon, ex consulente alla Casa Bianca di Donald Trump e osannato campione dei razzisti e dei neonazisti made in Usa, lo ha detto chiaro e tondo: «Roma è al centro della politica mondiale. L’Italia fa paura». Lui è di quelli che lo sperano. Unita, in realtà, l’Italia non lo è mai stata. È piuttosto il risultato di un’operazione scellerata di saccheggio e conquista, che ha distrutto un Sud proiettato nel futuro industriale e attuato un vero e proprio genocidio per “convincere” i riluttanti meridionali. È questa la crepa, mai sanata, che si allargherà fino a inghiottire tutto l’edificio dell’Italia unita? Mentre collanti storici come la Chiesa perdono terreno, ovunque rinascono comunità non statuali che trovano altrove la propria identità. Ma forse, come insegna il Rinascimento, proprio nelle tensioni e nelle divisioni gli italiani danno il meglio.

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Come per gli altri testi scritti da Aprile, anche ne L’Italia è finita l’autore non manca di sottolineare gli errori commessi e protratti per oltre centocinquanta anni ormai. I pregiudizi ancora imperanti. L’ignoranza palese verso alcune tematiche che si è preferito non indagare mai veramente fino in fondo. Come sempre, Aprile le sue fonti, soprattutto documentali, le cita per esteso.
Non dichiara mai di avere la soluzione per i problemi esposti, bensì di cercarne una valida. Una ricerca che deve necessariamente partire da interrogativi, quesiti, domande per arrivare poi all’analisi delle risposte e delle eventuali proposte.

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PINO APRILE giornalista e scrittore, pugliese residente ai Castelli Romani, è stato vicedirettore di Oggi e direttore di Gente. Per la Tv ha lavorato con Sergio Zavoli all’inchiesta a puntate “Viaggio nel Sud” e al settimanale del Tg1, Tv7. È autore di saggi accolti con successo e tradotti in diversi paesi. Terroni, uscito nel 2010 e diventato un vero e proprio caso editoriale, e i successivi Giù al Sud, Mai più terroni, Il Sud puzza, Terroni ‘ndernescional e Carnefici, hanno fatto di Aprile il giornalista “meridionalista” più seguito in Italia, riconoscimento che gli è valso molti premi, tra cui il Premio Carlo Levi nel 2010, il Rhegium Julii nello stesso anno e il Premio Caccuri nel 2012. A New York è stato proclamato “Uomo dell’anno” dall’Italian Language Inter-Cultural Alliance.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della casa editrice Piemme per la disponibilità e il materiale


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Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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AndreaFoffano, articolo, BanaAlabed, CaroMondo, GiuliettoChiesa, LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, paura, Piemme, PierreJeanLuizard, Putinofobia, recensione, RosenbergSellier, saggio, Siria, Solfanelli, terrore, Terrorismo, tre60

I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


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Quando l’intreccio di un libro è quello di vite vere. “Il bambino del treno” di Paolo Casadio (Piemme, 2018)

13 martedì Feb 2018

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Ilbambinodeltreno, PaoloCasadio, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Uscito in prima edizione con la casa editrice Piemme il 23 gennaio 2018, a ridosso della Giornata della Memoria, Il bambino del treno di Paolo Casadio non è un libro sui peccati o sulle colpe bensì un resoconto sui fatti, sulle testimonianze, sui ricordi che devono anche essere un monito. Non è un libro, l’ennesimo, sulla deportazione degli ebrei ma un’opera letteraria sull’umanità e anche, purtroppo, sulla sovente disumanità degli stessi umani.

Il casellante Giovanni Tini è tra i vincitori del concorso da capostazione, dopo essersi finalmente iscritto al PNF. Un’adesione tardiva, provocata più dal desiderio di migliorare lo stipendio che di condividere ideali. Ma l’avanzamento ottenuto ha il sapore della beffa, come l’uomo comprende nell’istante in cui giunge alla stazione di Fornello, nel giugno 1935, insieme alla moglie incinta e a un cane d’incerta razza; perché attorno ai binari e all’edificio che sarà biglietteria e casa non c’è nulla. Mulattiere, montagne, torrenti, castagneti e rari edifici di arenaria sperduti in quella valle appenninica: questo è ciò che il destino ha in serbo per lui. Tre mesi più tardi, in quella stessa stazione, nasce Romeo, l’unico figlio di Giovanni e Lucia, e quel luogo che ai coniugi Tini pareva così sperduto e solitario si riempie di vita. Romeo cresce così, gli orari scanditi dai radi passaggi dei convogli, i ritmi immutabili delle stagioni, i giochi con il cane Pipito, l’antica lentezza di un paese che il mondo e le nuove leggi che lo governano sembrano aver dimenticato. Una sera del dicembre 1943, però, tutto cambia, e la vita che Giovanni, Lucia e Romeo hanno conosciuto e amato viene spazzata via. Quando un convoglio diverso dagli altri cancella l’isolamento. Trasporta uomini, donne, bambini, ed è diretto in Germania. Per Giovanni è lo scontro con le scelte che ha fatto, forse con troppa leggerezza, le cui conseguenze non ha mai voluto guardare da vicino. Per Romeo è l’incontro con una realtà di cui non è in grado di concepire l’esistenza. Per entrambi, quell’unico treno tra i molti che hanno visto passare segnerà un punto di non ritorno.

La scrittura di Casadio è molto poetica, melodiosa, risuona in chi legge anche a voce bassa e ricorda quasi una lieve musica di sottofondo alle scene di vita di Giovannino, di sua moglie Lucia e del loro bambino Romeo.
Una scrittura che riesce a strappare anche qualche sorriso al lettore. Come per l’apprendimento vorace del piccolo Romeo dalle pagine del «Carlino», che riportano enfaticamente quanto sta accadendo in Europa alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Un bambino alla soglia dell’età scolare che si rivolge così al padre e agli altri commensali: «stasera sgavazziamo. Mangiamo la carcassa del coniglio che ci fa orgasmo».
Uno stile melodioso quindi ma che a tratti appare proprio canzonatorio. Come quando sembra voler farsi burla degli stessi pensieri di Giovannino, il quale tenta di nascondere finanche a se stesso i reali motivi che lo hanno spinto ad accettare quel trasferimento che suona troppo come un esilio, un avanzamento di carriera che sembra quasi una punizione per il ritardo all’adesione al partito. Una punizione che può rappresentare la salvezza, dal medesimo partito. Ma poi bisogna fare i conti con il destino…

«E il capostazione ebbe la percezione nuova che la valle del Muccione stesse divenendo una specie d’ospizio per sconfitti, un luogo separato dal mondo dove si condensavano i relitti umani, e il pensiero gli regalò attimi d’autentica, inattesa commozione.»

In chi legge si forma l’immagine di un microcosmo ricreato da Giovannino dove i “relitti umani” in realtà sono coloro che si sentono ‘diversi dentro’ come lui stesso del resto, come sua moglie, anche se non se lo sono mai detto, e come il loro bambino. Un po’ consapevolmente e un po’ no ha accettato questo esilio volontario lontano dai centri del regime nella speranza di esserne appunto quanto più isolato possibile. Una lontananza che si evidenzia anche nello scarso interesse mostrato verso i diplomi, le medaglie, i riconoscimenti, i premi e ogni genere di cose intraprese dal regime per lodare e premiare i cittadini che si fossero distinti, ma in realtà poste in essere per alimentare il forte attaccamento alla patria, al senso del dovere e alle regole, necessario per avere una sudditanza omologata alla perfezione.
E mette una gran tristezza notare l’impiego ripetuto di questi “contentini” anche da parte di quei governi e quelle istituzioni che si professano altro, nate proprio come antitetiche al fascismo e ai regimi dittatoriali in generale.

«I privilegi fanno le differenze, e le differenze costruiscono le distanze.»

Casadio ripropone ne Il ragazzo del treno anche l’immagine ormai lontana di tanti italiani che «s’imbarcavano per l’impero», ovvero cercavano sollievo alle sofferenze, agli stenti e alla fame chiedendo di poter lasciare la patria in cambio di un appezzamento e una nuova vita in Etiopia. Ecco forse la vera colonizzazione italiana. Ed ecco ancora come la Storia ritorna e si ripete nelle tante famiglie africane, anche etiopi, che compiono il viaggio inverso ma motivate dalle medesime ragioni.

Il libro di Paolo Casadio non è un testo proclama contro il fascismo, è il racconto di vita delle persone che subiscono, loro malgrado, le ripercussioni dei regimi dittatoriali, che lasciano poco o per nulla spazio alla libertà, che ognuno dovrebbe avere, di scegliere.
Ed è così che la storia di Giovannino, Lucia e Romeo potrebbe essere quello che è, ovvero il racconto di una famiglia italiana che tardivamente ha aderito al partito, oppure altro. La narrazione delle vicende di una qualsiasi famiglia in una qualunque località del mondo, vittima innocente e passiva di scelte non proprie, di decisioni insindacabili, di politiche inamovibili, di una società nella quale il bisogno (di nutrirsi, di dare sostentamento alla propria famiglia, …) “costringe” al compromesso e alla rinuncia dei propri ideali. All’annientamento della persona in favore della crescita del popolo, all’interno del quale non c’è spazio per l’estro e per il diverso, additati seduta stante come una minaccia. Perché il diverso può creare un diversivo, rompere l’equilibrio e mostrare a tutti un qualcosa che invece deve essere occultato. La crescita nella diversità. Il progresso e l’evoluzione nella cultura e nella conoscenza.

«Divieto di vivere, ecco il fine, l’obiettivo» dei prevaricatori e i genitori, a qualunque parte o fazione appartengano, si ritrovano tutti a compiere i medesimi gesti protettivi rivolti ai propri figli, nel momento in cui per loro si teme. Ed è proprio in questi gesti, come in quelli privi di pregiudizio dei bambini, che bisognerebbe cercare il seme dell’uguaglianza e farlo germogliare ovunque e per chiunque.
Riesce Casadio, ne Il bambino del treno, a far trapelare profonde riflessioni come questa senza il bisogno di manifestarle apertamente. Sono i piccoli gesti, egregiamente riprodotti dalla scrittura, a parlare per loro.

Si ha quasi l’impressione, leggendo il romanzo di Casadio, di avere tra le mani o davanti agli occhi un libro d’altri tempi, un racconto nel quale la storia e i suoi protagonisti viaggiano a rallentatore, o meglio a un ritmo più lento di quello che la frenesia odierna impone. Un tempo in cui un semplice gesto, anche solo uno sguardo era importante. E diventava una svolta oppure un ricordo.

Il bambino del treno di Paolo Casadio è un libro che fa commuovere il lettore. Dopo avergli strappato diversi sorrisi lo aspetta al varco con un finale che umanamente non può lasciare indifferenti. Ma ciò che maggiormente colpisce è il senso stesso del libro, che in parte traspare nel testo e per il resto è ben spiegato dallo stesso autore nella nota conclusiva che precede i ringraziamenti. E non è affatto scontato. E questo forse è il motivo per cui il libro non può che essere “giudicato” positivamente anche da chi magari si era intestardito nel volerlo per forza considerare l’ennesimo racconto sui deportati ebrei ad Auschwitz. C’è anche questo nel romanzo di Casadio ma unitamente a molto altro ancora.

È un intreccio, questo forse il termine più adatto a riassumere l’essenza del libro. Un intreccio di vite, di esistenze, di ricordi… di destini. Un libro da leggere, valido e necessario.

Paolo Casadio: Nato a Ravenna nel 1955, s’interessa da anni alla lingua, ai racconti e alla storia della sua terra. Esordisce come coautore con il romanzo Alan Sagrot (Il Maestrale, 2012). La quarta estate, pubblicata da Piemme, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, il suo primo romanzo come autore singolo, ha riscosso grande successo di critica ed è stato insignito di numerosi premi: premio “Ravenna e le sue pagine 2015”, premio “Il Delfino – Marina di Pisa 2015”, premio letterario internazionale “Montefiore 2015”, premio speciale opera prima “Cinque Terre-Golfo dei Poeti 2016”, premio della giuria al concorso internazionale “Città di Pontremoli 2016”, premio speciale “Cattolica 2016”, premio letterario “Massarosa” per opera prima, Contropremio “Carver” 2017, Premio “Francesco Serantini” 2017.


Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Copyright prima immagine: URBEX – La stazione di Fornello; seconda immagine: EVENTBRITE – PhotoWalk alla scoperta della vecchia miniera di Fornello.


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia. Intervista a Pino Aprile

26 giovedì Mag 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Carnefici, intervista, Italia, italiani, Piemme, PinoAprile, saggio

 

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia

Come è nata l’Italia e soprattutto perché? Garibaldi è un eroe nazionale o un mito costruito per giustificare una storia pensata a tavolino? Ne abbiamo parlato in un’intervista con Pino Aprile, autore di Carnefici (Piemme, 2016), un libro con il quale prosegue la sua instancabile volontà di ricostruire una storia più vera e aderente ai fatti di quella raccontata dalla storiografia ufficiale al pari di una bella fiaba studiata per rabbonire ed “educare”.

La storiografia ufficiale ha sempre descritto l’azione dell’esercito sabaudo come la liberazione del Sud dalla dominazione spagnola volta all’unificazione dell’Italia, ma questa è la versione ricostruita in seguito. Cosa è accaduto realmente tra il 1860 e il 1861 nell’attuale Sud-Italia?

Tutte le grandi imprese e la nascita dei Paesi hanno bisogno di quelli che vengono chiamati “miti fondanti”, ovvero delle belle favolette, delle fiabe. Non raccontano la verità. Indicano la direzione del racconto.

La Spagna moderna nasce grazie alle imprese del Cid Campeador, ma questi non è mai esistito. La Svizzera moderna origina dalla sfida di Guglielmo Tell che centra la mela con la balestra, ma è scientificamente provata l’esistenza solo della balestra e della mela, lui non è mai esistito. Il più grande impero, per estensione, della storia dell’umanità, quello sovietico, è nato sul mito della conquista del Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo. Ma il palazzo era vuoto, ci sarebbe potuto entrare chiunque.

Noi abbiamo il mito dei Mille di Garibaldi. In realtà questi erano 60.000. Con circa 22.000 soldati piemontesi che figuravano come disertori e colpevoli di aver rubato agli arsenali militari del Piemonte cannoni, esplosivo, armi varie… molti combattevano addirittura con le loro divise, altri con delle decorazioni della guerra di Crimea. Normalmente i disertori vengono fucilati, invece loro vennero ripresi nell’esercito e qualcuno fece anche una bella carriera.

Tutto questo per dire intanto che non c’era nessuno da liberare al Sud perché l’Italia da redimere era quella occupata dagli austriaci, ovvero il Triveneto. Ma al Sud non c’erano gli “spagnoli”, c’erano i meridionali, che non erano meridionali di nessuno. I Borbone erano una dinastia napoletana da 127 anni, parlavano napoletano. In Turchia vige un’espressione: «Storia costruita ufficiale». E, in Italia, viene giustificata la costruzione di questa storia “molto educativa”, affermando che il compito della storia non è di raccontare i fatti ma di servire a creare gli italiani, uno spirito nazionale, unitario.

In Carnefici lei afferma che pochi Paesi hanno fatto uso politico della storia come il nostro. Si riferisce a qualcosa in particolare? Ci sono episodi di vera e propria censura?

Non solo veri e propri casi di censura ma un’intera storia costruita a tavolino, calpestando la realtà concreta degli eventi. Quando pubblicai Terroni (Piemme, 2013) raccontavo di massacri, come quelli di Pontelandolfo e Casalduni. La prima reazione fu il silenzio. In seguito mi accusarono di aver inventato tutto. Va da sé che non è così: i documenti sulla strage di Pontelandolfo sono numerosi; grazie al lavoro extra-accademico svolto da ricercatori volontari fuori dall’Università è diventato uno degli eventi più documentato della storia. La terza reazione fu l’affermare: «Noi lo sapevamo». Allora mi è venuto naturale chiedermi: «E perché non ne avete parlato per un secolo e mezzo?». Quello che fecero i nazisti è niente se confrontato con le azioni dei bersaglieri al Sud.

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia

Non è che noi siamo peggiori degli altri. Con la rivoluzione industriale sorgeva l’esigenza di creare gli Stati nazionali. Ovvero le Nazioni dovevano costituirsi in Stati. Questo avvenne ovunque con un bagno di sangue. Basti pensare alla guerra di secessione degli Stati Uniti che loro, più onesti di noi, non hanno mai etichettato “di liberazione”. Si è trattato di una guerra che ha fatto più vittime statunitensi delle due guerre mondiali. In Francia la Vandea è stata letteralmente rasa al suolo perché contraria alla rivoluzione. Un esercito guidato dal generale Westermann, in poco tempo, sterminò tutti. Però oggi, in Francia, c’è un Istituto di Stato con un’immensa biblioteca e un centro studi che finora ha prodotto 850 volumi sul massacro della Vandea. Dov’è in Italia il centro studi sul genocidio dei meridionali? Sta nascendo fuori dallo Stato. Quello che stiamo facendo in tanti. Una costruzione collettiva di una memoria vera che possa unire e non dividere.

La guerra condotta dall’esercito sabaudo contro l’esercito borbonico durò pochi mesi. Quella combattuta contro i cittadini e i ribelli durò all’incirca dieci anni. Perché di tutto questo non si fa menzione nei testi e nei saggi della storiografia ufficiale?

Ora viene anche detto esplicitamente: la paura che sapere come è stata unita l’Italia potesse distruggere questa costruzione così fragile. L’Italia, a differenza di altri Paesi, è una comunità molto ricca di culture diverse. Può essere relativamente facile dare uno Stato a una Nazione, ma quando devi dare una Nazione a uno Stato dove sono già presenti più Nazioni non hai altra possibilità che eliminarne alcune. È la ragione per cui in Turchia hanno eliminato gli armeni, massacrano i curdi, sono stati eliminati gli assiri di montagna, sterminati i greci dell’Asia Minore. Una sola Nazione si deve prendere lo Stato.

È un’ideologia molto radicata e potente, che ha fatto centinaia di migliaia di morti, nata già sul finire del Settecento ma è l’Ottocento il secolo della sua massima espressione. In Italia, lo Stato più grande dell’epoca, il più solido economicamente, il primo a essersi avviato verso la rivoluzione industriale era il Regno delle due Sicilie. Se i vinti avessero ricordato come al Sud sono state distrutte le fabbriche tra le più grandi d’Italia, il modo in cui sono stati sottratti i depositi d’oro delle banche – che equivarrebbero oggi a un valore nominale pari a 1.500 miliardi di euro –, se qualcuno ricorda tutto questo prende un’arma e protesta. E così è stato fatto per anni, al Sud. Perciò l’unico rimedio era l’amnesia. Sterminare chi voleva ricordare e chiedere di render conto, e far dimenticare agli altri. E questo è stato fatto.

«L’Italia è un Paese nato sulla menzogna e sull’assassinio della verità». Lo diceva Sciascia, non Pino Aprile.

Il Sud è stato annesso o conquistato?

Lo dicevano loro: «Il Sud è stato annesso e conquistato, non unificato». Tant’è che un parlamentare siciliano, Giuseppe Bruno, nel 1861 in Parlamento protesta contro i giornali e gli stessi colleghi parlamentari del Nord e afferma: «Onorevoli colleghi basta parlare di province conquistate, il Paese è stato unito! Siamo italiani!». Quanto riportato si trova negli atti parlamentari, chiunque può andare a leggerli.

Nel 1866 ci fu un dibattito, sempre in Parlamento, generato dall’elezione di Mazzini a Messina, per dispetto ai Savoia. Lui era un condannato ma siccome era nato un nuovo Stato, l’Italia appunto, tutte le giurisprudenze degli Stati precedenti non avevano più valore. Eppure la risposta del capo del Governo in Parlamento fu: «Mazzini resta condannato perché è vero, signor capo dell’opposizione, che le legislazioni di tutti i Paesi preunitari non valgono più, tranne che per il Piemonte, perché noi non abbiamo fatto l’Italia ma abbiamo allargato il Piemonte». E l’impresa partì con l’ordine di Cavour: «Non perdete tempo a fare prigionieri, fucilate».

Perché la Repubblica di San Marino è rimasta esclusa dal processo di unificazione?

La risposta è: «Boh!». Se tutti gli Stati preunitari vennero invasi, annessi e derubati, perché la Repubblica di San Marino no? Ci sono delle ipotesi. Nella Repubblica di San Marino nascevano banche. Crispi e i figli di Garibaldi, ovvero i duci della spedizione in Sicilia, coloro che portarono via l’oro dei depositi del Banco di Sicilia, potrebbero aver pensato a un porto franco dove depositare il “bottino di guerra”. È esagerato sospettare che un paradiso fiscale non lontano da casa facesse comodo?

Se non c’è un’altra spiegazione plausibile, uno è autorizzato a sospettarlo, a maggior ragione in quanto Garibaldi era un evasore fiscale. In una sua lettera manoscritta si legge: «Signor esattore non sono in grado di pagare le imposte». Poi, sempre lui, fa da garante a un enorme prestito chiesto dal figlio al Banco di Napoli, senza garanzie, e non pagano né lui né il figlio. Come ha fatto a costruire a Caprera le case, le strade, la stalla per 500 capi di bestiame, e ancora comprare un’intera flottiglia di imbarcazioni, compreso un panfilo da 42 tonnellate? Si racconta che dopo aver consegnato il Regno a Vittorio Emanuele si sia ritirato a Caprera con un sacco di fagioli. Forse non erano solo fagioli. È documentato che prendesse soldi da Vittorio Emanuele. Nei documenti è pure testimoniato che prese una grossa somma prima di andare a Caprera.

Quanti erano i Mille di Garibaldi? La vera storia dell’Unità d’Italia

Nel libro lei entra nel merito anche dei rapporti tra Garibaldi, i Sabaudi, Inghilterra e Stati Uniti. Perché inglesi e statunitensi avevano così a cuore il processo di unificazione dell’Italia?

Da una parte per via dell’ideologia degli Stati nazionali. Gran parte del pianeta è stato disegnato a tavolino da inglesi e americani, vedi il Medio Oriente o l’Africa, per esempio. Dall’altra perché questa ideologia ha origine in ambiente massonico. E loro erano i capi della massoneria mondiale. La nascente civiltà industriale aveva bisogno di Stati nazionali incubatori della stessa industria, che la facessero crescere fin quando non fosse stata in grado di competere alla pari con le altre e a quel punto sarebbero cadute le frontiere. Così è nata l’Europa, che si è unita quando i livelli di industrializzazione sono diventati equiparabili. Un’Italia grande faceva comodo, rappresentava un pugnale sotto la Francia, serviva a schiacciarla, con l’Inghilterra che stava sopra. In più in Italia c’era un Paese, come il Piemonte, che aveva un disperato bisogno di rubare i soldi a qualcuno perché, di fatto, era fallito e diventato di proprietà dei Rochelle di Parigi.

Buoni rapporti però Garibaldi sembra averli avuti anche con Cosa Nostra, il cui patriarca Joe Bonanno narra «[…] che il nonno e i suoi picciotti seguirono Garibaldi perché fu loro garantito di poter condurre più liberamente i propri affari». La trattativa Stato-Mafia è nata con la stessa Italia?

Esatto. Quella fu la prima trattativa Stato-Mafia. Grazie anche ai buoni uffici del barone Sant’Anna della Massoneria inglese, che mise al servizio di Garibaldi i suoi picciotti.

A chi come lei cerca un’altra verità viene spesso chiesto quale sia il senso di tanto rivangare. Invece io le domando perché, secondo lei, a tanta gente spaventa poter conoscere una verità diversa da quella ufficiale?

Perché tocca rivedere tutto quello che si sa, che si è. La propria identità. Tocca ricostruire, letteralmente, la propria anima. Le ragioni per stare insieme. Ormai, in un certo senso, un equilibrio, sia pure malato, è stato raggiunto. Io ritengo che gli equilibri malati portino brutte cose, meglio affrontare, come in una cura psicoanalitica, la verità e ripartire da basi più vere e più solide.

Lei dedica un capitolo, in Carnefici, anche all’interpretazione di Matteo Simonetti del Piano di Kalergi, indicato dalla Merkel come «il padre dell’Europa», dove si prospetterebbe, prima della seconda guerra mondiale, «[…] la trasformazione dell’Europa in un continente meticcio, con l’invasione di migranti, specie dal Sud». Era stata prevista o predetta anche l’emigrazione interna italiana verso il Nord?

È stata organizzata. Dopo la seconda guerra mondiale il Sud, contrariamente al Nord, ne uscì devastato. Gli alleati risarcirono l’Italia. L’allora presidente di Confindustria Costa impose che il risarcimento dato per il Sud venisse investito al Nord, per finanziare la ripresa industriale. Peppino di Vittorio protestò e la risposta fu: «Se vogliono mangiare, vengano al Nord».

http://www.sulromanzo.it/blog/quanti-erano-i-mille-di-garibaldi-la-vera-storia-dell-unita-d-italia

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

27 mercoledì Apr 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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GiuliettoChiesa, intervista, monocolooccidentale, NicolaiLilin, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, Piemme, Putinofobia, saggio

 

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Putinofobia di Giulietto Chiesa (edito da Piemme) è un libro che analizza la paura che l’Occidente ha sempre provato nei confronti della seconda potenza mondiale: l’Unione Sovietica, ora diventata Russia.

Come sua consuetudine, Chiesa presenta dati e fatti secondo un criterio spazio-temporale che fin da subito lascia intendere al lettore che ben altro si chiarirà con la lettura del libro.

Si può essere d’accordo con le posizioni di Giulietto Chiesa o non condividerle, ma non si può negare che seguire il suo ragionamento conduce, inevitabilmente, ad allargare il proprio orizzonte, a porsi delle domande, a cercare delle risposte… come se all’improvviso, dopo aver sempre osservato il mondo dalla stessa postazione, si venisse catapultati nello spazio e lo si potesse osservare da lì, il nostro pianeta. Ogni cosa acquista una prospettiva nuova, differente.

Per Chiesa, la Russia potrebbe essere uno straordinario ponte di collegamento dell’Occidente con l’Asia e il resto del mondo ma ciò non accade perché gli occidentali non vogliono questo.

Nicolai Lilin, che ha curato la prefazione a Putinofobia, scrive che: «la politica dell’Occidente, che con tutte le forze cercava di frantumare il multiculturalismo ereditato dal regime sovietico per poter manovrare meglio le piccole regioni staccate dal grande polo legato al Cremlino, da subito ha sfruttato la propaganda russofoba come l’elemento principale su cui poter costruire i nazionalismi locali».

Perché lo ha fatto? Quali sono i motivi alla base della russofobia 2.0? Ne abbiamo parlato con Giulietto Chiesa nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

La russofobia occidentale non è un fenomeno nuovo. Quali sono le peculiarità della “russofobia 2.0 o Putinofobia”?

La russofobia risale ad almeno tre secoli fa, da quando esiste la Russia come grande Paese e questo dice già molte cose. La Russia viene vista come un avversario. La russofobia 2.0 è qualcosa di nuovo nel senso che è anche una forma di astio dei gruppi dirigenti europei e occidentali in genere nei confronti di una Russia che si credeva fosse ormai stata conquistata definitivamente e invece si rivela altra cosa da quelle che erano le nostre illusioni o speranze. C’è una sorta di rivincita dell’Occidente contro questa Russia incomprensibile.

Più che essere un ragionamento è una malattia. Una sorta di violenta ripulsa di ciò che è diverso da noi tanto più violenta quanto più i russi, a prima vista, sembrano uguali a noi. Sono uguali a noi. In questo sta il paradosso. E scopriamo spesso, in ritardo, con nostro disdoro e fastidio, che in realtà, sebbene siano così uguali a noi, sono anche molto diversi. Il tutto confluisce in questa specie di ripulsa che riguarda però solo i gruppi dirigenti o da quella parte costituita dagli opinion maker, cioè dai mass media. Non credo che questo sentimento sia molto diffuso, in Occidente, tra la gente comune, normale, piuttosto che sia un’operazione politica guidata dai gruppi dirigenti occidentali che vogliono tenere la Russia diciamo in disparte e usano tutti i mezzi a disposizione per farlo.

Quali sono i reali motivi alla base della character assassination alla quale la stampa occidentale ormai da anni sottopone Vladimir Putin?

Si usa il 2.0 in quanto qui c’è una differenza rispetto alle altre forme di russofobia della Storia. Adesso c’è un grande personaggio, di valore mondiale che può facilmente essere preso a bersaglio nel fuoco dei riflettori e accusato di tutte le nefandezze che servono per esemplificare il rifiuto dell’Occidente nei confronti della Russia. È accaduto altre volte, nel corso della storia, che la Russia schierasse personalità di grande calibro, ma Putin è questo 2.0, è il ventunesimo secolo che dimostra, indirettamente e involontariamente, che l’Occidente non è capace di accettare la Russia quale essa è.

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Nell’introduzione a Putinofobia Roberto Quaglia afferma che di solito i russofobi non sono consapevoli di essere tali. Da dove deriva questa fobia inconsapevole per la Russia?

In parte deriva dal fatto che l’Occidente non riesce a capire dove sta il problema, nel senso che guarda i russi e li vede uguali a sé stesso. Qui sta parte della verità. La loro cultura, come anche la letteratura, ha impregnato la nostra. Basti pensare a Tolstoj, a Dostoevskij…

Quando si va poi al contatto diretto di questo Paese, nella vita quotidiana, nel modo di pensare, di sentire il tempo e lo spazio, le dimensioni del pianeta… lo spirito dei russi è diverso da quello occidentale. E qui si arriva alla contraddizione. L’Occidente non capisce dove sta la differenza, che invece è molto semplice: la Russia non è solo Europa.

La Russia non è né prevalentemente europea né prevalentemente asiatica. Nel corso della storia è stata a volte più europea altre più asiatica. Ogni volta che diventa più asiatica l’Occidente inizia a perdere il controllo dei nervi.

Se la russofobia attuale è «una lente di ingrandimento» sulla nostra civiltà, lei che ci ha guardato profondamente attraverso cosa ha visto?

Ho visto che la Russia, se noi fossimo in grado di capirla, sarebbe uno straordinario ponte di comunicazione proprio per questa sua duplice essenza, europea e asiatica. È l’unico strumento che abbiamo noi europei per capire un po’ meglio l’Asia e il resto del mondo, che abbiamo colonizzato, ma ciò non vuol dire che lo abbiamo capito. Vuol dire solo che lo abbiamo vinto, conquistato, soggiogato.

La Russia può essere il tramite attraverso il quale l’Occidente può capire il resto il mondo. Ma l’Occidente questo non lo vuole, lo ha scartato da principio.

E io qui ho ampiamente attinto alla riflessione che faceva Arnold Toynbee nel suo purtroppo non molto famoso libro intitolato Il mondo e l’Occidente (Sellerio, 1992). Già il titolo è pieno di significati.

L’Occidente si è contrapposto a tutto il resto il mondo da quando è diventato “occidente”. Questo è il problema: l’Occidente sta aggredendo il resto del mondo. Non è capace di fare altro che aggredire anche la Russia. Per tre secoli, come dice Toynbee, l’Occidente ha potuto giovare di questa sua caratteristica, ma oggi, nel ventunesimo secolo, la tattica aggressiva non funziona più.

Stiamo assistendo all’inizio della fine di questi dominatori occidentali. Il che è molto grave, perché l’Occidente è anche il più armato. La tentazione di utilizzare la propria forza per continuare la dominazione diventerà sempre più concreta finché non vi sarà una riflessione di grande respiro culturale. Riflessione che, in verità, non vedo all’orizzonte.

Con il Madison Valleywood Project il governo americano vuole unire le forze di Hollywood e Silicon Valley per attuare una strategia contro l’Isis o per portare avanti la propaganda contro il nemico designato, in maniera analoga alle numerose azioni di cui si parla nel libro e messe in campo contro i russi?

Sarò più brutale. L’Occidente che si propone di fare ciò che dice lei è un sogno. Ignora il fatto l’Isis e il terrorismo islamico sono il prodotto dello stesso Occidente. Quindi tutte le strategie che vengono elencate per spiegare come questo è contro il terrorismo islamico sono in realtà delle fantasie che servono a manipolare l’opinione pubblica.

Il terrorismo islamico è un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando.

È un sistema largamente sperimentato nella storia di questo ultimo secolo e che ha sempre funzionato. Si usano, di volta in volta, dei capri espiatori che credono di lavorare per i propri interessi ma in realtà lavorano per “il re di Prussia”.

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L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetto in questo senso. Era il Comunismo sovietico il nemico mortale da combattere. Una volta abbattuto o suicidatosi, a seconda delle interpretazioni, l’Occidente è rimasto senza nemico. Ha proceduto per circa un decennio non solo senza nemici ma con un nuovo gigantesco alleato e vassallo e in pratica non è riuscito a spiegare, al resto del mondo, come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli.

Ha mostrato che il problema non è esterno all’Occidente, è interno, nel modello di sviluppo. Così nell’anno 2001 i dominatori dell’Occidente, gli Stati Uniti d’America, hanno prodotto il mutamento di rotta della storia politica del mondo.

Hanno creato l’11 settembre del 2001 per mettere dinanzi agli occhi di tre miliardi di persone il nuovo nemico, cioè l’estremismo islamico.

Così è iniziata la guerra contro il terrorismo islamico che dura ormai da quindici anni. Sia il Presidente di allora, George Bush jr, sia il suo Ministro della Difesa, Donald Rumsfeld, affermarono: «comincia una guerra che durerà 50 anni» e l’altro «durerà un’intera generazione». Questo era il piano: sostituire il terrore rosso con il terrore verde.

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Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Papa Francesco, e con lui tanti analisti, hanno parlato di una terza guerra mondiale combattuta in tutto il mondo senza un focolaio preciso. Siamo anche in una nuova versione della Guerra Fredda?

Io non parlo per conto terzi. Parlo per me stesso. Sono stato uno dei primi analisti al mondo a dire apertamente che stiamo entrando nella terza guerra mondiale. Quando si parla di questo non si può che riferirsi a una guerra atomica. Una guerra mondiale fatta a pezzettini non ha alcun senso, c’è sempre stata.

Durante la Guerra Fredda si sono combattute, per conto terzi, decine e decine di guerre locali che servivano per mantenere l’equilibrio tra le due potenze. Nel momento in cui è finito il bipolarismo ed è finita la Guerra Fredda, queste sono continuate ma non sono conflitti mondiali.

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Una guerra mondiale è lo scontro tra l’Occidente (Stati Uniti, Europa, Canada, Australia e pochi altri) e l’Asia. In questo senso l’Asia è tutto il resto il mondo. Solo che tutto il resto del mondo è impreparato a questo conflitto, lo sono solo gli Stati Uniti d’America e la Russia che dispongono del potenziale nucleare necessario.

Quando si scontreranno questi due Stati sarà lo scoppio della terza guerra mondiale. Ritengo sarà anche la fine dell’attuale civiltà umana. Ma molti non lo vedono perché non capiscono o non sanno qual è il carattere della guerra moderna, se lo sapessero non direbbero le sciocchezze prive di fondamento che dicono quando si parla di guerra diffusa e via discorrendo.

Il primo segnale di non-democrazia è il tentativo di ostacolare le opinioni divergenti. Possibile che gran parte della “massa democratica occidentale” non riesca a cogliere questo segnale nell’informazione dominante?

Purtroppo è possibile e reale. Nel libro precedente a questo, intitolato È arrivata la bufera (Piemme, 2015), spiego nel capitolo dedicato a Matrix cosa è già accaduto da quaranta-cinquanta anni a questa parte.

L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo.

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Ritengo realistico affermare che gran parte della popolazione vive dentro Matrix, dentro una prigione virtuale nella quale crede di essere libera, come accade appunto nel film, ma che è un universo irreale. Il mondo reale è altrove, fatto in un altro modo, è furibondo, feroce, senza tregua.

L’importante è non far capire alla gente in che situazione vive, lo capirà soltanto quando sarà il momento di finire tutti abbrustoliti. A quel punto molti se ne renderanno conto ma sarà un po’ tardi.

La grande massa della gente non sa nulla di ciò che la circonda. È stata bombardata da una miriade di proiettili che attraversano ogni secondo, ogni attimo della nostra vita e sono spesso non solo non percepiti e indolori ma addirittura piacevoli. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

La più grande arma costruita dall’Occidente per annichilire il senso comune, il buon senso, la razionalità, la solidarietà, la cooperazione, la consapevolezza della limitatezza delle risorse… tutto questo è stato cancellato dalla visione di miliardi di persone.

Parliamo di un’arma che spegne l’intelligenza e quindi, alla lunga, non potrà che produrre mostri. Come ci indica l’acquaforte di Francisco Goya: «il sonno della ragione genera mostri». L’Occidente è stato trasformato in un gigantesco formicaio di persone la cui ragione è stata addormentata.

Perché Putin ci fa paura? Intervista a Giulietto Chiesa

Lei paragona le inquietanti sensazioni che proviamo noi oggi, che viviamo un’epoca di grande cambiamento, a quanto devono aver provato i dinosauri. Siamo destinati all’estinzione?

Destinati no. Non credo in un qualche destino preordinato, è un qualcosa che forgiamo noi sempre, in un modo o nell’altro. Devo questa mia convinzione guarda caso alla lettura di uno straordinario romanzo russo, Guerra e Pace di Tolstoj, citato più volte in Putinofobia.

Noi popolo siamo protagonisti e, quando siamo in tanti, produciamo un movimento, un muoversi delle idee, delle correnti profonde della storia. Non esistiamo inutilmente. Esistiamo con la nostra forza fisica, con la presenza fisica e intellettuale.

Non credo ai complotti. La trasformazione in automi sta avvenendo ma non è il risultato di un complotto bensì della commistione tra l’informazione manipolata e il potere. E avviene in modo quasi automatico ormai. Il coordinamento dei nostri movimenti dall’esterno è avvenuto su un sesto della popolazione, che è l’Occidente. Il resto del mondo, secondo me, non è stato neanche minimamente scalfito da questo meccanismo.

Non credo che l’Occidente arriverà a dominare il mondo al punto che non ci possa più essere speranza. C’è ancora un grande movimento nel mondo. Non esiste un Nuovo Ordine Mondiale, non è mai esistito, esiste invece un “piccolo disordine occidentale”.

Riusciranno i popoli a organizzarsi e fermare la follia omicida e suicida dell’Occidente? Beh, la questione è aperta.

L’Occidente pensa di essere invincibile e questo è il suo tallone d’Achille. Se tale consapevolezza si farà strada in importanti settori intellettuali e dirigenti, sulla spinta di altri popoli non occidentali, noi potremo salvarci.

Noi europei non troveremo la soluzione del problema. Noi abbiamo creato il problema. Noi siamo il problema. Non credo potremo comprendere quanto sto dicendo in termini tali da modificare il corso delle cose che precipita verso lo scontro e cioè verso la terza guerra mondiale. Lo potremo fare solamente insieme agli altri popoli, alle altre culture, alle altre civiltà, alle altre religioni, alle altre tradizioni…

La soluzione la possiamo trovare solo tutti insieme. Chiunque progetti l’uscita da questa crisi, che è mondiale ed epocale, da solo, qui in Europa… beh si fa una grande illusione.

Se dovessi riassumere in poche parole, che restassero impresse nel lettore che legge Putinofobia, il senso di questo libro, direi: smettiamola di ritenere l’Occidente il centro del mondo. Non lo è più. Non perché sia buono o cattivo. Semplicemente non lo è più. Quanto più riusciranno a liberarci da questa idea tanto più potremo salvarci e preservare la nostra civiltà.

http://www.sulromanzo.it/blog/perche-putin-ci-fa-paura-intervista-a-giulietto-chiesa

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La vita perfetta è un dedalo di segreti. “Disclaimer” di Renée Knight (Piemme, 2016)

09 sabato Apr 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Lavitaperfetta, Piemme, recensione, ReneeKnight, romanzo, thriller

La vita perfetta è un dedalo di segreti. “Disclaimer” di Renée Knight

Disclaimer, il primo romanzo della documentarista della BBC Renée Knight, è uscito in Italia lo scorso 15 marzo con il titolo La vita perfetta (Piemme, 2016) nella versione tradotta da Velia Februari. Il libro si presenta con una sfida: cosa faresti se scoprissi che questo thriller parla proprio di te? Avrai il coraggio di girare la pagina e cominciare a leggere? Il coraggio non è mancato, la pagina è stata girata e il libro è stato letto. Ovvio che La vita perfetta non parlava della sottoscritta come di nessun altro lettore in particolare, eppure l’autrice indaga così a fondo la mente e i comportamenti umani che, sì è vero, ognuno può riconoscersi in almeno uno degli innumerevoli ritratti di vita narrati.

La parola che resta in mente, dopo aver letto il romanzo della Knight, è proprio “diniego”, disclaimer in inglese. La struttura narrativa scelta dall’autrice richiama, per alcuni versi, quella più volte usata da Jo Nesbø, maestro indiscusso del crime.  A ogni nuovo capitolo inizia una nuova storia, a volte conseguente altre contraddittoria rispetto a quella narrata fino a quel momento. Se nei libri di Nesbø l’impianto narrativo è strutturato in modo da far sembrare il tutto come una continua e affannosa ricerca per svelare il mistero e trovare i responsabili del delitto, una sorta di caccia al criminale nella quale il lettore si vede da subito coinvolto, nel testo della Knight è evidente che la struttura è stata studiata al contrario per nascondere il più possibile il segreto, che viene svelato solo nelle ultime pagine, nonostante non manchino, nel corso della narrazione, momenti in cui il tutto può essere apertamente raccontato.

Fedele alla struttura di un vero romanzo noir, ne La vita perfetta il crimine resta marginale fino alla fine; molto risalto viene dato alla caratterizzazione dell’ambiente e soprattutto alla descrizione psicologica dei personaggi. Manca nel testo la figura di un detective estraneo alla vicenda, ma tutti i protagonisti assumono autonomamente il ruolo di investigatori e al contempo quello di vittime. L’intera vicenda ruota intorno a un libro, scritto per trovare una motivazione a quanto accaduto ma usato per compiere una vendetta. «Senza poterci fare nulla, Catherine aveva incontrato, tra le righe di quel libro, sé stessa».

La vita perfetta è un dedalo di segreti. “Disclaimer” di Renée Knight

Catherine è una documentarista di successo che abita in un grazioso villino insieme a suo marito Robert. L’abitazione è più piccola della casa che avevano in precedenza, abbandonata dopo che la donna ha invitato il figlio ad andare a vivere da solo, per responsabilizzarlo. Il rapporto di Catherine con Nicholas è sempre stato difficile, forse lei non è tagliata per fare la madre. Oppure no.

In un villino più modesto, sito in un quartiere meno esclusivo della città, abita una diversa famiglia, composta sempre da madre, padre e figlio. Nancy, al contrario, sembra aver votato l’intera sua vita ad accudire Jonathan, trascurando anche il rapporto coniugale con Stephen. Almeno questo è ciò che appare. Cosa lega Catherine a Stephen e Nancy? Il libro, o meglio la storia in esso narrata. Un racconto che ognuno avvalora nella propria versione. Sono i ricordi che il tempo ha reso più labili o c’è dell’altro?

C’è molto altro e la Knight lo riporta in La vita perfetta con una dettagliata descrizione della condizione e dei casi umani.

Quanto incidono le vicende personali sulla professionalità? Un insegnante che non riesce ad arginare la propria frustrazione e la riversa sugli ignari studenti è un mostro o anch’egli una vittima degli eventi? A un uomo premuroso e attento può interessare la propria reputazione più della stabilità della partner? Un genitore che rifiuta di ammettere l’indole violenta del proprio figlio è un buon educatore?

Le risposte a tutte queste domande possono sembrare facili e scontate eppure la Knight ci mostra un modo per osservare i comportamenti umani nient’affatto scontato. La verità è che ognuno di noi vede solamente quello che gli conviene. Anche gli uomini che sembrano tra i più progressisti quando si tratta della propria compagna non accetteranno mai volentieri l’idea che questa possa scegliere di emanciparsi al punto da anteporre la propria felicità a quella del partner o del figlio.

«Quel libro l’ha come irretita, attratta con l’inganno finché non si è accorta di essere in trappola».

Un libro intenso, profondo, che scava dentro l’anima dei protagonisti, che merita di essere letto con attenzione per cogliere ogni sfumatura con la giusta intensità. Un ottimo esordio letterarioLa vita perfetta di Renée Knight.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-vita-perfetta-e-un-dedalo-di-segreti-disclaimer-di-renee-knight

© 2016 – 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

S.J. Watson “Io non ti conosco” (Piemme, 2015)

05 lunedì Ott 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Iononticonosco, Piemme, recensione, romanzo, SJWatson, thriller

io non ti conosco

La casa editrice Piemme pubblica con il titolo Io non ti conosco il romanzo di S.J. Watson Second Life, tradotto in italiano da Stefano Travagli.
Il testo ha una mole imponente: 456 pagine, che in genere scoraggiano i lettori di gialli, ansiosi di scoprire quanto prima l’assassino e svelare il mistero. Ma il libro di Watson non è un giallo, nell’accezione classica del termine, è un thriller psicologico contemporaneo che spazia attraverso molteplici argomenti e indaga vari aspetti del vivere moderno, più o meno correlati con l’omicidio la cui indagine sembra rappresentare il filo conduttore del testo. La narrazione intriga fin dalle prime pagine e il ritmo incalzante abbevera la crescente sete di chi legge, il quale giunge alla quattrocentocinquantaseiesima pagina quasi senza accorgersene.
Si riveleranno i trascorsi berlinesi della protagonista il vero leitmotiv dell’opera.
Una giovanissima Julia, dopo aver trascorso dieci anni a fare da madre a sua sorella, decide di seguire il suo ragazzo in un’avventura bohémien nella città rinnovata dalla caduta del muro, occupando una casa per viverci con amici un po’ “diversi”, come li definisce lei stessa. Sarà in quell’occasione che conoscerà lo sballo, le droghe, il divertimento, ma che si avvicinerà anche alla fotografia, la sua passione.

«Ho fatto qualche scatto di prova, e mentre avvicinavo la macchina all’occhio ho sentito che il gesto era ancora intuitivo, istintivo. Quando ho guardato nel mirino, ho capito che preferivo vedere il mondo così. Dentro un’inquadratura.»

Sembra ormai tutto talmente lontano da apparirle irreale nella nuova vita che si è costruita a Londra, grazie a Hugh che l’ha salvata prima e sposata poi. Anche la fotografia intesa come ‘arte’ sta diventando un lontano ricordo. Infatti Julia si limita a ‘divertirsi’ nel fare «lavori in cui servono soprattutto abilità tecniche. Non è come fare ritratti; non è arte, se vogliamo usare questa parola».
Ma l’uccisione di Kate, sua sorella, rimette tutto in discussione e la sua mente si trova del tutto impreparata ad affrontare e soprattutto superare un trauma del genere. Così mentre si illude di indagare sulla morte della sorella in cerca del suo assassino, convinta che la polizia non stia facendo abbastanza, Julia non fa altro che rispolverare la se stessa di tanti anni prima, la ragazza che girava per le strade di Berlino scattando foto alla “evoluzione degli altri” rosa dai sensi di colpa per aver abbandonato la sorella minore ed essere fuggita inseguendo l’amore. Fuggirà anche da Marcus e nel momento peggiore ma non riesce a realizzare, fino alla fine, quale sia stato veramente il suo errore più grave.

« Chiudo gli occhi e penso a Kate, a quando eravamo bambine. Allora le cose erano più semplici, anche se non significa che fossero facili.»

Julia crede che quella parte della sua vita sopravviva ormai solo nella sua mente e attraverso le foto dell’epoca, come ritiene di poter tenere separate le sue due vite attuali: quella con Hugh e Connor e l’altra con Lukas. Esattamente come pensava di riuscire a tenere separate la realtà vera da quella virtuale. Una valvola di sfogo, un’evasione temporanea dalla quotidianità e dal dolore, così Julia cercava di mentire a se stessa per sentirsi meno in colpa nel frequentare siti di incontri online, nel chattare con uno sconosciuto, nell’incontrarlo, nel farci sesso, nell’avere una relazione con lui…

« Chiudo il giornale e svuoto la lavastoviglie. Ho inserito il pilota automatico. Prendo lo straccio, la bottiglia di candeggina e pulisco la cucina. Mi chiedo se anche la generazione di mia madre si sentiva così: il valium nell’armadio del bagno, una bottiglia di gin sotto il lavello; una storia con il lattaio, per il brivido dell’avventura. Tanti progressi e siamo sempre allo stesso punto. Quanto mi vergogno.»

E proprio mentre pensa che non ci possa essere nulla di più terribile del fatto che Hugh e Connor scoprano la verità realizza che anche suo figlio è rimasto vittima dello stesso inganno che ha ‘stregato’ lei. È caduto nello stesso tranello, per mano della stessa persona, per lo stesso motivo.

« Apro gli occhi. Che spari o non spari, qualunque cosa succeda da adesso in poi, è finita.»

Nessuno si rivela quello che dice di essere, nemmeno Hugh, neanche lei stessa. L’autore riprende in parte la teoria pirandelliana delle maschere indossate da tutti e da ognuno per regalare a se stessi e agli altri, ogni volta, un’immagine diversa. «Con improvvisa chiarezza mi rendo conto che indossiamo tutti delle maschere, sempre. Al mondo, agli altri, presentiamo solo una faccia: mostriamo un volto diverso a seconda delle persone con cui siamo e di quello che ci si aspetta da noi. Ma anche quando siamo soli indossiamo una maschera, la versione di noi stessi che vorremmo essere.»
Watson compie un’attenta analisi della psiche femminile, andando oltre le apparenze, oltre le parole e rimanda al lettore un’immagine completa della protagonista, delle sue paure, dei suoi tormenti, dei suoi sentimenti, delle passioni. Racconta dettagliatamente lo struggimento di Julia per il tradimento inferto alla sua famiglia, ancor più incisivo se paragonato alla reazione e al comportamento di Hugh, il quale sembra approfittare di un incorso problema di lavoro e dello stato confusionale in cui versa Julia per non affrontare il suo di tradimento. Il finale assolutamente non scontato contribuisce a rendere Io non ti conosco di S.J. Watson un libro interessante che merita di essere letto.

:: Io non ti conosco, S.J. Watson, (Piemme, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu” di Marisa Salabelle (Piemme, 2015)

23 giovedì Lug 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, LestatecheammazzaronoEfisiaCaddozzu, MarisaSalabelle, Piemme, romanzo, thriller

Intervista di Irma Loredana Galgano a Marisa Salabelle, autrice de “L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu”

“Fu così che Efisia Caddozzu venne al mondo. “Mischinedda”, pensò la levatrice mentre la presentava ai parenti riuniti, eccetto che alla madre, che si era addormentata.”

Da pochi giorni in tutte le librerie il debutto letterario di Marisa Salabelle L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme, 2015). Un giallo ambientato nella città di Pistoia, una storia contemporanea che racconta della violenza fisica ma anche di quella culturale. Un libro che cattura gli appassionati del genere e che accompagna il lettore in riflessioni approfondite sulla società di oggi e sui suoi innumerevoli mali.

Durante la festa di San Jacopo, patrono della città, due ragazzini in bicicletta trovano, vicino a un fosso, il cadavere di una donna, barbaramente uccisa, priva di documenti, vestita e truccata come una prostituta, probabilmente extracomunitaria. Dopo affannose indagini, portate avanti da carabinieri svogliati e un giovane cronista che sogna lo scoop, si scopre invece che il corpo è quello di Efisia Caddozzu, maestra elementare.

Ma chi era davvero Efisia Caddozzu? Perché una semplice maestra viene abbandonata sul ciglio di una strada con il cranio fracassato? Le indagini portano tutte a un unico indiziato: l’albanese, di cui si è persa ogni traccia. Ma la verità sulla morte di Efisia è un’altra. Per scoprirla sarà necessario scavare nelle ipocrisie più sottili e feroci dell’animo umano.

“Si parlava molto anche di certi fatti, che accadevano regolarmente, e che venivano designati col nome del luogo in cui si erano verificati, senz’altra spiegazione: i fatti di Battipaglia, i fatti di Reggio Calabria: tutti sembravano capire immediatamente in che cosa consistessero i fatti, tranne Efisia, Efisia gli unici che conosceva erano i fatti di Reggio Emilia, grazie a zia Pinella. Così, alle riunioni dove il fumo delle sigarette e l’alito pesante dei compagni, che avevano l’abitudine di mangiare cibi infestati da grandi quantità di aglio e cipolla, erano così densi da potersi toccare con mano, si limitava ad ascoltare in silenzio, trasognata, e menomale che aveva smesso di succhiarsi il dito.”

Marisa Salabelle è nata a Cagliari ma vive e lavora a Pistoia, dove insegna in un Istituto Tecnico. Le abbiamo rivolto alcune domande sul suo primo romanzo L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzuchiedendole anche alcune riflessioni e considerazioni sulla società contemporanea.

I.L.G.: Esce in questi giorni per Piemme il suo romanzo d’esordio. Quali sono i suoi sentimenti al riguardo?

Marisa Salabelle: Sono molto emozionata. Mi sono battuta molto per cercare di pubblicare questo romanzo e ora che finalmente vede la luce sono felice come una bambina.

I.L.G.: Il suo romanzo L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu è un giallo ma l’intento sembra non essere fine alla risoluzione del mistero, piuttosto quello di abbattere il muro dell’ipocrisia che regna nella società contemporanea. Perché?

Marisa Salabelle: In effetti  L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu potrebbe essere considerato un giallo anomalo. Direi che, nelle mie intenzioni, il romanzo si sviluppa su tre livelli: il primo è quello strettamente poliziesco. C’è una donna assassinata, ci sono le indagini, c’è uno scioglimento. Il secondo livello è quello relativo al personaggio di Efisia, la cui vita viene seguita, in brani che si alternano a quelli imperniati sulle indagini sulla sua morte, dalla nascita fino al giorno in cui viene uccisa. Il terzo livello è quello che racconta un periodo di storia italiana, visto con gli occhi della protagonista: dagli anni ’60 ai primi anni ’90 del Novecento. È su questo livello che è possibile trovare una lettura critica della società di quegli anni.

I.L.G.: Secondo lei, prima o poi, si riuscirà a trovare un equilibrio nella convivenza tra i popoli o la ‘guerra tra etnie’ non può cessare perché propedeutica alla coltivazione di ben altri interessi, come quelli economici per esempio?

Marisa Salabelle: Io sono assolutamente convinta della necessità di una convivenza il più serena possibile tra persone, gruppi etnici e religiosi, popoli. Il mondo di oggi è un mondo in movimento, fenomeni come le migrazioni di massa sono eventi di tale importanza che certe ricette semplicistiche portate avanti da uomini politici di diverse tendenze mi sembrano assolutamente improprie oltre che impraticabili; è altresì un mondo conflittuale, percorso da guerre, segnato dalla disuguaglianza e dall’ingiustizia. Gestire tutto ciò non sarà facile, ma è l’unica possibilità che abbiamo.

I.L.G.: Ritornando al suo libro. La protagonista ha un carattere irrequieto, il ragazzo che ha preso sotto la sua ala protettiva altrettanto… sono questi per lei sintomi di una società tormentata e tormentosa?

Marisa Salabelle: Ho voluto creare il personaggio di Efisia come un personaggio sfaccettato: è una donna determinata, generosa, con un forte senso della giustizia e una grande capacità di dedizione; nello stesso tempo è una donna sgradevole non solo nell’aspetto ma anche nel carattere e capace di imprimere alla sua vita una svolta autodistruttiva. Questo è un dato, per come io l’ho inteso, più personale che sociale. Per quanto riguarda il suo giovane protetto, avevo bisogno di un personaggio come lui, un giovane apparentemente indifeso ma in realtà opportunista, prevaricatore: mi serviva che Efisia si innamorasse di un tipo del genere. Diciamo quindi che questo personaggio è una necessità della trama che avevo in mente. Infine, il fatto che nel romanzo non ci sia un solo “buono”, nessuno sia “un eroe” o “un’eroina”, dipende da come la vedo io sulla complessità della natura umana…

Intervista di Irma Loredana Galgano a Marisa Salabelle, autrice de “L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu”

 

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“È arrivata la bufera” di Giulietto Chiesa (Piemme, 2015)

13 sabato Giu 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Earrivatalabufera, GiuliettoChiesa, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, Piemme, recensione, saggio, terrore, Terrorismo

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Giulietto Chiesa, tra i più noti giornalisti italiani, ripropone con È arrivata la bufera il saggio Invece della catastrofe, pubblicato sempre con Piemme nel 2013, arricchito con I misteri di Parigi, inchiesta sui «buchi neri» nella ricostruzione ufficiale della strage attuata mediante l’assalto alla redazione della rivista satirica Charlie Hebdo e a un supermercato ebraico. Ed è proprio da questi ultimi fatti che si può partire per spiegare la «enorme crociata che sta investendo tutto il mondo».

Una spietata caccia al nemico resa possibile e giustificata dall’elevato livello di isteria che ha raggiunto “l’opinione pubblica” internazionale.

Dall’11 settembre del 2001 dilaga un radicato sentimento anti-islamico, praticamente in tutto il mondo occidentale, e una decisa convergenza di opinione che individua nel “terrorismo islamico” l’origine dei peggiori mali.  A seguito degli eventi di Parigi del 7, 8 e 9 gennaio di quest’anno di nuovo «osserviamo come sia in atto un formidabile tentativo di ripetere la successione di eventi manipolatori che mascherarono l’11 settembre e i suoi veri autori; che permisero di cancellare le tracce; che costrinsero i nostri occhi a guardare altrove, là dove erano accesi i riflettori, non là dove erano state fatte calare le ombre».

Chiesa spiega dettagliatamente il suo punto di vista, frutto di analisi approfondite, ricerche, studi e sopralluoghi, confronti e raffronti e sottolinea anche la facilità e a volte la faciloneria con cui viene attaccato e bollato di essere un ‘visionario’ al pari di tutti quelli che non digeriscono la ‘versione ufficiale’ elargita dai media, come ci si aspetta che debba essere. Interrogarsi sui «buchi neri», cercare di capire e dare un senso a qualcosa che appare o è poco chiaro invece è un qualcosa che dovrebbe essere fatto, in maniera naturale e istintiva, da ognuno soprattutto da noi occidentali che abbiamo fatto dell’informazione un baluardo dei tempi moderni.

Chi ha cercato come Chiesa di produrre una ricostruzione dei fatti dell’11 settembre 2011 che non fosse la «versione semplice, banale, destinata a occultare i fatti reali accaduti, a spostare l’attenzione dai veri attori e protagonisti verso un gruppo di capri espiatori, tutti già morti, o fatti variamente sparire, e quindi non in grado di difendersi» è stato bollato quindi come ‘visionario’ e ‘complottista’ e costretto a osservare genti, popoli, generazioni intere anche di giovanissimi che hanno pienamente ingerito e fatto proprio l’odio verso i terroristi che hanno privato il mondo occidentale delle Twin Towers e ucciso migliaia di americani, indicandoli per certo come degli estremisti islamici. Anche se nella gran parte dei casi la loro ‘conoscenza’ termina qui. Nessuno o quasi di loro si è mai chiesto eventualmente da cosa ha avuto origine questo sentimento di riscatto che smuove centinaia di giovani contro la prima potenza mondiale. Nessuno o quasi sembra interrogarsi su quali siano i motivi di fondo da cui scaturisce la volontà di creare uno Stato islamico. Nessuno o quasi sembra volersi interrogare sul ‘centrismo occidentale’ nel mondo. Nessuno o quasi sembra volersi chiedere fino a che punto le ‘versioni ufficiali’ siano reali.

«Che i servizi segreti israeliani fossero presenti a Parigi il 9 gennaio è un fatto assodato. È stata l’ANSA a mostrarci le immagini del Mossad mentre entrava in azione durante l’accerchiamento e l’assalto al supermercato kosher» e Giulietto Chiesa si chiede se sia normale un intervento diretto dei servizi segreti israeliani in un paese, come la Francia, «dotato di una Legione Straniera, sperimentato da decenni contro il terrorismo, impegnato da anni nella sovversione in tutto il Nord Africa (e non solo)» e se questo intervento fosse davvero necessario. Possibile che la Francia «non dispone di proprie forze per fare fronte a situazioni di emergenza interna? Chiunque capisce che tutto ciò non ha alcun senso». Chiesa avanza delle ipotesi, o meglio riporta le sue impressioni avute al momento: «Quasi che “qualcuno” avesse in mente di “orientare” l’interpretazione dell’attentato in senso antiebraico. Se i terroristi, uno o più, avessero occupato un grande magazzino Auchan, per esempio, la presenza del Moussad non sarebbe stata in alcun modo giustificata e giustificabile».

Lo scopo dello scritto I misteri di Parigi non sembra essere quello di trovare a ogni costo i colpevoli, i mandanti, i correi… bensì quello di analizzare i fatti, i dati e anche le impressioni per cercare di capire i motivi propulsori di certi comportamenti e accadimenti e soprattutto le conseguenze che ne deriveranno. Per Chiesa la prima e diretta ripercussione degli assalti di Parigi del gennaio 2015 sarà «ridurre le nostre libertà in nome della sicurezza», esattamente come è accaduto in seguito agli attentati di New York e Washington del settembre 2001.

Il politologo Aleksei Martynov ha dichiarato: «Ci sono persone che guidano il terrorismo islamico internazionale, e queste persone si trovano negli Stati Uniti d’America». Giulietto Chiesa aggiunge: «Personalmente non credo che siano solo negli Stati Uniti d’America, perché penso che si trovino anche in Israele, in Germania, in Francia, per fare solo alcuni esempi». È una sua opinione certo e lo precisa anche tuttavia, dopo aver letto il saggio, non si può fare a meno di interrogarsi per cercare di capire ed è esattamente questo l’insegnamento o il suggerimento che è nelle intenzioni dell’autore. «Questi eventi non accadono per niente. Avvengono perché si persegue un obiettivo strategico. Più grandi sono, più grande è l’obiettivo strategico. E sicuramente quella di Parigi è un’operazione destinata a segnare a lungo la storia futura dell’Europa e del mondo intero. Questo libro cerca di descrivere qual è l’obiettivo strategico.»

Invece della catastrofe è stato scritto da Chiesa alcuni anni fa ma ciò di cui parla sembra ed è riferibile alla contemporaneità nel modo più assoluto. È vero che l’autore in fase di riedizione ha provveduto a rivedere il saggio ma lo è anche il fatto che gli scenari da lui descritti non fanno altro che concretizzarsi o prospettarsi nell’immediato futuro e nell’accezione più drastica e tragica. Eppure una via per evitare ‘la catastrofe’ ci sarebbe, c’è. Ne parla Chiesa e ne parlano altri, ognuno piegando gli argomenti alle proprie opinioni o riflessioni, ma in ogni caso si tratta comunque di ‘alternative’ volutamente ignorate dai più.

Per comprendere il tutto bisogna partire nuovamente dalla comunicazione, dai sistemi di comunicazione-informazione che giocano un ruolo determinante nella formazione e sull’influenza dell’opinione pubblica. «Se noi non sappiamo è perché non siamo stati informati. Qualcuno che sa, anche se non tutto, anche se non ha capito bene, c’è» ci dice Chiesa, il quale si chiede anche come sia possibile che «pur essendo ormai incommensurabilmente più informati di quanto non lo fossero le generazioni precedenti, non sappiamo le cose più importanti per la nostra stessa esistenza umana, è cioè che ci stiamo suicidando?» La risposta sembra venire da sé: «il sistema dell’informazione-comunicazione che ci circonda, ci pervade, ci accudisce, ci diverte, è quello stesso che ci nasconde le verità fondamentali della realtà in cui viviamo».

Il saggio Invece della catastrofe porta il lettore a cercare la spiegazione degli eventi e delle parole allargando il raggio di riflessione a 360° evitando nettamente di barricarsi dietro posizioni o arroccamenti. Gli eventi come le parole sono legati, consequenziali, non facilmente scindibili e quindi anche gli accadimenti devono essere spiegati tenendo presente questa logica. Abitando un pianeta unico non si può pensare e agire locale, limitatamente ai propri interessi e a al proprio ‘benessere personale’ senza confrontarsi con gli interessi e il benessere degli altri. Il primo mito assolutamente da sfatare è quello del progresso o della crescita infinita, incompatibile con un ‘pianeta finito’.  I procedimenti suggeriti poi da Chiesa sono simili a quelli auspicati dai promotori della Decrescita Felice con la differenza che l’autore rifiuta l’uso dell’aggettivo ‘felice’.  La sua posizione sembra essere dettata dalla perentoria necessità di smettere di fingere di non vedere, cessare i tentativi di abbellimento o di alleggerimento che dovrebbero servire a far ingoiare con più facilità la pillola della certezza che se non si cambia, se non si costringono i governi a prendere seri e risoluti provvedimenti, il nostro pianeta, la nostra casa, collasserà.

«Ora abbiamo bisogno di una “apocalisse”. La parola biblica, come ci viene trasmessa dall’evangelista Giovanni, piegato sul suo scrittoio sull’isola di Patmos, significa “rivelazione”: togliere ciò che impedisce di vedere. Per noi moderni la parola ha assunto il senso di “catastrofe”» e Chiesa sottolinea come la situazione attuale riunisca in sé entrambi i significati: «Se non “vedremo”, andremo alla “catastrofe”. E dovranno essere in molti, e non in pochi, a vedere».

Giulietto Chiesa affronta temi ‘scottanti’ come la moneta, la finanza, le multinazionali e le potenze mondiali, il terrorismo, l’anti-terrorismo, i poteri dei vari stati e degli organismi internazionali, cita i classici, i contemporanei e se stesso ma lo fa con un linguaggio diretto, ai più comprensibile, chiaro, che cerca di essere più efficace possibile per arrivare alla ‘massa’, quella stessa massa tenuta per lo più all’oscuro della ‘conoscenza’ mai come ora che viviamo l’era dello spettacolo e della spettacolarizzazione, l’epoca che ha creato ‘la fabbrica dei sogni’ e di ciò ancora si vanta. È prevedibile e quasi scontato che vada incontro a critiche e accuse. Si può non essere pienamente concordi con il punto di vista dell’autore, si può ritenere alcune cose una forzatura e altre analisi sublimi ma la lettura di È arrivata la bufera è fuori di dubbio auspicabile e dal maggior numero di persone, non foss’altro per stimolare lo spirito critico e razionale troppo spesso pigro e latente nella ‘opinione pubblica’ dell’attuale sistema di comunicazione-informazione e oserei aggiungere anche di quello dell’insegnamento scolastico.

“È arrivata la bufera” di Giulietto Chiesa

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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