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Irma Loredana Galgano

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“Il complotto Toscanini” di Filippo Iannarone (Piemme, 2018)

18 sabato Apr 2020

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FilippoIannarone, IlcomplottoToscanini, Italia, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone, edito da Piemme in prima edizione a gennaio 2018, si apre al lettore con una citazione di Lucio Anneo Seneca.
«Non osiamo molte cose non perché sono difficili, ma molte cose sono difficili perché non osiamo».
E l’autore, in questo libro, ha osato molto. Un esempio ben costruito e ben riuscito di come i fatti storici reali diventino poi, grazie alla fantasia e all’immaginazione, un canovaccio che rappresenta solo la base di partenza e, al contempo, una piccola parte seppur non marginale, della storia presentata al lettore.

Iannarone, attraverso la descrizione dei ricordi dei protagonisti o degli accadimenti della storia narrata, racconta i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, le speranze e le paure non di un gruppo o di una generazione, bensì di un’intera nazione.
Dopo gli orrori del conflitto, le atrocità della guerra, i combattimenti, i bombardamenti, la distruzione, le rovine… l’Italia sembra risorgere. E per tutti si profila non il desiderio di ricostruire il vecchio, il passato, ma di creare davvero un Paese nuovo, sotto l’egida del grande rinnovamento chiamato Repubblica.
Anche se l’ombra del male, della sofferenza, del dolore e della morte non abbandona nessuno di quelli che l’hanno guardata dritta negli occhi. Il male del conflitto, della guerra, del fanatismo, dell’estremismo, del fascismo e del nazismo.

Notevole anche il modo in cui l’autore riesce a descrivere il profondo rapporto che unisce i protagonisti, Luigi e Iolanda. Un legame che si è creato cercando di strapparlo al buio della vita che finisce. Un’esistenza, quella di Luigi, che è rinata giorno dopo giorno accanto a quella donna che poi sarebbe diventata sua moglie. Ad unirli l’amore, certo, ma anche la passione, il coraggio, gli ideali e gli intenti comuni. Elementi tutti che hanno contribuito a saldare un rapporto nel quale entrambi si vedono e si rispecchiano perfettamente.
Grande l’abilità narrativa di Iannarone nel comunicare al lettore questi sentimenti forti, intensi, lasciandoli trasparire da pochi piccoli gesti e parole legati, tra l’altro, alla “banale” quotidianità.

«La costruzione della comunicazione di buone notizie è ancor più importante in democrazia» perché «la percezione da parte della gente comune di vivere in un paese normale ci permetterebbe di avere meno problemi di ordine pubblico, di disperdere questa continua incitazione al conflitto sia da destra sia da sinistra». Iannarone centra un nodo dolente della democrazia, di tutte le democrazie occidentali, le quali hanno saputo costruire un’immagine mediatica di se stesse basata sulla libertà di pensiero e di idee e sulla libera circolazione delle stesse. Al contempo, hanno sempre puntato su una comunicazione che indichi la propaganda come un qualcosa che non appartiene alla democrazia bensì ai regimi dittatoriali.
Le democrazie in effetti non impongono se stesse, regalano invece una bella, positiva e propositiva immagine di sé.

Riesce l’autore a descrivere e trasmettere al lettore la società italiana degli anni Trenta, come anche di quella dell’immediato dopoguerra, sul finire degli anni Quaranta. Esemplare il modo in cui riesce a cogliere e descrivere anche le minime sfumature comportamentali rispetto ai suddetti periodi, i quali, seppur non lontani sulla linea del tempo, lo sono stati molto invece per tutto il resto. Egual ragionamento vale per i rapporti di genere e di classe. Leggendo Il complotto Toscanini si realizza quanto in effetti il mondo sia cambiato e quanto, invece, sia rimasto invariato o addirittura peggiorato.

Il rapporto tra Luigi e Iolanda, quello professionale molto rigido e gerarchico, la società italiana e le sue classi. I ruoli sociali e famigliari degli uomini e delle donne. Il che non vuol significare che le donne non lavorassero anche fuori di casa, allora come adesso. Vi era solo una più netta e definita distinzione tra i generi che al giorno d’oggi sembra essere stata colmata solamente in apparenza. In realtà si intravede solo una gran confusione, un’illusione di progresso e di parità. Una zona grigia che troppo spesso produce ombre deformi e pericolose.

L’emancipazione femminile di cui tanto si narra deve, per essere cosa seria e concreta, passare necessariamente attraverso la parità, l’eguaglianza e il rispetto reciproco di diritti e doveri. Altrimenti è una farsa. E, purtroppo, è quello a cui sembra di assistere quotidianamente. Come per la comunicazione anche per i diritti civili le battaglie come i traguardi sono tutt’altro che lontani ricordi da poter archiviare.

Ottima la struttura narrativa del libro. Una solida “impalcatura”che regge bene l’intreccio sviluppato lungo una doppia linea temporale. Il presente e il passato che si avvicendano nei vari capitoli che vanno a comporre il testo ma che si intersecano di continuo nel racconto, nello svolgersi delle vicende e nella narrazione dei ricordi o dei pensieri.

Dalla lettura del testo si evince chiaramente il dettagliato lavoro di ricerca preventivo eseguito da Iannarone, il quale deve essersi accuratamente documentato non solo sulla storiografia dell’epoca nella quale ha deciso di ambientare la sua storia, ma anche sui costumi e le abitudini del tempo. I protagonisti infatti vestono, parlano e hanno delle movenze che li identificano perfettamente nel periodo considerato.

Grazie a una cura particolare per i dettagli, a “pause narrative” nelle quali il colonnello Luigi Mari e il suo assistente, il tenente Vinicio Barbetti, fanno il punto della situazione e di quanto scoperto, alle analisi e ai racconti storico-letterari del colonnello o dei suoi intervistati, l’autore riesce a rendere famigliare per il lettore l’intera vicenda, pur nella sua complessità, i tanti personaggi e anche l’ambiente.

Nei ringraziamenti Iannarone sottolinea come lo abbia aiutato la grande passione per la musica e questo sarà certamente vero. Ma deve essergli occorso uno studio profondo e articolato per ricostruire nel suo libro ambienti e accadimenti cui è impossibile abbia presenziato. Ciò che i suoi occhi non hanno visto direttamente, la sua mente ha fatto propri grazie a un minuzioso processo di immedesimazione che poi deve aver trasferito al protagonista, Luigi Mari.

La storia raccontata ne Il complotto Toscanini è un’indagine investigativa indiretta, ovvero condotta da persone diverse dagli inquirenti incaricati ufficialmente, e posticipata nel tempo. Molti anni dopo l’omicidio. Il punto di partenza è una verifica su una celebrità, il maestro Toscanini, al fine di meglio valutare la sua candidatura a senatore a vita.
Nonostante questo, nulla manca al libro rispetto un più classico poliziesco. Piuttosto molto altro si ritrova nel testo di Iannarone.

Informazioni storiche, artistiche, letterarie che arricchiscono la narrazione senza appesantirla e, al contempo, dilatano il lavoro di indagine. Del tutto compatibile con il carattere peculiare dell’investigazione, non ufficiale appunto e non finalizzata a scovare il colpevole e assicurarlo alla giustizia.

Un testo molto valido, Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone. Un’ottima opera letteraria che merita senz’altro di essere letta anche come punto di riferimento e apprendimento.


Articolo originale qui



Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Trasformare un ambiente magico in opera d’arte. “Napoli velata e sconosciuta” di Maurizio Ponticello (Newton Compton Editori, 2018)

13 lunedì Apr 2020

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MaurizioPonticello, Napoli, Napolivelataesconosciuta, NewtonCompton, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano

 

Uno dei meriti che vanno senz’altro riconosciuti ai fratelli Carracci, in particolare Annibale, è l’aver trasformato la vita quotidiana in opera d’arte. Celeberrimo ed esemplare il suo dipinto Bottega del Macellaio (o Grande Macelleria, 1585 ca., olio su tela, 190×271, Oxford, Christ Church Gallery).
Perché sono solamente la vita vera, l’ambiente reale che ci circonda, le persone che lo vivono, lo attraversano, lo modificano, consapevolmente o meno, il capolavoro di cui alla fin fine vale sempre la pena narrare.
Bene lo ha compreso Maurizio Ponticello, il quale da anni ormai indaga a fondo ogni remoto angolo o mistero della sua città, del suo ambiente, per svelarne aspetti reconditi o mal interpretati. Una passione la sua che non smette di meravigliare il lettore, per quello che trova leggendo certo, ma anche per l’impegno e la dedizione, la professionalità e la serietà con cui porta a termine i suoi lavori.
Da ottobre 2018 nuovamente in libreria con Napoli velata e sconosciuta, edito da Newton Compton, un libro sui luoghi e simboli dei misteri, degli dèi, dei miti, dei riti, delle feste. Napoli, la città forse più raccontata al mondo, la metropoli di cui si pensa di conoscere architettura e cultura. Eppure, ogni volta, leggendo i testi di Ponticello si resta basiti dal cumulo di pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni che l’autore ha dovuto “spalare” prima di poter raccontare di quella meravigliosa opera d’arte diffusa che è la capitale partenopea.

«Napoli non è stratificata solamente nel proprio impianto urbanistico, anche per arrivarle al cuore occorre andare di strato in strato, sempre più a fondo. Il suo nucleo vibrante è celato, e tale resta agli occhi indiscreti che hanno per la fonte di Mnemòsine. Napoli non giungerà nuda alla meta. Né mai ci sarà una meta.»

Napoli velata e sconosciuta si compone di due parti ben distinte. La prima affronta il mito della fondazione, i caratteri nascosti della Sirena eponima, e «la cifra sacra su cui nacque la città nuova»; la seconda è centrata sull’analisi di «alcuni dettagli presi a modello» per esplorarli secondo «il principio esoterico delle considerazioni da dentro e le considerazioni da fuori». Durante la lettura però le due parti non così distinte e il lettore ha l’impressione di leggere un flusso continuo di informazioni, aneddoti, miti, leggende, storie che abbracciano il sacro e il profano, la leggenda e la tradizione, il passato e il presente. Con lo sguardo rivolto anche verso il futuro.
Il criterio di indagine seguito da Ponticello è quello che lui stesso definisce “Metodo Tradizionale”, che muove dalle fonti originarie disponibili, mette insieme mito e storia e privilegia il linguaggio arcano del simbolo e della mitologia per interpretare la storia.
Pian piano che la velatura su Napoli e i suoi tanti misteri si solleva, grazie al certosino impegno di Ponticello, il lettore non può fare a meno di chiedersi se siano i napoletani ad abitare la città o se sia quest’ultima a vivere dentro di loro.
Napoli è poliedrica e l’analisi dell’autore non poteva non spaziare dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filologia, dalla glottologia alle religioni, dalla sociologia all’etnologia. Un lavoro di ricerca immenso che a tratti potrà anche sembrare ostico alla lettura ma è senza dubbio motivato, ben strutturato e valido.

Dodici anni dopo la sua prima pubblicazione, Napoli velata e sconosciuta appare incredibilmente un libro ancora rivoluzionario nel suo genere, come lo definì, nell’introduzione al primo libro, Stefano Arcella. Incredibile appare anche il fatto che si sia resa necessaria la nuova edizione come tentativo di arginare, di nuovo, la diffusione di scritti imprecisi e «interpretazioni fuori luogo», la maggior parte delle volte dettate da «interessi di cupole e parrocchie».
Con un linguaggio ancor più diretto e provocatorio, Ponticello riporta quindi sugli scaffali l’opera prima, riveduta e ricontrollata, il suo baluardo contro il pregiudizio, l’imprecisione e il plagio.
Un’opera letteraria che si rivela fuor di dubbio valida, nella struttura come nei contenuti.


Articolo originale qui


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L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale

05 domenica Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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JeanComaroff, JohnComaroff, recensione, RosenbergSellier, saggio, TeoriadalSuddelmondo

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata.

Crescita di un’economia neoliberista accompagnata da un forte aumento della disuguaglianza, insorgenza di pandemie e catastrofi naturali che talvolta stimolano il sorgere di movimenti di resistenza popolare, concezioni innovative della democrazia che si ispirano a strutture di politica partecipativa del passato, queste e altre caratteristiche contrastanti della modernità africana sembrano investire progressivamente il resto del mondo.

L’Africa, nella visione dei Comaroff, sta diventando una condizione globale. Cosicché studiare l’Afromodernità potrebbe metterci nelle condizioni di meglio comprendere il mondo contemporaneo.

Nonostante sia stata a lungo considerata un soggetto marginale da condurre per mano sulla strada della civilizzazione, “un recipiente passivo di interventi e aiuti provenienti dal Nord”, oggi il continente africano sembra aver ripreso in mano il proprio destino offrendo il suo contributo alla comprensione dei fenomeni della contemporaneità.

Come sottolinea Cecilia Pennacini nell’introduzione al testo, con Teoria dal Sud del mondo i Comaroff hanno realizzato l’obiettivo di riportare gli africani, “che gli imperi coloniali avevano posto ai margini del mondo”, al centro della riflessione contemporanea lasciando intuire le enormi potenzialità – demografiche, economiche, culturali, epistemologiche – di un continente la cui storia permane in gran parte sconosciuta all’Occidente.

Le grandi civiltà del suo passato e la straordinaria creatività della sua popolazione contemporanea – costruita in gran parte da giovani inseriti nella globalizzazione grazie alla diffusione capillare delle tecnologie digitali – suggeriscono uno scenario di grande interesse per una teoria sociale che voglia uscire finalmente dall’eurocentrismo per tentare di comprendere le più recenti dinamiche globali.

Lo studio etnografico condotto da Jean e John Comaroff ha avuto inizio in un’area remota sita tra il Botswana e il Sudafrica. Attraverso un lungo percorso di ricerca e indagine, gli autori hanno sviluppato una teoria dei processi globali di produzione della conoscenza e del ruolo che l’antropologia e gli studi africani possono svolgere, a livello globale, nella contemporaneità. Una riflessione, quella condotta dai Comaroff, definita da Pennaccini di ampissimo respiro, nella quale resta tuttavia evidente l’impronta di una tradizione di pensiero nata sul confine che separa e allo stesso tempo unisce il Nord e il Sud del mondo, all’interno di quella zona che Pratt nel 1992 definì di contatto, dove gli europei si confrontarono con le popolazioni extraeuropee in un contesto segnato da marcate e diseguali relazioni di potere.

Il particolare punto di vista che gli Tswana esprimono sulla loro società e, più in generale, sul mondo riesce a provocare nell’osservatore esterno quel prezioso effetto di straniamento che consente di de-familiarizzare l’ordinario della sua palese ordinarietà, contribuendo a un decentramento del punto di vista in grado di offrire prospettive nuove e originali.

In epoca coloniale, la società tswana ha attraversato una serie di trasformazioni, la più rilevante delle quali è, con ogni probabilità, l’espropriazione di gran parte delle terre maggiormente produttive da parte dei coloni bianchi e, più in generale, dall’introduzione di nuove forme economiche di stampo capitalistico.

Gli Tswana, come le altre popolazioni sudafricane, saranno soggetti a un massiccio processo di urbanizzazione, che spingerà la popolazione maschile verso le nascenti città minerarie e industriali “dove verranno di fatto trasformati in proletari”.

I primi contatti con gli occidentali sono dovuti all’incontro con i missionari metodisti i quali, lungi dal limitarsi ad agire nella sfera morale e religiosa, intervennero a tutto campo sulle istituzioni fondamentali della società locale (il matrimonio poliginico, la sessualità, i modelli di genere, i modelli corporei, la divisione del lavoro, l’economia, i contenuti e i modi dell’educazione scolastica, la salute…).

Due snodi fondamentali nello sviluppo “civile” di un popolo. Trasformazioni profonde, veicolate, studiate che hanno alternato a fondo i paradigmi sociali e culturali dei Tswana.

Si evince con facilità estrema il parallelismo con quanto accaduto nella più e meno recente storia dell’Occidente e della stessa Italia. Lo spopolamento delle campagne e l’indottrinamento religioso che, anche in questo caso, va a modificare, plasmare, frenare i comportamenti.

Nella gran parte delle regioni sudafricane l’arrivo degli europei e l’insieme dei cambiamenti che innescò, ebbe l’effetto di scatenare una violenta conflittualità interna. Una situazione generata anche dalla perdita dei punti di riferimento originari. La forte emigrazione, per esempio, ebbe come conseguenza diretta un profondo indebolimento del tessuto familiare e sociale che porterà a un declino pressoché totale del settore agricolo.

Spesso gli osservatori europei hanno insistito sull’intrinseca fragilità delle democrazie africane, apparentemente incapaci di raggiungere un adeguato livello di maturazione. Come sottolinea Cecilia Pennacini nell’introduzione, gran parte delle critiche riguardano i brogli elettorali e la corruzione delle classi dirigenti. I Comaroff fanno notare che questi fenomeni, apparsi in un primo momento nel mondo coloniale e postcoloniale, stanno progressivamente investendo anche le democrazie occidentali. Si diffondono a macchia d’olio nei paesi del Nord sempre più alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. Dove si registra un continuo e progressivo indebolimento del tessuto sociale ed economico.

La politica, nella cultura Tswana, è in primo luogo “dimensione partecipativa vissuta nel fluire della vita sociale”. Gli Tswana credono fortemente nel senso di responsabilità che il leader deve alla comunità. Nel testo viene anche ricordato, a tal proposito, un antico adagio tswana: kgosi ke kgosi ka morafe (“un capo è un capo grazie alla sua nazione”).

Per gli autori, la concezione politica tradizionale tswana si basa in definitiva su un’idea di democrazia sostanziale, mentre la democrazia formale ottenuta attraverso il voto risulta essere poco saliente. Riecheggia in ciò l’eco delle richieste di una democrazia maggiormente partecipativa, cavallo di battaglia dei sempre più diffusi movimenti populisti che “utilizzano le arene digitali come forma privilegiata di espressione popolare”.

Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione dello sviluppo occidentale, “una visione eurocentrica che impedisce di comprendere appieno le caratteristiche originali del cambiamento in corso”.

Liberandoci di questa prospettiva ottocentesca, come suggerisce Pennacini, e seguendo il filo d’indagine dei Comaroff si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica.

Un’economia emergente, quella africana, tutt’altro che priva di contraddizioni, dal momento che si basa sul desiderio degli stati postcoloniali e dei loro governanti di guadagnare entrate spendibili nelle forme più flessibili e deregolate, a scapito della protezione dei lavoratori, dei controlli ambientali, delle imposizioni fiscali. Lo sviluppo economico si è spesso manifestato in forme rapinose che massimizzano il profitto al minimo costo realizzando pochi investimenti strutturali. Si tratta di soluzioni ispirate a dottrine neoliberiste, che in questi contesti hanno raggiunto formulazioni estreme e incontrollabili, con il conseguente aumento di fenomeni quali la conflittualità, la xenofobia, la criminalità, l’esclusione sociale, la corruzione… Una violenza strutturale che si riscontra anche nella versione occidentale di tali forme di economia, una economia deregolamentata che inizia a diffondersi a livello globale.

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del Terzo Mondo, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. Secondo i Comaroff l’Africa, a quanto pare, sta diventando una condizione globale. Ragione per cui studiare l’Afromodernità può metterci in condizione di meglio comprendere il mondo contemporaneo.

Bibliografia di riferimento

Jean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, edizione italiana Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

Introduzione all’edizione italiana di Cecilia Pennacini.

Traduzione di Mario Capello dal testo originale Theory from the South. Or, how Euro-America is evolving toward Africa, Routledge, Taylor&Francis Group, 2012.

Cartaceo 320 pp

Pdf 3.2 MB

Epub 879.4 KB



Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale


Articolo originale qui


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Il dilettantismo imposto e altre diseguaglianze dello sport nella società contemporanea

05 domenica Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LucaBifulco, MarioTirino, recensione, RogasEdizioni, saggio, Sportescienzesociali

Ogni volta che si parla o si legge di sport, inevitabilmente, si configura nella mente un’immagine positiva. Eh sì, perché lo sport è vita, è benessere, è salute, è rinascita, è rivincita… Ma cosa si nasconde davvero dietro queste immagini positive?

Luca Bifulco e Mario Tirino sono stati i curatori di un libro che risponde a questo e molti altri interrogativi.

Sport e scienze sociali. Fenomeni sportivi tra consumi, media e processi globali, edito lo scorso novembre da Rogas Edizioni, non è un libro-inchiesta, è una raccolta di saggi, frutto di accurate indagini e analisi sul mondo dello sport in tutte le sue sfaccettature e, soprattutto, sui suoi legami e risvolti nei vari ambiti della contemporaneità: dalla moda al turismo, dalla politica agli affari, dalla salute al consumismo, dai media alla globalizzazione.

Un libro che indaga la passione per lo sport in tutte le sue manifestazioni: tifoso, spettatore, consumatore. La celebrità sportiva che trasforma un eroe in un brand. Dalla comunicazione e dai nuovi media, come i social che “vendono” la celebrity sportiva. Il tutto racchiuso in un universo commerciale che ha un giro d’affari enorme, incredibile e impensabile in alcuni casi, un business che unisce società sportive, atleti, federazioni, operatori commerciali, finanziari, brand di moda, accessori e attrezzature, operatori del settore turistico, alberghiero, del food e beverage… e che si muove, paradossalmente, in un “dilettantismo imposto” proprio dallo Stato e dalle sue leggi. E, come se ciò non bastasse, bisogna aggiungere quel tanto di discriminazione di genere che, a quanto pare, non manca mai.

In Italia, nessuna atleta di genere femminile può essere considerata una professionista. Non è mai stata istituita, infatti, una lega Pro femminile in nessuna delle 60 discipline esistenti e riconosciute dal CIO – Comitato Olimpico Internazionale.

Per gli atleti di genere maschile le leghe Pro riconosciute sono 4: calcio – FIGC, pallacanestro – FIP limitatamente alla serie A1, golf – FIG, ciclismo – FIC.

Non esistono quindi tutele legali contrattuali valide per categoria, tutele garantite per infortuni e malattie, piani previdenziali…

Ecco perché la bellissima immagine dello sport e degli sportivi, vestiti di tutto punto con abiti creati ad hoc da brand che sanno il fatto loro acquisisce se non altro delle sfumature meno rosee.

I saggi raccolti nel volume curato da Bifulco e Tirino sono di ampio respiro, trattano di vari temi con l’obiettivo palese di raffigurare tutte le differenti modalità di penetrazione dello sport nella società contemporanea e nella vita quotidiana e sottolineare quanto lo sport incida sulle modalità di strutturazione dei fatti sociali e quanto ne sia a sua volta condizionato, particolarmente nell’odierna epoca contrassegnata da un’imponente commercializzazione e spettacolarizzazione del “reame sportivo”.

Lo scopo del libro non è certo quello di denuncia, non è neanche questo il tono della narrazione. Esiste invece negli autori e curatori la volontà di fornire “validi strumenti teorici per potenziare la consapevolezza e la competenza critico-analitica indispensabile per comprendere le comprendere le composite e variabili relazioni tra la società e lo sport”.

Bibliografia di riferimento

Luca Bifulco, Mario Tirino (a cura di), Sport e scienze sociali. Fenomeni sportivi tra consumi, media e processi globali, Rogas Edizioni, Roma, 2019


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Rogas Edizioni per la disponibilità e il materiale


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A quanto ammonta il valore della ciclo-ricchezza? “Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala” di Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini (Egea-UniBocconi, 2019) 

Tangenti, frodi e riciclaggio: corruzione e inchieste che fanno tremare il mondo del calcio. “Cartellino rosso” di Ken Bensinger (Newton Compton, 2018) 


 

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Recensione a “Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano” di Massimo Lugli (Newton Compton, 2019)

03 venerdì Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlgialloPasolini, MassimoLugli, NewtonCompton, recensione, romanzo

La mattina del 2 novembre 1975 il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini viene rinvenuto in un campo incolto in via dell’idroscalo, lungo il litorale romano di Ostia. Sull’atroce delitto non è mai stata fatta veramente luce. Ombre e misteri ancora oscurano la verità, anche dopo così tanti anni.

Nel 2005, a distanza di trent’anni dall’omicidio, l’imputato al processo svoltosi tra il 1975 e il 1976, Pino Pelosi, dichiaratosi in prima istanza colpevole del reato, durante la partecipazione alla trasmissione televisiva Ombre sul giallocondotta da Franca Leosini, ritratta la sua versione e afferma di non essere lui il vero colpevole bensì altre persone di cui non conosceva la reale identità ma che lo avevano minacciato qualora non si fosse addossato la colpa. In seguito alle sue dichiarazioni il processo non fu riaperto ma il mistero è tutt’altro che concluso.

Un tragico evento che ha scosso gli animi dell’intera comunità letteraria del Novecento italiano e quella di numerosi cittadini di allora e di oggi, soprattutto in virtù delle considerazioni che scaturiscono ovvie pensando alla “scomodità” dei temi che Pasolini trattava nei suoi articoli di giornale, alla “delicatezza” degli argomenti sui quali indagava…

Un tragico evento che, per certo, deve aver scosso anche Massimo Lugli, cronista di nera per La Repubblica per quarant’anni. Molto deve essersi documentato Lugli sui fatti del ’75. Indagini, analisi, considerazioni, che gli sono rimaste in testa per anni. Informazioni che ha metabolizzato. Su cui ha riflettuto. Che sono poi diventate l’anello centrale dell’impalcatura intorno alla quale ha scritto il suo romanzo Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano. Un libro il cui protagonista sembra essere l’alter ego dello stesso autore, basta immaginarlo alle prime battute lavorative quaranta anni fa.

Tranne alcuni sparuti passaggi, Lugli sembra aver completamente abbandonato la scrittura “tecnica” del giornalista e, nel romanzo, utilizza un registro narrativo che sembra rifarsi molto più al parlato locale, alla Roma con i suoi sobborghi dove la storia è per intero ambientata. Uno stile narrativo molto diretto, a tratti spietato, in alcuni paragrafi molto cruento… in sintesi uno stile che si adatta molto bene ai contenuti della vicenda narrata.

Marco Corvino, protagonista del libro, indaga sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini lasciando credere a tutti quelli con cui viene in contatto di essere incaricato dal giornale per il quale lavora. Una menzogna che lo mette in pericolo quasi quanto il rischio che corre per essersi esposto sulla strada. Troppe domande si tramutano in breve tempo in rischio molto alto.

Raccontando del delitto Pasolini, Lugli offre al lettore uno spaccato della Roma e dell’Italia tutta degli anni Settanta, con la delinquenza di strada e le bande, i movimenti studenteschi, l’estremismo rosso e nero, il femminismo e l’esplosione di una società tutta in continua evoluzione, cambiamento.

Un romanzo, Il giallo Pasolini di Massimo Lugli, che mostra al lettore del nuovo millennio quanto distanti sembriamo essere da quei tempi e quanto in realtà ne siamo vicini, legati da un filo invisibile che unisce passato e presente. Una lotta continua dalla cui evoluzione deriverà il futuro.

I personaggi del romanzo sono tutti ben caratterizzati, raccolti dal volgo di una Roma tanto aristocratica quanto popolare, allora come oggi. Dai delinquenti di borgata ai poliziotti coriacei, dai colleghi giornalisti, trai i quali si notano figure che rimandano a nomi molto noti del panorama giornalistici italiano della seconda metà del Novecento e degli inizi del nuovo millennio, al “saggio” maestro di karate. Personaggi tutti che si alternano e si mescolano su quel simbolico palcoscenico che sono i capitoli del libro di Lugli, dando così vita e risalto a un teatro di luci e di ombre, di speranze e delusioni, gioie e dolori… nient’altro che lo spettacolo della vita.

Massimo Lugli, Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano

Newton Compton Editori, prima edizione ottobre 2019

Pagine 336

Rilegato 8.42 euro

Epub 4.99 euro


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Newton Compton Editori per la disponibilità e il materiale


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“Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale” di Maurizio Catino (ilMulino, 2020)

01 mercoledì Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlMulino, Leorganizzazionimafiose, MaurizioCatino, recensione, saggio

Quando si apprende che l’argomento di un libro, di un articolo, di un servizio giornalistico, riguarda la mafia, intesa come istituzione e, di conseguenza, il lavoro ha per oggetto la sua analisi in generale bisogna ammettere che si rischia di cadere nel luogo comune affermando, o solo pensando: ma basta con le parole! Cos’altro c’è ancora da dire che non sia stato detto? Servono fatti non parole!

Tutti sono caduti in simili considerazioni, chi prima e chi dopo. Poco male, se non ci si ferma alla copertina o, in questo caso, al titolo.

Le organizzazione mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale è un corposo saggio che riesce nel quasi incredibile intento di mostrare al lettore le organizzazioni mafiose in maniera del tutto nuova. Partendo da un punto di vista mai del tutto analizzato fino in fondo perché, in genere, si ha quasi timore di affiancare a queste strutture illegali terminologie e analisi finora riservate a organizzazioni intese lecite, in tutto e per tutto.

Ed è esattamente questo che ha fatto Maurizio Catino: studiare le mafie per quello che, a tutti gli effetti, sono. Delle organizzazioni. Perché esse presentano quasi tutte le caratteristiche da sempre impiegate per individuare leorganizzazioni:

  • Una progettazione intenzionale dell’organizzazione.
  • Una divisione del lavoro dotata di ruoli differenziati e in qualche modo definiti.
  • Il coordinamento tra persone e attività.
  • Carriere e sistemi di premi e punizioni.
  • Ruoli e codici di condotta.
  • Una netta distinzione tra membri e non membri.

Ricorda inoltre l’autore che è proprio considerandole come organizzazioni che si può arrivare a comprenderne la resilienza e longevità, nonché la continua diffusione e proliferazione anche in territori nuovi e lontani dal centro comunemente inteso come luogo di origine.

Per capire al meglio il loro essere, oltre al loro funzionamento, è necessario “studiare congiuntamente tre aspetti”:

  • Il primo riguarda la dimensione organizzativa interna, le strutture, i ruoli, i “servizi” offerti, i meccanismi operativi, i codici e le regole.
  • Il secondo aspetto attiene all’ambiente esterno nel quale l’organizzazione criminale opera. Un ambiente composto da soggetti individuali e organizzati che entrano in relazione con l’organizzazione criminale. Sono questi “soggetti esterni all’organizzazione mafiosa che modellano e conformano l’azione delle mafie, non il contrario”. Ciò accade soprattutto nelle aree di nuovo insediamento.
  • Il terzo aspetto fa riferimento al grado di percezione del fenomeno criminale da parte del contesto esterno, al livello di tolleranza dell’ambiente, al ruolo delle agenzie di contrasto. L’azione di queste ultime infatti costituisce uno tra “i fattori di innovazione, cambiamento e adattamento dell’organizzazione mafiosa”.

Per riuscire a comprendere in che modo le mafie funzionano, il loro comportamento criminale, come fanno affari e come utilizzano la violenza è necessario, sottolinea l’autore, innanzitutto capire il modo in cui le mafie sono organizzate. Esaminando i diversi tipi di organizzazione mafiosa si può vedere con chiarezza che non tutte le forme di organizzazione sono uguali.

Nel testo, Catino dimostra come i diversi modi di organizzazione nelle mafie influenzano il comportamento, i conflitti e l’impiego della violenza.

Nonostante operino “in ambienti estremamente ostili”, violino la legge, commettano crimini e “siano soggette a intense persecuzioni da parte delle agenzie chiamate a far rispettare la legge”, le mafie sono tra le organizzazioni più resilienti mai conosciute. E, per capirne le motivazioni, Catino suggerisce di associare la loro elevata capacità adattiva e longevità ai loro comportamenti scaturiti proprio in quanto sono organizzazioni formali.

Le mafie non sono solo organizzazioni criminali, sono anche organizzazioni economiche che basano la loro forza sostanzialmente sulla vendita di “protezione e servizi extralegali” a qualcuno che li compra. Ma, soprattutto, “sono profondamente inserite nell’economia, nella politica e nella società”.

L’idea portante del libro di Catino è la convinzione che, riuscire a comprendere al meglio la fisiologia, la logica organizzativa e i dilemmi affrontati dalle mafie, costituisca un importante strumento per aumentare l’efficacia delle azioni di contrasto, per orientare le scelte politiche e per accrescere la resilienza della società civile, la sua resistenza a queste organizzazioni.

Proprio per questa convinzione l’autore ha dedicato l’ultimo e corposo capitolo allo studio approfondito delle tre mafie italiane – Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta – , “prestando particolare attenzione alle dinamiche di espansione nel Nord Italia e ai legami con i cosiddetti colletti bianchi”.

Risulta essere infatti ancora diffusa la convinzione che le organizzazioni mafiose siano peculiarità della cultura meridionale italiana. Teoria avallata anche da “molti studiosi, specialmente in Italia”.

Non troverebbe spiegazione alcuna dunque l’esistenza di tali organizzazioni in paesi culturalmente molto diversi come il Giappone (la Yakuza), la Cina (la Triade), la Russia (Mafia russa) e gli Stati Uniti (Cosa Nostra americana). In considerazione anche del fatto che alcune di queste organizzazioni, come la Yakuza e La Triade, hanno avuto origine anche molto tempo prima di quelle italiane.

Il fatto interessante, fa notare Catino, è che, nonostante abbiano avuto origine in contesti storici e in luoghi molto distanti tra loro, le varie mafie sono caratterizzate da elementi organizzativi comuni. E ciò è dovuto, per l’autore, non a un processo di reciproca conoscenza e scambio, bensì alla presenza di problemi comuni con cui le diverse organizzazioni si sono dovute confrontare nel tempo. Non bisogna parlare di isomorfismo quindi ma di comuni risposte evolutive e adattive a problemi ed esigenze comuni alle varie organizzazioni. Perché, lungi dall’essere organizzazioni onnipotenti come spesso vengono dipinte, le mafie “soffrono di molteplici problemi e sono obbligate a fare i conti con una serie di complessi dilemmi organizzativi di non facile risoluzione”.

Il saggio di Maurizio Catino risulta essere davvero, come nelle intenzioni dello stesso autore, un nuovo modo di indagare un fenomeno che in Italia come altrove è tutt’altro che marginale. Un metodo d’indagine, quello portato avanti da Catino, che si prefigge di mantenere costantemente neutrale il punto di vista dell’investigatore, evitando di cadere in luoghi comuni, pregiudizi o ipocrisie. Rigore tecnico e obiettività sembrano essere le parole chiave che meglio descrivono il metodo d’indagine che Catino ha utilizzato per analizzare le organizzazioni mafiose

Bibliografia di riferimento

Maurizio Catino, Le organizzazioni mafiose. La mano visibile dell’impresa criminale, Società Editrice ilMulino, Bologna, 2020.

Traduzione dalla lingua inglese di Jacopo Foggi.



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Quando inizieremo a fare sul serio contro le mafie? “L’inganno della mafia” di Gratteri e Nicaso (RaiEri, 2017) 


 

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“Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana” di Marco Omizzolo (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019)

19 giovedì Mar 2020

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FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, MarcoOmizzolo, recensione, saggio, Sottopadrone

24.8miliardi di euro: a tanto ammonta il giro d’affari complessivo delle agromafie secondo le recenti stime riportate nel sesto rapporto dell’istituto Eurispes. Un giro d’affari che in Italia passa attraverso 80 distretti agricoli che presentano condizioni di lavoro, di alloggio e sanitarie in costante violazione dei diritti umani. Nei quali le eccezioni sono ben poche.

In Europa sono circa 880mila i lavoratori costretti a varie forme di subordinazione e ricatto.

In Italia il 62% dei lavoratori stagionali dell’agricoltura, perlopiù migranti, non ha accesso ai servizi essenziali, il 64% di loro non ha accesso all’acqua corrente e il 72% presenta, dopo le attività di raccolta, malattie di cui prima non soffriva.

Un mondo tutt’altro che marginale. Il settore agroalimentare italiano, con le sue 1.2milioni di unità lavorative annue (ISTAT, 2017) e circa 1.6milioni di imprese (ICE, 2017), “costituisce l’architrave del sistema industriale italiano”.

Ed è proprio in questo universo che Marco Omizzolo si è addentrato, quasi per caso, e vi è rimasto per oltre un decennio. Dapprima come osservatore esterno, poi come studioso, per arrivare finanche a esserne parte attiva allorquando ha realizzato che l’unico vero modo per comprendere la vita e le dinamiche dei braccianti agricoli era diventare uno di loro.

I risultati della sua lunga e poderosa indagine sul campo sono stati raccolti in un testo, pubblicato dalla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli a novembre 2019, dal titolo molto esplicativo Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana. Un libro nel quale l’autore racconta storie di migranti mentre racconta se stesso. Ne viene fuori lo spaccato di un intero Paese alle prese con l’atavico dualismo tra ciò che è giusto e ciò che è conveniente, tra giustizia e opportunismo, tra furbizia e inganno, tra etica e malvagità.

Sui migranti si è sentito e letto di tutto. Accusati di rubare anche il lavoro. Si è preferito lasciare intendere che fossero o siano loro la causa della disoccupazione, della precarietà e dei bassi salari. Concorrenza “sporca”. Ma è davvero colpa loro? I problemi scaturiscono davvero dalla nazionalità dei lavoratori?

Marco Omizzolo si sofferma a lungo su questo aspetto sottolineando che non è certo una questione di nazionalità ma di politiche: “non si tratta di lasciar affogare i migranti per vivere meglio. Le agromafie italiane sono il risultato del nostro imbarbarimento e di decenni di politiche neoliberiste”. Chi oggi vuole dividere gli italiani dagli stranieri, “elevando lo slogan «Prima gli italiani» al rango di legge costituzionale”, non ha capito o fa finta di non capire che i nati italiani sono già tra gli ultimi, “vivono già in condizioni di povertà, sfruttamento, emarginazione sociale”.

Una condizione che potrebbe essere considerata di vera e propria miseria, economica certo ma soprattutto culturale, intellettuale, spirituale.

L‘ambizione a rincorrere una crescita, arida, che sia solo economica, consumistica, a raggiungere un ben-essere che ruota intorno a meri beni materiali ha portato, per certo, a un imbarbarimento generale sfruttato, anche dalla politica, per far accettare ogni privazione o cambiamento in negativo in nome di una lotta per la sopravvivenza che, in realtà, non è stata o diventata nient’altro che una lotta tra poveri.

“Lo sfruttamento sistemico dei lavoratori e delle lavoratrici di qualsiasi nazionalità è l’espressione di un sistema dominante che ambisce a condizionare la democrazia”.

Ha ragione l’autore quando afferma che il problema non sono gli immigrati ma i padroni, i quali sfruttano i braccianti indipendentemente dal colore della loro pelle o dalla nazionalità. Che non sono i migranti a rubare il lavoro bensì il padrone che ruba loro salari e diritti. E con il termine padrone va inteso sia il soggetto singolo datore di lavoro sia il soggetto astratto da intendersi come sistema.

Bisogna essere consapevoli, per Omizzolo, che le agromafie sono un sistema sociale caratterizzato da livelli diversi di relazioni di potere che rischia di imporsi in via definitiva in tutto l’Occidente. Un sistema non d’eccezione, ma ordinario, che vede “la collaborazione di pezzi deviati dello Stato, di una parte del sistema imprenditoriale e di numerosi clan mafiosi, in alcuni casi anche stranieri”, in stretta connessione con la parte più feroce del capitalismo. Un sistema che non si esaurisce con la questione lavorativa, ma si allarga alle sfere dell’ambiente, dei diritti umani, della salute e, “più in generale, della natura specifica del progresso democratico”.

Marco Omizzolo sottolinea come spesso anche solo il linguaggio comunemente impiegato lasci trasparire insensibilità, leggerezza o, peggio ancora, condivisione di idee e pregiudizi. Anche nell’informazione viene usato con disinvoltura il termine schiavo. Si continua a non comprendere che, in questo modo, ovvero adottando “il linguaggio del padrone”, se ne legittima la figura e il potere, e con esso l’intero sistema. Bisogna invece sottolineare, sostiene con fermezza l’autore, che non sono schiavi bensì persone ridotte in schiavitù. Persone.

Capo, padrone, schiavo: indicano forme di dominio e subordinazione che devono essere superate in favore di termini più adeguati come datore di lavoro, lavoratore, lavoratrice.

«Ascoltare molti uomini, braccianti indiani, che per oltre dieci anni hanno usato la parola “padrone”, usare la parola “datore di lavoro”, sapere che ne conoscono il significato, fornisce una delle ragioni più alte e stimolanti per continuare la lotta contro ogni forma di sfruttamento e sopraffazione.»

Le lotte portare avanti in questi anni dai braccianti agricoli migranti in varie parti d’Italia, condivise da Marco Omizzolo e da altri come lui, rappresentano per l’autore una potenziale possibile e realizzabile svolta per tutti i lavoratori e le lavoratrici sfruttati. Costituiscono il segno di un Paese che non vuole più essere razzista, retrogrado, violento e mafioso. Può essere o considerato marginale ma è un Paese che esiste.

Omizzolo descrive, narra e racconta passo dopo passo la sua personale ricerca/esperienza e man mano che il lettore vi si addentra ne risulta essere sempre più coinvolto. Come se, leggendo il libro, compisse anch’egli un graduale percorso, di ricerca e analisi, anche introspettiva, inerente gli accadimenti, gli eventi, le emozioni narrate.

Indagini come quella condotta da Marco Omizzolo aiutano a ripristinare il senso, a volte smarrito, di umanità delle persone verso gli altri, a superare i limiti dell’indifferenza e a riflettere sul senso e il valore che nell’odierna come forse anche nella passata società viene attribuito alle cose e alle persone.

Una lettura che nasconde la sua forza e potenza proprio nell’essere così profondamente destabilizzante.



Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la disponibilità e il materiale


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“Non è lavoro, è sfruttamento” di Marta Fana (Editori Laterza, 2017) 

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 


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“La classe avversa” di Alberto Albertini (Hacca, 2020)

03 martedì Mar 2020

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AlbertoAlbertini, Hacca, Laclasseavversa, recensione, romanzo

Uscito il 27 febbraio 2020 con Hacca Edizioni, La classe avversa, romanzo d’esordio di Alberto Albertini conta due segnalazioni al Premio Italo Calvino.

Il libro si apre al lettore con una citazione di Ottiero Ottieri, tratta da La linea gotica:

«Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra – e non si esce – facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in una industria? I pochi che ci lavorano diventano muti, per ragioni di tempo, di opportunità, ecc. Gli altri non ne capiscono niente: possono farvi brevi ricognizioni, inchieste, ma l’arte non nasce dall’inchiesta bensì dalla assimilazione. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica.»

Ottieri aveva una visione ben delineata dell’industria, dalla “fabbrica” intesa proprio come mondo a sé. Pensieri tutti condensati all’interno del libro Tempi stretti, romanzo di fabbrica per eccellenza che ambiva a raccontare la grande industria italiana dall’interno e farlo in un periodo storico particolare. Una fase di grandi cambiamenti, di evoluzioni ma anche di dure lotte sociali. Pubblicato la prima volta nel 1957 il libro ha trovato poi un’ulteriore edizione, nel 2011, con Hacca, la medesima casa editrice che si è interessata al lavoro di Albertini.

Leggendo La classe avversa traspare chiaramente l’ammirazione professionale che l’autore prova nei riguardi di Ottieri di cui però non si limita a seguirne le orme, reinterpretando il romanzo di fabbrica per adattarlo perfettamente alla contemporaneità.

Un viaggio all’interno di un mondo solo in apparenza ben noto. Questo sembra compiere il lettore scorrendo le pagine del libro di Albertini. Un mondo variegato, in costante contrasto e, al contempo, armonia tra passato e futuro. Dove il presente non rappresenta che la fucina dalla quale nascono i cambiamenti. Dove tutto sembra rimanere uguale quando invece è in continua metamorfosi. E ciò vale per l’intero sistema ma ancor di più per le persone che lo animano e lo vanno a comporre.

Il romanzo di Albertini è la narrazione, lucida e spietata, del fallimento di un sistema che sembra aver tenuto sulle proprie spalle l’intero comparto industriale italiano. Il modello a conduzione famigliare che si è ritenuto essere il vero segreto di quel tanto decantato miracolo italiano, talmente distante ormai dall’Italia di oggi da non afferrarne quasi più neanche il significato. L’analisi del disfacimento di un intero paradigma passa, nel libro di Albertini, attraverso il racconto di una sola esistenza, quella del protagonista. Incarnazione simbolica del popolo operaio italiano. Ambivalenza molto particolare essendo egli, o meglio avendo dovuto essere il rappresentante invece del padrone, figlio ed erede di uno dei proprietari dell’azienda.

Molto più simile invece “il Poeta” a Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel risalire alle radici del proprio io, Zeno smaschera la finta natura della cosiddetta normalità e svela le falsità e le ipocrisie dell’ordine borghese. Nel protagonista del libro di Albertini si intravede la medesima corrosione personale e collettiva.

La classe avversa degli industriali italiani sembrano essere loro stessi, laddove hanno lasciato che il tempo scorresse senza mobilitarsi per rincorrerlo o, meglio ancora, permettere fossero i “nuovi arrivati” a farlo. Un ricambio generazionale troppo lento che sembra essere la causa se non principale di sicuro preponderante del decadimento, morale prima ancora che economico, di intere generazioni.

Accanto alle avversioni di carattere generale, vi sono poi quelle personali, intime. Come la grande passione che il protagonista prova per le conoscenze umanistiche. Costretto a mostrarsi come un leader di ferro sogna invece una laurea in Lettere e prova ammirazione non per fatturato e carriera ma per il compagno Franco che ha saputo mostrarsi più forte e ribelle e si è licenziato. Una decisione che, ai suoi occhi, appare una sorta di liberazione.

Non stupisce che il libro di Alberto Albertini abbia ricevuto due segnalazioni per il Premio Italo Calvino, rappresenta infatti una perfetta e contemporanea versione di un grande romanzo del Novecento.


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“Fabbrica Futuro” di Marco Bantivogli e Diodato Pirone (Egea-UniBocconi, 2019) 

A quanto ammonta il valore della ciclo-ricchezza? “Bikeconomy. Viaggio nel mondo che pedala” di Gianluca Santilli e Pierangelo Soldavini (Egea-UniBocconi, 2019) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“L’acqua alta e i denti del lupo” di Emanuele Termini (Ĕxòrma Edizioni, 2019)

02 lunedì Mar 2020

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EmanueleTermini, Exorma, Lacqualataeidentidellupo, recensione, romanzo

Emanuele Termini, L’acqua alta e i denti del lupo. Josif Džugašvili a Venezia, Ĕxòrma Edizioni, Roma, 2019 (Prima edizione ottobre 2019, pagine 192, prezzo euro 15.00, collana Scritti Traversi)

Fin dal momento in cui si prende in mano per la prima volta il piccolo libro di Emanuele Termini, stampato in un formato tascabile, ci si rende conto che, unitamente ai protagonisti della vicenda narrata, è la città di Venezia a dominare l’intera scena narrativa e visiva. Ricchissimo infatti di illustrazioni, L’acqua alta e i denti del lupo sembra essere stato studiato proprio per catturare trasversalmente i sensi del lettore.

Riprende l’autore una storia del recente passato avvolta da una fitta nebbia di mistero, di domande senza risposta e di ipotesi più o meno verificate o verificabili.
Nei primi mesi del 1907, l’allora ventinovenne Josif Vissarionovič Džugašvili (il futuro Stalin) avrebbe soggiornato nella laguna veneta, ospite dei mechitaristi del Monastero di San Lazzaro degli Armeni. Le delicate implicazioni rispetto al futuro del Partito che guidò la Rivoluzione Russa del 1917, furono il motivo per cui quel viaggio doveva rimanere segreto. Negli anni Cinquanta il giornalista italiano Gustavo Traglia, forse con troppo anticipo rispetto ai consueti tempi necessari affinché una vicenda possa diventare Storia, cercò di scoprire le motivazioni che avrebbero portato il leader bolscevico in Europa ma la pubblicazione delle sue ricerche sarebbe stata nettamente ostacolata.
Oggi, dopo oltre cinquant’anni dal lavoro di Traglia, Emanuele Termini indaga, insegue le tracce e i tanti pseudonimi che Josif Vissarionovič Džugašvili avrebbe disseminato lungo il suo cammino, accede all’archivio di Traglia, incontra persone che prima di lui hanno raccolto indizi, rintraccia le fonti, e passo dopo passo si persuade sempre più che si tratterebbe di fatti realmente accaduti.
Il viaggio che Stalin avrebbe compiuto passando da Venezia per raggiungere Berlino, e Lenin, narrato da Termini assume spesso tratti rocamboleschi davvero ai limiti della leggenda: infatti prima avrebbe viaggiato come clandestino nella sala macchine di un cargo che trasportava grano da Odessa fino ad Ancona, poi con l’aiuto degli anarchici anconetani sarebbe arrivato a Venezia e presentato alla soglia del monastero di San Lazzaro degli Armeni da dove poi infine si sarebbe allontanato clandestinamente per riapparire a Londra qualche mese dopo.
A rendere però più che plausibile questo viaggio, viene riportata nel testo l’intervista di Emil Ludwig nel 1931 al Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica al Cremlino.

«Diverse furono le domande scomode che Ludwig rivolse al dittatore e quando gli chiese un parere in merito “all’amore tipicamente tedesco per l’ordine, più sviluppato dell’amore per la libertà”, Stalin rispose con un aneddoto vissuto in prima persona:
“Quando nel 1907 mi capitò di trovarmi a Berlino...»

Una storia, quella narrata da Termini, che si snoda lungo due filoni narrativi distinti, afferenti a precisi capitoli del libro. Da una parte racconta la biografia di Stalin soffermandosi molto sull’attività politica, l’esilio in Finlandia e le tante peregrinazioni in lungo e in largo per l’Europa. Dall’altra invece il lettore segue passo passo le frenetiche ricerche svolte dal protagonista del libro, il quale indaga in ogni dove e, proprio come un segugio, non tralascia alcuna traccia o indizio.
Sullo sfondo, ma sempre pronta ad emergere, la Serenissima in tutto il suo splendore, senza tempo e senza limiti.

Degno d’attenzione è apparso sin dalle prime pagine lo stile narrativo di Emanuele Termini, il quale con L’acqua alta e i denti del lupo è al suo esordio letterario. Una scrittura avvolgente e coinvolgente, complice anche la passione e l’interesse che egli sembra provare per la vicenda indagata e per la città raccontata. Un vero e proprio amore che trasmette al lettore, unitamente a quel senso di smarrimento, incanto o meraviglia. Basti citare il passaggio nel quale descrive le sensazioni provate all’ingresso della molto famosa libreria Acqua Alta.

«C’era una sorta di magia dentro quello spazio disordinato e privo di indicazioni, ognuno seguiva i propri interessi mosso dal suo rapporto personale con i libri. […] Una scala fatta di enciclopedie offriva un’insolita vista su Rio de la Tetta, mentre una piccola porticina dava su Calle Pinelli. A metà libreria, vicino a una gondola, c’era un altro passaggio che permetteva di raggiungere la saggistica, la letteratura italiana, i fumetti e un angolo dedicato ai libri d’arte e agli spartiti musicali. In fondo alla stanza un’altra via di fuga, verso l’acqua. […]. La persona a cui chiesi informazioni mi invitò a guardare con attenzione uno strano quadro che teneva in bella vista, una sorta di cartoncino piegato in uno strano modo, dove Venezia diventava tridimensionale.»

L’acqua alta e i denti del lupo di Emanuele Termini non raggiunge la tridimensionalità ma è per certo una lettura consigliata.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia la Anna Maria Riva Comunicazione & Promozione per la disponibilità e il materiale



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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“A che prezzo” di Michel Martone (Luiss University Press, 2019)

02 lunedì Mar 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Acheprezzo, LuissUniversityPress, MichelMartone, recensione, saggio

Non è più possibile fare a meno di una perimetrazione degli ambiti di efficacia contrattuale all’interno dei quali misurare la capacità rappresentativa degli agenti negoziali.

È questa, in estrema sintesi, la conclusione del lavoro di indagine svolto da Michel Martone sull’emergenza retributiva nel nostro Paese.

Molte le domande che attendono una risposta, tante le riflessioni dell’autore il quale, a conclusione del testo, avanza anche dei suggerimenti in modo da riuscire, finalmente, a progredire e snodare un po’ questa querelle tra la riforma della contrattazione collettiva e il salario minimo legale che si trascina da decenni ormai.

Si chiede Martone come sia possibile che, nell’Italia del Terzo Millennio:

  • Un giovane studente per mantenersi all’Università recapiti pizze a domicilio, magari in bicicletta e sotto la pioggia, per un compenso che a malapena sfiora i 3.5euro a consegna.
  • Un operaio pur lavorando a tempo pieno non riesca più, nell’arco di una vita, a mettere da parte quanto necessario ad acquistare una casa.
  • I pubblici dipendenti abbiano dovuto subire un blocco della contrattazione collettiva, e quindi degli stipendi, durato oltre sette anni.
  • Un immigrato che raccoglie pomodori guadagni poco più di 2euro l’ora.
  • Una coppia di trentenni non possa permettersi, sommando gli stipendi, di mantenere più di un figlio.
  • Negli ultimi 10 anni oltre 244mila giovani, di cui il 64per cento con titolo di studio medio-alto, abbiano abbandonato il Paese e a questo fenomeno migratorio non venga dato il giusto risalto.

La liberalizzazione degli scambi internazionali, l’adozione dell’euro, la creazione del mercato unico hanno posto fine alle politiche economiche protezionistiche, basate sulle svalutazioni competitive, sui dazi doganali e sul debito pubblico, che per decenni hanno preservato il sistema produttivo nazionale dalle conseguenze più dure della concorrenza internazionale.

E cosi oggi nel mercato globale, per soddisfare un consumatore sempre più esigente, si finisce per “sacrificare le retribuzioni dei lavoratori in un circolo vizioso reso ancor più duro dall’autorità imposta dai mercati finanziari e dalle spregiudicate politiche di quelle multinazionali che comprano aziende sane con problemi finanziari per chiuderle e riaprirle in Paesi limitrofi”.

Per Martone ciò rappresenta la preoccupante conseguenza di una politica liberista in campo economico ma sovrana e chiusa in tema di diritti sociali.

Basti considerare, rammenta al lettore l’autore, che, mentre nel corso degli ultimi 30anni i Trattati internazionali riuscivano a unificare i mercati e le monete per affermare la nuova Lex mercatoria, ancora oggi mancano regole cogenti di diritto sovrannazionale in grado di incidere sulla determinazione del salario e che l’ultima convenzione Oil in materia retributiva risale al 1970.

Stesso errore commesso anche a livello europeo. Una volta unificati il mercato e la moneta, dovevano contemporaneamente essere avvicinati anche i livelli salariali per evitare che si scatenasse la competizione al ribasso tra lavoratori di diversi paesi europei.

Preso atto di questo chiaro indirizzo di politica economica, “i paesi più forti, avanzati e lungimiranti” hanno cominciato a contenere i salari per potenziare gli investimenti in innovazione tecnologica e aumentare la produttività delle imprese, come è accaduto “all’economia tedesca ormai prossima alla piena occupazione”. Dal canto loro invece i paesi economicamente più arretrati hanno continuato a praticare le politiche di bassi salari per attrarre investimenti. I Paesi mediterranei, compresa l’Italia, con i loro debiti pubblici insostenibili, “sono stati costretti ad adottare politiche salariali fortemente restrittive con misure anche più drastiche di quelle praticate dai Paesi che si erano mossi per tempo e solo dopo aver perso significative quote dei mercati di riferimento”.

Nell’Unione europea si passa dagli oltre 10euro di salario minimo legale in Lussemburgo ai 2euro scarsi praticati in Lituania, Romania o Slovenia.

Una situazione evidentemente insostenibile, denunciata anche dalla nuova Commissione europea presieduta da Ursula Von der Lyen.

Nel testo Michel Martone sottolinea come l’attuale sistema italiano, nonostante l’elevato numero di contratti, non riesca più a rappresentare milioni di outsider. Il medesimo sistema nel quale la definizione dei livelli retributivi degli insider è frutto di un processo di continua negoziazione a livelli diversi e tra molteplici attori che devono, “nell’esercizio della loro autonomia, convenire sulle politiche economiche da attuare e sulle caratteristiche del sistema contrattuale necessarie per realizzarle”.

Dall’inizio della Grande Crisi, le retribuzioni dei lavoratori italiani, che già erano significativamente più basse di molti dei loro colleghi stranieri, sono state travolte da una vera e propria ondata di impoverimento che ha ulteriormente aumentato le disuguaglianze tra i pochi che traggono profitto dalla globalizzazione dei mercati e dalla finanziarizzazione dell’economia e tutti gli altri. E ciò per l’autore ha avuto conseguenze negative anche sotto il profilo della crescita economica, in virtù del fatto che, in tempi di austerità, il modo migliore per favorire la ripresa è la riduzione delle disuguagliane, non il contrario, per permettere di aumentare la propensione al consumo di un maggior numero di persone, come dimostrato anche dall’andamento della curva di Philips.

Questa resiliente crisi economica invece rischia di inghiottire per intero tutto il ceto medio, in particolare quelle professionalità mediane svolte in larga misura da trentenni le cui retribuzioni hanno risentito più di tutte gli effetti della crisi. Basti ricordare il numero sempre crescente dei cosiddetti working poor, ovvero coloro che, pur lavorando, non riescono ad arrivare alla fine del mese. Martone afferma di essere consapevole si tratti di una verità scomoda e difficile da affrontare, che richiede impegno e soluzioni complesse, ma che non per questo debba continuare a essere rimandata, ignorata, sminuita. Per l’autore infatti, gran parte dei partiti politici semplicemente hanno cercato di rimuoverla, scaricando sugli immigrati, i mercati finanziari o l’Europa le colpe della crescente incertezza che ormai si diffonde tra i lavoratori italiani. Anche peggiori forse Martone ritiene gli interventi posti in essere con l’intento dichiarato di migliorare la situazione ma che, a suo dire, non faranno altro che sottrarre ulteriori risorse economiche all’emergenza retributiva. In particolare egli fa riferimento a quota100 e reddito di cittadinanza.

Nonostante gli sforzi profusi nel corso degli ultimi venticinque anni, “il nostro sistema economico sta perdendo la sfida della produttività del lavoro”. Assumendo infatti il costo del lavoro per unità di prodotto quale parametro di misurazione della competitività del sistema produttivo, Martone invita a riflettere sul fatto che, dalla nascita del mercato unico, l’Italia ha perso quasi 30 punti percentuali rispetto alla Germania e quasi 15 punti rispetto alla media dell’area Euro. Naturalmente ciò è dipeso da molteplici fattori (investimenti in innovazione dei prodotti e dei processi, cuneo fiscale, investimenti pubblici in infrastrutture, energia…), ma è altrettanto vero che i governi e le parti sociali “non sono riusciti a ristrutturare tempestivamente il sistema contrattuale per promuovere la produttività del lavoro attraverso il decentramento contrattuale”.

Se, infatti, l’ordinamento intersindacale continua a considerare la contrattazione collettiva di secondo livello un complemento, quasi esclusivamente, migliorativo del più ampio processo di negoziazione salariale che avviene a livello nazionale, l’ordinamento statale, con l’avallo decisivo della giurisprudenza, sembra volerle assegnare, in ragione della “prossimità”, un ruolo autonomo e paritetico nella disciplina della flessibilità, salariale e gestionale, anche in deroga alla legge e al contratto collettivo nazionale, al fine di consentirle di promuovere un più competitivo costo del lavoro per unità di prodotto.

Una differenza che Martone sottolinea essere di non poco conto. Di matrice soprattutto culturale, destinata a dividere le organizzazioni sindacali e a pesare soprattutto se non avverrà il tanto auspicato ricambio generazionale dei quadri sindacali.

Una cultura nuova che dovrebbe prendere atto delle specificità funzionali della contrattazione collettiva di secondo livello, per valorizzarne le potenzialità, “piuttosto che castrarne lo sviluppo”.

Perché, se la contrattazione aziendale rappresenta l’ambito elettivo per la disciplina della produttività e della correlata premialità, quella territoriale si presta ad assolvere efficacemente funzioni simili a quella nazionale e potrebbe rivelarsi un utile strumento per cercare di adattare le retribuzioni in relazione al costo della vita di un determinato territorio ad alta disoccupazione per attrarre investimenti produttivi e perfino per contrastare il dumping salariale praticato tra realtà geograficamente limitrofe.

Per l’autore è inutile nascondersi: la questione retributiva è eminentemente economica, perché riguarda anzitutto l’ammontare delle risorse che i governi riescono a destinare alla riduzione del carico fiscale e contributivo che grava sulle retribuzioni.

Con l’arrivo della recessione economica e l’aumento degli spread, “il gioco della redistribuzione diventa a somma negativa” che, a causa degli interessi sul debito, riduce le risorse economiche pubbliche al punto che, se si vogliono sostenere le pensioni o il reddito di cittadinanza, “è necessario aumentare la tassazione, diretta o indiretta, sia essa sui consumi, sui redditi, sui profitti o sui patrimoni”.

In questo contesto, preso atto della crescente difficoltà a reperire risorse pubbliche per ridurre strutturalmente l’elevato livello di pressione fiscale e contributiva, si moltiplicano le proposte a favore dell’istituzione di un salario minimo legale che, sostituendo quello contrattuale, “rimetterebbe sul sistema produttivo in crisi la responsabilità di proteggere le retribuzioni dei lavoratori”. Anche per questa ragione, secondo Martone, sta parallelamente maturando, tra i lavoratori come all’interno delle imprese, la consapevolezza che, se si vuole scongiurare una legge sul salario minimo legale, è quanto meno necessario procedere a una effettiva ricostruzione del sistema contrattuale, anche attraverso l’emanazione di una legge di sostegno alla contrattazione collettiva più rappresentativa.

L’esperienza post costituzionale cui l’autore fa riferimento avrebbe insegnato che, specialmente nei momenti di emergenza economica, la strategia rivelatasi più efficace è quella del sostegno legislativo al sindacato più rappresentativo, “che è in genere anche il più responsabile, come peraltro rileva l’ampio dibattito dottrinale ormai favorevole a una legge sindacale”.

Non esistono ostacoli costituzionali a un intervento legislativo di riforma del sistema retributivo. Nondimeno è facile prevedere che eventuali interventi legislativi in materia, se non dovessero essere supportati da una efficace concertazione sociale, rischierebbero di veicolare nel sistema più problemi che soluzioni. Anche per questo motivo, sottolinea l’autore, sembrano raccogliere maggiori consensi i progetti di riforma del sistema retributivo che invece propongono di assumere a parametro valevole ai fini dell’art. 36 Cost. i minimi retributivi individuati dai contratti collettivi nazionali più rappresentativi.

Come, ad esempio, propone il disegno di legge 658/2018 a prima firma Catalfo che stabilisce, tra l’altro, che:

  • La retribuzione, proporzionata e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro prestato, non può essere inferiore al trattamento economico complessivo individuato dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentativi ai fini della nomina dei rappresentanti presso il Cnel.
  • Il trattamento economico complessivo previsto dai contratti così individuati non può essere inferiore a nove euro l’ora al lordo dei contributi previdenziali.

Tuttavia, per Martone, neanche queste proposte riescono a dare soluzione “all’atavico problema della perimetrazione dell’ambito entro cui misurare la rappresentatività delle organizzazioni sindacali, dei lavoratori e dei datori di lavoro”, e quindi selezionare il contratto collettivo cui si accorda “la responsabilità, o il privilegio, di individuare il parametro retributivo valido erga omnes”.

L’analisi condotta ha indotto l’autore a concludere nel senso che non è più possibile fare a meno di una perimetrazione degli ambiti di efficacia contrattuale all’interno dei quali misurare la capacità rappresentativa degli agenti negoziali, e rappresentato l’occasione per registrare alcune significative convergenze che potrebbero essere poste alla base di una possibile riforma del sistema retributivo che:

  • Assuma il trattamento economico minimo previsto dal contratto collettivo più rappresentativo a parametro della giusta retribuzione per tutto il settore, secondo il modello già considerato costituzionalmente legittimo per quello delle cooperative.
  • Recepisca per via legislativa il sistema delineato nel Testo unico sulla rappresentanza del 2014, per misurare all’interno dei perimetri di efficacia della contrattazione collettiva la capacità rappresentativa delle diverse organizzazioni sindacali, delle imprese come dei lavoratori, secondo lo schema di recente proposto dal d.d.l. 788/2018.
  • Perimetri i settori di efficacia della contrattazione collettiva nazionale, quanto meno in materia salariale.
  • Recuperi, pur con tutti i necessari adattamenti, il modello disciplinato dall’art. 2070 c.c., al fine di consentire alla giurisprudenza di presidiare quei perimetri scongiurando la concorrenza tra imprese sul costo del lavoro.
  • Strutturi la contrattazione collettiva, potenziando, sulla scorta del modello del decentramento organizzato, quella di secondo livello, anche in deroga alla legge, al fine di evitare che le tensioni al ribasso sul costo del lavoro, ad esempio determinate dall’esplosione delle crisi aziendali, rifluiscano su quella nazionale.
  • Introduca un salario minimo orario, attorno ai nove euro, che funzioni sia da pavimento per la contrattazione collettiva che da parametro applicabile nei settori in cui quest’ultima non dispiega i propri effetti.
  • Preveda che tale soglia minima sia derogabile (opting out) in determinati settori economici.
  • Riduca il cuneo fiscale che grava sulle retribuzioni al fine di dare sollievo a quella classe media che, con il proprio lavoro, ha dovuto sopportare il peso di una crisi economica che ha reso insostenibile il terzo debito pubblico del mondo.

Non è più possibile agire in ordine sparso, secondo la logica del si salvi chi può. Per Martone è invece necessario che la contrattazione collettiva, quantomeno in materia salariale, si svolga all’interno di un sistema di regole che, contrastando la concorrenza al ribasso sul costo del lavoro, imponga anche alle imprese di agire sul terreno dell’innovazione di processo e di prodotto, piuttosto che non su quello della riduzione del costo del lavoro.

Martone si augura che i tempi in Italia siano maturi in quanto, molto spesso, in tema di riforme la tempistica si rivela essere un fattore determinante.

Bibliografia di riferimento

Michel Martone, A che prezzo. L’emergenza retributiva tra riforma della contrattazione collettiva e salario minimo legale, Luiss University Press, Roma, dicembre 2019


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale


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