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Irma Loredana Galgano

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“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”

31 sabato Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Capitalism, capitalismo, economia, geopolitica, politica

La modernità del mondo occidentale è davvero così inscindibile dal sistema capitalistico oppure esistono, o dovrebbero esistere, forme e processi economici differenti, paralleli o alternativi?
Il dibattito è aperto e animato, richiede inoltre uno sguardo a quei paesi e alle rispettive economie che sono emergenti e, a tratti, emulative dei processi economici occidentali senza dimenticare le idee di coloro i quali, al contrario, vedono nelle dinamiche del mondo occidentale l’imitazione di sistemi e strutture pregressi, avanzando il bisogno di allungare indietro lo sguardo fino ai tempi del colonialismo.

CAPITALISMO E CAPITALE

Il capitalismo ha presentato, fin dalle origini, un accentuato dualismo simbolico e concreto. Da un lato è visto come il metodo migliore per lo sviluppo economico di un paese essendo basato su una economia di libero mercato, su una divisione netta tra proprietà privata e pubblica. Un metodo di sviluppo quindi con un potenziale altissimo che ha consentito a paesi, come gli Stati Uniti d’America, di diventare potenze economiche di livello mondiale. D’altro canto però è stato sempre criticato e per le medesime ragioni, generando un sistema nel quale il lavoro diventa lavoro salariato, sfruttato al fine ultimo di ottenere il massimo profitto, utile all’illimitato bisogno di accumulo di capitale.

A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorquando ha iniziato a diffondersi, il capitalismo si è sviluppato in maniera non univoca nei diversi paesi del blocco occidentale, garantendo comunque alti livelli di crescita economica e generando, per restare negli Usa, quello che Elizabeth Warren ha definito “il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto”. Una classe sociale nata e sviluppatasi proprio grazie al lavoro e al profitto generatosi da esso.
Uno sviluppo e una crescita enormi che hanno ingenerato però una grande quantità di problemi dovuti, in larga parte, proprio alle difficoltà inerenti l’impossibilità o quasi di sostenere gli stessi ritmi e i medesimi consumi.

CAPITALISMO, MA A QUALE PREZZO?

È la domanda che si è posta Michel Martone analizzando la situazione economica dell’Italia all’indomani della grande crisi economica che, inevitabilmente, ha riportato l’attenzione sulle dinamiche di un sistema economico, che da tempo ormai strizza l’occhio alle grandi economie libere dei paesi capitalisti per tradizione, ritenuto da molti il principale responsabile.
Oggi, nel mercato globale, per soddisfare le richieste sempre più esigenti, sia sotto il profilo della qualità che sotto quello del costo dei prodotti, si finisce per sacrificare le retribuzioni e la stabilità degli stessi lavoratori.

Ragionamento eguale a quello portato avanti dalla Warren nella sua analisi al sistema americano dove il ceto medio, una volta grande, è ormai ridotto allo stremo. Il passaggio dal capitalismo economico a quello finanziario ha lasciato indietro tanti lavoratori, un’intera classe di lavoratori, il ceto medio appunto, trasformando quelli che erano i punti cardine dello sviluppo economico (risorse e manodopera) in aspetti secondari di un sistema che è tutt’ora in continua espansione e crescita.

L'AFROMODERNITÀ COME CONDIZIONE GLOBALE?

Diversi fenomeni osservabili in Africa hanno indotto Jean e John Comaroff a considerarli prodromi e non imitazioni di quanto sta accadendo in Europa e Nordamerica.
Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, basata sul desiderio degli stati post-coloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali.
Così lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose, che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste ma realizzate con formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni come conflittualità, xenofobia, criminalità, esclusione sociale, corruzione.
Una violenza strutturale sembra dunque accompagnare i più recenti sviluppi di un’economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.

La modernità è sempre stata indissociabile dal capitalismo, dalle sue determinazioni e dalle sue logiche sociali, come ricordava già Amin nel 1989, per quanto ovviamente fascismo e socialismo abbiano provato a costruire delle loro versioni.
Così, la modernità capitalista, si è realizzata, per quanto in maniera molto ineguale, nelle grandi aspirazioni del liberalismo, tra cui l’edificio politico-giuridico della democrazia, il libero mercato, i diritti e la società civile, lo stato di diritto, la separazione tra pubblico e privato, sacro e laico. Ma, per i Comaroff, ha anche privato diverse popolazioni di queste cose, in primis quelle dislocate nei vari teatri coloniali. E, per Elizabeth Warren, il contemporaneo capitalismo finanziario sta privando gli stessi americani e occidentali in generale di queste medesime cose.

IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA

Il capitalismo sembra evolversi in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati. È in questo modo che si sarebbe giunti, nella visione di Shoshana Zuboff, alla attuale forma di capitalismo della sorveglianza. Una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma non coincidente con esso. Si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti.

I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto che i dati più predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto. Come il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il potere strumentalizzante.

Karl Marx paragonava il capitalismo a un vampiro che si ciba di lavoro, nell’accezione attuale il nutrimento non è il lavoro bensì ogni aspetto della vita umana.
Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e delle sue risorse, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza prospererà, per Zuboff, a discapito della natura umana.
In questa nuova forma di capitalismo per certo ci sarà un drastico calo nello sfruttamento delle risorse della natura e questo, per Andrew McAfee, è indubbiamente un aspetto positivo.

IL NUOVO MOTTO SARÀ: DI PIÙ CON MENO?

Per quasi tutta la storia del genere umano la prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra, ma adesso le cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere un modello diverso: il modello del di più con meno.

Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo scatenate durante l’Era industriale sembravano spingere verso una direzione ben precisa: la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta.
Se il capitalismo ha proseguito per la sua strada diffondendosi sempre più, il progresso tecnologico ha permesso di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.

I dati forniti dall’agenzia Eurostat, oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, mostrano come, negli ultimi anni, paesi come Germania, Francia e Italia, hanno visto generalmente stabile, se non addirittura in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come India e Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione.

Attraversiamo una fase nella quale il capitalismo non è molto ben visto da tanti, eppure Andrew McAfee è di tutt’altro parere, convinto che sia stata proprio la combinazione tra innovazione incessante e mercati contendibili, in cui un gran numero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali, a traghettare le economie occidentali nell’era post-picco di consumo delle risorse.

OCCIDENTE O ORIENTE: CHI PERDE E CHI VINCE NELLA GRANDE 
SFIDA DELLA CRESCITA ECONOMICA?

La quota occidentale dell’economia globale continua a ridursi. Il processo sembra inevitabile e inarrestabile poiché altre realtà hanno imparato a emulare le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi anche molto recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7, non da quelle degli E7. Negli ultimi decenni la situazione si è nettamente rovesciata. Nel 2015, ad esempio, le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, gli E7 per il 36.3 per cento.

Nell’analisi di Kishore Mahbubani, la fine della Guerra Fredda non ha significato la definitiva vittoria del mondo occidentale, bensì il suo lento e progressivo declino. La convinzione di essere insuperabile lo ha spinto a sottovalutare, tra l’altro, il risveglio dei due grandi giganti asiatici – Cina e India -, e l’ingresso della Cina nel 2001 nella World Trade Organization.
L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe avuto per forza come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di salari in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale. Tutto ciò, ovviamente, avrebbe significato, per le economie occidentali, un aumento della diseguaglianza.

L’Unione Sovietica vedeva l’America come un avversario sul piano militare. In realtà, l’America era il suo avversario economico, ed è stato il collasso dell’economia sovietica a decretare la vittoria degli Stati Uniti.
Allo stesso modo, per l’America la Cina è un avversario economico, non militare. Più l’America accresce le sue spese militari, meno capace sarà nel lungo andare nel gestire i rapporti con un’economia cinese più forte e più grande.

La sfida che attende gli Stati Uniti tuttavia non è la stessa dell’Europa. Per i primi la sfida è la Cina. Per la seconda è “il mondo islamico sulla porta di casa”.
Finché nel Nord Africa e nel Medio Oriente saranno presenti stati in gravi difficoltà, ci saranno dei migranti che cercano di arrivare in Europa, infiammando i partiti populisti. Una possibile soluzione potrebbe essere lavorare con la Cina e non contro di essa per la crescita e lo sviluppo dell’Africa settentrionale.

PER UN MODELLO DI SVILUPPO ALTERNATIVO

Dunque, ciò che necessita ai paesi economicamente avanzati così come a quelli emergenti sono delle politiche di mutuo soccorso, per così dire. Connettere prospettive differenti con l’obiettivo precipuo di individuare una crescita equilibrata. Individuare un nuovo modello di sviluppo globale, alternativo a quello esistente, capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo nonché di quelli poveri, anche di materie prime.
Idee già espresse nel North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, redatto nel 1980 e basato sostanzialmente su una coppia concettuale ben definita: interdipendenza e interesse comune. Per molti, ancora oggi il Rapporto Brandt rappresenta l’unica vera alternativa sistemica alla globalizzazione neoliberista.

Per Brandt e gli altri commissari si trattava di lavorare per far sì che nel medio termine alcuni interessi, a nord come a sud, si inter-connettessero, secondo la tesi per cui un più rapido sviluppo a sud sarebbe stato vantaggioso anche per la gente del nord. Il pre-requisito di questo tentativo non poteva che essere un maggior aiuto degli Stati industrialmente avanzati a quelli più deboli, sia attraverso forme di finanziamento dirette sia mettendo in campo dei programmi di prestiti a lunga scadenza.

Sulla scia delle idee di Kenneth Arrow, Stglitz e Greenwald invitano a riflettere sui modi possibili di intervento governativo sul mercato per migliorare l’efficienza e il benessere collettivo, tenendo sempre a mente che buona parte degli innalzamenti degli standard di vita sono associati al progresso tecnologico e all’apprendimento.
Nei quattro decenni trascorsi dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Ottanta, le economie socialiste si concentrarono con decisione sulle ricette di solito associate alla crescita, ossia l’accumulazione di capitale e l’istruzione. Presentavano tassi di risparmio e investimento elevati – in molti casi molto più elevati di quelli presenti in Occidente – e investirono seriamente nell’istruzione. Tuttavia, alla fine di questo periodo, presentavano risultati economici inferiori, spesso di molto.
Le economie non centralizzate si erano sviluppate migliorando costantemente la performance economica.

La situazione oggi si sta invertendo. Mahbubani afferma che il dono più grande che l’Occidente ha fatto al Resto del Mondo è stato la potenza del ragionamento logico. Filtrando nelle società asiatiche, lo spirito di razionalità e, potremmo aggiungere, conoscenza occidentale ha portato a un crescendo di ambizione, che a sua volta ha generato i molti miracoli asiatici che stanno sviluppandosi.

ALL'ALBA DI UN NUOVO MONDO

La cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente sembra trovare sempre maggiore consenso e certezze ma, per Angelo Panebianco, è fin troppo scontato affermare che la società aperta occidentale con i suoi gioielli (rule of law, governo limitato, diritti individuali di libertà, democrazia, mercato, scienza) sia oggi a rischio. Un fenomeno caratterizzato dall’indebolimento degli intermediari politici che, secondo Bernard Manin, ha accompagnato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove democrazie di pubblico.

Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea – in Europa -, o latinoamericana – negli Stati Uniti – segnalano quella che viene indicata come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali.
L’idea più diffusa è che siamo entrati in una nuova fase nella quale si assisterà al passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo, nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India e fors’anche Brasile, Indonesia e Sud Africa.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti.
Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, 2019.
Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019. Traduzione di Mario Capello.
Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019.
Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019. Traduzione di Giuseppe Barile.
Angelo Panebianco, Sergio Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2019.
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020. Traduzione di Paolo Lucca.
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018. Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.


Articolo disponibile anche qui


Disclosure: Per i grafici si rimanda alla Bibliografia di riferimento. Per le immagini credits www.pixabay.com


© 2020 – 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

18 domenica Ott 2020

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DavidBidussa, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, GiuliaAlbanese, JacopoPerazzoli, politica, recensione, saggio, Siamostatifascisti

Per riuscire a comprendere fino in fondo cosa è stato il fascismo in Italia è necessario studiare, analizzare, comprendere l’humus politico e sociale nel quale esso ha avuto origine, quella “nuova stagione politica” che ha avuto inizio prima della Grande Guerra, prima della costituzione del Partito fascista, prima del consolidamento della “dittatura a viso aperto”.

Studiare quella che Philippe Burrin ha definito la “preistoria” del fascismo e farlo per mezzo di un’indagine che evidenzi non le differenze bensì le analogie, volta cioè a mettere a fuoco i molti volti di una “famiglia politica” di cui il fascismo italiano è parte.

Ed è esattamente ciò che hanno fatto Giulia Albanese, David Bidussa e Jacopo Perazzoli nel saggio Siamo stati fascisti, composto a partire dalle testimonianze scritte dirette di personaggi protagonisti del tempo e legate insieme dai contributi introduttivi degli stessi autori.

Scritti di Pascoli, Papini, Tolomei, Salvemini, Tamaro, Nenni… e dello stesso Mussolini inducono il lettore a riflettere sul periodo storico oggetto di indagine, sulla mentalità del tempo, sulle idee politiche ma anche sulle azioni poste in essere, sul malessere diffuso e il malcontento generale della popolazione. Focalizzano l’attenzione sulle rivolte e le ribellioni, sulle repressioni, tentate o poste in essere, e sulle azioni intraprese o auspicate.

Il quadro che emerge dalla lettura del testo è uno spaccato dell’Italia di inizio Novecento, la narrazione che di essa si faceva e l’immaginario intorno al quale il fascismo ha rafforzato le sue basi.

Un immaginario costruito in risposta a un rinnovamento profondo del rapporto tra società e istituzioni. Un primo aspetto di questa trasformazione coincide con la progressiva sfiducia nei confronti della democrazia come luogo e come pratica di cittadinanza. Un secondo aspetto, legato al primo, è conseguenza del processo di democratizzazione giunto a un punto di svolta con la Prima guerra mondiale e con il varo del suffragio universale maschile. Un terzo aspetto è raffigurato dal ruolo di costruzione dell’opinione e del discorso antiparlamentare e antidemocratico che assumono e svolgono le avanguardie artistiche e culturali nell’Italia giolittiana.

Molto interessante risulta l’indagine condotta da Giulia Albanese volta al racconto di come il fascismo abbia determinato e cambiato la vita della minoranza socialista costretta all’esilio, interno o esterno, all’adattamento oppure alla rivoluzione. Una storia che si lega a quella, più generale, della trasformazione degli italiani da afascisti o antifascisti a fascisti.

Sottolinea infatti Albanese che, se la maggior parte degli italiani si adeguò progressivamente al fascismo, in gradi e con modalità diverse, o evitò di guardare in faccia ai vinti del fascismo, il fascismo agì però in maniera profonda nella comunità socialista (o comunista) – e in un pezzo del mondo popolare – disarticolandoli grazie ai bandi che colpirono capi lega e singoli esponenti.

L’intervento di Jacopo Perazzoli è focalizzato su quello che doveva essere lo stato d’animo degli italiani nel decennio compreso tra il 1911 e il 1921, cittadini di uno stato che, seppur annoverato tra i vincitori, era uscito decisamente sconfitto e provato dal Primo conflitto mondiale. Difficoltà che andavano a sommarsi a un quadro generale già gravato da profondi squilibri interni (sviluppo industriale non sistemico, alta disoccupazione, gestione latifondista delle terre da coltivare…).

D’altra parte, evidenzia Perazzoli, fu proprio il conflitto a trasfigurare la società italiana che, a guerra conclusa, ambiva a divenire protagonista, superando le rigidità di uno Stato, plasmato dalla classe dirigente liberale a partire dal 1861, incapace di includerla appieno nei suoi meccanismi e nei suoi processi decisionali.

L’attivismo dei ceti popolari si risolse in una risposta da parte della classe dirigente non declinabile in senso forzatamente reazionario; essa cercò di dare soluzioni a quelle inquietudini, a quelle insoddisfazioni, non ricorrendo alla democrazia parlamentare, bensì all’uomo forte, l’unico capace, per lo meno secondo i sostenitori di questa tesi, a dare ordine e speranza al Paese, così da trasformare l’«italietta liberale» in una potenza globale.

David Bidussa riprende le considerazioni di George L. Mosse su quel “nuovo” modo di fare politica di cui il fascismo fu iniziatore. Una politica che si riconosce per il fatto che segna un passaggio: più importante della parola scritta è la parola parlata. Più precisamente: la parola gridata, o forse ancora più precisamente la parola amplificata. Quel linguaggio ha molti autori, vive di molte fonti e del loro intreccio, e si forma nel corso della crisi italiana che non coincide con la guerra o con i turbamenti successivi, no è un qualcosa di precedente, che nasce prima, come ampiamente illustrato nel testo.

Lo scopo del libro è un invito a riflettere sul fatto che quello del fascismo non è ovviamente una parentesi o una deviazione. Ma non è, neppure, un luogo di per sé irripetibile, con forme rinnovate, nella storia italiana.

Bibliografia di riferimento

Giulia Albanese, David Bidussa, Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2020


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Riflessioni sparse sul sistema giudiziario italiano in “La tua giustizia non è la mia” di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo (Longanesi, 2016)

14 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, corruzione, GherardoColombo, giustizia, istruzione, Latuagiustizianonelamia, Longanesi, mafia, PiercamilloDavigo, politica, sistemagiudiziarioitaliano

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È uscito a settembre 2016 con Longanesi il libro di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Un testo che rimanda a una amichevole discussione/dissertazione tra due colleghi, trascritta poi e diventata così un libro. Molto interessanti i contenuti mentre è proprio la struttura che a tratti infastidisce il lettore il quale, volendo esser certo di attribuire al giusto interlocutore questa o quella affermazione, è costretto più volte a ritornare al capoverso dove, di volta in volta come nei dialoghi, viene indicato il titolare delle dichiarazioni. Un dialogo di oltre cento pagine. Per il resto il libro risulta sin da subito molto utile per apprendere sfumature e misteri del sistema giudiziario italiano visto nel suo insieme e confrontato con altri stranieri, in particolare il norvegese, l’americano, il francese e l’inglese.
Dodici punti elaborati nel corso della discussione e una conclusione volta a chiarire se e quanto sia davvero differente il concetto di giustizia dei due autori. Non si chiarisce del tutto quanto effettivamente la giustizia di Colombo sia lontana da quella di Davigo ma leggendo il testo nel lettore vige costante l’impressione che mentre Gherardo Colombo sembra perdersi nei suoi ideali Piercamillo Davigo mantenga sempre attivo un certo pragmatismo. Per leggerli in accordo bisogna attendere il capitolo sulla corruzione, uno dei mali peggiori del nostro Paese, tutt’altro che risolto. Per Davigo «il problema principale è che mentre prima (di Tangentopoli, ndr), pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici» adesso «si usano altri sistemi» che al momento non è ancora chiaro quali siano perché «i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti». Per Colombo prima di Tangentopoli «la corruzione, a livelli elevati, era un sistema» mentre ora «è diffusa a qualsiasi livello» e così tanto «che è praticamente impossibile riuscire a contrastarla attraverso strumenti di controllo».
Se la “élite” politica mostra ai cittadini questo volto non ci si può stupire quando Davigo afferma che «l’Italia è un paese nel quale la regola principale di comportamento verso l’autorità è la slealtà». Sono atteggiamenti, comportamenti, stili di vita che si apprendono quasi inconsciamente. Esattamente come quando a scuola si apprende la «apologia dell’omertà contro l’autorità, che è uno dei pilastri fondanti della cultura mafiosa». La scuola italiana, che Davigo considera «una delle peggiori fucine di illegalità che esistano in questo paese», è in prevalenza incentrata sul confronto/scontro tra i buoni e cattivi, i bravi e i somari, il rigore e le “spie”… E non si può non concordare con Davigo quando sostiene che «bisogna fare in modo che sia conveniente comportarsi bene e sconveniente comportarsi male. Altrimenti l’educazione non serve a niente».
Un ottimo modo per cominciare sarebbe quello di cominciare a “punire” dall’alto, nel senso che i primi a pagare per errori e crimini dovrebbero essere i cosiddetti colletti bianchi. «In Italia i ricchi rubano più dei poveri» eppure «non li prendono mai» e quando succede «gridano all’ingiustizia». Certo. Non ci sono abituati. La soluzione che viene cercata è peggiore di una beffa, è davvero un’ingiustizia considerando che «si cambiano le leggi, si fa di tutto perché non siano puniti». Un sistema talmente marcio che un governo viene indicato come “buono” se abbonda in condoni edilizi e voluntary disclosure. Il che, tradotto in parole più semplici, equivale a dire viva l’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia e i conti nei paradisi fiscali.
«Dopo la stagione di Mani Pulite, stracciato il velo dell’ipocrisia, i politici disonesti sono diventati di singolare improntitudine. Non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi». Viene da chiedersi se l’obiettivo è che smettano di farlo anche gli abusivi e gli evasori. Ammesso che non l’abbiano già fatto.
In La tua giustizia non è la mia Colombo e Davigo affrontano anche il tema dei lunghi processi, delle pene inique, della riforma del sistema giudiziario e carcerario, dell’indulto che rischia di diventare il “condono” giudiziario, delle operazioni sotto copertura, un azzardo secondo Davigo perché va a finire che non si riesce più a capire «se la polizia giudiziaria ha infiltrato qualcuno nella criminalità organizzata o viceversa» e su tanti altri aspetti della giustizia che quotidianamente combatte “il male” e deve farlo qualunque ne sia l’origine. Metaforicamente Colombo si interroga sul perché «da diecimila anni ci diciamo sempre le stesse cose e cerchiamo di risolvere gli stessi problemi». La soluzione va ricercata nell’idea errata «secondo la quale il bene e il male si distinguono per paternità» invece vanno distinti «oggettivamente».
Un libro originale La tua giustizia non è la mia, molto interessante per i contenuti e molto utile per il lettore che apprenderà informazioni e nel contempo sarà invogliato a riflettere su aspetti del sistema giudiziario italiano e suoi suoi operatori che vengono presentati in un modo mentre nascondono dell’altro. Sui politici, sui governi, sugli insegnanti e sugli alunni, sui cittadini, sui criminali…

Gherardo Colombo: è entrato in magistratura nel 1974. È stato consulente delle commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo e sulla mafia. Ha condotto o collaborato a inchieste divenute celebri, tra cui la scoperta della Loggia P2, l’omicidio Ambrosoli, i cosiddetti fondi neri dell’IRI, Mani Pulite. Dal marzo 2005 è stato giudice presso la Corte di Cassazione. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole. È attualmente presidente della casa editrice Garzanti. Nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità.

Piercamillo Davigo: è presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, in servizio alla Seconda sezione penale dal 2005. Entrato in magistratura nel 1978, è stato assegnato al Tribunale di Vigevano con funzioni di giudice, poi dal 1981 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con funzioni di sostituto procuratore. Dal 1992 ha fatto parte del pool di Mani Pulite, trattando procedimenti relativi a reati di corruzione e concussione ascritti a politici, funzionari e imprenditori. Dall’aprile 2016 è presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Fonte biografia autori http://www.longanesi.it

Articolo originali qui

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

Leggi anche – L’Istituto della violenza e il cammino della nonviolenza

Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

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Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

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Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

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