Le sfide che la contemporaneità pone al futuro prossimo sono segnate dal rapido invecchiamento della popolazione mondiale. I numeri degli anziani e dei grandi anziani stanno inevitabilmente crescendo anche all’interno delle comunità diasporiche. La longevità può essere osservata con sguardo ambivalente: da un lato essa rappresenta la realizzazione di un ideale di lunga vita, mentre dall’altro è foriera di una crisi demografica, che si manifesta attraverso la molteplicità di cure che una popolazione sempre più anziana esige. Il “peso” della cura si riverbera nelle politiche nazionali del welfare e sui dispositivi di solidarietà intergenerazionale sui quali le comunità si fondano, rischiando il collasso del tessuto economico e sociale (M. Scaglioni, F. Diodati, (eds) Antropologia dell’invecchiamento e della cura: prospettive globali, Ledizioni, Milano, 2021).
Ma come vivono i diretti interessati la longevità? Severgnini ha analizzato a fondo l’universo della terza età e lo ha fatto attraverso lo sguardo indagatore della giovinezza mitigato dalla saggezza filosofica. Il risultato è un libro basato sull’imperativo dont’ become an old bore – non diventare un vecchio barbogio. Le regole da seguire sono semplici: «Essere attenti e generosi; coltivare l’ironia, antiruggine dell’anima; farsi venire buone idee, frequentando persone intelligenti e bei luoghi; farsi domande, anche sull’attualità; non rinchiudersi in un tempio domestico regolato da piccole ossessioni; pensare che il mondo non finisce con noi. Farsi una domanda: Quanti anni mi restano? E poi pensare: quegli anni voglio usarli bene».
Per Severgnini alcuni giovani oggi sono annichiliti perché nessuno li ascolta, altri trovano strade e porte chiuse da chi dovrebbe aprirle per loro: «È una buona cosa che alla mia età – ho 68 anni – ci si senta utili e attivi. Ma questo non deve avvenire a spese dei nostri figli e nipoti».
A causa dell’invecchiamento e dei fattori associati si può andare incontro a una mancanza di rinforzi positivi e a un fallimento nella capacità di adattamento per cui i tratti di personalità maladattativi e/o sub-clinici diventano manifesti – per esempio aumenta l’invidia e il senso di grandiosità personale tra i narcisisti di successo come risultato di un pensionamento forzato, oppure si ha un importante declino dell’umore (B. De Sanctis, B. Basile, L’applicazione della schema therapy in terza età, in Cognitivismo clinico, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2020). I giovani di oggi, invece, non soffrono solo di una difficoltà psicologica comune a tutta l’adolescenza, ma anche di una dimensione culturale legata alla cultura del nostro tempo in rapporto al futuro. Quindi c’è una sofferenza doppia, con la seconda più grave della prima (U. Galimberti, intervista a «Il Piccolo», 30 ottobre 2019).
Incrementare la produttività a tutti i costi ci ha portati a un sistema sociale nel quale l’uomo sembra esistere solo in funzione del lavoro e così i giovani che ne sono privi si annichiliscono e gli anziani che ne sono ormai fuori si deprimono e si arrabbiano perché si sentono inutili. Severgnini non ha la presunzione di proporre un modello di vita alternativo ma ha la capacità di suggerire un pensiero alternativo: «siamo esseri umani nel tempo, non pezzi di legno nella corrente».
Il libro
Beppe Severgnini, Socrate, Agata e il futuro. L’arte di invecchiare con filosofia, Rizzoli, Milano, 2025
Articolo pubblicato sul numero di aprile 2025 della Rivista cartacea Leggere:Tutti
Trentasei donne afghane raccontano, in lingua dari, ognuna con parole e stili propri, la loro vita fino alla primavera del 2022, il momento in cui Zainab Entezar, regista e scrittrice afghana, costretta dalla latitanza, chiude le interviste e la raccolta degli scritti delle attiviste. Donne impegnate a dare conto delle loro esistenze e delle loro proteste spinte dall’urgenza di un evento ben preciso: il ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan il 15 agosto 2021, dopo venti anni di presenza occidentale.
A quasi quattro anni dal ritorno dei talebani al potere, la situazione nel paese resta complessa e contraddittoria. L’Afghanistan è tornato a una situazione che presenta molte somiglianze al periodo pre-invasione occidentale. Il movimento islamico fondamentalista, colpito dagli Usa perché accusato di connivenza con Al-Qaida e il suo leader Osama Bin Laden, annunciava poche ore dopo la presa di Kabul la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan e il ripristino come legge vigente della Sharïa, nella sua interpretazione più rigida e fondamentalista. Se da un lato i talebani hanno oggi consolidato il loro controllo sul territorio, dall’altro la loro gestione del paese continua a essere segnata da problemi economici, violazioni dei diritti umani e isolamento internazionale. Relativo. Perché, in realtà, Pakistan e Iran hanno ristabilito i contatti con il governo talebano. La Cina poi è stato il primo paese non musulmano a cercare un dialogo con i talebani. Il Qatar ha giocato un ruolo centrale nelle negoziazioni tra i talebani e gli Stati Uniti, mentre la Turchia ha offerto assistenza tecnica e supporto nella gestione dell’aeroporto di Kabul. La Federazione russa, pur non riconoscendo formalmente il governo dell’Emirato, ha ospitato delegazioni talebane e mantenuto contatti regolari, vedendo l’Afghanistan come un punto strategico nella sua politica verso l’Asia centrale.1
Macrory nel 1986 ha prodotto il più puntuale resoconto della peggiore disfatta delle forze britanniche nel XIX secolo, ovvero l’annientamento di un corpo di spedizione inviato a occupare Kabul nel 1839 e massacrato nel corso di una precipitosa ritirata meno di tre anni dopo.2 Molte sono le analogie tra gli eventi del gennaio del 1842 e la fine dei venti anni di guerra in Afghanistan. Ancora una volta, dopo una vittoria sul campo rapida e schiacciante e una lunga occupazione, l’Afghanistan è stato abbandonato in tutta fretta e malamente.3
All’inizio sembrava tutto semplice: abbattere il regime dei talebani, eliminare i militanti di Al-Qaida e i loro campi di addestramento dal paese, catturare o uccidere Osama Bin Laden. Poi si scivola verso obiettivi vaghi, troppo ambiziosi, mai del tutto condivisi tra opinione pubblica, decisori politici e gerarchia militare. Un conto è fare nation building in Germania o in Giappone dopo aver vinto una terribile guerra convenzionale, di cui quei Paesi e la loro gente sapevano di portare la responsabilità maggiore. Tutt’altra cosa ricostruire l’Afghanistan, il cui regime è stato rovesciato nel 2001 per colpe che molti dei suoi abitanti ignoravano e ignorano tuttora, e dove non si è mai riusciti, dopo la “liberazione” dai primi talebani, a formare una classe dirigente adeguata.4
Il 15 agosto 2021 ha segnato il ritorno, per l’ennesima volta in quella terra, della negazione finanche dei più elementari diritti. A tale negazione corrisponde una prassi oppressiva, intimidatoria e violenta di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso. In Fuorché il silenzio trentasei donne ci parlano di questo, di come sono arrivate a quell’agosto 2021, radicando i loro racconti in una realtà storica e sociale che non è separabile dal percorso delle loro vite.
Si stima che l’80% della popolazione afgana sia composta da musulmani sunniti, adepti della scuola di giurisprudenza di Hanafi. Il gruppo etnico dei pashtun è, per la maggior parte, composto da sunniti, a eccezione della tribù pashtun-turi i cui membri sono sciiti. Il resto della popolazione (19%), in particolare il gruppo etnico hazara, professa per lo più la religione musulmana sciita. L’1% della popolazione segue altre religioni. Religione, tradizione e i codici islamici, insieme con le pratiche tradizionali e tribali, svolgono un ruolo fondamentale tanto nella disciplina della condotta personale quanto della risoluzione delle controversie.5
I pashtun sono attualmente, ma anche storicamente, il gruppo etnico politicamente più potente in Afghanistan. Tuttavia, nonostante la loro passata dominazione politica, non hanno mai costituito un gruppo omogeneo e molti sono diventati vittime di oppressione da parte delle élites delle loro stesse comunità. Eppure, nonostante le loro divisioni interne, si sono spesso uniti in un unico fronte quando si è trattato di opporsi a interferenze esterne o poste in essere da elementi non pashtun del governo centrale.6 Sono il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan (circa il 42% della popolazione). La struttura sociale dei pashtun si basa sul codice pashtunwali, che è un misto tra un codice tribale d’onore e interpretazioni locali della legge islamica. La risoluzione di dispute e le decisioni prese a livello locale sono affidate al consiglio tribale jirga, mentre la donna è esclusa da qualsiasi questione che non riguardi la vita domestica.
Le altre etnie sono: tagiki, hazara, uzbeki, aimak, turkmeni, baluchi, e altre etnie minoritarie.
I tagiki , secondo gruppo maggioritario del paese, sono molto attivi politicamente. Dal 1992 al 1996 sono stati anche alla guida del governo del paese, in seguito agli accordi di Peshawar. Destituiti allorquando i talebani hanno iniziato la guerra civile. Si sono sempre mostrati contrari alla partecipazione dei talebani ai negoziati di pace, temendo ripercussioni per l’impegno in prima linea svolto contro i medesimi. Timori confermati prima dalle persecuzioni subite durante il governo dei talebani poi dall’uccisione (a settembre 2011) di Burhanuddin Rabbani, ex Presidente, leader del partito Jamiat-e-Islami e Presidente dell’Alto Consiglio per la Pace dell’Afghanistan.
In tutto l’Afghanistan, dopo la ripresa del potere dei talebani nel 2021, le donne hanno reagito alla repressione con un’ondata di proteste, alle quali si è risposto con intimidazioni, violenza, arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture fisiche e psicologiche. Le donne arrestate per “corruzione morale” sono sottoposte a isolamento, pestaggio e altre forme di tortura e sono detenute in condizioni inumane, in celle sovraffollate e con poco accesso al cibo, all’acqua e, nei mesi invernali, al riscaldamento.
Obbligo di indossare hijab o burka, chiusura delle scuole secondarie, tutoraggio maschile, accesso ridotto all’università e divieto di accesso a parchi e giardini: questa è la vita delle donne afgane dal ritiro delle forze Nato dal paese. Il regime, che nel momento dell’insediamento aveva cercato di mostrare una faccia moderata, sta portando avanti il proprio progetto a piccoli passi, ma costanti.7
Il filo che lega le trentasei donne del libro è la protesta contro la situazione descritta. Le manifestazioni contro la negazione dei diritti fondamentali e la richiesta di libertà. Le testimonianze raccolte da Zainab Entezar sono, per la maggiore, di donne che nessuno conosceva, ma che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, opponendosi alle armi dei talebani per le strade di Kabul, Herat, Mazar-e Sharif. Ognuna arriva a quel 15 agosto da un percorso proprio, da famiglie di diversa estrazione sociale, culturale ed economica. Nessuna è uguale all’altra ma la richiesta di libertà le accomuna indissolubilmente.
La curatrice del libro invita a una lettura senza pregiudizi, ovvero priva della proiezione dei nostri modelli: quello femminista prima di tutto, poi quello culturale e religioso ma, anche, priva di qualsiasi idea rigida di libertà ed emancipazione. Queste donne hanno avuto delle opportunità durante i non meno tragici venti anni di governo filo-occidentale: spesso con fatica, ma molte hanno potuto studiare. Hanno innescato e vissuto di fatto un’occasione di cambiamento all’interno di un sistema tradizionalista di grande rigidità. Ora tutto è stato loro nuovamente sottratto e negato con violenza. Ma quanto avevano sognato e realizzato non può più essere cancellato, né con la paura né con la tortura. Ormai è parte del loro essere.
Turbano i racconti delle violenze, del carcere, della latitanza, delle torture, ma a impressionare più nel profondo è la resistenza di queste donne, la capacità di andare oltre sé stesse per un “bene” che probabilmente non vedranno realizzato ma rispetto al quale sono disposte anche a mettere a rischio la propria vita.
Non c’è condanna per le donne le quali, pur trovandosi nella loro medesima condizione, scelgono il silenzio. C’è invece forte risentimento verso coloro che, stando al sicuro, pretendono di parlare al posto loro, che si appropriano della loro voce in modo strumentale, per ambizione o tornaconto personale.
Le militanti di RAWA – l’Organizzazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane – sono per la gran parte insegnanti. La scuola per le ragazze è il loro campo di battaglia. È questo l’unico canale per raggiungere le donne, parlare con loro, conquistare la loro fiducia. Aprirsi un varco nelle loro vite blindate, far capire che un’altra vita è possibile, che hanno diritti e che possono combattere per realizzarli. RAWA nasce nel 1977, dopo un decennio di libertà, effervescenza intellettuale, nascita di idee e movimenti, soprattutto nelle Università. In quaranta anni hanno sempre combattuto opponendosi ai regimi dell’URSS e all’Armata Rossa, alla guerra e alla violenza dei mujaheddin, al fondamentalismo e alle sue regole, ai talebani e al regime dei signori della guerra e della droga, vetrina dell’occupazione USA-NATO. Affrontare i talebani non è una novità, lo hanno già fatto negli anni Novanta. Forse oggi i talebani sono più forti e più feroci di allora, hanno più alleati. Ma anche le donne lo sono, le giovani donne che hanno creduto e che credono in un altro futuro possibile, e che non si lasceranno “disarmare”.8
Libro
Daniela Meneghini (a cura di), Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Jouvence, Sesto San Giovanni (Milano), 2024. Testi raccolti da Zainab Entezar. Rivista da Asef Soltanzadeh. Edizione italiana a cura di Daniela Meneghini.
Titolo originale: Azadi seda-ye zananedarad (The womanly voice of freedom), Bita Book, Danimarca, 2023.
1L’Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica internazionale, 15 agosto 2024.
2P. Macrory, Retreat from Kabul: The Catastrophic British Defeat in Afghanistan, 1842, Lyons Press, Essex, Connecticut, 2007 (prima edizione 1986).
3M. Mondini, Ritirata da Kabul. Un’analisi della sconfitta in Afghanistan, in Il Bo-Live – Università di Padova, 7 settembre 2021.
4G. Breccia, Missione fallita, Il Mulino, Bologna, 2020.
5CIA, The World Factbook – Afghantistan, 01 agosto 2017, disponibile dal 28 agosto 2017 all’indirizzo:https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/af.html
6Minority Rights Group, Afghanistan Overview, Pashtun, luglio 2018, disponibile in data 17 settembre 2019 all’indirizzo:http://minorityrights.org/minorities/pashtuns/
7S. Carradori, A. Pistolesi, Dossier/Iran, Afghanistan e Golfo: i diritti violati delle donne, in Atlante Guerre, 22 novembre 2022.
8C. Cella, Afghanistan: la guerra delle donne, custodi di dignità e speranza, in NAD – Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, n. 1/2022.
Il fenomeno delle violenze e degli abusi sui minori è un problema complesso, caratterizzato da una pluralità di sfaccettature, per affrontare il quale sono necessari un esame accurato e un approccio complessivo, che prendano le mosse da un’effettiva conoscenza del fenomeno, nelle sue dimensioni e nelle sue tendenze evolutive.
Nel primo semestre del 2024, quindi nel solo periodo compreso tra gennaio e giugno, in Italia sono stati registrati 20.502 reati commessi ai danni di minori. Si rileva, inoltre, un sensibile aumento di alcuni reati in particolare: abuso dei mezzi di correzione o di disciplina, maltrattamento contro familiari e conviventi, sottrazione di persone incapaci, violenza sessuale di gruppo. Dalla disamina dei dati emerge che, anche tra i minori, sono soprattutto i giovanissimi infra-quattordicenni quelli che continuano a veder minacciato il proprio sviluppo psico-fisico dagli odiosi reati in argomento. Sono delitti che intaccano profondamente la sfera emotiva e psicologica, con ovvie conseguenze dannose a breve, medio e lungo termine non solo sulla personalità dell’abusato, ma anche sull’intero sistema relazionale e sociale con il quale il soggetto si troverà a interagire. Un ulteriore conseguenza a lungo termine, frequentemente riscontrata, riguarda la reiterazione dei comportamenti violenti, osservati durante l’infanzia, nelle relazioni vissute in età adulta. Il minore, quindi, potrebbe tendere a subire simili violenze anche nelle relazioni future, ovvero a metterle in atto, interpretando il ruolo di carnefice. Gli episodi di violenza sono perpetrati sui minori prevalentemente da parte di uomini italiani, di età compresa tra i 35 e i 64 anni (63% dei casi) e per il restante 37% da parte di stranieri. Si tratta di dati ricorrenti negli ultimi anni, che individuano soprattutto negli uomini, con requisiti anagrafici abbastanza definiti, i soggetti verosimilmente più intrisi di quella “sottocultura” che affonda le proprie radici nell’ignoranza, nella negazione della ragione, e che traduce la paura del confronto nella violenza, fisica e psicologica, riproponendo modelli passati, che si credevano ormai superati.1
Negli ultimi anni è aumentata la consapevolezza dell’esistenza di fenomeni di maltrattamento, sfruttamento sessuale e abuso a danno di minorenni, effettuati da persone appartenenti a organizzazioni umanitarie, associazioni, istituzioni religiose, scuole e quindi in posizione fiduciaria e autorevole. La scuola è un’istituzione educativa dove il principio universalmente riconosciuto del “non fare alcun male” (do not harm) dovrebbe raggiungere la sua massima espressione; pertanto ha la precisa responsabilità sia di minimizzare il rischio di nuocere ai bambini e agli adolescenti ai quali si rivolge, sia di saper rispondere efficacemente in caso di preoccupazioni e sospetti.2 E, in generale, ciò avviene. Fortunatamente. Ma i casi di cronaca che raccontano il contrario, purtroppo, aprono una dolorosa feritoia su rischi a volte troppo sottovalutati.
Scudeletti sceglie di indagare proprio questo aspetto della violenza sui minori, facendolo diventare la colonna portante dell’intero libro.
Il protagonista Alessandro Onofri, ex videoreporter di guerra, viene chiamato in causa dall’amica Sarah la quale è preoccupata per il particolare e apparentemente inspiegabile comportamento dei figli. Quello che scopre lo porta a indagare più a fondo di quella che sembra sempre più una ramificazione strutturata di un piano ben congegnato, ma votato al male e all’orrore.
Un male e un orrore che sono già entrati nella vita di Onofri, un tormento della sua esistenza che egli ora rivive tra sogni e flashback che si mescolano alla narrazione degli accadimenti recenti.
L’indagine sembra ingrandirsi sempre più coinvolgendo persone che si trovano anche in luoghi fisici distanti fra loro e collegando punti oscuri sulla rete del mondo sommerso del Deep web.
Il Deep web è costituito dall’insieme di tutti i contenuti presenti sulla rete che non sono indicizzati dai motori di ricerca. Le risorse web sommerse rappresentano il 96% dell’intero world wide web, per un volume 500 volte superiore a quello del Surface web. Il Dark web è un sottoinsieme del Deep web, a cui è possibile accedere solo tramite particolari software, poiché si basa su tipologie di reti sovrapposte alla rete internet tradizionale, individuate generalmente con il nome di Darknet. Il Dark web racchiude al suo interno un insieme di contenuti accessibili pubblicamente, ospitati in particolari siti web dall’indirizzo IP nascosto (la navigazione è quindi anonima), o contenuti privati scambiati in un network chiuso di computer. Il lato oscuro della rete è composto principalmente da attività di natura illecita.3
Negli abissi della rete si nasconde l’illecito e con esso, molto spesso, il male. Il medesimo indagato a fondo da Scudeletti il quale, ne La laguna del disincanto, sembra invitare il lettore a una profonda riflessione su quanto sta accadendo oggi, su dove si nasconde il male e su quanto esso può moltiplicarsi all’infinito pur rimanendo pressoché invisibile.
Possibile che la progressione tecnologica e digitale invece di “portare avanti” anche la cultura e la conoscenza si trascini antichi rituali e credenze che sembrano riportare tutti indietro di millenni?
L’uomo è “un animale cerimoniale”.4 Allora ogni tentativo di spiegare il rituale come forma di vita cerimoniale non può ignorare questo fatto: che il rituale, come forma di un rito, si connette sempre in modo problematico e un atto – magico, miracoloso, politico, spirituale, o altro – che si presume efficace.5 I rituali sono anche un efficace metodo di condizionamento mentale, uno strumento per fare proselitismo e indottrinamento. La mente umana è facilmente influenzabile. Quella di un minore lo è anche di più di quella di un adulto.
La manipolazione mentale agisce su processi, strutture e sistemi che garantiscono a un individuo il senso di unicità e continuità nel tempo e danno stabilità alla relazione con il sé e con l’ambiente, minando la sua volontà e riducendo il suo senso critico. Occorre creare un canale privilegiato di comunicazione che veicoli le informazioni distorsive nella mente del manipolato in modo tale che queste vengano accolte acriticamente e inserite nella narrativa personale, sostituendo quella autentica, entrando così a far parte della sua identità.6 Fatto già di per sé grave ma che acquista connotazioni ancor più inquietanti allorquando il “manipolato” è una persona sotto la cui responsabilità si trovano dei minori. Uno scenario allarmante su cui il libro di Scudeletti accende i riflettori.
Il libro
Massimiliano Scudeletti, La laguna del disincanto, Arkadia Editore, Cagliari, 2024.
1Report: Minorenni Vittime di Abusi, Servizio Analisi Criminale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale, Roma novembre 2024.
2Report: A scuola si cresce sicuri! Una guida per costruire un Sistema di Tutela di studenti e studentesse da ogni forma di abuso e maltrattamento, Save The Children in collaborazione con E.D.I. Accendiamo i diritti, aprile 2018.
3I. Antozzi, Cosa sono Deep Web e Dark Web: navigare in sicurezza, in Osservatori.net – digital innovation, 23 ottobre 2024.
4L. Wittgenstein, Bemerkungen über Frazers “The Golden Bough”, D. Reidel Publ. Co., Dordrecht, 1967.
5S. Benvenuto, Il rituale ossessivo e sul rituale in generale, in Psychiatry on line Italia, 10 marzo 2017.
6E. Tizzani, A.M. Giannini, La manipolazione mentale nei gruppi distruttivi, in Rivista di criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. V – N° 2 – Maggio-Agosto 2011.
La vita, gli impegni, il lavoro, le emozioni, le relazioni… tutto corre lungo un sottilissimo filo chiamato equilibrio. Cosa accade quando questo si spezza, si rompe, si frantuma? Si perdono i riferimenti e tutto viene rimesso in gioco e in discussione. Una rottura, una separazione. Ecco il punto di disequilibrio che ha scosso l’autore al punto da cercare in sé stesso prima e nel mondo poi una nuova origine.
Per guardare in sé stesso con uno sguardo nuovo Oscar Di Montigny sente il bisogno di allontanarsi dai luoghi a lui noti e inizia il suo viaggio verso mete sconosciute e paesaggi inesplorati ma, sopratutto, verso il suo io interiore.
Un viaggio di cinquantotto giorni sulle vette himalayane alla ricerca di risposte lo hanno condotto, invece, verso domande più grandi. La sua vita era sempre stata caratterizzata da una bulimia del fare, anni interi trascorsi nella ricerca costante di una performance il cui risultato comprovasse il suo presunto valore.
Nelle remote regioni dell’Himalaya egli riscopre invece il potere della riflessione e della solitudine, i veri motori che hanno stimolato la sua trasformazione personale.
La solitudine è un’assenza di tempo. Non è l’isolamento di fatto, né l’incomunicabilità di un contenuto di coscienza, ma l’unità indissolubile fra l’essere umano e l’atto del suo esistere. Il mondo odierno sembra ossessionato dalla velocità: centrare sempre più obiettivi in sempre meno tempo.
La nostra idea di tempo come unità quantizzabile e misurabile è piuttosto recente e legata all’idea di produttività. Il concetto di «il tempo è denaro» spiega molto bene la concezione di una vita consacrata alla produzione di beni e al guadagno. E il tempo dedicato alla produzione quantificabile dei beni, diventa esso stesso un qualcosa da misurare. Società ed economia sembrano ruotare, quindi, intorno al concetto di tempo proprio mentre in fisica esso viene del tutto annullato.
I fisici sono addirittura arrivati a sostenere l’idea dell’inesistenza del tempo. La teoria loop quantum gravity descrive come si muovono le cose l’una rispetto all’altra, senza alcuna necessità di parlare di tempo. Concepito per la vita quotidiana, il tempo smette di essere necessario quando si studiano le strutture più generali del mondo. Si ha quindi una soggettivazione del concetto di tempo.1 Anche in antropologia il tempo è un costrutto sociale. Il fondamento delle categorie di tempo è il ritmo della vita sociale. Le attività organizzate in ciò che usiamo chiamare “lo scorrere del tempo” sono un costrutto storico-culturale e il calendario scandisce il ritmo delle attività collettive regolarizzandole.2
Dietro tutto questo c’è un distacco, della cultura occidentale, dalla natura e una paura del suo arresto. Ciò che manca alla nostra civiltà è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica delle auto-sospensioni. E potrebbe essere proprio questa brama dell’oltre ogni limite, chiamata anche “il male dell’infinito”, la fonte dei problemi che affliggono la società moderna.
I lockdown in piena pandemia hanno arrestato gli ingranaggi di questa poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e intoccabile.3 Eppure allora tutti hanno dovuto ripensare i propri spazi e tempi all’insegna di un’unico e collettivo scopo: rallentare.
Una vita slowdettata dalla necessità che richiama un differente stile di vita praticato da sempre più persone in tutto il mondo ormai. Un approccio lento alla vita che promuove benessere e sostenibilità ambientale.
Oltre il novanta per cento degli italiani si dichiara pronto a cambiare il proprio stile di vita per una società più sostenibile, di questi, circa il quaranta per cento è pronto ad attuare un cambio radicale delle proprie abitudini, dalla mobilità ai consumi alimentari.4
Ma l’identità non è soltanto l’atto di partire da sé per attuare un cambiamento, essa è anche un tornare a sé. La necessità di occuparsi di sé. Che è una responsabilità enorme, a volte un peso schiacciante. E allora ci si chiede se “fuggire” alla solitudine, intesa come la cura di sé, non rappresenti anche un alleggerimento di questa responsabilità.5 Discorso valido sia a livello individuale che collettivo.
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. Una convivenza utile tra gli esseri umani è possibile solo a patto di realizzare una convivenza utile con la natura. Aspetto questo da sempre trascurato nell’Antropocentrismo imperante nella società dei civilizzati.6
A parte il coprifuoco durante la seconda guerra mondiale, la società italiana, prima dei lockdown pandemici, non aveva mai avuto esperienza diretta di provvedimenti così drastici e restrittivi. Per noi le chiusure o sospensioni sono abitualmente ascrivibili a periodi di riposo, svago, ferie, vacanze. Sono una pausa dalla routine a scopo ricreativo. In genere, un momento piacevole, atteso e gradito.
L’ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo shabbath degli ebrei sono invece “traumi” che una cultura impone a se stessa. Auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Un valido modo per riconoscere che, oltre a se stessa, vi sono altre realtà – la terra, la foresta, … – da cui si ricavano risorse e che potrebbero esistere benissimo anche senza gli esseri umani.
L’ekyusi è molto simile allo “shabbath della terra” ebraico. Sono fasi necessarie e ineludibili della visione che BaNande ed ebrei hanno – o avevano – della propria storia. In entrambi i casi, si tratta della conquista di un territorio, di una sorta di progresso, e in entrambi i casi è previsto non solo il suo arresto, ma un ritorno alle condizioni iniziali, pre-agricole, pre-culturali. Per tutto il periodo della sospensione è vietato coltivare la terra, si possono solo raccoglierne i frutti spontanei. Un retrocedere a un’economia della raccolta.
Se le vie di fuga sono la soluzione che alcune culture hanno trovato per salvare se stesse, la ricerca introspettiva potrebbe essere la via di fuga necessaria all’uomo per salvare sé stesso.
Lo scopo della meditazione zen, per esempio, è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali. L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani: fisico, emozionale, psicologico. Studi e ricerche hanno evidenziato benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.7
Se fisici e antropologi hanno cercato di ridimensionare l’importanza attribuita al tempo, i sostenitori del vivere lento sembrano invece focalizzarsi sul dargli un ritmo diverso. E così la lentezza si contrappone alla frenesia, ma il tempo rimane comunque il punto centrale dell’esistenza. A esso viene attribuito un valore immenso. E proprio alla qualità del tempo la capacità di determinare il benessere.
Dunque la filosofia dello slow living sembra essere: ogni cosa ha il suo tempo. Non più corse in affanno e ansia per riuscire ad adempiere a tutte le mansioni ma dare il giusto tempo e spazio per ogni attività e, soprattutto, per curare se stessi. Sembra dunque il tempo di ritrovare se stessi, da soli, in quello che Levinas chiamava la solitudine dell’esistente. Isolarsi per il fatto di esistere, ecco il vero significato dell’essere. E allora anche il concetto di tempo cambierà, perché esso non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri.8
Eppure rallentare non è facile come sembra. La velocità tutto sommato affascina. È una scarica di adrenalina. È uno strumento utile a distrarci dalle domande più grandi e profonde sulla propria esistenza, sul proprio essere.
Ed è esattamente quello che è accaduto a Di Montigny: isolarsi per ritrovarsi. Perdersi nell’ignoto per incontrare sé stesso. Cercando risposte a domande originarie scoprire la necessità di rincorrere interrogativi più grandi.
Studiando l’antica arte kintsugi di riparare gli oggetti con l’oro per valorizzarne le imperfezioni, l’autore apprende la capacità di valorizzare, in qualche modo, anche tutte le esperienze negative della vita, trasformandole in parti integranti e preziose della propria esistenza. In effetti questa è proprio l’essenza dell’arte kintsugi: ricostruire un oggetto assemblando le parti rotte, evidenziando le incrinature e creando una nuova forma ancora più forte della precedente. Lo stesso lavoro che l’individuo può svolgere su sé stesso, sviluppando la propria capacità di resilienza e trasformando le proprie ferite in punti di forza di un percorso di superamento.9
Nonostante il trauma della sua rottura, grazie alle sapienti mani dell’artigiano il vaso è divenuto l’occasione per una nuova creazione. I punti di rottura sono stati dipinti d’oro, le cicatrici sono diventate poesie.10
Oscar Di Montigny scrive un libro sotto forma di diario. Un registro narrativo molto intimistico che inizia già nelle parti narrative che introducono ogni capitolo.
Tenere un diario costituisce una pratica molto diffusa proprio perché lo scrivere di sé risponde al bisogno di sopravvivenza, al di là della memoria.11 Rispetto al vivere inteso come un flusso ininterrotto di eventi inafferrabili nella loro singolarità, infatti, affidare sé stessi alla scrittura significa sottrarsi alla fugacità, in virtù del carattere indelebile della parola scritta. Il diarista cattura e descrive circostanze particolari, idiosincratiche di un tempo e di una cultura, rilette dal suo sguardo personale. Questo intimo bisogno di dare forme all’informe, di selezionare un momento ritagliandolo dal vivere quotidiano, accompagna da sempre l’esistenza dell’uomo.12 I diari raccontano la storia dell’individuo intessuta di legami affettivi e familiari, del contesto culturale di riferimento, delle norme sociali condivise, dei vincoli e delle opportunità del suo tempo.
Il bisogno di intimità si ricollega a sua volta alla solitudine: il diario, infatti, costituisce o sostituisce amici, affetti, amori, “presenze assenti” o da proteggere assumendo su di sé scoperte, messe a nudo che, se venissero esplicitate, provocherebbero ferite.13
A tratti sembra che Montigny non abbia intrapreso il suo viaggio e la scrittura del diario per nascondersi bensì per aprirsi al mondo ma, soprattutto, a sé stesso. Imparare a conoscersi e a riconoscersi, anche e soprattutto attraverso i luoghi visitati che entrano nella sua anima e un po’ anche in quella del lettore attraverso le numerose immagini che vanno a comporre il libro. Istantanee di un pezzo di vita nel quale l’autore ha deciso e preferito la sospensione all’effervescenza.
Nella nostra cultura l’attaccamento dei corpi individuali all’ordine simbolico della società dipende dall’effervescenza collettiva legata a riunioni di gruppo e all’interazione che ne consegue. I simboli collettivi hanno la capacità di entrare nelle menti e nei sentimenti degli individui e di conservarsi qui efficacemente: ciò perché le energie in gioco sono legate a quello che le persone sentono come sacro per la vita del gruppo.14
Il sistema capitalistico ci spinge a vedere gli altri come concorrenti o nemici generando così una sorta di solitudine strutturale. Ma, in questo mondo in cui la comunità sembra essere sempre più sfuggente, il bisogno di appartenenza è rimasto. E, laddove l’individuo non riesce da solo a creare l’effervescenza collettiva, sono intervenute le imprese a colmare questo vuoto.
La cosiddetta “economia della solitudine” ha iniziato a espandersi sempre più per donare a chiunque ne faccia richiesta quel lieto inebriamento che otteniamo quando facciamo qualcosa con gli altri. Attività di ogni tipo, che spaziano dallo sport ai viaggi, necessarie a inebriarsi e non avere neanche il tempo di pensare alla propria solitudine.
Dunque la filosofia dello slow living sembra essere: ogni cosa ha il suo tempo. Non più corse in affanno e ansia per riuscire ad adempiere a tutte le mansioni ma dare il giusto tempo e spazio per ogni attività e, soprattutto, per curare se stessi.
Esattamente ciò che sembra aver fatto Oscar Di Montigny durante il suo viaggio, raccontandolo nel suo diario, diventato poi il libro Un nuovo equilibrio.
Il libro
Oscar Di Montigny, Un nuovo equilibrio. Viaggio nell’ultimo luogo segreto, Rizzoli Libri – Mondadori Libri, Milano, 2024.
1L. Armano, Il significato umano del tempo. Categorizzazioni culturali, Dialoghi Mediterranei, 1 novembre 2018.
2M. Mauss, É. Durkheim, De quelques formes primitives de classification, Presses Universitaires de Framce, Paris, 2017.
3M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.
4Il sistema di welfare, dal 56° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, 2022.
5E. Levinas, Il Tempo e l’Altro, Mimesis Editore, 2021.
«Quando ho pubblicato la mia prima foto su Instagram, non sapevo che stavo accendendo la scintilla di qualcosa di straordinario. Condividevo scorci di vita, istantanee del mio quotidiano, senza immaginare che dietro ogni like, ogni commento, ci fosse un cuore che batteva all’unisono con il mio. E così, giorno dopo giorno, ho iniziato a percepire la magia di questa connessione: decine, centinaia, migliaia, poi milioni di persone che trovavano ispirazione e conforto nelle mie immagini e parole.»
Con queste parole Elisabetta Galimi introduce il suo libro al lettore, raccontando della sua avventura si Instagram iniziata per caso. Un percorso non privo di ostacoli ma costellato di dubbi, critiche e momenti di incertezza.
L’avvento dei social network ha creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. È cambiato il rapporto con sé stessi e soprattutto con gli altri, più diretto ma molto più mediato. Le nuove tecnologie ci consentono di incontrare molte persone ma tendono a togliere il sapore, la genuinità, l’originalità e la freschezza alla relazione interpersonale vera e propria. Ci danno maggiori possibilità di partecipare alla vita sociale condividendo anche luoghi virtuali, ma non è detto che questa partecipazione sia poi effettiva. Internet può rappresentare un mezzo per fuggire dalla realtà quotidiana e rifugiarsi in un mondo illusorio e gratificante, in cui l’elemento virtuale permette di superare le difficoltà che possono caratterizzare le interazioni reali.1
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione rappresentano tecnologie del sé corporeo e mentale che modificano le pratiche e i contesti attraverso i quali l’essere umano dà forma a sé stesso e costruisce il proprio sapere. Facebook, per esempio, è diventato nell’infosfera – lo spazio globale nel quale si scambiano informazioni – la metafora stessa del sapere inteso come rete di informazioni e conoscenze interconnesse, condivise ed elaborate dalle persone in forma sociale e comunitaria. Il condividere il proprio sapere, le proprie informazioni, opinioni e conoscenze attraverso i social network chiama il singolo a una responsabilità del proprio sé sociale.2
Elisabetta Galimi ha percepito fin dal suo esordio su Instagram il peso della responsabilità per la condivisione social di istantanee della sua esistenza. Emulazione, condizionamento e fraintendimenti sono all’ordine del giorno e in progressivo aumento con l’incremento dei followers. Eppure non è di questo che ha voluto parlare nel suo libro, piuttosto dei risvolti positivi di questa esperienza, dando così origine a una vera e propria guida per diventare influencer di Instagram partendo da zero.
I dati di fatto sono impressionanti. Secondo le ricerche di Marketing Hub, a livello globale, l’influencer marketing vale 21 miliardi di dollari. Le aziende utilizzano in misura sempre crescente questa forma di comunicazione e sponsorizzazione dei propri prodotti perché i consumatori ci credono e la amano. Gli utilizzatori dei social media danno più retta agli influencer che ai giornalisti. Alcuni sono convinti che i brand siano più in condizione dei Governi di risolvere problemi sociali. Diventare influencer oggi è il sogno di molti, giovani e meno giovani.3
Il motivo per cui Galimi ha deciso di scrivere il successo a portata di like è proprio insito in questo comune e diffuso desiderio di diventare influencer, ovvero per rispondere in maniera corale alle tante richieste di informazione e suggerimenti che la stessa riceve via social.
«Molti non capiscono che dietro ogni profilo di successo esiste un mondo, sconosciuto ai più, composto da procedure che spaziano dalla scelta dell’outfit alla location dove realizzare i contenuti, dallo studio di strategie comunicative e di marketing, mirate alla costruzione di una solida community, all’analisi attiva e costante dei trend e dei mercati, al fine di stare il più possibile al passo coi tempi. Pensa che per costruire un Reel di nemmeno un minuto, o anche solo per scattare una semplice fotografia da condividere come Post, la media di tempo di realizzazione si aggira intorno alle cinque ore.»
Eppure, in base ai risultati dello studio di Maximilian Beichert, dietro il marketing digitale non vi è solo il lavoro di preparazione ma anche il potere nascosto che lega influencer, politica e brand. Nel panorama del marketing digitale, pochi fenomeni hanno dimostrato la stessa capacità di modellare opinioni e spostare l’ago della bilancia dell’informazione pubblica come l’influencer marketing. Se un tempo questo strumento era appannaggio esclusivo delle aziende, oggi rappresenta un’arma fondamentale anche per le campagne politiche, come dimostrato dall’ascesa del movimento Make America Great Again e dall’uso strategico dell’influencer marketing da parte di Donald Trump.4 La Generazione Z, e non solo essa, si affida sempre più ai social per documentarsi anche su salute, benessere e medicina. Questo fenomeno porta con sé vantaggi e sfide: se da un lato gli influencer possono sensibilizzare e avvicinare i giovani a tematiche di interesse sanitario, dall’altro la disinformazione può avere un impatto negativo sulla salute pubblica.5
Il libro di Elisabetta Galimi non affronta, se non marginalmente, questa tipologia di problematiche, soffermandosi invece maggiormente sugli aspetti tecnico-pratici del lavoro di influencer e sul marketing a esso correlato, osservando il tutto sia dal punto di vista dei potenziali “influenzatori” che da quello di aziende e brand.
Il libro
Elisabetta Galimi con Alessandro Lucino, Il successo a portata di like. Strategie e suggerimenti per guadagnare si Instagram partendo da zero, Sonda Edizioni, Milano, 2024.
1S. Soderini, Lo sviluppo dei social network: fenomeno di socializzazione o alienazione?, in State of Mind di inTHERAPY, 23 novembre 2015.
2E. Isidori, Quando l’educazione è nella rete: per una pedagogia del social networking, in MeTis – Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni – 10 gennaio 2020.
3E. Sassoon, Influencer marketing, e oltre, in Harvard Business Review – Italia, maggio 2024.
4B. Orlando, Influencer, politica e brand: il potere nascosto dietro il marketing digitale, in UniBocconi.it, 24 febbraio 2025.
5#Formazione Mangiagalli Journal Club 2025, Social, influencer e informazione scientifica per la Generazione Z, in policlinico.mi.it, 20 gennaio 2025.
I nostri antenati amavano e desideravano come noi? È possibile educare all’amore del bene e del vero, per aprirsi alla fiducia e alla speranza, mentre si sgretola il tessuto della vita sociale? Sono alcuni degli interrogativi affrontati in un decalogo di saggi sui molteplici e camaleontici volti della passione: dalle attrazioni fatali ai legami morbosi, dal qualunquismo erotico al sesso mercenario, dall’immaturità affettiva alla violenza di genere. Un’indagine che dal passato arriva al presente e quasi lo travalica verso il futuro.
«Non fu l’amore, no. Furono i sensi curiosi di noi, nati pel culto del sogno… E l’atto rapido, inconsulto, ci parve fonte di misteri immensi.»1
Il libro si apre al lettore con questa citazione di Gozzano che davvero sembra racchiudere l’essenza dell’indagine compiuta dall’autore, presentata come istantanee dei migliori e dei peggiori profili dei sensi e dei sentimenti, talora brutali e criminali, eppure vagheggiati e romanzati nel nome di forti emozioni e debolezze comportamentali.
Nessuno come Guido Gozzano ha saputo sedurre e cancellare le tracce della seduzione, stare tra il racconto e la sua negazione, fra gli entusiasmi globali del liberty e il miraggio della libertà, alla fine dei primi dieci anni del secolo, quando tutto pareva possibile.2
«Attrazioni, passioni, legami sottopongono la fragile tela affettiva a tensioni estreme, col rischio di logorarla o lacerarla; solo un’attenta educazione sentimentale può insegnare l’arte di mediare tra poli opposti, di scendere e salire a occhi chiusi la rapida scala della fisicità e della spiritualità, avendo a cuore l’integrità della persona.»
È questo il consiglio iniziale di Morretta, che sembra far appello alla bontà, da sempre vagheggiata, dell’animo umano. Ma poi ecco che l’autore riporta il lettore alla realtà. Con una brutale quanto veritiera citazione di Orazio: «Anche se la scacci col forcone, la natura torna a presentarsi».3 Quasi a voler ricordare a gran voce che la passione e il desiderio non sono solo positività e beneficio e che, spesso, diventano profondità buio mistero inquietudine malvagità.
Esiste un connubio complesso tra il narcisismo e i disturbi sessuali. Due aspetti psicologici che spesso si sovrappongono e interagiscono tra loro. Il narcisista, inconsapevole di cercare la soddisfazione sessuale solo per se stesso, senza preoccuparsi del piacere dell’altro partner, può rivelarsi egoista dominante e incapace di ascoltare i desideri e le esigenze altrui. Mette spesso in atto anche in campo sessuale una strategia tipica, in cui il sesso viene usato come strumento di manipolazione emotiva e di controllo sull’altro.4 Morretta parte proprio da una critica puntuale sui modelli dominanti che sviliscono la sfera intima con narcisismo esasperato e aggressività per iniziare il suo viaggio attraverso tematiche che spaziano dalle attrazioni fatali ai legami morbosi, dall’immaturità affettiva al disagio giovanile. Un percorso che fa un largo uso di citazioni di scrittori poeti antropologi filosofi e psicoanalisti , quasi a voler dimostrare l’utilità degli studi umanistici nella comprensione della cultura e della stessa società all’interno delle quali questi comportamenti maturano e si sviluppano.
Non bisogna però incorrere nell’errore di pensare che solo questi comportamenti “estremi” siano un problema. Morretta sottolinea fin dalle prime pagine del libro quanto, in realtà, ciò rappresenti solo la punta di un iceberg in continua espansione. L’uomo si sa è un animale gregario e collettivo, per evitare il senso di prigionia della solitudine si aggrappa all’adesione corporea e verbale ai molti tra cui vive, «mimetismo di sopravvivenza e travestimento difensivo creano tuttora le condizioni per una normalità “apparente”, auspicata e premiata dai modelli del momento». Perciò il “diploma di abilitazione al sesso” si esibisce in società e online con pose ammiccanti o allusive, dicendo o tacendo i medesimi contenuti dei tempi della censura del discorso pubblico. I sentimenti alti non eliminano o neutralizzano quelli bassi, chiunque resta capace di provare e desiderare il peggio nonostante l’elevazione morale cui tende.
Elemento fomentatore di angosce e paure ancestrali, proteiforme ma onnipresente, fenomenicamente accidentale ma noumenicamente strutturale, a cui possiamo ribellarci e contro cui possiamo lottare, ma che non riusciremo mai a sconfiggere definitivamente, il male (nelle sue molteplici figure) costituisce già da sempre l’elemento propulsore non solo di ogni tentativo magico o tecnico-scientifico di controllo della natura, ma altresì di ogni meditazione e invocazione religiosa, nonché di ogni interrogare e pensare filosofico.
Certo è che l’uomo non solo è spesso preda di un’incredibile brama di distruzione, ma si compiace altresì intimamente dell’altrui sofferenza.
Adam Smith e Immanuel Kant hanno offerto dei significativi spunti di riflessione individuando nell’autoinganno una manifestazione del male legata all’affermazione egoistica dell’amore di sé.5
Per Smith, l’autoinganno è l’origine di metà dei turbamenti della vita umana: impedisce di giudicare con imparzialità la nostra condotta, distorce la visione morale di noi stessi e influenza negativamente la capacità di deliberazione e di giudizio.6
L’ampia disponibilità di conoscenze storiche e scientifiche sembrano proprio non bastare, sottolinea l’autore con una velata amarezza, anzi soccombono sotto il peso dei luoghi comuni che fanno del sesso e del sentimentalismo beni rifugio esenti da nocività e negano la necessità di cautele pratiche e concettuali. Per le devianze come anche per le malattie sessualmente trasmissibili, troppo spesso sottovalutate o, addirittura, sconosciute. E allora Morretta si chiede, e bisognerebbe farlo tutti, se non stiamo facendo passi da gigante ma all’incontrario, a ritroso verso una società sempre più brutale, violenta e aggressiva. Fragile. Impreparata.
Il libro
Mattia Morretta, Non fu l’amore. I nuovi volti della passione, Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2024
4E. Stopani, Narcisismo e sessualità: una complessa relazione bidirezionale, IPSCO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva: https://www.ipsico.it/news/narcisismo-e-sessualita-una-complessa-relazione-bidirezionale/
5R. Garaventa, O. Brino, (a cura di) Il male e le sue forme. Riconsiderazioni moderne e contemporanee di un problema antico, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2017.
Quotidiani e riviste sono stati lo strumento principale di chi – come l’autore – si è formato nel Novecento, in assetti analogici, e non è semplice per quelle generazioni confrontarsi con la metamorfosi del giornalismo, viverla e comprenderla in tutta la sua radicalità. Capire sino in fondo quanto la rivoluzione digitale sia stata un vero cambio di paradigma. Il cuore del sistema oggi è la rete. Il giornalismo in generale per cui anche quello culturale è una sorta di ecosistema in cui c’è uno scontro continuo tra giornalisti lettori spettatori e ascoltatori, con quest’ultimi che da almeno un ventennio sono sempre più produttori di notizie. La sfera pubblica è sempre più densa, i media sempre più partecipativi. Chi produce e immette notizie anche culturali nella rete cerca il coinvolgimento dell’utente, la costruzione di comunità, la fidelizzazione di clienti. Per Zanchini quello che è cambiato è il concetto di cultura. Di conseguenza anche quello di giornalismo culturale.
Il concetto di cultura è cambiato soprattutto nel secondo dopoguerra, andando a interessare attività umane che solo qualche anno prima non venivano ritenute legittimate a far parte della famiglia dell’arte in senso tradizionale. Per il sistema mediatico ciò ha significato una crescita quasi esponenziale degli spazi dedicati alle attività che occupano appunto gli esseri umani nel tempo libero, e ai protagonisti di questi universi.
La rivoluzione digitale, con la diffusione pervasiva di internet e delle sue innumerevoli applicazioni, ha prodotto profondi cambiamenti non solo nelle nostre abitudini quotidiane e nei più disparati comportamenti individuali e collettivi, ma anche nel campo della cultura, in ragione dell’uso ormai comune delle tecnologie anche per la produzione e la trasmissione del sapere. È facile osservare come i media digitali non sono solo strumenti grazie ai quali comunicare, informarsi, entrare in relazione con gli altri e intrattenersi. Il modo in cui vengono svolte queste attività determina anche, assieme a tutte le molteplici esperienze della vita, l’organizzazione stessa delle strutture percettive e cognitive attraverso le quali vengono elaborate le rappresentazioni mentali.
Molti studi hanno messo in luce come, con la diffusione del web, si rafforzano le capacità individuali di scansione veloce e di selezione, mentre si indeboliscono quelle di attenzione, concentrazione e riflessione, elaborazione logica, attitudine critica, legate precipuamente alla lettura sui mezzi di stampa.
Quando i messaggi passano attraverso lo schermo, inevitabilmente gli elementi emotivi hanno la meglio su quellicognitivi, la reazione immediata come riflesso condizionato (dunque come pregiudizio) ha il sopravvento sulla riflessione mediata di tipo intellettuale (il giudizio), la percezione del reale come istante presente (affermazione del sé) prende il posto della elaborazione del proprio essere nel tempo (responsabilità verso gli altri). In sintesi, nelle nuove forme digitali di fruizione culturale – che dovrebbero sancire il passaggio da una “intelligenza sequenziale” a una modalità percettiva e conoscitiva basata sulla simultaneità e l’ipertestualità1 – sembra affermarsi il primato dell’interruzione rispetto alla concentrazione, della frammentazione rispetto alla continuità, del tempo presente e non della temporalità sedimentata, dell’attualità sull’esperienza. Non si tratta di un semplice cambiamento dei consumi culturali, dunque, bensì dello stile conoscitivo stesso, della tecnica della conoscenza.2
Eppure, sottolinea Zanchini, la frammentazione delle informazioni e la rifeudalizzazione dei saperi erano i due timori principali sino a qualche anno fa. Oggi le preoccupazioni sembrano orientarsi verso i rischi di strapotere dei grandi players globali. Google, Amazon e Meta sono diventati fra i grandi mediatori dell’informazione culturale, con una funzione non dissimile a quella che svolgevano un tempo le poche riviste e i giornali.
I supporti tradizionali per produrre conservare trasmettere ed elaborare il sapere risultano progressivamente soppiantati dai nuovi dispositivi digitali, secondo un processo che si accompagna alla crescente disaffezione nei confronti della lettura tradizionale. Con ciò cambiano anche le risorse stesse della cultura: ora i testi diventano “aperti”, cioè non più completi e definitivamente compiuti, protetti, vincolati a una inequivocabile imputazione di responsabilità dell’autore, bensì continuamente soggetti a possibili integrazioni, revisioni, manipolazioni. Il che implica una metamorfosi del concetto stesso di autore, che ora diviene plurimo e anonimo.
C’è da aggiungere che tendenzialmente all’ubiquità dei media digitali corrisponde la prassi del “nomadismo” mediatico: si può saltare da un mezzo all’altro con grande fluidità, i canali di accesso risultano moltiplicati, si afferma uno schema di esplorazione conoscitiva “per deriva”, in cui la gerarchizzazione delle fonti appare superata, perché conta più il gioco di rimandi, così come la prassi dell’autoassemblaggio delle nozioni mette in crisi la tradizionale autorevolezza dell’autore. Questa tendenza rende sempre più marginale la funzione di “filtro” delle informazioni e delle nozioni svolta dalle aziende editoriali e dalle istituzioni culturali. Fino ad arrivare alla possibilità – complici gli algoritmi di Google – di costruirsi un percorso talmente personale da rendere i media non delle finestre da cui affacciarsi sul mondo, bensì degli specchi in cui ammirare un paesaggio fatto a propria immagine, in cui sono riflesse solo notizie e nozioni che si adeguano alle nostre convinzioni e aspettative, sancendo così il trionfo dell’autoreferenzialità.3
Zanchini sottolinea come oggi, negli ambienti della cybercultura, lettori ascoltatori scrittori giornalisti editori podcaster e influencer non ricoprano più ruoli definiti e circoscritti. Tutto è diventato più fluido, permeabile, sinergico, collaborativo, tra online e offline si assiste non alla semplice sostituzione di un sistema culturale con un altro, quanto alla compresenza di più poli.
Il giornalismo culturale a opera degli intellettuali diviene un luogo di osservazione non secondario per cogliere gli snodi che caratterizzano l’articolato rapporto fra approfondimento scientifico ed esigenze divulgative. Ogni mezzo di comunicazione, anziché essere neutro, riflette i caratteri del sistema dei media nel quale ha origine, implica un proprio linguaggio, particolari strategie stilistiche, gabbie retoriche che hanno molto a che fare con la resa comunicativa dei contenuti. La forma-giornale, in particolare, per le esigenze mediali e di stile che la caratterizzano, rappresenta un prodotto estremamente complesso. Il giornalismo culturale rappresenta una sfida per gli intellettuali che abbracciano questa pratica, che porta a offrire al mondo la propria riflessione e che impone, per questo, un’interrogazione sul senso profondo del proprio lavoro, sulla funzione che può svolgere, sugli effettivi stimoli che può fornire alla produzione culturale in senso ampio. Si tratta non solo di un esercizio di stile, ma di un esercizio di pensiero che rimanda alla valenza etica del lavoro dell’intellettuale, qualificandolo come mestiere concreto in grado di suscitare interesse e motivo di crescita per un pubblico vasto.4
Ed è esattamente su queste tematiche che Giorgio Zanchini ne La cultura nei media invita alla riflessione per un sistema che ormai si articola quasi indistintamente tra l’online e l’offline ma che va, in ogni caso, a incidere sulla formazione culturale e sociale delle persone e, di rimando, sul loro essere cittadini di un mondo che, per quanto sembra spostarsi sempre più nel virtuale, rimane comunque concreto e reale.
Il libro
Giorgio Zanchini, La cultura nei media. Dalla carta stampata alla frammentazione digitale, Carocci Editore, Roma, 2024.
1R. Simone, Presi nella rete. La mente si tempi del web, Garzanti, Milano, 2012.
2M. Valerii, M, Conti Nibali, L. Lapenna, G. Addonisio, La trasmissione della cultura nell’era digitale. Rapporto finale, Censis/Treccani, Roma, 2015.
4G. Mazzoli, Il giornalismo culturale di Carlo Bo. Il mestiere di intellettuale fra critica e divulgazione, su Journals UniUrb, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Urbino, 2005.
Le emozioni disegnano il paesaggio della nostra vita spirituale e sociale.1 In esse è racchiuso un profondo significato, che affida alla dimensione sensibile un importante ruolo nelle esperienze di ogni individuo. A ogni emozione sono associate modificazioni fisiologiche, cognitive e/o motorie. Mentre le emozioni possono essere temporaneamente circoscritte, i sentimenti sono disposizioni d’animo relativamente stabili. Sono rappresentazioni mentali dei cambiamenti fisiologici che caratterizzano le emozioni. Sia le emozioni che i sentimenti hanno un impatto significativo sul comportamento, sono interdipendenti tra loro, possono essere copresenti e possono influenzare il modo in cui interagiamo con gli altri.2
Uno dei rapporti che maggiormente risente dei sentimenti e delle emozioni è quello tra genitori e figli. Già dal mito, l’immagine del rapporto padri/figli è stato delineato nella sua costitutiva conflittualità: connesso com’è, per un lato, al possesso e, per un altro, alla ribellione, al distacco, al rifiuto. La cultura occidentale porta di tale conflitto i segni e appare come un luogo di espressione, oggettivazione, riconoscimento di tale conflitto e radicale e originario. Conflitto che non esclude l’amore, il legame affettivo, ma che viene vissuto e rappresentato, in letteratura, come un vincolo, un problema, una situazione drammatica.
Le lettere di Giacomo Leopardi al padre, pur amato, pur suo maestro-interlocutore, pur sempre ricercato, testimoniano di un rapporto carico di risentimenti, di rimproveri, di accuse rivolte al “Monarca delle Indie”, autoritario, insensibile, di fatto lontano. La Lettera al padre di Franz Kafka è una requisitoria limpida e atroce, un’accusa senza affetto, un distacco radicale testimoniato da uno scritto sofferto e implacabile.3
Anche Diva, la protagonista del libro di Buoso, affida a una lettera la confessione dei dettagli del conflittuale rapporto con il padre, le emozioni, i sentimenti e le speranze. E sarà proprio dal mancato recapito della missiva che subentra nel libro l’aspetto noir-investigativo.
Il libro di Buoso è narrativa ma il mistero appartiene o è appartenuto anche alla sfera della poesia. La grande poesia di Giovanni Pascoli, per esempio, è quella del mistero. Il mistero di Pascoli è come l’inconoscibile di Spencer: l’esistenza di una realtà assoluta che non si può mai conoscere perché supera l’umano intendimento. Egli ha vissuto intensamente lo stato d’animo, la realtà spirituale in cui la vita, la natura e la storia erano viste come diversi aspetti dell’universale e vano mistero. La prima origine della visione misteriosa dell’universo, così propria di Pascoli, a prescindere dal particolare temperamento psicologico del poeta, va ricercata in un tragico evento familiare: l’assassinio del padre.4 Diva non sa cosa sia affettivamente accaduto a suo padre quando inizia la ricerca ma su un punto si dimostra fin da subito intransigente: vuole scoprire tutta la verità.
Hegel sosteneva che la verità è soggettiva e con ciò negava l’ipotesi che esistesse una qualche verità al di sopra e al di fuori della ragione umana. Per Heidegger, che insisteva sul senso etimologico della parola che in greco significa verità (alétheia: alla lettera, “non nascondimento”), essa consiste in una sorta di autorivelazione dell’Essere, che tuttavia non è mai completa.5 Per la Buoso le verità sono sempre due e spesso non coincidono. Ecco la ragione del suo indagare: raggiungere e scoprire la verità finale.
Secondo Panikkar, la verità è un’esperienza profonda che abbraccia molteplici dimensioni, andando oltre la comprensione limitata di una verità oggettiva o soggettiva. È un’esperienza che coinvolge l’intero essere umano, includendo le dimensioni cognitiva, emotiva, spirituale e relazionale, è un processo di incontro e relazione tra l’individuo, gli altri, il mondo e il trascendente. La verità, quindi, è intrinsecamente legata alla dimensione dell’incertezza e del mistero e accettarlo è essenziale per abbracciare la verità in tutta la sua complessità.6
La lettera non recapitata è l’input necessario a Diva per iniziare la ricerca fisica del padre. Il momento in cui scrive la lettera è l’inizio di una ricerca più intima, che riguarda sempre loro due ma in maniera differente. Il loro rapporto si è interrotto allorquando ella ha rifiutato un matrimonio combinato. Non si vedono da tempo tempo eppure Diva continua a credere che il legame che li unisce è l’amore. Diverso da quello tra uomo e donna ma pur sempre amore.
Se l’ordine sociale, fondato sull’organizzazione esogamica della famiglia, allontana e cela la trasgressione reale e simbolica, la letteratura, al contrario, per quanto espressione per eccellenza della cultura, dà tuttavia voce alla natura, liberando le pulsioni umane e mostrando anche le arcaiche, misteriosi radici dell’arte. Ciò che è un fatto di natura e un valore: essere donna, viene trasformato in cultura con valenze complesse e, storicamente, negative. Principalmente, dallo statuto culturale di figlia del padre consegue la privazione di quello naturale di donna e delle sue prerogative sessuali e riproduttive. Ma la storia della letteratura dimostra che, in cambio e con conseguenze che sfuggono al controllo dell’ordine patriarcale e, ovviamente, ricadono in quello simbolico la figlia può avere voce e penna che la immettono nella dimensione del logo e le consentono di proclamare diritti che non attengono solo al discorso razionale maschile e sedicente universale.7
Maria Cristina Buoso in Vorrei dirti ha scritto una storia nella quale la protagonista Diva ha trovato voce prima e pennapoi e, insieme a queste, il coraggio non solo di cercare la o le verità ma, soprattutto, di vivere.
Il libro
Maria Cristina Buoso, Vorrei dirti, PlaceBook, Rieti, 2024.
1M.C. Nussbaum, L’intelligenza nelle emozioni, Il Mulino, Bologna, 2004.
2A. Moroni, Emozioni e sentimenti: sovrapposizioni e differenze, in Stateofmind, 6 dicembre 2022.
3F. Cambi, Tra padri e figli: un rapporto conflittuale… in trasformazione, in Rivista Italiana di Educazione Familiare, n°1, 2008.
4L. Castagnola, La poesia del mistero in Giovanni pascoli, in Revista Letras, 1957.
5C. Ippoliti, Il concetto di verità nella storia della filosofia, Pratiche Filosofiche in Officina Filosofica, 23 luglio 2018.
6M.I. Giangiacomo, La verità come ricerca, in Bottega filosofica.
7G. Caltagirone, Maria Serena Sapegno, Figlie del padre. Passione e autorità nella letteratura occidentale, Lectures in Laboratoire Italien – Politique et Societé, 2019.
Il fenomeno urbano ha caratterizzato l’età contemporanea ed è tratto distintivo del XXI secolo, definito appuntoil secolo delle città.
All’inizio del XXI secolo il processo di globalizzazione sembrava destinato a ineluttabili avanzamenti, generalmente valutati in modo positivo, con un contestuale “ridimensionamento” del ruolo degli Stati nazionali a favore delle forze dinamiche del mercato e delle istituzioni sovranazionali, lasciando spazio anche a un nuovo protagonismo delle città. Quanto accaduto negli ultimi anni (la pandemia e i suoi effetti, la guerra russo-ucraina, le tragiche vicende del Medio Oriente) ha invece rilanciato il peso e l’importanza degli Stati come fondamentali, ancorché esclusivi, attori, nel bene e nel male, delle politiche. Ciò nondimeno le città continuano a essere spazio privilegiato per progettare e attuare strategie in grado di farci almeno avvicinare agli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati nell’Agenda 2030 delle Nazioni unite.
Oggi viviamo nel secolo delle città e dovremmo di conseguenza aggiornare le nostre mappe mentali. La realtà sta cambiando rapidamente mentre noi siamo fermi a una lettura Stato-centrica delle relazioni internazionali. Con la Pace di Westfalia del 1648, le città sono state espulse dal nostro orizzonte intellettuale dopo che per secoli erano state il fulcro della vita globale. Oggi esse tornano a guadagnare centralità, ma noi fatichiamo a prenderne atto perché ragioniamo ancora in termini westfaliani. Oggi alcune delle nostre attività più importanti hanno luogo nelle città, tuttavia noi vediamo solo gli Stati come attori della politica globale. Eppure la politica internazionale è fortemente influenzata da un numero crescente di città sempre più attive nello scacchiere globale. Città che sviluppano reti di gemellaggi e progetti, condividono informazioni, firmano accordi di cooperazione, contribuiscono a plasmare politiche nazionali e internazionali, forniscono aiuti allo sviluppo e assistenza ai rifugiati, competono nel marketing territoriale attraverso forme di cooperazione decentralizzata.
Le città fanno oggi quello che i “comuni” erano soliti fare secoli fa: cooperano ma allo stesso tempo danno vita a una forte dinamica competitiva. Per questa ragione, se vogliamo comprendere davvero le dinamiche socio-politiche planetarie, dobbiamo avere due mappe mentali in testa, una Stato-centrica e una non-Stato-centrica.1
Vi sono almeno due logiche diverse dietro l’attuale attenzione al ruolo dei centri urbani. In primo luogo, la logica dell’efficienza e dell’efficacia: un’abile governance urbana è vista – in particolare da sindaci animati da determinazione personale – come lo strumento più adatto per raggiungere una qualche efficacia al livello sociale in ragione dei suoi caratteri di immediatezza esecutiva e prossimità ai cittadini. Poi c’è la logica della democrazia: una buona governance urbana è vista come lo strumento più adeguato per implementare l’ideale democratico; gli enti locali diventano un mezzo per raggiungere l’empowerment delle comunità e l’auto-determinazione democratica. La diplomazia della città, in qualche modo, connette direttamente i cittadini locali con le vicende globali, contribuendo a superare i deficit democratici a livello internazionale.2
Città come Los Angeles, Londra e Tokyo hanno un ruolo di guida economica e identitaria sia per se stesse sia per i Paesi che rappresentano. L’Italia è un Paese fondato sulle città e la nostra storia – dall’epoca dei comuni alle istanze autonomiste odierne – ci ricorda quanto l’attaccamento alla comunità locale sia spesso più forte del legame con lo stato centrale. Ma oggi l’avvento delle megacity impone un cambiamento di politica che ci consenta di superare la frammentarietà e riuscire a giocare con successo un ruolo di rilievo nel “secolo delle città”. In questa prospettiva un’ispirazione per l’Italia può venire da Milano, ritenuta in questi anni un modello dalle più autorevoli agenzie internazionali, dalle aziende, dai turisti, dai milanesi.3
Nel testo le città sono indicate come reti di flussi lungo cui si muovono merci, persone e capitali. Centri direzionali dell’economia mondiale, luoghi e mercati essenziali, centri dell’innovazione e della ricerca.
L’evoluzione della città si manifesta attraverso un percorso nella direzione di un sistema insediativo sempre più complesso e comprensivo, verso un sistema interagente di funzioni di varia natura e rango, un prodotto di intelligenze collettive e un incrocio di flussi globali e locali: la stessa natura collettiva della città si ribella con vigore alla monofunzionalità, al consumo di suolo come paradigma e alla solidità come configurazione identitaria. Nella società liquida, alla città rigidamente divisa per parti e per funzioni, alla città per recinti, si sostituisce la “città molteplice”, non solo multifunzionale al suo interno, ma anche nodo complesso di un’armatura planetaria di città in cui si intrecciano numerose reti locali e globali. Con il rischio però che l’esito, piuttosto che una identità molteplice e ricca, sia quello di una perdita di identità alla rincorsa perenne di modelli eteroprodotti. All’emergere delle molteplicità deve corrispondere un incremento della responsabilità, traducibile in un triplice impegno: verso l’ambiente, verso l’identità culturale e verso la cooperazione.4
Le città appaiono solitamente inserite dentro il “sistema paese”, ne condizionano le dinamiche e da queste sono condizionate. La crisi persistente ha aumentato la povertà, ne ha generato forme nuove, ha acuito le disuguaglianze: si tratta di fenomeni che si concentrano in particolare nelle aree urbane che divengono dunque lo spazio decisivo per l’attivazione di politiche atte a fronteggiare tali emergenze. Ma gli autori sottolineano che, oltre a mitigare gli effetti negativi della crisi sul piano sociale, le città sono chiamate a essere driver di sviluppo. Nell’età della quarta rivoluzione industriale le città sono interessate, o almeno dovrebbero esserne campo di applicazione, da politiche volte a renderle più green e smart.
Non è sempre facile capire cosa si intenda esattamente per smart cityanche perché, man mano che il concetto originario veniva esteso per rispondere alle critiche, l’espressione ha assunto un senso onnicomprensivo: si è passati da un significato che considerava “intelligente” una città in cui era forte e pervasivo il ruolo delle tecnologie a una città la cui intelligenza è multidimensionale e si basa soprattutto sull’intelligenza dei suoi abitanti. Insomma, alla fine, una delle tante parole-ombrello che contengono poco o troppo, alla fine piene di vuoto. I termini sostenibilità e resilienza, tra gli altri, soffrono di questo stesso rischio: se tendono ad allargare il loro ambito, perdono di precisione e di rilevanza, si annacquano. Non è possibile pensare a città intelligenti (smart cities) che non siano in primo luogo città sane (healthy cities), anche se è vero che l’uso delle nuove tecnologie può dare impulso fondamentale per ripensare e realizzare la qualità della vita urbana. Ma soprattutto non si può immagina una “città sana” che non stia dentro un “territorio intelligente”, ovvero un territorio che sappia ricomporre la frattura città/campagna dotando tutte le sue parti di un’elevata qualità ambientale e paesaggistica e di infrastrutture e reti che ne garantiscano le funzionalità.5
Unosmart landè un ambito territoriale nel quale attraverso politiche diffuse e condivise si aumenta la competitività e l’attrattività del territorio, con un’attenzione particolare alla coesione sociale, alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità ambientale e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini.6 La smartnesssi concretizza in una più accentuata digitalizzazione del sistema economico e della pubblica amministrazione. Nel testo si pongono al riguardo questioni rilevanti inerenti ai temi delle piattaforme, della loro non frammentazione e del loro controllo, che rimandano tanto a delicati equilibri tra soggetti pubblici diversi quanto al rapporto tra attori pubblici e gruppi privati. Un invito a riflettere sull’insieme di relazioni bidirezionali tra città (o enti locali), Stato e mercato.
Il libro
Marco Doria, Filippo Pizzolato, Adriana Vigneri, (a cura di) Il protagonismo delle città. Crisi, sfide e opportunità nella transizione, Il Mulino, Bologna, 2024.
La redazione del volume è stata curata da Alessandra Miraglia.
1R. Marchetti, Il secolo delle città. Perché i nuovi centri urbani sono i luoghi più adatti per accogliere le sfide del futuro, Luiss Open, 16 aprile 2021.
3G. Sala, Milano e il secolo delle città, La Nave di Teseo, Milano, 2018.
4M. Carta, Dalla Carta di Machu Picchu all’agenda per le città del XXI secolo, in A.I. Lima (a cura di), Per un’architettura come ecologia umana. Studiosi a confronto, Jaca Book, Milano, 2010.
5F. Angelucci (a cura di), Smartness e healthiness per la transizione verso la resilienza. Orizzonti di ricerca interdisciplinare sulla città e il territorio, Franco Angeli, Milano, 2018.
6A. Bonomi, R. Masiero, Dalla smart city alla smart land, Marsilio, Venezia, 2014.
Il libro di Cerretti e Gualchierotti porta il lettore indietro nel tempo. A un periodo molto impegnativo dal punto di vista politico e sociale. Siamo agli sgoccioli del secolo scorso, in un tempo caratterizzato dagli anni di piombo e dagli accadimenti che hanno riconfigurato l’intera area balcanica.
La protagonista Liliana viene presentata al lettore come una giovane donna impegnata nello studio e nelle ricerche sul ripopolamento dei lupi insieme al collega Maksim. Vive a Trieste e, ben presto, la sua storia si intreccia con quelle dei profughi istriani. Accadimenti inaspettati sconvolgeranno la vita e la mente di Liliana ma sarà l’incontro/scontro con la guerra che scatenerà in lei un vero e proprio “conflitto”.
Nell’espressione poetica più recente le figure animali paiono assumere un ampio ventaglio di connotazioni simboliche, in alcuni casi assai distanti dalle rappresentazioni convenzionali, e pertanto agiscono in senso figurato all’interno di un campo referenziale che richiede il ricorso a strumenti e codici interpretativi in grado di setacciare i grumi del passato al fine di evitare di rileggere tendenziosamente ogni ripresa letteraria attraverso il filtro di quell’anxiety of influence, teorizzata da Harold Bloom.1
Cerretti e Gualchierotti sembrano aver fatte proprie queste premesse, nell’introdurre un tipo narrativo tanto pregno di simboli e simbolismo ma “utilizzato” per tutt’altro scopo perché non sarà certo il lupo il male indagato dagli autori nel libro.
Nel Rapporto del 1999 delle Nazioni Unite su quanto accaduto in Bosnia-Erzegovina durante il conflitto armato, l’allora segretario generale Kofi Annan ha affermato che «è stato un errore, un giudizio errato e l’incapacità di riconoscere la portata del male che si aveva dinanzi, la causa per cui l’Onu non è riuscita a fare bene la sua parte e mettere in salvo il popolo di Srebrenica dalla campagna serbo-bosniaca di omicidi di massa».2 Come uno specchio riflettente, i Balcani ricordano ciò che l’Europa è stata nel Novecento, che ora non è più ma potrebbe tornare a essere, che in parte è tornata a essere.
La situazione geopolitica attuale dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia deriva dalla dissoluzione della Jugoslavia, avvenuta gradualmente a partire dal 1991, con la conseguente nascita delle Repubbliche di Slovenia e di Croazia. La maggior parte dei territori ex italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia appartiene oggi alla Croazia, mentre solo una piccola parte dell’Istria settentrionale è sotto la sovranità slovena. La nascita dei due nuovi Paesi ha portato alla creazione di un nuovo confine in Istria, dividendo in due distinti tronconi un territorio che ha avuto per secoli una storia comune.
Il 12 novembre del 1920 i Governi italiano e jugoslavo firmarono a Rapallo un Trattato con cui i confini tra i due paesi venivano fissati in maniera consensuale: l’Italia otteneva la quasi totalità della Venezia Giulia (ma non Fiume), mentre rinunciava a quasi tutta la Dalmazia (tranne Zara e l’isola di Lagosta). La città di Fiume divenne Stato Libero e il Governo italiano dovette, in rispetto al trattato, intervenire militarmente contro i legionari di Gabriele D’Annunzio che avevano occupato Fiume sin dal 1919. Nel 1924 l’Italia si annesse Fiume mentre il Porto Baros e una parte dell’entroterra fu assegnata alla Jugoslavia.
I nuovi confini orientali dell’Italia avevano determinato l’esistenza all’interno del regno di un elevato numero di cittadini di etnia slovena e croata. L’amministrazione italiana dell’immediato dopoguerra evidenziò sin da subito una notevole impreparazione nell’affrontare i problemi specifici relativi alla presenza di consistenti nuclei di minoranze linguistiche autoctone. L’avvento del fascismo portò poi rapidamente a un peggioramento della situazione degli sloveni e dei croati del confine orientale.
Il clima nella Venezia Giulia nei primi giorni del settembre 1943 era del tutto simile a quello del resto d’Italia. Buona parte della popolazione aveva sopportato con rassegnazione i tre lunghi anni di guerra che avevano portato lutti, sofferenze e privazioni e sperava che, dopo la caduta del fascismo, il conflitto si sarebbe concluso quanto prima. Tuttavia, la presenza dei tedeschi da un lato e l’esistenza di un movimento di resistenza capeggiato dall’elemento slavo induceva a fare i conti con una realtà del tutto incerta.3
La violenza, le deportazioni, le uccisioni, nonché l’esodo umano avvenuti in quei territori è discretamente noto eppure quello che rimane sconosciuto, o peggio ignorato, è il dolore ingenerato da tanto male.
Dal momento in cui la teodicea fu sostituita con la filosofia della storia, nel XVIII secolo, fino ai nostri giorni in cui il relativismo riporta a posizioni pre-illuministiche di dogmatismo feroce, ma assolutamente dissimulate dietro il “multiculturalismo” e le teorie della “liquidità”, il concetto di male, così come quello di bene è rimasto indeterminato e problematico. Del male, che ovunque e sempre pullula e si ripete in forme sempre uguali e sempre nuove, rimane impossibile dire cosa sia, quale sia la sua causa prima o se abbia un senso nell’esistenza del mondo.4 Per certo, l’innovazione radicale introdotta dalla filosofia dei Lumi è stata la critica radicale del male come prodotto del diavolo, quindi di un agente esterno, mitico, inscritto nelle potenze extra-umane, con la conseguente interiorizzazione e trasformazione del male in una categoria psicologica, un aspetto della natura umana.5
La protagonista del libro è troppo giovane per aver potuto conoscere il male, quel tipo di male che ha dilaniato un intero territorio e diverse etnie. Eppure Liliana è ben determinata a scoprire tutto quello che è successo e che ora rimane ben nascosto nella mente di sua nonna, malata di Alzheimer. Una malattia che sembra averle fatto “dimenticare” tutto il dolore ma che, in realtà, lo tiene semplicemente nascosto al mondo intero. È sempre lì, dove Tecla lo ha “conservato” per tutti quegli anni. Anche questo aspetto della narrazione sembra ricordare al lettore quanto accaduto. In effetti non è solo il dolore di nonna Tecla ad essere “nascosto” al mondo intero. Quasi ignorato.
I Balcani stanno scomparendo. Politicamente dimenticati da un’Europa che negli ultimi vent’anni ha preferito aprirsi a Est fino a inglobare gli ex satelliti sovietici, lasciando così un grande vuoto nel proprio cuore geografico e storico. Dentro quest’apparente vuoto si agitano forze in grado di condizionare il futuro dell’intero continente.6
Cerretti e Gualchierotti hanno dato, almeno in parte, voce a queste forze, per tramite della grinta e della determinazione di Liliana, dimostrando che tutti, prima o poi, devono fare i conti col passato per riuscire realmente a guardare avanti, al futuro.
Il libro
Greta Cerretti, Andrea Gualchierotti, Il mio posto tra i lupi, Bertoni, Marsciano, 2024.
1S. Sibilio, La rappresentazione dei lupi in recenti opere di poeti palestinesi tra intertestualità e innovazione, in Quaderni di Studi arabi, vol. 14, 2019.
3G. Rumici, Istria, Fiume e Dalmazia. Profilo storico, Federazione delle Associazioni degli Esuli Istriani Fiumani e Dalmati – 2009.
4G. Cinelli, P. Piredda, (a cura di), La letteratura e il male – Atti del Convegno di Francoforte, 7-7 febbraio 2014, Sapienza Università Editrice, Roma, 2015.
5P.A. Alt, Ästhetik des Bösen, Beck, Monaco, 2010.
6F. Ronchi, La scomparsa dei Balcani. Il richiamo del nazionalismo, le democrazie fragili, il peso del passato, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (Cz), 2023.