Ci sono eventi o accadimenti che d’istinto si è portati a indicare come spartiacque o pietre miliari nella lunga storia dell’umanità. In epoca recente non si può non indicare il 31 dicembre 2019, ovvero il giorno della prima segnalazione attribuibile al nuovo virus Sars.
Di questi eventi, come ovvio pensare, esiste un prima e un dopo. Ma va ricordato e pensato anche tutto ciò che vi è dentro, all’interno e che si trascina per molto tempo. L’anima devastata di coloro che questi eventi li hanno visti, vissuti, subiti.
Gli esempi da addurre ovviamente potrebbero essere tantissimi, la particolarità di questa pandemia sono le sue immediate ricadute a livello planetario.
Il libro di Goisis e Moroni è interamente centrato sull’evento pandemico legato al Sars-Cov-19, ma raccontato dal suo interno, dal punto di vista di uno, o meglio di due piccoli tasselli che vanno a comporre l’enorme mosaico.
Al 10 ottobre 2022 i casi accertati totali nel mondo di contagio da Sars-Cov-19 sono 621.547.372. I decessi sono 6.557.778.
In Italia i casi totali accertati sono 22.815.736, i decessi 177.519.1
I numeri totali sono per certo impattanti, ma mai bisogna dimenticare che questi sono il risultato della somma di singoli numeri, presi uno alla volta.
Ed è esattamente di ciò che raccontano Goisis e Moroni, in maniera estremamente personale.
Il libro Lock-mind si compone di due parti distinte, i due diari appunto che afferiscono ai rispettivi autori. Il primo, di Angelo Antonio Moroni, è strutturato proprio come il più classico dei diari, con data iniziale e numerazione progressiva. È la narrazione di quanto accaduto nella vita e nella mente dell’autore, dei suoi famigliari e dei suoi pazienti. È il racconto di quanto accaduto, nonché del percorso fisico e mentale che ha condotto tutti attraverso questa fase epocale, mediante la quale l’umanità intera si è trovata ad affrontare la pandemia, l’isolamento, la paura, la solitudine, la malattia. Costretta ad adattarsi, giorno dopo giorno, a un mondo diverso che, forse, tale resterà.
Sono accadute delle cose, durante il lockdown da pandemia, prima inimmaginabili. Di esempi ce ne sono tanti. Moroni pensa, per esempio, al fatto che le sedute virtuali con i suoi giovani pazienti gli hanno consentito di entrare, sempre attraverso lo strumento tecnologico, nel loro mondo, la loro stanza, la cameretta. Accadimenti mai verificatisi prima di allora. Come se l’isolamento da lockdown avesse dato l’opportunità allo psicoterapeuta, tramite l’occhio digitale, di guardare il paziente nel suo ambiente mentre fino ad allora la terapia si svolgeva sempre e solo nello studio medico. Sono situazioni solo in apparenza insignificanti.
La seconda parte del libro invece è il diario di Roberto Goisis, uno scritto che per molti versi chiarisce anche il senso di una sua precedente pubblicazione. Goisis si è ammalato e ha vissuto la Covid da paziente, incredulo della situazione.
In effetti è questo un sentire comune. La Covid ha dei sintomi influenzali, è un virus, eppure ha scatenato una pandemia globale. Non è certo l’unica malattia esistente né la più pericolosa o grave ma è insidiosa, molto. Ha aggredito e si è estesa in una maniera talmente inaspettata da trovare tutti, o quasi, impreparati, increduli, dubbiosi, scettici. In tanti poi sono stati costretti a ricredersi.
I due diari sono molto diversi tra loro, per forma e contenuti, ma hanno in comune la narrazione di un accadimento che ha cambiato tutti, entrando nelle nostre vite per tramite di un virus il quale, seppur invisibile ad occhio nudo, ha permesso a tanti di vedere un mondo totalmente differente.
Lock-mind non è un libro sulla pandemia da Sars-Cov-19, è un libro sugli effetti della pandemia sulle persone, su come un virus possa cambiare la vita, il corpo, la mente e il modo di guardare oltre.
Il Sars-Cov-19 sembra caratterizzarsi per la sua estrema capacità di mutare. E la mutazione, il cambiamento sembra essere anche la caratteristica di questa come di ogni altra epoca, maggiormente laddove un evento straordinario ha mutato drasticamente il suo essere nel profondo. Una vera e propria mutazione genetica della vita.
Il libro
Pietro Roberto Goisis, Angelo Antonio Moroni, Lock-mind. Due diari della pandemia, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2022.
Gli autori
Pietro Roberto Goisis: medico, psichiatra, psicoanalista, membro ordinario SPI e IPA, svolge attività clinica e formativa in Enti pubblici e privati.
Angelo Antonio Moroni: psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista, membro ordinario SPI e IPA, è socio fondatore del Centro Psicoanalitico di Pavia (SPI), e collabora come supervisore di Comunità psichiatriche italiane e Servizi Neuropsichiatrici del Canton Ticino.
L’autore racconta aneddoti, descrive situazioni, analizza accadimenti, sviscerandone i contenuti più profondi, intimi e simbolici. Percorre e ripercorre, insieme al lettore, un lungo percorso che lo ha visto prima figlio e poi padre, studente, tirocinante e terapeuta, medico e paziente egli stesso.
Racconta molto di se stesso, del suo percorso professionale ma anche della sua vita privata. Come se il libro, in realtà, avesse o dovesse avere, per lui, un effetto “terapeutico”, catartico.
Tutto sembra avere origine dal luogo in cui si svolgono i colloqui clinici tra lo psicoanalista e il paziente: la stanza. Per Goisis, se non ci fosse non esisterebbe alcun terapeuta e nessun paziente. Al punto che egli ritiene possa essere addirittura magica, «che riesca a tirare fuori il meglio di me, qualcosa che neppure so di possedere, che altrove non saprei trovare, che mi sorprende» (pag. 9).
La stanza è il luogo fisico e simbolico dove le persone diventano pazienti e chi le ascolta diventa il loro psicoanalista, il medico che deve ascoltare e guarire le fragilità, le paure, i traumi, le incertezze e le insicurezze. E deve farlo secondo una metodologia che, fino a pochi anni fa, era molto rigida, con severe regole di condotta dentro la stanza, dove aveva luogo la terapia, e fuori da essa, dove andava mantenuto il massimo riserbo.
Sono stati gli insegnamenti di Tommaso Senise a far maturare la consapevolezza in Goisis che «nella terapia si può fare tutto, purché si sappia perché lo si fa» (pag. 27). La stanza di Goisis è pet friendly. Gli animali rappresentano anche aspetti interni delle persone che li portano. Risultano quindi funzionali alla terapia.
È alquanto singolare che nelle scienze che si occupano del comportamento umano si ha la tendenza a isolare l’individuo considerandolo separatamente dalle variabili esterne. Cosa che non accade, per esempio, in etologia, dove lo studio delle relazioni tra animale e ambiente vengono da tempo prese in esame come fattori determinanti. Negli studi sul comportamento patologico, le conseguenze di questo atteggiamento portano a occuparsi principalmente della mente umana come se fosse un’entità indipendente.1 E, nella psicoanalisi, questa entità indipendente viene indagata all’interno della stanza, che diviene la bolla dentro la quale si sviluppa per intero la terapia.
Goisis ha mostrato sempre molta cura e attenzione nel comporre l’universo-stanza dentro cui accoglie i suoi pazienti. Considerando la presenza, in un angolo, di una pianta verde il suo legame con la natura dentro la stanza. Sono stati gli insegnamenti di Nina Coltart a far volgere lo sguardo dei terapisti oltre il perimetro delle mura, allungandolo fino alla natura. Sosteneva ella, infatti, che ogni terapeuta dovrebbe possedere e coltivare un giardino.
Il lavoro svolto dentro la stanza può essere pensato come il lavoro della capacità di amare, volto a far sentire il paziente importante, compreso e accolto. Un amore che è trascendentale, l’unico contenitore affidabile entro cui potremmo sentire odio, rabbia, disprezzo per periodi di tempo variabili.2
Grande cura bisogna riporre in ogni dettaglio della stanza, perché i dettagli sono il modo di accogliere il paziente ed è proprio dal setting che inizia la cura stessa. Dalla stanza. All’interno della quale il tempo acquista una dimensione nuova, propria. «A volte sembra rallentare o dilatarsi come se assecondasse silenziosamente lo stato d’animo dei miei pazienti, il fluire ora torrenziale ora reticente delle loro parole. È una sensazione piacevole, anche se a volte gestire lo scorrere dei minuti, riportarli all’ordine e chiudere una seduta non è semplice. Del resto, il mio compito è anche questo: tenere la rotta, guidare il flusso dei pensieri, dosare le paure, tenendo però la mano leggera» (pp. 29-30).
Il concetto di tempo è strettamente connesso con la psicoanalisi. Il rapporto tra uomo e tempo è sempre stato difficile e problematico. Sul fronte della clinica, l’analista che segue il metodo indicato da Wilfred R. Bion «senza desiderio e senza memoria» configura il setting come un’isola del tempo. Ma anche il soggetto, all’inizio del trattamento, dovrà rinunciare al controllo del tempo, sia del passato che del futuro. Si può considerare il tempo come una tela su cui ricamiamo le nostre esperienze di vita. Una tela che ci avvolge e ci copre, ma che a volte ci soffoca anche.3
Goisis si dichiara controllore del tempo della seduta di psicoanalisi che si svolge nella suastanza, ma egli, in realtà, è anche il decisore del tempo verso cui la terapia tende e tenderà.
Fino a non molto tempo fa, lo sguardo del terapeuta era diretto sostanzialmente verso il passato, come causa e antecedente del presente. Di recente, invece, lo sguardo del paziente e dell’analista è rivolto al futuro e le aspettative sono viste come un fattore significativo rispetto a ciò che sta accadendo. Non è l’après-coup o il Nachträglichkeitciò che improvvisamente conferisce un nuovo significato al passato rendendolo traumatico, ma è quello che non è ancora accaduto, ma è desiderato o temuto, a determinare in parte ciò che sperimentiamo nell’oggi.4
Il passato, il presente, il futuro, le aspettative, le emozioni, le paure, le fobie, i traumi, le speranze: chi si affida al lavoro di uno psicoanalista mette tutto questo e anche oltre sul tavolo, ma, spesso, a farlo è anche lo stesso medico. «Lo psicoanalista non è un muro, non è neppure un orecchio neutro. È una persona che vive di incontri, che deve curare altre persone, ma anche curare se stesso» (pag. 31).
La regola tradizionale richiede al terapeuta neutralità, astinenza e anonimato. Ma il fenomeno dell’autorivelazione (self-disclosure), ovvero uno svelamento cosciente e voluto, da parte dell’analista, di qualche aspetto di sé al paziente, è entrato sempre più a far parte del linguaggio psicoanalitico. Lo schieramento di studiosi favorevoli o contrari alla self-disclosure è nettamente contrapposto. I primi ne vedono le potenzialità proprio nell’abbandono di un eccesso di neutralità che può addirittura inibire il processo terapeutico e bloccare le libere associazioni del paziente. Per i secondi, invece, l’autorivelazione potrebbe rappresentare una difficoltà controtransferale dell’analista arrivando addirittura, in casi estremi, ad essere espressione di una sua necessità narcisistica di rivelarsi.
Il transfert riguarda quei sentimenti o pulsioni, positive o negative, che il paziente sviluppa nei confronti del suo analista durante un percorso di psicoanalisi. Inconsciamente, il paziente trasferisce i sentimenti che ha provato o prova per un’altra persona verso il suo analista. Oltre a dover gestire i transfert del paziente, è compito dell’analista anche il non lasciarsi andare al controtransfert. In questo caso è l’analista a proiettare le proprie esperienze sul paziente.
L’autorivelazione dell’analista può avvenire in vari modi:
Risposte a domande dirette.
Comunicazioni spontanee del vissuto controtransferale.
Ammissione di propri errori.
Narrazione di esperienze personali.
È per certo auspicabile che l’autorivelazione dell’analista sia, in ogni caso, sempre funzionale al paziente e alla terapia. In base anche al principio di Senise, ripreso dallo stesso Goisis, secondo cui l’analista deve ritenersi libero di agire purché sappia sempre ciò che sta facendo.
Ciò che non andrebbe mai dimenticato è che, alla fin fine, gli psicoanalisti non sono altro che esseri umani, semplicemente. Non custodiscono verità assolute e combattono loro stessi, quotidianamente, con una moltitudine di emozioni al pari dei loro pazienti. Può essere necessario, anche per imparare a essere dei bravi analisti, sottoporsi in prima persona a un percorso di terapia.
Ed è qui che entra in gioco un altro aspetto fondamentale: qual è lo scopo ultimo di una terapia psicoanalitica?
Per Goisis il mero ascolto non può essere indicato come scopo ultimo di una terapia. I pazienti, dal canto loro, si aspettano una soluzione tangibile e concreta ai loro problemi. Lo scopo ultimo di una psicoterapia sembra essere il cambiamento che porta, per il paziente, una maggiore consapevolezza di sé, del proprio essere e dei propri bisogni, nonché del modo di guardare gli altri e il mondo. Lo si potrebbe anche interpretare come una sorta di liberazione da un’oppressione latente o evidente. Un’angoscia che limita e devia il comportamento ordinario e quotidiano.
Il finale del libro spiazza un po’ il lettore. Per la fermezza e l’espressività anche troppo colorita. Discordante per certo dallo stile utilizzato fino a quel punto dall’autore. È un finale anomalo, inaspettato, ma certo non privo di significati e significanti. Rappresenta, in un certo qual modo, la conferma della funzione catartica assunta dalla scrittura, dal libro stesso, per Goisis. Quasi una sorta di psicopterapia della narrazione. Di cui il finale ne rappresenta e al contempo ne descrive e racchiude lo scopo. Il cambiamento, la liberazione dello stesso autore ,per tramite della sua esternazione, dalla sofferenza e dal dolore causati dalla perdita e dalla mancanza di un affetto cui non era pronto a rinunciare. Ecco quindi perché il libro appare, a tutti gli effetti, un percorso di terapia. Un cambiamento. Una catarsi.
Pietro Roberto Goisis, Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2020.
L’autore
Pietro Roberto Goisis: medico, psichiatra, psicoanalista. Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, oltre che in Scuole di Specializzazione, Enti pubblici e privati.
1Franco Baldoni, Bruno Baldaro, Carlo Ravasini, Il colloquio clinico, in Trombini G. (a cura di), Introduzione alla clinica psicologica, Zanichelli, Bologna, pp. 103-126, 1994.
2Nina Coltart, Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche, Cortina Raffaello, Milano, 2017.
3Miguel Angel Gonzales Torres, Tempo e Psicoanalisi. La dimensione temporale e la sua relazione con il processo psicoanalitico, Rivista Psicoanalitica, 2007, Anno XVIII, n 2, pp. 229-245. Traduzione dallo spagnolo di Daniela De Robertis.