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Irma Loredana Galgano

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Cosa significa fare guerra alla droga? Ipocrisie dati e chiarezza di una lotta impari

31 sabato Dic 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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droga, drug, drugwar, economia, geopolitica, guerra, guerraalladroga, politica, war

Tra le macerie del ponte Morandi c’era anche un carico di droga destinato a uomini di Scampia e Secondigliano. E la ‘ndrangheta provò a recuperare quei 900 chili di hashish nascosti dentro il camion giallo, coinvolto nel crollo del viadotto Polcevera il 14 agosto 2018. Nulla era emerso dagli atti giudiziari e non si sa se il recupero della droga sia mai veramente avvenuto.1 Il punto però è un altro: 900 chili di hashish che viaggiavano indisturbati su un comune mezzo percorrendo una qualsiasi strada.

Nel 2020, a livello globale la diffusione delle droghe è stata:2

  • Cannabis 209.220.000
  • Oppioidi 61.290.000
  • Oppiacei 31.100.000
  • Cocaina 21.470.000 
  • Anfetamine e simili 34.080.000
  • Ecstasy 20.040.000

Un grammo di eroina in Italia, sempre nel 2020, costava tra i 55 e i 68 dollari americani. Un grammo di cocaina aveva un prezzo variabile tra gli 80 e i 100 dollari americani. Il prezzo della cannabis, nelle varianti di marijuana e hashish, rispettivamente compreso tra i 9 e i 22 e i 12 e i 14 dollari americani. Le anfetamine tra i 24 e i 28, mentre le metanfetamine tra i 35 e i 44.

Il prezzo delle droghe varia anche di molto da paese a paese e nelle varie aree del pianeta, risulta quindi molto complesso procedere con il calcolo dell’incasso totale dovuto dalla vendita delle dosi delle varie droghe. Ma viene da sé che si sta parlando di cifre enormi. 

Il dato è in continuo aumento, ma alle 18:21 del 16 dicembre 2022 l’ammontare dei soldi spesi in droga quest’anno era calcolato in 383.307.297.851 dollari.3 Il dato è meramente indicativo del volume globale di denaro e interessi che ruotano intorno al fattore droga. 

È stato stimato che nel 2018 269milioni di persone, equivalenti al 5.4 per cento della popolazione globale compresa tra i 15 e i 64 anni, hanno fatto uso di droga. Per il 2030 si prevede un incremento fino all’ 11 per cento, ovvero 299milioni di persone.4

La carta5 definisce con molta chiarezza quali sono le tratte attraverso le quali si muovono gli ingenti quantitativi di droga e, soprattutto, la direzione verso cui viaggiano: il Vecchio Continente e gli Stati Uniti d’America. 

La “guerra alla droga” condotta dagli USA si è trasformata da metafora in realtà con attività di contrasto in patria, sul confine e all’estero. Non c’è droga che sia stata obiettivo militare più della cocaina. Fu il boom della coca a offrire la motivazione per classificare ufficialmente la droga, dal 1986, come una minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. L’ossessione per la cocaina ha portato alla militarizzazione delle attività di polizia e al ricorso a operazioni militari per questioni interne, facendo sfumare il confine tra scontro bellico e lotta alla criminalità in tutte le Americhe. 

Mentre la guerra statunitense contro la cocaina dilagava, nel Centroamerica la droga contribuiva silenziosamente a finanziare un tipo di guerra molto insolito: la campagna dei ribelli Contras, sostenuti dagli Stati Uniti, in opposizione al governo rivoluzionario sandinista del Nicaragua. Episodio simile alle vicende degli insorti anticomunisti finanziati dai proventi della droga nel Sudest asiatico e in Afghanistan. 

Un’inchiesta congressuale, durata tre anni e guidata dal senatore del Massachusetts John Kerry, rivelò che alcune delle società di trasporto aereo occultamente ingaggiate dalla CIA per spedire rifornimenti ai Contras erano coinvolte anche nel traffico di cocaina.6

Perché si è ritenuto necessario iniziare e protrarre una guerra alla droga perlopiù esterna ai propri confini piuttosto che concentrare ogni sforzo nella cura e assistenza nonché, prioritariamente, nella prevenzione?

Quanto a lungo potevano tollerare i governi occidentali che milioni di dollari si riversassero di continuo in America latina?

Si impara presto che la vita è ben più complessa di come la si immagina, e che Bene e Male sono concetti relativi non assoluti.

Più di qualunque altro presidente, fu George H.W. Bush a usare il suo potere di comandante in capo per reclutare l’esercito americano nella guerra alla droga. Con la fine della Guerra fredda l’entusiasmo con cui il Pentagono assunse compiti di contrasto alla droga aumentò notevolmente. La possibilità di riciclare le tecnologie della Guerra Fredda per le missioni della guerra alla droga offrì un nuovo margine di crescita agli appaltatori della difesa, che faticavano ad adattarsi al mutato ambiente della sicurezza. L’allora senatore Joseph Biden, rispecchiando lo stato d’animo dell’epoca, sostenne nel 1990 che «molte delle tecnologie più promettenti [per il controllo della droga] sono già state sviluppate negli ultimi dieci anni dal dipartimento della Difesa a fini militari» ed esortò l’adozione e disponibilità di queste tecnologie per le attività antinarcotici.7

All’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre, i guerrieri antidroga statunitensi, che tipicamente avevano avuto poco o nulla a che fare con la lotta al terrorismo, si adoperarono per riadattare e ridefinire i loro compiti in un ambiente della sicurezza improvvisamente mutato. I funzionari della DEA (Drug Enforcement Administration) insisterono per integrare la guerra alla droga con la guerra al terrore, con una nuova attenzione al “narcoterrorismo” e sollecitando un focus più accurato sui presunti legami tra traffico di droga e attività terroristiche.8

A fine 2001, il presidente George W. Bush sottolineò quanto sia importante per gli americani sapere che il traffico di droga finanzia le attività del Terrore. E che smettendo di drogarsi si partecipa alla lotta conto il terrorismo.9

La guerra alla droga non è mai cessata eppure nel tempo la produzione e il consumo delle droghe non ha fatto che aumentare, inoltre ci sono altri aspetti e conseguenze dirette di ciò che meritano una riflessione.

Nei primi decenni del XXI secolo, l’America Latina è diventata il capoluogo mondiale degli omicidi, con oltre 2milioni di morti violente dall’anno 2000 in poi. Un numero di gran lunga superiore alle circa 900mila vittime dei conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan. In America Latina vive solo l’8 per cento della popolazione mondiale, ma si è verificato un terzo di tutti gli assassini. Inoltre, le dieci città più violente del mondo sono tutte in quella regione.10

La droga e la guerra alla droga rappresentano solo una parte della risposta, ma soprattutto in paesi come Messico, Colombia e Brasile si tratta di un aspetto cruciale.11

E sul versante opposto, ovvero nei paesi prevalentemente consumatori di droga, cosa accade?

Secondo i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc), ci sono stati oltre 100mila morti per overdose negli Stati Uniti nell’anno compreso tra aprile 2020 e aprile 2021.12

In Italia, i decessi riconducibili all’abuso di sostanze stupefacenti nell’anno 2021 sono 293, in calo rispetto agli anni precedenti ( 2020 – 309; 2019 – 374). La gran parte imputabili all’eroina (135), segue la cocaina (64).13 Negli Stati Uniti invece a causare più decessi è il fentanyl, un oppiode sintetico, 50 volte più potente dell’eroina. 

In Europa, nell’anno 2020, i decessi per overdose sono stati 5.800.14

Nel 2021 tra le persone seguite dai Ser.D. – i servizi pubblici per le dipendenze patologiche del Sistema Sanitario Nazionale – dislocati lungo tutto il territorio nazionale italiano si contano:15

  • 8.790 assistiti che presentavano almeno una patologia psichiatrica.
  • 1.513 positivi al test per l’HIV (sindrome da immunodeficienza acquisita).
  • 572 positivi al test per l’HBV (virus dell’epatite B).
  • 10.505 positivi al test per l’HCV (virus dell’epatite C).
  • Il 4.3 per cento dei soggetti testati è risultato positivo a tutti e tre i test sopra elencati.
  • 15.468 persone ricoverate in ospedale con diagnosi correlate all’uso di droghe, con ricoveri ordinari, e 6.233 accessi al Pronto Soccorso.

Le stime sono tendenzialmente al ribasso, in quanto bisogna considerare che si parla di coloro che sono già seguiti dai Ser.D. sul territorio. Andrebbero quindi aggiunti, o quantomeno tenuti in considerazione tutti gli altri, i consumatori più o meno abituali di droga che non si sono o non si sono ancora rivolti a detti servizi pubblici. 

L’uso di sostanze tra gli adolescenti spazia dalla sperimentazione ai gravi disturbi da uso di sostanze. Tutti gli usi di sostanze, anche quelli sperimentali, mettono gli adolescenti a rischio di problemi a termine come incidenti, liti, rapporti sessuali non voluti, overdose. L’uso di sostanze interferisce anche con lo sviluppo cerebrale. Gli adolescenti sono vulnerabili agli effetti provocati dall’uso di sostanze e corrono un rischio più alto di sviluppare conseguenze a lungo termine come disturbi mentali e scarso rendimento intellettivo. Disturbi dovuti anche all’uso di alcol, cannabis e nicotina.16

Nel 2021 in Italia sono state:17

  • 31.914 le segnalazioni per violazione dell’Art. 75 del DPR n. 309/1990 (possesso ad uso personale di sostanze stupefacenti o psicotrope), riferite a 30.166 persone. Nel 2019 le segnalazioni erano nell’ordine di 53.016. La netta diminuzione è con molta probabilità riferibile alle restrizioni da COVID-19.
  • 30.083 le persone segnalate per reati penali commessi droga-correlati, con un decremento del solo 5 per cento rispetto al 2020. La maggior parte delle denunce ha riguardato la detenzione di cocaina/crack, a seguire cannabis e derivati, eroina/altri oppiacei, sostanze sintetiche.
  • 91.943 i procedimenti penali pendenti per reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope. 186.517 le persone coinvolte, con una media quindi di due ogni provvedimento. I minorenni costituiscono il 4 per cento del totale delle persone coinvolte. In termini assoluti, i valori più elevati si riscontrano in Lazio, Lombardia e Sicilia.
  • 12.594 le persone condannate per reati droga-correlati.

Due dei punti cardine sull’andamento della “guerra alla droga” sono gli arresti e i sequestri. Il tempo però ha insegnato a tutti che l’arresto di piccoli, medi o grandi spacciatori come pure di cosiddetti capi significa solo, alla fin fine, più o meno tempo per la riorganizzazione della filiera di distribuzione e vendita. I sequestri poi, anche laddove riguardano quantità che possono sembrare enormi, vanno o andrebbero valutati nella giusta prospettiva.

Nel 2021 sono stati sequestrati 91.152,45 chilogrammi di droga in Italia.18 Passando dalle circa 59 tonnellate del 2020 alle oltre 91 del 2021 non si può non interrogarsi su cosa stia effettivamente accadendo.

Le forze di polizia potrebbero aver sviluppato tecniche più sofisticate per intercettare i carichi di droga in arrivo e in circolazione nel nostro Paese ma potrebbe anche esserci un costante aumento degli stessi. Oppure entrambe le cose insieme. La droga in arrivo aumenta e con essa aumentano anche le probabilità di essere intercettata. 

Gli analisti dell’antimafia ipotizzano, in linea generale, che per ogni chilo sequestrato riesce a superare le ispezioni un quantitativo superiore di almeno tre volte. La parte che finisce sotto sequestro è un costo fisiologico messo in conto dalle mafie.19

E se i sequestri aumentano e la produzione e il consumo anche non si può non chiedersi se questa “guerra alla droga” la si sta davvero combattendo oppure si vuole solo dare l’impressione di farlo.

È opinione condivisa che in guerra la prima vittima è sempre la verità? Ciò vale anche per la guerra alla droga?

Nel post-Guerra fredda la guerra alla droga ha ormai definitivamente contribuito a spostare l’attenzione degli apparati di sicurezza statali dalle tradizionali minacce militari alle nuove “minacce transnazionali”. La convenzionale distinzione tra il combattere un conflitto bellico e la lotta al crimine si è dissolta sempre più, cambiando la natura stessa della guerra. 

Una guerra contro la droga, anche quando non risulta particolarmente efficace nel reprimere gli stupefacenti, può diventare un mezzo utile per il perseguimento di altri obiettivi strategici, tra cui quello di attaccare e delegittimare i nemici. Ciò fu evidente, per esempio, nel corso della Guerra fredda, allorquando il governo americano accusò la Cina rossa e la Cuba castrista di inondare gli Stati Uniti di droga, mentre in realtà la Cina si era in gran parte ritirata dal narcotraffico internazionale e i cubani più coinvolti in affari erano anticomunisti esiliati a Miami o altrove. Quando la Guerra fredda si concluse e il Congresso e l’opinione pubblica statunitense non furono più disposti a sovvenzionare campagne controinsurrezionali anticomuniste, le agenzie antidroga offrirono agli strateghi di Washington un comodo canale alternativo per finanziare il supporto militare alla guerra del governo colombiano contro le insurrezioni di sinistra.20

Dalla Birmania al Messico, alla Colombia, i narcotrafficanti rafforzano la loro capacità militare per difendere o cercare di conquistare con la violenza i mercati della droga. Negli ultimi anni le dispute tra gruppi rivali che si contendono il territorio hanno imposto un tributo particolarmente pesante al Messico, dove il conto dei morti ha superato quello della maggior parte delle guerre civili. 

Probabilmente le attuali battaglie tra gang della droga rivali possono essere viste come una forma criminale di guerra commerciale, resa possibile sia dalla proibizione delle droghe sia dalla facile disponibilità di arsenali militari e di soldati addestrati dall’esercito.

Bisogna sottolineare che la “guerra per la droga” può interagire strettamente con la “guerra contro la droga”, ed esserne alimentata. Quando un’organizzazione è smantellata o indebolita dalla “guerra contro la droga”, altri narcotrafficanti intraprendono una “guerra per la droga”: una violenta competizione per accaparrarsi i territori rimasti vacanti. Questi combattimenti rappresentano anche delle “guerre grazie alla droga”, nella misura in cui sono finanziati con i proventi dei traffici illeciti.21

Un ulteriore effetto interattivo è che i narcotrafficanti possono lanciare una “guerra per la droga” come reazione difensiva a una “guerra contro la droga”, assassinando giudici, poliziotti e politici. La prassi tipica della maggior parte dei narcotrafficanti è sfuggire allo stato, anziché scontrarvisi con la forza, ma in casi eccezionali si è arrivati anche a una dichiarazione di guerra totale contro lo stato.22

L’attuale guerra contro la droga può anche essere vista come una vicenda di affermazione dello stato. Spesso i leader di governo hanno giustificato le campagne antidroga come uno sforzo per proteggere i cittadini, pacificare gli attori violenti non statali, presidiare i confini e imporre l’ordine pubblico: prerogative dello stato per eccellenza.23

E anche se la guerra contro la droga ha fallito ripetutamente, a volte in maniera sensazionale, la connessa escalation delle attività militari ha ampliato e potenziato notevolmente gli apparati di sicurezza dello stato. Attraverso la guerra contro la droga i controlli di polizia si sono notevolmente estesi, e in alcuni luoghi ciò ha persino comportato la trasformazione dei soldati in poliziotti. Una delle conseguenze è stata quella di mettere in dubbio fin dalle basi la tradizionale distinzione fra combattere una guerra e combattere la criminalità.24

Non bisogna dimenticare poi che la guerra contro la droga ha permesso di riscuotere cospicue entrate grazie a leggi ad ampio raggio per la confisca dei beni, che hanno reso le attività di polizia altamente redditizie.25

E c’è stata una massiccia, anche se non registrata, riscossione informale di entrate nella forma di tangenti e bustarelle, che può essere concepita come un’imposta de facto sul traffico di droga.26

Con l’atto di criminalizzare la droga, lo stato crea la minaccia – gonfiando bruscamente i profitti ricavati dai narcotici e mettendo il business clandestino nelle mani di criminali pesantemente armati -, e ciò a sua volta offre allo stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata. E poiché i trafficanti eliminati e la droga sequestrata che gli stati usano come misura del loro “successo” sono facilmente sostituibili, e politici e burocrati hanno forti incentivi a insistere e intensificare gli sforzi anziché a riconsiderarli, la guerra alla droga continua a trascinarsi.27

Viene allora da interrogarsi su dove ci porterà tutto questo. Si vincono le battaglie della guerra alla droga, ma la guerra non finisce. E la dinamica della guerra si autoperpetua in maniera perversa: le vittorie sul campo pongono involontariamente le condizioni per ampliare il conflitto; chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare. E se il passato può in qualche modo guidarci al futuro, è lecito aspettarsi che le cose continuino così.28

Molti consumatori di eroina americani si sono votati alla droga solo dopo essere diventati dipendenti da antidolorifici oppiodi regolarmente prescritti. Quella contro la droga, tuttavia, è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.29

Ma cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire? Finirebbe anche la violenza?

La legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Probabilmente i narcotrafficanti diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol, ma il loro flusso di entrate più rilevante sarebbe prosciugato. 

Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga, per esempio, le ondate di violenza in Messico. Non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disattese.30

Troppo spesso la politica impregnata di moralismo della guerra alla droga esclude approcci più pragmatici.31

Se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro combattono sempre più “fatti” di droga. Molti di coloro ai quali è è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte. Se è vero che il combattere da strafatti ha una lunga tradizione, oggi sono disponibili più droghe per un numero di soldati più alto che mai, e lo stato continua a essere uno dei principali spacciatori.32

Circa 270milioni di persone nel mondo fanno o hanno fatto uso di droga. È necessario quindi andare oltre l’immagine stereotipata del tossico eroinomane che giace inerme con una siringa infilata in un braccio. Bisogna andare oltre. Molto oltre. 

Rientra nella più assoluta “normalità” l’identikit del cocainomane socialmente inserito emersa dall’attività del centro clinico cocainomani di Brescia: età compresa tra i 25 e 34 anni, con titoli di studio, lavoro e famiglia e con l’abitudine di fare una o più “piste” di cocaina al giorno.33

Nel 2006 il Garante della Privacy bloccò la messa in onda dell’inchiesta condotta dalla troupe della trasmissione televisivaLe Iene – un parlamentare su tre positivo ai test antidroga – perché lesiva dell’immagine e dell’onorabilità dell’istituzione. Dieci anni dopo, sempre i parlamentari italiani hanno bocciato l’ordine del giorno per introdurre cani e test antidroga anche in Parlamento. E allora si è provata la strada già percorsa dal «Sun» nel 2013 che diede origine a quello che fu definito lo “scandalo cocaina a Westminster”: utilizzare i kit pronti all’uso per testare le superfici dei bagni del Parlamento. Le tracce sono state trovate e i test hanno dato esiti positivi.34

Bisognerebbe poi riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga, la quale probabilmente durerà nel tempo, mentre la popolarità di altre sostanze stupefacenti va e viene. 

L’unica cosa che si può prevedere con una qualche certezza è che la droga e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale: l’una farà e rifarà l’altra ancora negli anni e nei decenni a venire.35

E intanto possiamo sempre continuare o iniziare a guardarci intorno, anche su una qualsiasi strada, e chiederci quante auto, camion o altri veicoli imbottiti di droga ci sono intorno a noi. Domandarci quante sono le persone che fanno uso di droga e perché. Chiedere a noi stessi quante sono le persone che realmente combattono la guerra contro la droga e perché lo fanno. 

Perché se non si conosce a fondo e per intero il problema globale della droga e della guerra alla droga si rischia di ridurlo a un mero problema esistenziale di persone con delle fragilità. Invece è un problema globale, di salute pubblica ma anche di geopolitica, di economia e malavita, di malapolitica e corruzione, di scelte e di opportunismo, di vittime e di carnefici. Di Stato e di Mafia. 

1Il Fatto Quotidiano, edizione online 14 dicembre 2022: https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/12/14/ponte-morandi-anche-un-camion-con-900-chili-di-droga-coinvolto-nel-crollo-la-ndrangheta-tento-di-recuperare-il-carico/6905572/

2United Nation World Drug Report 2022: https://www.unodc.org/unodc/en/data-and-analysis/world-drug-report-2022.html

3https://www.worldometers.info/it/ (Fonte: The illegal drugs global business – Frontline, PBS, Specila Report).

4United Nation World Drug Report 2022: https://www.unodc.org/unodc/en/data-and-analysis/world-drug-report-2022.html

5Limes 10/13, 6 novembre 2013: https://www.limesonline.com/le-vie-della-droga/53797

6P.Andreas, Killer High. Storia della guerra in sei droghe, Meltemi Editore, Milano, 2021.

7P. Andreas, op.cit.

8Federal Documents Clearing House, FDCH Political Transcripts, U.S. Senator Orrin Hatch (R-UT) Holds Hearing on International Drug Trafficking and Terrorism, 20 maggio 2003.

9G. Thomson, Trafficking in Terror, in «New Yorker», il 14 dicembre 2015.

10D. Luhnow, Latin America Is the Murder Capital of the World, in «Wall Street Journal», 20 settembre 2018.

11P. Andreas, op.cit.

12«Il Fatto Quotidiano», 20 novembre 2021: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/11/20/la-pandemia-silenziosa-degli-usa-oltre-100mila-morti-di-overdose-in-un-anno-guerra-che-uccide-piu-di-armi-e-incidenti-stradali-messi-insieme/6397531/

13Relazione Annuale Ministero dell’Interno – 2022: https://antidroga.interno.gov.it/wp-content/uploads/2022/06/Relazione-Annuale-2022.pdf

14EMCDDA Relazione europea sulla droga – Tendenze e Sviluppi – 2022: https://www.emcdda.europa.eu/system/files/publications/14644/20222419_TDAT22001ITN_PDF.pdf

15Rapporto Tossicodipendenze del Ministero della Salute 2022 (sui dati del 2021): https://www.salute.gov.it/portale/documentazione/p6_2_2_1.jsp?lingua=italiano&id=3272

16S. Levy, MD MPH Harvard Medical School, MSD Manual luglio 2022 Uso di sostanze negli adolescenti: https://www.msdmanuals.com/it-it/casa/problemi-di-salute-dei-bambini/problemi-negli-adolescenti/uso-e-abuso-di-sostanze-nell-adolescenza

17Presidenza del Consiglio dei Ministri, Relazione Annuale al Parlamento sul Fenomeno delle Tossicodipendenze in Italia, anno 2022: https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie/notizie/relazione-annuale-al-parlamento-2022/

18Relazione della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga (relativa al 2021): https://antidroga.interno.gov.it/wp-content/uploads/2022/06/Sintesi-2022.pdf

19I. Cimmarusti, Mafia Spa, l’import-expot di droga e rifiuti triplica nell’anno della pandemia, «Il Sole 24 Ore», 30 settembre 2021: https://www.ilsole24ore.com/art/mafia-spa-l-import-export-droga-e-rifiuti-triplica-nell-anno-pandemia-AEjf3Pk?refresh_ce=1

20P. Andreas, op.cit.

21P. Andreas, op.cit.

22P. Andreas, op.cit.

23B. Lessing, Making Peace in Drug Wars: Crackdowns and Cartels in Latin America, Cambridge University Press, Cambridge, 2017.

24P. Andreas, R. Price, From Wae-fighting to Crime-fighting. Transforming the American National SecurityState, Oxford University Press, Oxford, 2001.

25B. Lessing, op.cit.

26P. Andreas, The Political Economy of Narco-Corruption in Mexico, in «Current History», vol. 97, 1998.

27E. Bertram, M. Blachman, K. Sharpe, P. Andreas, Drug War Politics: The Price of Denial, University of California Press, Berkley, 1996.

28C. Friesendorf, U.S. Foreign Policy and the War on Drugs: Displacing the Cocaine and Heroin Industry, Routledge, London, 2007.

29P. Andreas, op.cit.

30P. Andreas, op.cit.

31E Bertram et al., op.cit.

32P. Andreas, op.cit.

33S. Ghilardi, La cocaina «sfonda» tra i colletti bianchi, «Corriere della Sera» edizione Brescia, 8 ottobre 2014: https://brescia.corriere.it/notizie/cronaca/14_ottobre_08/cocaina-sfonda-colletti-bianchi-476c2ade-4ebe-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml

34T. Mackinson, La Camera se la tira, tracce di cocaina nel bagno dei deputati – L’inchiesta su FQ Millenium del 2017, «Il Fatto Quotidiano», 6 dicembre 2021: https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/12/06/la-camera-se-la-tira-tracce-di-cocaina-nel-bagno-dei-deputati-linchiesta-su-fq-millennium-del-2017/6417647/

35P. Andreas, op.cit.


Disclosure: Per le immagini, tranne i grafici, credits www.pixabay.com


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“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie”

31 sabato Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, Capitalism, capitalismo, economia, geopolitica, politica

La modernità del mondo occidentale è davvero così inscindibile dal sistema capitalistico oppure esistono, o dovrebbero esistere, forme e processi economici differenti, paralleli o alternativi?
Il dibattito è aperto e animato, richiede inoltre uno sguardo a quei paesi e alle rispettive economie che sono emergenti e, a tratti, emulative dei processi economici occidentali senza dimenticare le idee di coloro i quali, al contrario, vedono nelle dinamiche del mondo occidentale l’imitazione di sistemi e strutture pregressi, avanzando il bisogno di allungare indietro lo sguardo fino ai tempi del colonialismo.

CAPITALISMO E CAPITALE

Il capitalismo ha presentato, fin dalle origini, un accentuato dualismo simbolico e concreto. Da un lato è visto come il metodo migliore per lo sviluppo economico di un paese essendo basato su una economia di libero mercato, su una divisione netta tra proprietà privata e pubblica. Un metodo di sviluppo quindi con un potenziale altissimo che ha consentito a paesi, come gli Stati Uniti d’America, di diventare potenze economiche di livello mondiale. D’altro canto però è stato sempre criticato e per le medesime ragioni, generando un sistema nel quale il lavoro diventa lavoro salariato, sfruttato al fine ultimo di ottenere il massimo profitto, utile all’illimitato bisogno di accumulo di capitale.

A partire dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, allorquando ha iniziato a diffondersi, il capitalismo si è sviluppato in maniera non univoca nei diversi paesi del blocco occidentale, garantendo comunque alti livelli di crescita economica e generando, per restare negli Usa, quello che Elizabeth Warren ha definito “il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto”. Una classe sociale nata e sviluppatasi proprio grazie al lavoro e al profitto generatosi da esso.
Uno sviluppo e una crescita enormi che hanno ingenerato però una grande quantità di problemi dovuti, in larga parte, proprio alle difficoltà inerenti l’impossibilità o quasi di sostenere gli stessi ritmi e i medesimi consumi.

CAPITALISMO, MA A QUALE PREZZO?

È la domanda che si è posta Michel Martone analizzando la situazione economica dell’Italia all’indomani della grande crisi economica che, inevitabilmente, ha riportato l’attenzione sulle dinamiche di un sistema economico, che da tempo ormai strizza l’occhio alle grandi economie libere dei paesi capitalisti per tradizione, ritenuto da molti il principale responsabile.
Oggi, nel mercato globale, per soddisfare le richieste sempre più esigenti, sia sotto il profilo della qualità che sotto quello del costo dei prodotti, si finisce per sacrificare le retribuzioni e la stabilità degli stessi lavoratori.

Ragionamento eguale a quello portato avanti dalla Warren nella sua analisi al sistema americano dove il ceto medio, una volta grande, è ormai ridotto allo stremo. Il passaggio dal capitalismo economico a quello finanziario ha lasciato indietro tanti lavoratori, un’intera classe di lavoratori, il ceto medio appunto, trasformando quelli che erano i punti cardine dello sviluppo economico (risorse e manodopera) in aspetti secondari di un sistema che è tutt’ora in continua espansione e crescita.

L'AFROMODERNITÀ COME CONDIZIONE GLOBALE?

Diversi fenomeni osservabili in Africa hanno indotto Jean e John Comaroff a considerarli prodromi e non imitazioni di quanto sta accadendo in Europa e Nordamerica.
Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, basata sul desiderio degli stati post-coloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali.
Così lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose, che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste ma realizzate con formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni come conflittualità, xenofobia, criminalità, esclusione sociale, corruzione.
Una violenza strutturale sembra dunque accompagnare i più recenti sviluppi di un’economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.

La modernità è sempre stata indissociabile dal capitalismo, dalle sue determinazioni e dalle sue logiche sociali, come ricordava già Amin nel 1989, per quanto ovviamente fascismo e socialismo abbiano provato a costruire delle loro versioni.
Così, la modernità capitalista, si è realizzata, per quanto in maniera molto ineguale, nelle grandi aspirazioni del liberalismo, tra cui l’edificio politico-giuridico della democrazia, il libero mercato, i diritti e la società civile, lo stato di diritto, la separazione tra pubblico e privato, sacro e laico. Ma, per i Comaroff, ha anche privato diverse popolazioni di queste cose, in primis quelle dislocate nei vari teatri coloniali. E, per Elizabeth Warren, il contemporaneo capitalismo finanziario sta privando gli stessi americani e occidentali in generale di queste medesime cose.

IL CAPITALISMO DELLA SORVEGLIANZA

Il capitalismo sembra evolversi in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati. È in questo modo che si sarebbe giunti, nella visione di Shoshana Zuboff, alla attuale forma di capitalismo della sorveglianza. Una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione. Una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma non coincidente con esso. Si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti.

I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto che i dati più predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto. Come il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, così il capitalismo della sorveglianza e i suoi operatori di mercato sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il potere strumentalizzante.

Karl Marx paragonava il capitalismo a un vampiro che si ciba di lavoro, nell’accezione attuale il nutrimento non è il lavoro bensì ogni aspetto della vita umana.
Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e delle sue risorse, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza prospererà, per Zuboff, a discapito della natura umana.
In questa nuova forma di capitalismo per certo ci sarà un drastico calo nello sfruttamento delle risorse della natura e questo, per Andrew McAfee, è indubbiamente un aspetto positivo.

IL NUOVO MOTTO SARÀ: DI PIÙ CON MENO?

Per quasi tutta la storia del genere umano la prosperità è stata strettamente connessa alla capacità di attingere risorse dalla Terra, ma adesso le cose sono cambiate. Negli ultimi anni abbiamo visto emergere un modello diverso: il modello del di più con meno.

Le forze gemelle del progresso tecnologico e del capitalismo scatenate durante l’Era industriale sembravano spingere verso una direzione ben precisa: la crescita della popolazione umana e dei consumi, e il concomitante degrado del pianeta.
Se il capitalismo ha proseguito per la sua strada diffondendosi sempre più, il progresso tecnologico ha permesso di consumare sempre più attingendo sempre meno dal pianeta.

I dati forniti dall’agenzia Eurostat, oggetto di attenzione da parte della Commissione Europea, mostrano come, negli ultimi anni, paesi come Germania, Francia e Italia, hanno visto generalmente stabile, se non addirittura in calo, il loro consumo totale di metalli, prodotti chimici e fertilizzanti.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli con la crescita più rapida, come India e Cina, probabilmente non hanno ancora raggiunto la fase di dematerializzazione.

Attraversiamo una fase nella quale il capitalismo non è molto ben visto da tanti, eppure Andrew McAfee è di tutt’altro parere, convinto che sia stata proprio la combinazione tra innovazione incessante e mercati contendibili, in cui un gran numero di competitor cerca di ridurre le spese per i materiali, a traghettare le economie occidentali nell’era post-picco di consumo delle risorse.

OCCIDENTE O ORIENTE: CHI PERDE E CHI VINCE NELLA GRANDE 
SFIDA DELLA CRESCITA ECONOMICA?

La quota occidentale dell’economia globale continua a ridursi. Il processo sembra inevitabile e inarrestabile poiché altre realtà hanno imparato a emulare le best practices dell’Occidente.
Fino a tempi anche molto recenti, gran parte della crescita globale è venuta dalle economie del G7, non da quelle degli E7. Negli ultimi decenni la situazione si è nettamente rovesciata. Nel 2015, ad esempio, le economie del G7 hanno contribuito alla crescita globale per il 31.5 per cento, gli E7 per il 36.3 per cento.

Nell’analisi di Kishore Mahbubani, la fine della Guerra Fredda non ha significato la definitiva vittoria del mondo occidentale, bensì il suo lento e progressivo declino. La convinzione di essere insuperabile lo ha spinto a sottovalutare, tra l’altro, il risveglio dei due grandi giganti asiatici – Cina e India -, e l’ingresso della Cina nel 2001 nella World Trade Organization.
L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale degli scambi avrebbe avuto per forza come risultato una massiccia “distruzione creativa” e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.

Nell’agosto 2017, una relazione della Banca dei Regolamenti Internazionali confermava che l’ingresso di nuovi lavoratori provenienti dalla Cina e dall’Europa Orientale nel mercato del lavoro era la causa di salari in declino e della contrazione della quota del lavoro nel reddito nazionale. Tutto ciò, ovviamente, avrebbe significato, per le economie occidentali, un aumento della diseguaglianza.

L’Unione Sovietica vedeva l’America come un avversario sul piano militare. In realtà, l’America era il suo avversario economico, ed è stato il collasso dell’economia sovietica a decretare la vittoria degli Stati Uniti.
Allo stesso modo, per l’America la Cina è un avversario economico, non militare. Più l’America accresce le sue spese militari, meno capace sarà nel lungo andare nel gestire i rapporti con un’economia cinese più forte e più grande.

La sfida che attende gli Stati Uniti tuttavia non è la stessa dell’Europa. Per i primi la sfida è la Cina. Per la seconda è “il mondo islamico sulla porta di casa”.
Finché nel Nord Africa e nel Medio Oriente saranno presenti stati in gravi difficoltà, ci saranno dei migranti che cercano di arrivare in Europa, infiammando i partiti populisti. Una possibile soluzione potrebbe essere lavorare con la Cina e non contro di essa per la crescita e lo sviluppo dell’Africa settentrionale.

PER UN MODELLO DI SVILUPPO ALTERNATIVO

Dunque, ciò che necessita ai paesi economicamente avanzati così come a quelli emergenti sono delle politiche di mutuo soccorso, per così dire. Connettere prospettive differenti con l’obiettivo precipuo di individuare una crescita equilibrata. Individuare un nuovo modello di sviluppo globale, alternativo a quello esistente, capace di coniugare le esigenze dei paesi industrializzati, quelle dei paesi in via di sviluppo nonché di quelli poveri, anche di materie prime.
Idee già espresse nel North-South, a Program for Survival, noto come Rapporto Brandt, redatto nel 1980 e basato sostanzialmente su una coppia concettuale ben definita: interdipendenza e interesse comune. Per molti, ancora oggi il Rapporto Brandt rappresenta l’unica vera alternativa sistemica alla globalizzazione neoliberista.

Per Brandt e gli altri commissari si trattava di lavorare per far sì che nel medio termine alcuni interessi, a nord come a sud, si inter-connettessero, secondo la tesi per cui un più rapido sviluppo a sud sarebbe stato vantaggioso anche per la gente del nord. Il pre-requisito di questo tentativo non poteva che essere un maggior aiuto degli Stati industrialmente avanzati a quelli più deboli, sia attraverso forme di finanziamento dirette sia mettendo in campo dei programmi di prestiti a lunga scadenza.

Sulla scia delle idee di Kenneth Arrow, Stglitz e Greenwald invitano a riflettere sui modi possibili di intervento governativo sul mercato per migliorare l’efficienza e il benessere collettivo, tenendo sempre a mente che buona parte degli innalzamenti degli standard di vita sono associati al progresso tecnologico e all’apprendimento.
Nei quattro decenni trascorsi dalla fine degli anni Quaranta alla fine degli anni Ottanta, le economie socialiste si concentrarono con decisione sulle ricette di solito associate alla crescita, ossia l’accumulazione di capitale e l’istruzione. Presentavano tassi di risparmio e investimento elevati – in molti casi molto più elevati di quelli presenti in Occidente – e investirono seriamente nell’istruzione. Tuttavia, alla fine di questo periodo, presentavano risultati economici inferiori, spesso di molto.
Le economie non centralizzate si erano sviluppate migliorando costantemente la performance economica.

La situazione oggi si sta invertendo. Mahbubani afferma che il dono più grande che l’Occidente ha fatto al Resto del Mondo è stato la potenza del ragionamento logico. Filtrando nelle società asiatiche, lo spirito di razionalità e, potremmo aggiungere, conoscenza occidentale ha portato a un crescendo di ambizione, che a sua volta ha generato i molti miracoli asiatici che stanno sviluppandosi.

ALL'ALBA DI UN NUOVO MONDO

La cupa profezia sull’incipiente tramonto dell’Occidente sembra trovare sempre maggiore consenso e certezze ma, per Angelo Panebianco, è fin troppo scontato affermare che la società aperta occidentale con i suoi gioielli (rule of law, governo limitato, diritti individuali di libertà, democrazia, mercato, scienza) sia oggi a rischio. Un fenomeno caratterizzato dall’indebolimento degli intermediari politici che, secondo Bernard Manin, ha accompagnato il passaggio dalle vecchie democrazie di partito alle nuove democrazie di pubblico.

Crisi demografica e difficoltà di fronteggiare le conseguenze sociali, economiche e politiche dell’immigrazione extraeuropea – in Europa -, o latinoamericana – negli Stati Uniti – segnalano quella che viene indicata come una crisi morale che sta minando la fiducia in sé stesse delle società occidentali.
L’idea più diffusa è che siamo entrati in una nuova fase nella quale si assisterà al passaggio dalla breve stagione dell’unipolarismo americano a un nuovo multipolarismo, nel quale Stati Uniti e Cina, pur essendo le potenze più forti, dovranno comunque fare i conti con altre potenze, quali Russia, India e fors’anche Brasile, Indonesia e Sud Africa.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti.
Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, 2019.
Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019. Traduzione di Mario Capello.
Andrew McAfee, Di più con meno. La sorprendente storia di come abbiamo imparato a prosperare usando meno risorse, Egea UniBocconi, Milano, 2020. Traduzione di Giuseppe Maugeri.
Jacopo Perazzoli (a cura di), Per un modello di sviluppo alternativo. A quarant’anni dal Rapporto Brandt, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2019.
Kishore Mahbubani, Occidente e Oriente chi vince e chi perde, Bocconi Editore, Milano, 2019. Traduzione di Giuseppe Barile.
Angelo Panebianco, Sergio Belardinelli, All’alba di un nuovo mondo, Società Editrice il Mulino, Bologna, 2019.
Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020. Traduzione di Paolo Lucca.
Joseph E. Stiglitz, Bruce C. Greenwald, Creare una società dell’apprendimento. Un nuovo approccio alla crescita, allo sviluppo e al progresso sociale, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2018. Traduzione di Maria Lorenza Chiesara.


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Disclosure: Per i grafici si rimanda alla Bibliografia di riferimento. Per le immagini credits www.pixabay.com


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“Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

18 domenica Ott 2020

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DavidBidussa, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, GiuliaAlbanese, JacopoPerazzoli, politica, recensione, saggio, Siamostatifascisti

Per riuscire a comprendere fino in fondo cosa è stato il fascismo in Italia è necessario studiare, analizzare, comprendere l’humus politico e sociale nel quale esso ha avuto origine, quella “nuova stagione politica” che ha avuto inizio prima della Grande Guerra, prima della costituzione del Partito fascista, prima del consolidamento della “dittatura a viso aperto”.

Studiare quella che Philippe Burrin ha definito la “preistoria” del fascismo e farlo per mezzo di un’indagine che evidenzi non le differenze bensì le analogie, volta cioè a mettere a fuoco i molti volti di una “famiglia politica” di cui il fascismo italiano è parte.

Ed è esattamente ciò che hanno fatto Giulia Albanese, David Bidussa e Jacopo Perazzoli nel saggio Siamo stati fascisti, composto a partire dalle testimonianze scritte dirette di personaggi protagonisti del tempo e legate insieme dai contributi introduttivi degli stessi autori.

Scritti di Pascoli, Papini, Tolomei, Salvemini, Tamaro, Nenni… e dello stesso Mussolini inducono il lettore a riflettere sul periodo storico oggetto di indagine, sulla mentalità del tempo, sulle idee politiche ma anche sulle azioni poste in essere, sul malessere diffuso e il malcontento generale della popolazione. Focalizzano l’attenzione sulle rivolte e le ribellioni, sulle repressioni, tentate o poste in essere, e sulle azioni intraprese o auspicate.

Il quadro che emerge dalla lettura del testo è uno spaccato dell’Italia di inizio Novecento, la narrazione che di essa si faceva e l’immaginario intorno al quale il fascismo ha rafforzato le sue basi.

Un immaginario costruito in risposta a un rinnovamento profondo del rapporto tra società e istituzioni. Un primo aspetto di questa trasformazione coincide con la progressiva sfiducia nei confronti della democrazia come luogo e come pratica di cittadinanza. Un secondo aspetto, legato al primo, è conseguenza del processo di democratizzazione giunto a un punto di svolta con la Prima guerra mondiale e con il varo del suffragio universale maschile. Un terzo aspetto è raffigurato dal ruolo di costruzione dell’opinione e del discorso antiparlamentare e antidemocratico che assumono e svolgono le avanguardie artistiche e culturali nell’Italia giolittiana.

Molto interessante risulta l’indagine condotta da Giulia Albanese volta al racconto di come il fascismo abbia determinato e cambiato la vita della minoranza socialista costretta all’esilio, interno o esterno, all’adattamento oppure alla rivoluzione. Una storia che si lega a quella, più generale, della trasformazione degli italiani da afascisti o antifascisti a fascisti.

Sottolinea infatti Albanese che, se la maggior parte degli italiani si adeguò progressivamente al fascismo, in gradi e con modalità diverse, o evitò di guardare in faccia ai vinti del fascismo, il fascismo agì però in maniera profonda nella comunità socialista (o comunista) – e in un pezzo del mondo popolare – disarticolandoli grazie ai bandi che colpirono capi lega e singoli esponenti.

L’intervento di Jacopo Perazzoli è focalizzato su quello che doveva essere lo stato d’animo degli italiani nel decennio compreso tra il 1911 e il 1921, cittadini di uno stato che, seppur annoverato tra i vincitori, era uscito decisamente sconfitto e provato dal Primo conflitto mondiale. Difficoltà che andavano a sommarsi a un quadro generale già gravato da profondi squilibri interni (sviluppo industriale non sistemico, alta disoccupazione, gestione latifondista delle terre da coltivare…).

D’altra parte, evidenzia Perazzoli, fu proprio il conflitto a trasfigurare la società italiana che, a guerra conclusa, ambiva a divenire protagonista, superando le rigidità di uno Stato, plasmato dalla classe dirigente liberale a partire dal 1861, incapace di includerla appieno nei suoi meccanismi e nei suoi processi decisionali.

L’attivismo dei ceti popolari si risolse in una risposta da parte della classe dirigente non declinabile in senso forzatamente reazionario; essa cercò di dare soluzioni a quelle inquietudini, a quelle insoddisfazioni, non ricorrendo alla democrazia parlamentare, bensì all’uomo forte, l’unico capace, per lo meno secondo i sostenitori di questa tesi, a dare ordine e speranza al Paese, così da trasformare l’«italietta liberale» in una potenza globale.

David Bidussa riprende le considerazioni di George L. Mosse su quel “nuovo” modo di fare politica di cui il fascismo fu iniziatore. Una politica che si riconosce per il fatto che segna un passaggio: più importante della parola scritta è la parola parlata. Più precisamente: la parola gridata, o forse ancora più precisamente la parola amplificata. Quel linguaggio ha molti autori, vive di molte fonti e del loro intreccio, e si forma nel corso della crisi italiana che non coincide con la guerra o con i turbamenti successivi, no è un qualcosa di precedente, che nasce prima, come ampiamente illustrato nel testo.

Lo scopo del libro è un invito a riflettere sul fatto che quello del fascismo non è ovviamente una parentesi o una deviazione. Ma non è, neppure, un luogo di per sé irripetibile, con forme rinnovate, nella storia italiana.

Bibliografia di riferimento

Giulia Albanese, David Bidussa, Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2020


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la disponibilità e il materiale


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“Il Paradiso dei folli” di Matteo Incerti (Imprimatur, 2014)


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Riflessioni sparse sul sistema giudiziario italiano in “La tua giustizia non è la mia” di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo (Longanesi, 2016)

14 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, corruzione, GherardoColombo, giustizia, istruzione, Latuagiustizianonelamia, Longanesi, mafia, PiercamilloDavigo, politica, sistemagiudiziarioitaliano

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È uscito a settembre 2016 con Longanesi il libro di Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo La tua giustizia non è la mia. Dialogo tra due magistrati in perenne disaccordo. Un testo che rimanda a una amichevole discussione/dissertazione tra due colleghi, trascritta poi e diventata così un libro. Molto interessanti i contenuti mentre è proprio la struttura che a tratti infastidisce il lettore il quale, volendo esser certo di attribuire al giusto interlocutore questa o quella affermazione, è costretto più volte a ritornare al capoverso dove, di volta in volta come nei dialoghi, viene indicato il titolare delle dichiarazioni. Un dialogo di oltre cento pagine. Per il resto il libro risulta sin da subito molto utile per apprendere sfumature e misteri del sistema giudiziario italiano visto nel suo insieme e confrontato con altri stranieri, in particolare il norvegese, l’americano, il francese e l’inglese.
Dodici punti elaborati nel corso della discussione e una conclusione volta a chiarire se e quanto sia davvero differente il concetto di giustizia dei due autori. Non si chiarisce del tutto quanto effettivamente la giustizia di Colombo sia lontana da quella di Davigo ma leggendo il testo nel lettore vige costante l’impressione che mentre Gherardo Colombo sembra perdersi nei suoi ideali Piercamillo Davigo mantenga sempre attivo un certo pragmatismo. Per leggerli in accordo bisogna attendere il capitolo sulla corruzione, uno dei mali peggiori del nostro Paese, tutt’altro che risolto. Per Davigo «il problema principale è che mentre prima (di Tangentopoli, ndr), pacificamente, si rubava per fare carriera all’interno dei partiti politici» adesso «si usano altri sistemi» che al momento non è ancora chiaro quali siano perché «i processi relativi alle elezioni primarie non li abbiamo ancora fatti». Per Colombo prima di Tangentopoli «la corruzione, a livelli elevati, era un sistema» mentre ora «è diffusa a qualsiasi livello» e così tanto «che è praticamente impossibile riuscire a contrastarla attraverso strumenti di controllo».
Se la “élite” politica mostra ai cittadini questo volto non ci si può stupire quando Davigo afferma che «l’Italia è un paese nel quale la regola principale di comportamento verso l’autorità è la slealtà». Sono atteggiamenti, comportamenti, stili di vita che si apprendono quasi inconsciamente. Esattamente come quando a scuola si apprende la «apologia dell’omertà contro l’autorità, che è uno dei pilastri fondanti della cultura mafiosa». La scuola italiana, che Davigo considera «una delle peggiori fucine di illegalità che esistano in questo paese», è in prevalenza incentrata sul confronto/scontro tra i buoni e cattivi, i bravi e i somari, il rigore e le “spie”… E non si può non concordare con Davigo quando sostiene che «bisogna fare in modo che sia conveniente comportarsi bene e sconveniente comportarsi male. Altrimenti l’educazione non serve a niente».
Un ottimo modo per cominciare sarebbe quello di cominciare a “punire” dall’alto, nel senso che i primi a pagare per errori e crimini dovrebbero essere i cosiddetti colletti bianchi. «In Italia i ricchi rubano più dei poveri» eppure «non li prendono mai» e quando succede «gridano all’ingiustizia». Certo. Non ci sono abituati. La soluzione che viene cercata è peggiore di una beffa, è davvero un’ingiustizia considerando che «si cambiano le leggi, si fa di tutto perché non siano puniti». Un sistema talmente marcio che un governo viene indicato come “buono” se abbonda in condoni edilizi e voluntary disclosure. Il che, tradotto in parole più semplici, equivale a dire viva l’abusivismo edilizio, la cementificazione selvaggia e i conti nei paradisi fiscali.
«Dopo la stagione di Mani Pulite, stracciato il velo dell’ipocrisia, i politici disonesti sono diventati di singolare improntitudine. Non hanno smesso di rubare, hanno smesso di vergognarsi». Viene da chiedersi se l’obiettivo è che smettano di farlo anche gli abusivi e gli evasori. Ammesso che non l’abbiano già fatto.
In La tua giustizia non è la mia Colombo e Davigo affrontano anche il tema dei lunghi processi, delle pene inique, della riforma del sistema giudiziario e carcerario, dell’indulto che rischia di diventare il “condono” giudiziario, delle operazioni sotto copertura, un azzardo secondo Davigo perché va a finire che non si riesce più a capire «se la polizia giudiziaria ha infiltrato qualcuno nella criminalità organizzata o viceversa» e su tanti altri aspetti della giustizia che quotidianamente combatte “il male” e deve farlo qualunque ne sia l’origine. Metaforicamente Colombo si interroga sul perché «da diecimila anni ci diciamo sempre le stesse cose e cerchiamo di risolvere gli stessi problemi». La soluzione va ricercata nell’idea errata «secondo la quale il bene e il male si distinguono per paternità» invece vanno distinti «oggettivamente».
Un libro originale La tua giustizia non è la mia, molto interessante per i contenuti e molto utile per il lettore che apprenderà informazioni e nel contempo sarà invogliato a riflettere su aspetti del sistema giudiziario italiano e suoi suoi operatori che vengono presentati in un modo mentre nascondono dell’altro. Sui politici, sui governi, sugli insegnanti e sugli alunni, sui cittadini, sui criminali…

Gherardo Colombo: è entrato in magistratura nel 1974. È stato consulente delle commissioni parlamentari di inchiesta sul terrorismo e sulla mafia. Ha condotto o collaborato a inchieste divenute celebri, tra cui la scoperta della Loggia P2, l’omicidio Ambrosoli, i cosiddetti fondi neri dell’IRI, Mani Pulite. Dal marzo 2005 è stato giudice presso la Corte di Cassazione. Nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole. È attualmente presidente della casa editrice Garzanti. Nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità.

Piercamillo Davigo: è presidente di sezione della Corte Suprema di Cassazione, in servizio alla Seconda sezione penale dal 2005. Entrato in magistratura nel 1978, è stato assegnato al Tribunale di Vigevano con funzioni di giudice, poi dal 1981 alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano con funzioni di sostituto procuratore. Dal 1992 ha fatto parte del pool di Mani Pulite, trattando procedimenti relativi a reati di corruzione e concussione ascritti a politici, funzionari e imprenditori. Dall’aprile 2016 è presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Fonte biografia autori http://www.longanesi.it

Articolo originali qui

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Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

Leggi anche – L’Istituto della violenza e il cammino della nonviolenza

Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

Leggi anche – La trappola dell’8 marzo

Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

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Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

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