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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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“Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” di Shoshana Zuboff (Luiss University Press, 2019)

08 domenica Nov 2020

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Ilcapitalismodellasorveglianza, LuissUniversityPress, recensione, saggio, ShoshanaZuboff

«Il capitalismo si evolve in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati»

È questo uno dei concetti base da cui Shoshana Zuboff fa partire la sua analisi a tutto tondo dell’attuale evoluzione del capitalismo, una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma che non coincide con esso. Il capitalismo della sorveglianza infatti non è una tecnologia, è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione.

Il messaggio delle aziende del capitalismo della sorveglianza non è molto dissimile da quello che veniva celebrato nel motto, ricordato dall’autrice, della Esposizione universale di Chicago del 1933: La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta.

Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti. I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto e sfruttato che i dati predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto.

Il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, gli operatori di quello della sorveglianza sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il loro potere strumentalizzante.

Per Shoshana Zuboff, il capitalismo della sorveglianza rimanda alla vecchia immagine di Karl Marx del capitalismo come un vampiro che si ciba di lavoro. Solo che non è più il lavoro il cibo dei capitalisti, lo è ogni aspetto della vita umana.

I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza non sono oggetto di uno scambio di beni. Non pongono un rapporto di reciprocità costruttivo tra produttore e consumatore. Sono, al contrario, esche che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze personali vengono estratte e impacchettate per gli scopi di altre persone.

Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e ora minacciano di distruggere la Terra, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza e dal nuovo potere strumentalizzante prospererà a discapito della natura umana e minaccerà di distruggerla.

Nel capitalismo della sorveglianza, i mezzi di produzione sono al servizio dei mezzi di modifica del comportamento. Il vero potere infatti risiede nella capacità di modificare le azioni in tempo reale nel mondo reale.

Come tutti i capitalisti, anche quelli della sorveglianza vogliono una libertà senza limiti. La concorrenza tra capitalisti della sorveglianza li spinge alla ricerca della totalità. La totalità dell’informazione si avvicina alla certezza, e pertanto a esiti sicuri. Il capitalismo della sorveglianza, pertanto, mette la certezza al posto del mistero, e la renderizzazione in primo piano, al pari della modifica del comportamento e della previsione al posto del vecchio schema insondabile. Si tratta di un’inversione fondamentale dell’ideale classico secondo cui il mercato era intrinsecamente inconoscibile.

Il capitalismo della sorveglianza spinge le persone verso una forma nuova di collettivismo, nel quale è il mercato e non lo Stato a detenere conoscenza e libertà.

Come i manager del primo Ventesimo secolo appresero che per gestire i sistemi gerarchici delle grandi aziende dovevano assumere un “punto di vista amministrativo”, così i sommi sacerdoti applicano l’arte dell’indifferenza radicale, un modello di conoscenza profondamente asociale. Grazie all’indifferenza radicale, essi giudicano i contenuti in base a volume, varietà e profondità del surplus, con criteri anonimi quali clic, like e durate, senza curarsi del fatto evidente che ogni situazione ha un significato diverso.

Sottolinea quindi Shoshana Zuboff come il capitalismo della sorveglianza, appropriandosi di libertà e conoscenza, distaccandosi dalle persone, con le sue ambizioni collettiviste e la sua indifferenza radicale, spinge in realtà verso una società nella quale il capitalismo non è sottoposto a istituzioni politiche o economiche inclusive.

L’autrice elenca il parere di numerosi studiosi i quali parlano di recessione democratica e disgregazione delle democrazie occidentali, un tempo ritenute al sicuro da minacce. La portata e la natura di tali minacce non è ben definita, ma è evidente la saudade causata dai rapidi cambiamenti sociali e la sensazione che le nuove generazioni si troveranno a dover affrontare sempre maggiori difficoltà. Come preoccupante è l’indebolimento dell’amore per la democrazia negli Stati Uniti e in molti Paesi europei.

Il capitalismo della sorveglianza è entrato in scena quando la democrazia era già in difficoltà, ed è cresciuto grazie alle cure del neoliberismo, che chiedendo sempre maggiore libertà lo allontanava dalle vite delle persone. I capitalisti della sorveglianza hanno capito ben presto come approfittare della situazione, e hanno svuotato di forza e significato la democrazia. Malgrado le sue promesse democratiche, ha dato vita a un’Età dell’oro segnata da grandi diseguaglianze economiche e a nuove forme di esclusione imprevedibili, separando chi regola gli altri e chi viene regolato.

Shoshana Zuboff auspica che in ogni società democratica il dibattito e il contesto garantito dalle istituzioni ancora solide possa orientare l’opinione pubblica contro forme inattese di oppressione e ingiustizia, per mostrare la strada a leggi e giurisprudenza. È proprio in questa società dell’informazione che le notizie devono essere o diventare una risorsa non per capitalisti e capitalismo della sorveglianza, bensì per gli stessi cittadini e costituire la nuova potente “arma” in difesa didiritti, libertà e conoscenza nonché della democrazia.

È un libro impegnativo, Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, che “costringe” il lettore a pensare e ripensare forme e atteggiamenti oramai considerati fin troppo naturali per poterli analizzare sotto la giusta prospettiva. Eppure necessario per non smarrire quell’imprescindibile desiderio di conoscenza e libertà che deve caratterizzare ogni cittadino e cittadina, non solo del mondo democratico occidentale.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti. Titolo originale: The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs, Stati Uniti d’America, 2019


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Per le immagini tranne la copertina libro credits www.pixabay.com


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“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie” 

“Un futuro più giusto. Rabbia, conflitto e giustizia sociale” di Fabrizio Barca e Patrizia Luongo (ilMulino, 2020) 

L’Italia e “L’illusione del cambiamento” nella metamorfosi della Tecnica. Recensione al testo di Alessandro Aleotti (Bocconi Editore, 2019) 

“Lo chiamano populismo ma è resilienza di democrazia”. Analisi del decennio di crisi economica che ha cambiato il mondo ne “Lo schianto” di Adam Tooze (Mondadori, 2018) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“L’ora buca” di Valerio Varesi (Frassinelli, 2020)

28 mercoledì Ott 2020

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Frassinelli, Lorabuca, recensione, romanzo, ValerioVaresi

A volte è proprio nell’ordinario di una normale e in apparenza banale vita quotidiana che si scatena il caos più totale. A generarlo è un recondito senso di frustrazione che ingenera una ribellione motivata dalla volontà di trasformare il vuoto in pieno. Il protagonista del libro di Valerio Varesi tenta di sopperire alla propria insoddisfazione cercando la notorietà, però per farlo accetta pericolosi compromessi che lo portano dapprima a rovinare esistenze altrui poi la propria.

Il Professore è un insegnante, è un pensatore ed è molto insoddisfatto della vita, della professione che svolge, è deluso per l’incapacità di portare avanti e concludere un progetto concreto e complesso, è demotivato a causa delle insolubili verità esistenziali cui non trova risposte, per sé ma soprattutto per i suoi alunni per cui si sente già destinato alla menzogna.

Una delusione, quella del professore del libro di Varesi, che accende un faro su una condizione più generale, riscontrabile nell’attuale società italiana, nella quale quotidianamente si assiste e ci si scontra con l’assenza di un necessario quanto inesistente progetto sociale e culturale. Sembra quasi sia diventato tutto una finzione, un inganno, una menzogna appunto.

Sarà proprio questa, la menzogna, a dare la svolta tanto attesa alla vita del protagonista de L’ora buca. Nel campo dell’informazione si suole chiamarle fake news ma sempre bugie restano. Ed è su queste e con queste che il Professore costruirà la sua nuova vita, inventata distruggendone un’altra. Nel suo caso la legge del contrappasso sarà molto dura. Alla fine, il Professore non otterrà quello che sperava. O forse no. Otterrà proprio ciò che in cuor suo desiderava.

Il libro di Valerio Varesi è come una stanza degli specchi nella quale, proprio quando pensi di aver trovato l’uscita, sei costretto a ricominciare daccapo. Un vorticoso gioco di rimandi che sembra ruotare intorno a un non senso pericoloso, basato sul nulla, sul vuoto. Un vuoto esistenziale, un vuoto culturale, un vuoto sociale… una rappresentazione senza mezze misure della crisi culturale che sta investendo e travolgendo la società italiana, quella occidentale, globale addirittura. Una “cultura” che fonda le sue radici su talk show, reality, micro video, post e tweet. Un mondo nel quale la conoscenza sembra rimandare ancora troppo al concetto di “chi ti manda” e le competenze sono uno slogan ormai solo pubblicitario e propagandistico.

Anche il titolo del libro, L’ora buca, è emblematico di questo “gioco” basato sul nulla, sul vuoto. Il titolo richiama all’ora che intercorre tra una lezione e l’altra, quella di attesa, di vuoto appunto, nella quale, nel testo, inizia a crearsi la rete della storia e nascono i prodromi di quel risentimento/frustrazione che porteranno o costringeranno il protagonista alla svolta, al cambiamento che altro non sarà che un lento e inesorabile peggioramento, una distruzione e un’autodistruzione. Il lettore non può non chiedersi se sarà così il destino cui va incontro l’attuale società se non sceglierà, per tempo, di invertire la marcia o approntare una poderosa sterzata per cambiare direzione e farlo sul serio, dal verso giusto.

Un’articolazione del pensiero che passa dal locale al globale in maniera eguale e parallela a quanto accade nel testo, ai pensieri e alle considerazioni dello stesso protagonista il quale, narrando di programmi scolastici, capitoli e argomenti, giunge a riflessioni su enormi problemi esistenziali. Un andirivieni che è di per sé simbolico di quanto anche solo un singolo atteggiamento, comportamento, pensiero possa, alla fin fine, andare a incidere sui massimi sistemi, soprattutto se vanno a sommarsi tanti piccoli pezzi che, uniti tra di loro, ne formano uno grande, immenso, globale.

Sembra quasi che Varesi voglia suggerire al lettore che se è il “mondo” a dover essere cambiato ciò deve avvenire per mano dei suoi abitanti, non è certo il pianeta in sé che potrà subire dei cambiamenti, delle modifiche o delle alterazioni. Sono le persone che lo governano a dover fare la differenza. E ciò vale naturalmente per ogni “mondo”. Anche la società è a suo mondo un mondo, oppure un universo. E anch’essa potrà davvero cambiare solo se lo faranno i suoi abitanti.


Articolo disponibile anche qui


LEGGI ANCHE

Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza” (Bompiani, 2017) 

La disperazione del viver quotidiano in “Ogni spazio felice” di Alberto Schiavone (Guanda, 2017) 

Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016) 

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Laureen Groff (Bompiani, 2016) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

18 domenica Ott 2020

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DavidBidussa, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, GiuliaAlbanese, JacopoPerazzoli, politica, recensione, saggio, Siamostatifascisti

Per riuscire a comprendere fino in fondo cosa è stato il fascismo in Italia è necessario studiare, analizzare, comprendere l’humus politico e sociale nel quale esso ha avuto origine, quella “nuova stagione politica” che ha avuto inizio prima della Grande Guerra, prima della costituzione del Partito fascista, prima del consolidamento della “dittatura a viso aperto”.

Studiare quella che Philippe Burrin ha definito la “preistoria” del fascismo e farlo per mezzo di un’indagine che evidenzi non le differenze bensì le analogie, volta cioè a mettere a fuoco i molti volti di una “famiglia politica” di cui il fascismo italiano è parte.

Ed è esattamente ciò che hanno fatto Giulia Albanese, David Bidussa e Jacopo Perazzoli nel saggio Siamo stati fascisti, composto a partire dalle testimonianze scritte dirette di personaggi protagonisti del tempo e legate insieme dai contributi introduttivi degli stessi autori.

Scritti di Pascoli, Papini, Tolomei, Salvemini, Tamaro, Nenni… e dello stesso Mussolini inducono il lettore a riflettere sul periodo storico oggetto di indagine, sulla mentalità del tempo, sulle idee politiche ma anche sulle azioni poste in essere, sul malessere diffuso e il malcontento generale della popolazione. Focalizzano l’attenzione sulle rivolte e le ribellioni, sulle repressioni, tentate o poste in essere, e sulle azioni intraprese o auspicate.

Il quadro che emerge dalla lettura del testo è uno spaccato dell’Italia di inizio Novecento, la narrazione che di essa si faceva e l’immaginario intorno al quale il fascismo ha rafforzato le sue basi.

Un immaginario costruito in risposta a un rinnovamento profondo del rapporto tra società e istituzioni. Un primo aspetto di questa trasformazione coincide con la progressiva sfiducia nei confronti della democrazia come luogo e come pratica di cittadinanza. Un secondo aspetto, legato al primo, è conseguenza del processo di democratizzazione giunto a un punto di svolta con la Prima guerra mondiale e con il varo del suffragio universale maschile. Un terzo aspetto è raffigurato dal ruolo di costruzione dell’opinione e del discorso antiparlamentare e antidemocratico che assumono e svolgono le avanguardie artistiche e culturali nell’Italia giolittiana.

Molto interessante risulta l’indagine condotta da Giulia Albanese volta al racconto di come il fascismo abbia determinato e cambiato la vita della minoranza socialista costretta all’esilio, interno o esterno, all’adattamento oppure alla rivoluzione. Una storia che si lega a quella, più generale, della trasformazione degli italiani da afascisti o antifascisti a fascisti.

Sottolinea infatti Albanese che, se la maggior parte degli italiani si adeguò progressivamente al fascismo, in gradi e con modalità diverse, o evitò di guardare in faccia ai vinti del fascismo, il fascismo agì però in maniera profonda nella comunità socialista (o comunista) – e in un pezzo del mondo popolare – disarticolandoli grazie ai bandi che colpirono capi lega e singoli esponenti.

L’intervento di Jacopo Perazzoli è focalizzato su quello che doveva essere lo stato d’animo degli italiani nel decennio compreso tra il 1911 e il 1921, cittadini di uno stato che, seppur annoverato tra i vincitori, era uscito decisamente sconfitto e provato dal Primo conflitto mondiale. Difficoltà che andavano a sommarsi a un quadro generale già gravato da profondi squilibri interni (sviluppo industriale non sistemico, alta disoccupazione, gestione latifondista delle terre da coltivare…).

D’altra parte, evidenzia Perazzoli, fu proprio il conflitto a trasfigurare la società italiana che, a guerra conclusa, ambiva a divenire protagonista, superando le rigidità di uno Stato, plasmato dalla classe dirigente liberale a partire dal 1861, incapace di includerla appieno nei suoi meccanismi e nei suoi processi decisionali.

L’attivismo dei ceti popolari si risolse in una risposta da parte della classe dirigente non declinabile in senso forzatamente reazionario; essa cercò di dare soluzioni a quelle inquietudini, a quelle insoddisfazioni, non ricorrendo alla democrazia parlamentare, bensì all’uomo forte, l’unico capace, per lo meno secondo i sostenitori di questa tesi, a dare ordine e speranza al Paese, così da trasformare l’«italietta liberale» in una potenza globale.

David Bidussa riprende le considerazioni di George L. Mosse su quel “nuovo” modo di fare politica di cui il fascismo fu iniziatore. Una politica che si riconosce per il fatto che segna un passaggio: più importante della parola scritta è la parola parlata. Più precisamente: la parola gridata, o forse ancora più precisamente la parola amplificata. Quel linguaggio ha molti autori, vive di molte fonti e del loro intreccio, e si forma nel corso della crisi italiana che non coincide con la guerra o con i turbamenti successivi, no è un qualcosa di precedente, che nasce prima, come ampiamente illustrato nel testo.

Lo scopo del libro è un invito a riflettere sul fatto che quello del fascismo non è ovviamente una parentesi o una deviazione. Ma non è, neppure, un luogo di per sé irripetibile, con forme rinnovate, nella storia italiana.

Bibliografia di riferimento

Giulia Albanese, David Bidussa, Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2020


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la disponibilità e il materiale


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La lotta per salvare la classe media è la nostra lotta? “Questa lotta è la nostra lotta” di Elizabeth Warren (Garzanti, 2020) 

L’Italia nella Prima guerra mondiale, un’inutile strage 

La responsabilità globale del ‘deserto esistenziale’ de “L’infanzia nelle guerre del Novecento” di Bruno Maida (Giulio Einaudi Editore, 2017) 

“Il Paradiso dei folli” di Matteo Incerti (Imprimatur, 2014)


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“I meccanismi dell’odio” di Eraldo Affinati e Marco Gatto (Mondadori, 2020)

02 venerdì Ott 2020

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EraldoAffinati, Imeccanismidellodio, MarcoGatto, Mondadori, recensione

Nella società attuale si assiste a un crescendo vorticoso di estremizzazioni e strumentalizzazioni che, non poco, hanno contribuito a ingenerare un clima di tensione e risentimento che spesso, troppo spesso, si concretizza in atti di violenza posti in essere da soggetti che, in fondo, si sentono anche legittimati a compierli essendo in linea con quanto letto, ascoltato oppure visto.

Eraldo Affinati e Marco Gatto, autori de I meccanismi dell’odio, ritengono necessaria una riflessione profonda in questo momento difficile e tormentato che si protrae da almeno venti anni, non solo in Europa. Una riflessione che si concentri più sui nodi irrisolti e sui grovigli non sciolti perché sono forse più importanti finanche delle ipotetiche soluzioni avanzate.

Il libro di Affinati e Gatto si compone di cinque distinte parti scritte, quasi per intero, nel tempo precedente l’esplosione della pandemia. Tuttavia, la Covid-19 è entrata a gamba tesa anche ne I meccanismi dell’odio e, nelle parti aggiunte, gli autori riportano molte riflessioni intorno ad essa.

Per la gran parte, in realtà, sono pensieri, attimi di vita, gesti… dai quali e nei quali gli autori hanno voluto cogliere un segnale, positivo o negativo, comunque un input che li ha aiutati a percepire la direzione verso cui gli italiani stanno andando.

Sono le disuguaglianze sociali il tema da cui partono Affinati e Gatto e intorno al quale costruiscono l’intera parte iniziale del testo. Ed è sempre mantenendo lo sguardo fisso su di esse che sembrano scrivere l’intero libro, o dialogo, come preferiscono indicare il loro scritto. In effetti le voci narranti sono due, quelle degli autori appunto, che si intervallano continuamente, come un dialogo, e ciò in genere non sempre è piacevole per chi legge. Nel libro in oggetto invece potrebbe anche essere stata una buona scelta. L’interruzione a ogni singolo blocco consente al lettore, infatti, di riflettere sulle riflessioni appena lette, perdonate la voluta ripetizione, e prendere quindi del tempo utile anche per assimilare informazioni o formulare considerazioni proprie.

Le disuguaglianze sociali ed economiche, lungi dall’attenuarsi, sono diventate pressoché insostenibili al punto che si è dovuto, per forza di cose, trovare dei responsabili per l’attuale situazione. Il perfetto capro espiatorio è stato individuato nei migranti verso i quali ogni possibile colpa è stata indirizzata. Responsabilità perlopiù presunte che sono state estremizzate e strumentalizzate anche e sopratutto politicamente per veicolare odio, rancore, livore e risentimento delle masse.

Il lungo discorso portato avanti dagli autori nel testo trova la sua conclusione nell’ultima parte dedicata all’esposizione di una condizione-progetto nuova non tanto nei contenuti e nelle idee quanto nella sua realizzazione. Per avere una società diversa bisogna avere cittadini educati in maniera differente. Per fare ciò è necessario partire dalla scuola, istituto principe dell’educazione e formazione delle giovani menti che appartengono ai futuri cittadini.

Quello che propongono Affinati e Gatto, entrambi docenti, è un’esperienza pedagogica innovativa, anche se il termine che meglio sembra identificarla è: alternativa. In quanto per fare meglio a volte non è necessario o non serve innovare nel senso di cambiare tutto, basta o basterebbe anche solo procedere in maniera diversa, differente, alternativa appunto.

Essere insegnante oggi può sembrare un mestiere completamente diverso rispetto al passato eppure, per Affinati, ci sono dei punti fermi immutati, primo tra essi il nocciolo pedagogico. Con tutte le falle, i ritardi, le difficoltà… e qualsiasi negatività si voglia includere, la scuola ogni settembre riparte e lo fa inglobando in sé tutti i giovani e le loro menti ed è bello pensare, come fa l’autore, che in essa ognuno impari a pensare per diventare se stesso. O almeno possa provare a farlo.

Oggi la scuola serve, o dovrebbe servire, anche a diventare cittadini migliori, civili, sociali, magari anche globali, eticamente parlando. Capaci di vedere i fenomeni migratori con occhi che vadano ben oltre razzismi e campanilismi vari, come auspica lo stesso Gatto nel testo.

Ne I meccanismi dell’odio di Eraldo Affinati e Marco Gatto i problemi e le criticità concrete sono molto più ben caratterizzate delle ipotetiche soluzioni. Ciò è voluto ma è anche necessario, perché fin quando non si comprende appieno il problema non ci potrà mai essere una valida soluzione.


Articolo disponibile anche qui


LEGGI ANCHE

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Boringhieri, 2019) 

“L’immigrazione in Italia da Jerry Nasslo a oggi” a cura di Valerio De Cesaris e Marco Impagliazzo (Guerini e Associati, 2020) 

Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità. “Classificare, separare, escludere” di Marco Aime (Einaudi, 2020)

Perché abbiamo lasciato che ‘i nostri simili’ diventassero semplicemente ‘altri’? “Somiglianze, Una via per la convivenza” di Francesco Remotti (Editori Laterza, 2019)


 

 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)

25 venerdì Set 2020

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FrancoGarelli, Gentedipocafede, IlMulino, recensione, saggio

Cosa è cambiato nella religiosità e, soprattutto, nella spiritualità degli italiani del nuovo millennio? Quanto contano oggi i valori di fede ed etica? Il multiculturalismo ha inciso anche sugli aspetti più intimi della spiritualità?
Questi e tanti altri interrogativi trovano una valida ed esaustiva risposta nel saggio pubblicato dalla Società Editrice ilMulino Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio. Un testo nel quale il professor Franco Garelli raccoglie e analizza i risultati di un’ampia indagine, quantitativa e qualitativa, su religiosità e spiritualità oggi in Italia. Uno studio accurato che riporta al lettore un dettagliato resoconto e una approfondita analisi della società italiana, indagata attraverso la spiritualità e la religiosità ma elaborata nel suo vivere “civile” e quotidiano.

«Viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità:

la religione non fa eccezione.»

Franco Garelli è stato ordinario di Sociologia dei processi culturali e di Sociologia delle religioni all’Università di Torino ed è membro dell’International Society for the Sociology of Religion. Ha svolto l’indagine con il supporto dell’Apsor (Associazione piemontese di sociologia delle religioni), dell’Ipsos, dell’Università di Torino, della Cei.
Uno studio che si rivela fin da subito interessante per il lettore. Per la capacità di aver abbracciato, inglobato e indagato tutti, o quasi, i temi di fede, spiritualità, etica e bioetica i quali, spesso, sono al centro del dibattito pubblico ma solo perché riferiti o conseguenza di eclatanti fatti di cronaca. Nel libro di Garelli invece, sono sviscerati con occhio critico sì ma obiettivo e, dalla attenta lettura dei dati e delle riflessioni riportate, il lettore riesce davvero a prendere coscienza di dove stanno andando Italia e italiani in questo Terzo Millennio ormai rodato.

Da alcuni anni a questa parte, l’Italia religiosa è in grande movimento: per la crescita dell’ateismo e dell’agnosticismo tra i giovani, per l’aumento di fedi diverse da quelle della tradizione, per la ricorrente domanda di forme nuove o alternative di spiritualità.
A farne le spese sembra essere “quel cattolicesimo che per molto tempo ha rappresentato la cultura comune della nazione, ma che appare in difficoltà a raccordarsi con la coscienza moderna, nonostante la presenza a Roma di papa Francesco”.
In Italia non sta avvenendo quello che alcuni definiscono rottura silenziosa della tradizione religiosa, cosa che starebbe accadendo in altri paesi del Centro-Nord Europa, tuttavia “su tutto il discorso c’è un warning generazionale, che getta una luce sinistra sulle sorti del cristianesimo, ma fors’anche sul futuro della religione”.
Gli indici di religiosità presentano un andamento a scalare direttamente proporzionale al diminuire dell’età.

Inoltre, tutti oggi – credenti e non credenti – interpretano e vivono la loro condizione in modo più libero e aperto rispetto al passato. “È il lato soggettivo della vita umana che prende il sopravvento anche sulle questioni religiose e informa il modo in cui le persone si definiscono e percepiscono in questa sfera della vita”.

Oltre ad essere più incerto, il credente di oggi sembra anche più solitario. Affronta in solitudine le vicende della vita, ma anche le sfide che l’epoca attuale pone alla fede religiosa.
Sfide che derivano, ad esempio, dal contatto con quanti professano altre fedi o credono laicamente. Oppure dalla difficoltà di orientarsi in una sfera etica e bioetica in continua evoluzione. Oppure ancora dal vivere in un mondo globale, “ricco di inquietudini e paure, di disuguaglianze e di squilibri, di spettacoli del dolore”.

Garelli ricorda ai lettori che, fin dagli anni della contestazione – ’68 e dintorni – , alcuni studiosi evocano l’idea che nella chiesa “sia in atto uno scisma sommerso”, per la distanza di molti cattolici dalla dottrina ufficiale nella sfera dei comportamenti sessuali e famigliari. Ora l’autore si domanda se si stia delineando uno scisma analogo attinente la dottrina sociale della chiesa.

Al di là del differente giudizio sul pluralismo religioso, che si snoda tra coloro che quasi auspicano un allineamento al “mondo globale” e chi, invece, si dichiara preoccupato per l’aumento di “simboli religiosi che modificano il paesaggio abituale e sfidano le certezze consolidate”, si osserva negli italiani una preoccupazione diffusa: “la difficoltà di far convivere nella stessa società gruppi che esprimono credenze e culture diverse, portatori di domande – religiose e sociali – non facilmente componibili in un quadro unitario”.
Le riserve maggiori sono rivolte all’islam e quello con i musulmani “resta un rapporto scomodo”, perché sovente connesso al discusso fenomeno dell’immigrazione nonché per le tensioni che accompagnano la presenza dell’islam in tutto l’Occidente.
Diverso approccio invece si denota nei confronti del cristianesimo ortodosso e delle fedi orientali, verso le quali si ritiene svilupparsi un interesse culturale e spirituale che tende ad arricchire la nazione.

Pur non mettendo in discussione l’idea di una “verità religiosa”, si attenua, rispetto al passato, la convinzione che vi sia una verità assoluta, custodita da una sola confessione religiosa, mentre tutte le altre sarebbero portatrici di mezze verità o di verità parziali o false, in un contesto in cui molti ritengono che tutte le religioni esprimano delle verità importanti per la condizione umana, e che ognuna di esse offra un percorso di avvicinamento a quella “verità ultima che tutti ci sovrasta”.

In poco più di due decenni, il gruppo dei non credenti è aumentato di circa un terzo, a fronte di una riduzione di circa l’8% dei credenti. I più coinvolti nel fenomeno dell’ateismo sono i giovani. Inoltre, la non credenza aumenta anche in maniera inversamente proporzionale al livello di scolarizzazione, passando da un 13% per le persone con licenza elementare o prive di titolo, a un 35% per i laureati.
I maggiori ostacoli al credere derivano, per atei e agnostici, dalla presenza del male nel mondo e dal dissidio tra scienza e fede, ragione e religione.

Una parte dei “senza religione” sembra farsi carico di una particolare missione: “contrastare la pretesa della chiesa di rappresentare i sentimenti più autentici della popolazione”, ovvero uscire dall’equivoco di identificare l’Italia tout court con l’Italia cattolica e rivendicare pari dignità di considerazione sia per le idee dei credenti sia per quelle dei non credenti.
E ciò, specificatamente, sulle questioni calde oggi al centro del dibattito pubblico: i temi di vita, famiglia, bioetica, gender, diritti degli omosessuali, laicità dello stato…

Oltre il 70% degli italiani condanna, almeno come dichiarazione di principio: evasione, sfruttamento della manodopera, lavoro nero, favoritismi, assenteismo, infrazioni e via discorrendo. Una percentuale che però scende notevolmente tra i 18-34enni, tra i quali vi è una più elevata percentuale di accettazione di tali comportamenti che dovrebbero essere anomali. E stupisce un ulteriore gruppo sociale per cui risulta egualmente difficile l’accettazione e il rispetto delle regole base della convivenza civile: i divorziati e separati.
In situazioni di forte disagio, sia esso generazionale o personale, sembra quindi svilupparsi una maggiore sfiducia istituzionale e marginalizzazione che porta a una disaffezione rispetto alle regole e a minori aspettative e speranze per il futuro, nonché alla rarefazione della volontà di impegnarsi per la realizzazione di progetti e per il raggiungimento di obiettivi.

Negli ultimi decenni si è sensibilmente ridotto lo stigma nazionale nei confronti della pratica dell’omosessualità e si è anche attenuato il giudizio negativo sul consumo delle droghe leggere.
Ieri come oggi, invece, è rimasto pressoché invariato il numero di italiani (circa un quinto) che negano la liceità dell’aborto.
Largo consenso riscuotono le pratiche della riproduzione assistita, sia omologa che eterologa, mentre dividono ancora l’utero in affitto, la maternità oltre l’età feconda, gli esperimenti su embrioni umani a fini terapeutici e gli interventi sulle cellule umane per determinare alcune caratteristiche (statura, colore degli occhi…) su cui si registra il dissenso dei due terzi degli italiani.

Garelli sottolinea che non tutti gli aderenti alle principali fedi si comportano e la pensano allo stesso modo ma ciò è ancora più vero all’interno dell’appartenenza cattolica, differenze di “stile religioso” che delineano diversi e plurimi modi di interpretare l’identità cristiana o cattolica.
Inoltre, va ricordato, che da società a monopolio cattolico l’Italia si sta trasformando in una società permeata dalla varietà di fedi.
Il pluralismo culturale e religioso, non dovuto meramente al fenomeno migratorio, sembra porre ai credenti di ogni fede “una sfida più sottile e destabilizzante di quella della secolarizzazione”. Una sfida che introduce nella mente degli individui l’idea che vi sono diversi modi di credere – e di rispondere ai quesiti dell’esistenza -, che ogni società e cultura ha le sue forme del sacro, che è difficile ritenere vi sia un’unica fede depositaria della “verità”.

Il confronto con la diversità religiosa rende dunque più incerto e precario il credere di molti, mette in discussione la fede abituale, erode l’assunto (comune a molte religioni) che vi sia una forma superiore di conoscenza, che esista una “verità cognitiva e normativa assoluta”.
Circa metà della popolazione italiana si riconosce nell’idea – assai enfatizzata nell’attuale clima politico – che la presenza di fedi e culture diverse da quelle della tradizione costituisca una minaccia per l’identità culturale, a dire il vero già un po’ incerta, della nazione. L’altra metà invece ritiene sia o possa rappresentare una fonte di arricchimento culturale.
Pressoché universale è la condanna dell’estremismo religioso, che in tanti riconducono direttamente alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Altri, invece, si soffermano a pensarlo come esistente o possibile per qualsiasi fede religiosa, riportando l’attenzione, per esempio, “ai guasti provocati dalle crociate”.

Concludendo si può affermare con Garelli che questa è un’epoca che, anche nel campo religioso, è più segnata da flussi che da blocchi, caratterizzata da una ricerca di senso ondivaga, che si spinge sovente oltre i confini e fatica a riconoscersi nelle definizioni convenzionali.
Incerto e solitario, il credente di oggi sembra affidarsi a “un Dio più sperato che creduto”.
La poca fede, la fede debole può anche rappresentare, secondo Garelli, un tratto che accomuna i credenti di ogni confessione religiosa, che “esprime la perenne difficoltà della condizione umana a rapportarsi con un grande messaggio religioso”. Un tratto comune che, forse, potrebbe anche arrivare a diventare un tratto caratteristico e caratterizzante delle nuove forme, ora embrionali, di società multietniche, multiculturali e plurireligiose.

Bibliografia di riferimento

Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, ilMulino, Bologna, 2020


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La lotta per salvare la classe media è la nostra lotta? “Questa lotta è la nostra lotta” di Elizabeth Warren (Garzanti, 2020)

31 lunedì Ago 2020

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ElizabethWarren, Garzanti, Questalottaelanostralotta, recensione, saggio

Per Elizabeth Warren, l’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Utilizzando tutti i mezzi possibili: politiche fiscali, investimenti nell’istruzione pubblica, nuove infrastrutture, sostegno alla ricerca, regole di protezione per i consumatori e gli investitori, leggi antitrust.

Ma ora tutta le gente è, giustamente, preoccupata. Preoccupata e arrabbiata. Giustamente.

Lo è perché, nonostante si ammazzi di lavoro, non vede praticamente crescere il proprio reddito. Perché le spese per la casa e l’assistenza sanitaria erodono quasi completamente il suo bilancio. Perché pagare l’asilo o l’università dei figli è diventato impossibile. Perché gli accordi commerciali sembrano creare posti di lavoro e opportunità per la manodopera in altre parti mondo, lasciando le fabbriche in territorio americano abbandonate. Perché i giovani sono strozzati dai prestiti studenteschi, la forza lavoro è fortemente indebitata e per gli anziani la sicurezza sociale non riesce a coprire le spese della vita di tutti i giorni.

L’attuale situazione sta impoverendo sempre più il ceto medio e distruggendo la democrazia. Una condizione che risulta essere molto simile a quanto sta accadendo in altri paesi occidentali, Italia compresa, ovvero in tutte o quasi le potenze del vecchio mondo.

Warren sottolinea come i meccanismi di questa democrazia così duramente conquistata e infinitamente preziosa sono stati in realtà fortemente alterati.

Il sistema oggi funziona ancora bene per chi si trova ai vertici. Per ogni azienda abbastanza grande da assumere un esercito di lobbisti e avvocati. Per ogni miliardario che in proporzione paga meno tasse rispetto a un semplice dipendente. Per tutti coloro che hanno abbastanza soldi per comprare favori a Washington.

Si tratta di un tipo di corruzione molto più insidioso e pericoloso di quella “tradizionale”, vecchio stile, con bustarelle piene di denaro contante, perché sta trasformando il governo in uno strumento nelle mani di quanti già possiedono ricchezze e influenze.

L’autrice elenca tutta una serie di dati su cui è bene riflettere:

  • Più del 70% degli americani crede che gli studenti dovrebbero avere accesso all’istruzione senza doversi indebitare.
  • Quasi tre quarti degli americani sono a favore di un ampliamento della previdenza sociale.
  • Due terzi degli americani sono a favore dell’avvento del salario minimo federale.
  • Tre quarti degli americani vogliono che il governo federale aumenti la spesa per le infrastrutture.
  • Un numero di americani pari al doppio degli elettori di Trump vorrebbe salvaguardare e rafforzare l’Ufficio per la tutela finanziaria dei consumatori.

E sembra avere ben chiaro in mente anche il modo con cui riuscire ad ottenere tutto ciò: aumentando le tasse di chi sta ai vertici.

Il punto però è che ciò è quello in cui crede la grande maggioranza degli americani: democratici, repubblicani, indipendenti, libertari, vegetariani… E ognuno di questi gruppi è convinto che saranno i rispettivi leader ed esponenti politici a perseguire gli obiettivi una volta raggiunti i palazzi del potere.

Nel 2016, è la stessa Warren ad ammetterlo nel testo, proprio mentre montavano tutte queste preoccupazioni e questa rabbia, arrivò un imbonitore che fece grandi promesse. Un uomo che giurava avrebbe bonificato la palude della politica.Un uomo a cui hanno creduto tanti americani. Un uomo che è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America.

Quello che vogliono gli americani è chiaro. Su chi hanno puntato per ottenerlo nel 2016 anche. La domanda è su chi cadrà la scelta alle prossime imminenti elezioni presidenziali. 

Nel saggio Elizabeth Warren racconta numerosi aneddoti e testimonianze che ha personalmente raccolto nel mondo del ceto medio americano. Storie anche molto tristi di persone che hanno perso il lavoro, la casa, la stabilità, la sicurezza, la possibilità di studiare, la speranza in un futuro migliore. Storie vere senza ombra di dubbio alcuno. Storie più diffuse di quanto normalmente si pensi, anche.

Ma la gente si compone, in America come altrove, in maniera molto variegata. Magari non le persone intervistate dall’autrice ma altre, con storie simili, potrebbero anche appoggiare quelle idee e quelle scelte che per Warren sono inconcepibili, e magari arrivare davvero a pensare che un muro lungo il confine messicano avrebbe risolto chissà quanti e quali problemi. E forse, nonostante tutto, lo pensano ancora.

È successo anche altrove. È successo anche in Italia.

Il 20 gennaio 2017 a Washington l’autrice narra di essere rimasta molto turbata da uno striscione tenuto da alcuni manifestanti. Un rettangolo di stoffa su cui figuravano grandi e poche lettere, un’unica parola scritta tutta in maiuscolo: FASCISTA.

Warren afferma di aver già sentito usare quella parola quando era solo una bambina, una parola che era un’offesa. Ma che quel giorno le risuonò nella mente in maniera differente, per certo più incisiva.

Ci sono posti che invece quella parola la conoscono bene, ne conoscono gli effetti, eppure sembra che, proprio in quei luoghi, l’accezione negativa non sia più tanto tale.

In Europa, in molte parti di essa, sembra quasi che si guardi a quel periodo con nostalgia e a farlo non sono sette o gruppi segreti, è la gente, la stessa di cui racconta anche la Warren, quella arrabbiata e preoccupata, giustamente, per il proprio futuro. Molto arrabbiata e molto preoccupata e, forse, proprio per questo facilmente permeabile dalle idee di coloro che mostrano loro i “reali” colpevoli della triste situazione in cui versano.

Ma la soluzione non è mai così semplice, e più i problemi sono grandi più il percorso da compiere è lungo e difficile. Ed è esattamente questo che vuol fare Elizabeth Warren: perseverare, resistere, insistere, lottare, ogni giorno, e farlo per il dono sorprendente che abbiamo ereditato dalle generazioni di americani che ci hanno preceduto: la nostra democrazia.

Perseverare, resistere, insistere, lottare.

Un libro, Questa lotta è nostra lotta di Elizabeth Warren che è un manifesto per i diritti umani e civili dei lavoratori americani, che dovrebbe essere sottoscritto dai lavoratori di ogni parte del mondo.


Bibliografia di riferimento

Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020.

Traduzione dall’inglese di Paolo Lucca.

Titolo originale dell’opera This fight is our fight. The battle to save America’s middle class

L’autore

Elizabeth Warren ha insegnato diritto commerciale presso l’Università di Harvard prima di essere eletta senatrice del Massachusetts e candidata alle primarie del partito democratico per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.


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“Il Seme della Speranza” di Emiliano Reali (Watson edizioni, 2020)

11 martedì Ago 2020

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EmilianoReali, fantascienza, fantasy, IlSemedellaSperanza, recensione, Watsonedizioni

A maggio 2020 esce, con Watson edizioni, la versione rinnovata del fantasy di Emiliano Reali Il Seme della Speranza. Un libro strutturato su diversi livelli di scrittura che danno adito ad altrettanti strati interpretativi. Una storia creata per essere una amena lettura, per i lettori più giovani che tanto sembrano apprezzare il genere, oppure un profondo e articolato spunto di riflessione su tematiche varie ma tutte di stretta attualità.

Come molti romanzi di fantascienza le vicende narrate si sviluppano a cavallo tra due realtà, o mondi come vengono definiti in questo caso. Il primo, quello dominato dalla magia, simbolicamente perfetto in ogni sua manifestazione, l’altro, corrispondente al pianeta Terra, devastato da tutta una serie di problematiche che vanno dai danni all’ambiente alla depravazione dei suoi abitanti.

Nell’eterna lotta tra il bene e il male entrano in gioco, nel libro di Reali, vari elementi presi dall’immaginario collettivo o da influenze religiose. Come il libero arbitrio donato agli uomini della Terra dalla generatrice del mondo magico Spirya. Una libertà dosata male e usata anche peggio che condurrà all’apparente irreversibilità del degrado e della distruzione, che coinvolgerà anche la medesima dea sovrana.

Ma, come ogni fantasy che voglia definirsi tale, ci saranno gli impavidi protagonisti pronti a tutto pur di salvare capre e cavoli, in questo caso mondo vero e mondo magico. Quattro Spiriti fratelli che sono l’incarnazione degli elementi principali: acqua, aria, terra, fuoco.

Tra accadimenti avventurosi, ripensamenti e risentimenti, battute d’arresto e riprese motivazionali si snoda la seconda parte della storia, in parallelo tra i due mondi legati a doppio filo nel bene e nel male. Un fantasy che a tratti sembra strizzare l’occhio alle più classiche delle fiabe per bambini, dove la morale invita tutti a non arrendersi mai, neanche davanti a difficoltà che sembrano insormontabili. A dire il vero, molti sono gli elementi presenti nel libro di Emiliano Reali che rimandano al mondo delle fiabe prima ancora che al fantasy vero e proprio. Non da ultimo il talismano magico che si rivelerà fondamentale per la buona riuscita dell’eroica impresa del protagonista, il seme della speranza appunto.

La parola d’ordine del libro comunque resta senza ombra di dubbio alcuno fantasia. L’autore ha senz’altro dato libero sfogo alla sua fantasia, trascrivendo avventure e personaggi che deve aver coltivato per anni nel suo personale immaginario, inserendo nel testo una quantità davvero notevole di personaggi, oggetti, ambienti e situazioni al punto che, a tratti, il libro tende ad assomigliare a un immenso calderone magico all’interno del quale ribollono tutti insieme, personaggi e accadimenti, e il lettore si aspetta, da un momento all’altro, una grande e potente “esplosione”. Ed è proprio grazie a ciò che si riesce a mantenere alto il livello di attenzione durante la lettura. La scrittura, invece, non subisce particolari o rilevanti climax ascendenti, mantenendo al contrario un ritmo pressoché costante.

Il registro narrativo è semplice e chiaro, il fraseggio breve e, fatta eccezione per la terminologia che potremmo definire tecnica del fantasy, lo stile è tutto sommato lineare. Di sicuro questo potrebbe agevolare la lettura da parte di un pubblico più giovane al pari della velatura protettiva con la quale sono nascosti gli argomenti più sensibili trattati nel testo, che potrebbero, in questo modo, anche sfuggire a giovani lettori per i quali rischierebbero di non essere adatti senza un adeguato supporto e sostengo.


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Il romanzo tra eroi fantasy e avventura. Intervista a Lorenzo Camerini e Andrea Gualchierotti per “Gli eredi di Atlantide” 

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“L’immigrazione in Italia da Jerry Masslo a oggi” a cura di Valerio De Cesaris e Marco Impagliazzo (Guerini e Associati, 2020)

04 martedì Ago 2020

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GuerinieAssociati, LimmigrazioneinItalia, MarcoImpagliazzo, recensione, saggio, ValerioDeCesaris

Valerio De Cesaris e Marco Impagliazzo si occupano da anni del tema, con tutto il carico emotivo che ne deriva, e hanno deciso di raccogliere dati, analisi e riflessioni nel libro edito da Guerini e Associati a giugno di quest’anno: L’immigrazione in Italia da Jerry Masslo a oggi.

La scelta del titolo naturalmente non è casuale. Vuole fin da subito portare o riportare la mente del lettore ai tragici fatti dell’agosto del 1989, allorquando gli italiani non poterono più nascondere di non essere né migliori né diversi dagli altri. Un episodio grave, gravissimo, aveva costretto tutti a fare i conti con la propria coscienza.

Non si poteva più fingere di non sapere chi in realtà fossero le persone che si occupavano della raccolta del cibo che quotidianamente confluiva sulle tavole dei cittadini italiani e, soprattutto, il triste grado di sfruttamento cui erano sottoposte.

Lo spirito di sdegno che si elevò subito dopo l’uccisione di Jerry Masslo poteva anche lasciare adito a sentimenti di speranza affinché le cose cambiassero e, quanto accaduto, non si ripetesse mai più.

Speranze. Vane.

Basta leggere i dati delle indagini, delle inchieste e dei reportage per realizzare quanto lunga sia invece la strada ancora da percorrere.

Marco Omizzolo, nella sua inchiesta diventata un libro1, ricorda che in Europa sono circa 880mila i lavoratori costretti a varie forme di subordinazione e ricatto e che negli 80 distretti agricoli italiani sono presenti, tranne rare eccezioni, condizioni di lavoro, di alloggio e sanitarie in costante violazione dei diritti umani.

Ma sono in tanti a pensare che, in fondo, se le condizioni non gli stanno bene questi lavoratori se ne possono anche ritornare da dove sono venuti.

Già da dove sono venuti.

Jerry Masslo era originario dello stesso bantustan di Nelson Mandela ed era fuggito da un Sudafrica in piena apartheid a soli 29 anni. Prima di intraprendere il lungo viaggio verso l’Europa, aveva portato sua moglie e due figli nello Zambia, perché ritenuto luogo più sicuro. Un altro suo figlio era stato ucciso da una pallottola vagante durante una manifestazione per i diritti dei neri. Il suo sogno era riuscire a raggiungere il Canada e ricongiungersi con il resto dei famigliari.

Il lavoro nei campi a Villa Literno, dove è stato poi ucciso, era una necessità. Non un piacere o una scelta.

Ma tutto questo, ovvero le esistenze che ci sono dietri i numeri di cui tanto si parla, ancora oggi, molto spesso, si preferisce ignorarle. Meglio disumanizzarle rendendole meramente cifre, numeri, statistiche, problemi o emergenze da affrontare. Solo che così facendo a disumanizzarsi non sono loro.

La verità è che ha ragione Marco Aime quando scrive che è triste, in un terzo millennio già avanzato, doversi ancora occupare di razzismo2.

Nonostante l’evidenza dei fatti, tutt’ora si continua ad affrontare il tema delle migrazioni come fosse un’emergenza, un problema la cui soluzione va ricercata in accordi e trattative più o meno lecite che poco o nulla tengono in considerazione le vite, le esistenze dei migranti stessi. Lo scopo molto spesso è accontentare l’elettorato o peggio guadagnarci qualcosa.

Secondo Iain Chambers, il razzismo non è una semplice patologia individuale o di gruppo, ma una struttura di potere che continua a generare la gerarchizzazione del mondo3.

Il testo curato da De Cesaris e Impagliazzo si compone di numerosi contributi, nei quali i rispettivi autori trattano il tema dell’immigrazione da varie angolazioni che vanno dall’aspetto umano e sociologico a quello politico e geopolitico e, pur essendo una pluralità di voci, ben sembrano armonizzarsi tra di loro regalando al lettore una interessante e riflessiva lettura.

1Marco Omizzolo, Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Milano, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019

2Marco Aime, Classificare, separare, escludere. Razzismi e identità, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2020

3Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale, Milano, Meltemi Editore, 2018


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Ognuno guarda il mondo convinto di esserne il centro: Razzismi e Identità. Recensione a “Classificare, separarare, escludere” di Marco Aime (Einaudi, 2020) 

L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

La questione migranti non può risolversi in mare, lì bisogna solo salvare vite. “Immigrazione. Cambiare tutto” di Stefano Allievi (Editori Laterza, 2018) 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Borignhieri, 2019) 


 

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“Civiltà Appennino. L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni” di Raffaele Nigro e Giuseppe Lupo (Donzelli, 2020)

26 domenica Lug 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CiviltaAppennino, Donzelli, GiuseppeLupo, RaffaeleNigro, recensione, saggio

La Storia ci ha insegnato e abituato a un’Italia divisa, frammentata nei vari stati e contesa da stirpi, rami, dinastie e imperi che l’hanno sempre pensata come composta da tre ampie zone: un Nord, un Centro e un Sud. Ancora oggi questa distinzione, più di tanto altro, sembra esserne una delle caratteristiche più ampiamente riconosciute.

Si chiede però Raffaele Nigro perché debba essere così suddivisa l’Italia e non, per esempio, in senso opposto, ovvero come egualmente tre zone ma disposte in senso verticale. Avremo quindi una fascia tirrenica, una adriatica e una lunga e sinuosa lisca centrale formata dalla dorsale che per intero l’attraversa. Ecco allora apparire la catena montuosa degli Appennini non solo e non tanto nella sua accezione geo-morfologica più classica, ma come vera e propria anima di una civiltà che ad essa si conforma, da essa prende forma e con essa si trasforma.

Ogni luogo natio imprime nel carattere e nella mente dell’individuo il suo tratto peculiare ma l’Appennino, nelle parole di Giuseppe Lupo, fin da subito insegna ai suoi “figli” a vivere in uno stato di sospensione, «non appartenere più alla geografia che ci ha originati e tuttavia non essere legati nemmeno al luogo dove ci si ferma per mettere radici».

Uno stato di sospensione che sembra caratterizzare anche la narrazione dell’intero saggio: tra passato, presente e futuro; tra antico, rurale e moderno; tra suggestione, tradizione e innovazione; tra identità, somiglianza e ribellione.

Ma qual è lo scopo di una visione verticale dell’Italia appenninica?

Lo scopo degli autori, come anche della Fondazione cui il loro lavoro di scrittura è legato, non sembra essere tanto quello di ricercare un’affinità, un’omologazione che renda l’Italia tutta uguale, unita e indistinta, quanto piuttosto quello di trovare l’unione proprio nella diversità, in quelle differenze che, a ben guardare, acquistano il sapore della somiglianza. In quello spirito di adattamento a un territorio che sa essere impervio e ostile, almeno quanto può essere dolce e ospitale. Un adattamento diverso, che ha generato luoghi diversi eppure affini, nell’animo di chi li abita.

È un’idea, quella di Civiltà Appennino. Un’idea cui ha fatto seguito un progetto. Un’idea e un progetto ambiziosi ma non presuntuosi. Una ricerca che vuol condurre la civiltà a ripensare questi luoghi, a riabitare, a rivivere l’Appennino ma non nel senso, o almeno non soltanto, di una riscoperta del passato, dell’antico, del rurale. Piuttosto nel pensare un modo nuovo di abitarli, che non sia slegato dalla contemporaneità e, soprattutto, che sia proiettato verso il futuro.

Un sogno forse, che ad alcuni potrebbe anche apparire come un’inutile utopia eppure nel senso profondo che spinge gli autori a portare avanti le loro idee si intravede una potente resilienza che non è animata da nostalgia bensì da una grande passione, per la vita, per un’esistenza che sia scandita dai ritmi dell’uomo e perché no, anche della natura, fermo restando il suo essere una vita moderna.

Bibliografia di riferimento

Raffaele Nigro, Giuseppe Lupo, Civiltà Appennino. L’Italia in verticale tra identità e rappresentazioni, Roma, Donzelli Editore, 2020


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Donzelli Editore per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Credits per le immagini, tranne la copertina del libro, www.pixabay.com


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Dalla parte dell’assassino” di Pietro De Sarlo (Altrimedia Edizioni, 2020)

15 mercoledì Lug 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Altrimedia, Dallapartedell'assassino, PietrodeSarlo, recensione, thriller

Ci sono molti modi per indagare e riflettere sulla società e sulla contemporaneità. Pietro Francesco De Sarlo ha scelto di farlo attraverso le storie che racconta e i personaggi che inventa.

Dalla parte dell’assassino è un romanzo giallo nel quale l’autore inserisce tratti tipici del romanzo poliziesco e tratti peculiari invece dei romanzi di formazione.

Partiamo dal protagonista, un commissario che è innanzitutto un cittadino, scontento del modo in cui la società, lo Stato che egli stesso “serve” ogni giorno, lo tratta. Una persona che stenta a comprendere e fare proprie le dinamiche dell’era digitale. Orfano di ogni riferimento, anche professionale, travolto com’è da un mondo in continua evoluzione, tanto lontano da quello in cui è cresciuto da sentirlo estraneo. La velocità vorticosa che muove tutto intorno a lui è talmente celere per i suoi flemmatici tempi e ritmi che sembra quasi esserne trascinato e, in alcuni passaggi della narrazione, si figura il paradossale scenario nel quale sono gli accadimenti e inseguire lui piuttosto che egli rincorrerli per svelare il mistero che avvolge i delitti.

Nonostante il ritmo serrato del libro, la storia si apre al lettore lentamente, a piccoli pezzi alla volta. Si parte da una vicenda con un interesse personale e limitato e mai ci si sarebbe aspettati poi di vederla illuminare l’immenso scenario che ne deriva da quella sorta di effetto domino che scatenano gli eventi narrati.

Una storia di omicidi che mette a dura prova il commissario il quale sembra essere l’unico a nutrire interesse verso la risoluzione del caso. Un’impresa narrata quasi come un’avventura donchisciottesca, nella quale risalta e contrasta la sua caparbia volontà di proseguire nelle indagini nonostante appare l’unico a voler dare la caccia a un omicida le cui vittime erano invise ai più.

Una ruggine che in realtà acquista quasi sempre, durante tutta la narrazione, i contorni di un vero e proprio risentimento ostile rivolto verso una società in completa avaria e verso i suoi rappresentanti più in vista, responsabili e capro espiatorio per eccellenza di un mondo sbagliato nel fondo e nel profondo. Una società descritta con una cura particolare per i luoghi e per le persone, specchio di un’Italia intera e di un sistema che sta portando il Paese a una vera e propria svendita di beni materiali e immateriali.

De Sarlo spazia dalla politica all’economia, da riflessioni di carattere sociale ad analisi di geopolitica internazionale. Immette nel testo fatti e personaggi reali o realistici. Avanza anche delle responsabilità, dirette o indirette, riguardo azioni o decisioni che hanno portato o contribuito alla situazione attuale. Ma riesce ad inglobare il tutto all’interno della storia principale senza appesantire la narrazione che, al contrario, risulta leggera e scorrevole con diverse punte ben inserite di ironia capaci di suscitare nel lettore una sincera ilarità.

Lo stile narrativo di De Sarlo è molto curato. Dimostra infatti l’autore di dedicare particolare attenzione ai dettagli, alla costruzione del periodo e, dal punto di vista narrativo, all’intreccio. I personaggi, in particolar modo il protagonista, sono ben caratterizzati, studiati e definiti proprio per assolvere il ruolo che l’autore ha voluto attribuire loro. Funzionali a un racconto che sembra però anch’esso funzionale ad essi. Un gioco di rimandi che, lungi dall’ingenerare confusione, consente a chi legge di rimanere ben ancorato alla realtà, nonostante si tratti ufficialmente di un’opera di fantasia e che pare rifarsi all’evidenza largamente condivisa della realtà che quasi sempre supera di la fantasia e l’immaginazione.

Uno stile, quello di Pietro De Sarlo, che diventa un vero strumento di indagine e riflessione sulla contemporaneità senza pretesa di esserlo. Una lettura, Dalla parte dell’assassino, fuor di dubbio piacevole e interessante.


Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale


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