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Irma Loredana Galgano

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Trasformare un ambiente magico in opera d’arte. “Napoli velata e sconosciuta” di Maurizio Ponticello (Newton Compton Editori, 2018)

13 lunedì Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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MaurizioPonticello, Napoli, Napolivelataesconosciuta, NewtonCompton, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano

 

Uno dei meriti che vanno senz’altro riconosciuti ai fratelli Carracci, in particolare Annibale, è l’aver trasformato la vita quotidiana in opera d’arte. Celeberrimo ed esemplare il suo dipinto Bottega del Macellaio (o Grande Macelleria, 1585 ca., olio su tela, 190×271, Oxford, Christ Church Gallery).
Perché sono solamente la vita vera, l’ambiente reale che ci circonda, le persone che lo vivono, lo attraversano, lo modificano, consapevolmente o meno, il capolavoro di cui alla fin fine vale sempre la pena narrare.
Bene lo ha compreso Maurizio Ponticello, il quale da anni ormai indaga a fondo ogni remoto angolo o mistero della sua città, del suo ambiente, per svelarne aspetti reconditi o mal interpretati. Una passione la sua che non smette di meravigliare il lettore, per quello che trova leggendo certo, ma anche per l’impegno e la dedizione, la professionalità e la serietà con cui porta a termine i suoi lavori.
Da ottobre 2018 nuovamente in libreria con Napoli velata e sconosciuta, edito da Newton Compton, un libro sui luoghi e simboli dei misteri, degli dèi, dei miti, dei riti, delle feste. Napoli, la città forse più raccontata al mondo, la metropoli di cui si pensa di conoscere architettura e cultura. Eppure, ogni volta, leggendo i testi di Ponticello si resta basiti dal cumulo di pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni che l’autore ha dovuto “spalare” prima di poter raccontare di quella meravigliosa opera d’arte diffusa che è la capitale partenopea.

«Napoli non è stratificata solamente nel proprio impianto urbanistico, anche per arrivarle al cuore occorre andare di strato in strato, sempre più a fondo. Il suo nucleo vibrante è celato, e tale resta agli occhi indiscreti che hanno per la fonte di Mnemòsine. Napoli non giungerà nuda alla meta. Né mai ci sarà una meta.»

Napoli velata e sconosciuta si compone di due parti ben distinte. La prima affronta il mito della fondazione, i caratteri nascosti della Sirena eponima, e «la cifra sacra su cui nacque la città nuova»; la seconda è centrata sull’analisi di «alcuni dettagli presi a modello» per esplorarli secondo «il principio esoterico delle considerazioni da dentro e le considerazioni da fuori». Durante la lettura però le due parti non così distinte e il lettore ha l’impressione di leggere un flusso continuo di informazioni, aneddoti, miti, leggende, storie che abbracciano il sacro e il profano, la leggenda e la tradizione, il passato e il presente. Con lo sguardo rivolto anche verso il futuro.
Il criterio di indagine seguito da Ponticello è quello che lui stesso definisce “Metodo Tradizionale”, che muove dalle fonti originarie disponibili, mette insieme mito e storia e privilegia il linguaggio arcano del simbolo e della mitologia per interpretare la storia.
Pian piano che la velatura su Napoli e i suoi tanti misteri si solleva, grazie al certosino impegno di Ponticello, il lettore non può fare a meno di chiedersi se siano i napoletani ad abitare la città o se sia quest’ultima a vivere dentro di loro.
Napoli è poliedrica e l’analisi dell’autore non poteva non spaziare dall’antropologia alla storia, dalla letteratura alla filologia, dalla glottologia alle religioni, dalla sociologia all’etnologia. Un lavoro di ricerca immenso che a tratti potrà anche sembrare ostico alla lettura ma è senza dubbio motivato, ben strutturato e valido.

Dodici anni dopo la sua prima pubblicazione, Napoli velata e sconosciuta appare incredibilmente un libro ancora rivoluzionario nel suo genere, come lo definì, nell’introduzione al primo libro, Stefano Arcella. Incredibile appare anche il fatto che si sia resa necessaria la nuova edizione come tentativo di arginare, di nuovo, la diffusione di scritti imprecisi e «interpretazioni fuori luogo», la maggior parte delle volte dettate da «interessi di cupole e parrocchie».
Con un linguaggio ancor più diretto e provocatorio, Ponticello riporta quindi sugli scaffali l’opera prima, riveduta e ricontrollata, il suo baluardo contro il pregiudizio, l’imprecisione e il plagio.
Un’opera letteraria che si rivela fuor di dubbio valida, nella struttura come nei contenuti.


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

SPECIALE WMI: Il ruolo culturale delle biblioteche oggi in Italia

26 mercoledì Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, biblioteche, cultura, RinnovamentoCulturaleItaliano, WMI

Qual è il ruolo culturale delle biblioteche, pubbliche e private, oggi in Italia? Perché, nella società che si definisce dell’informazione, i luoghi simbolo della cultura vera, come appunto le biblioteche, si considerano ormai obsoleti, superati, inutili? Che relazione si pone tra diritto alla conoscenza, libertà di pensiero e di espressione e libertà di accesso all’informazione? I libri e la libertà. Le biblioteche e la democrazia. Bibliotecari e pubblico. Il rapporto dei cittadini con la lettura.

Le biblioteche sono istituzioni che, inspiegabilmente, restano fuori da ogni dibattito, mediatico e istituzionale, sulla cultura. Eppure esse rappresentano non solo i luoghi fisici di conservazione della memoria del passato ma, soprattutto, la struttura, la tecnica, il metodo, la fisicità e la possibilità concreta per la creazione di una cultura, di un’informazione e anche una educazione, quanto più ampie e diffuse possibile, che non siano faziose, di parte o partitiche, settarie e limitate.
Proprio le biblioteche, le quali rimangono ancora oggi estranee ed esterne alle logiche del mercato, all’economia imperante, al consumismo e alla superficialità di una conoscenza priva di fondamenta solide e logiche.
Michel Melot sosteneva che «la biblioteca è una macchina per trasformare la convinzione in conoscenza. La credulità in sapere». Come riportato anche nella premessa al testo L’azione culturale della biblioteca pubblica di Cecilia Cognini (Editrice Bibliografica, 2014).

Cognini ricorda che uno degli obiettivi dei programmi di Europa 2020 è proprio quello di «promuovere e consolidare la società della conoscenza». Ponendo al centro l’istruzione e le competenze, la ricerca, l’innovazione e la società digitale, allo scopo di favorire «un uso intelligente e consapevole delle nuove tecnologie». L’economia della conoscenza si basa sulla centralità del ‘capitale umano’ come «elemento capace di determinare un andamento positivo dello sviluppo di un paese». Nello scenario sociologico internazionale sempre di più si sta consolidando il bisogno di superare il PIL come indicatore dello stato di benessere di un paese, in Italia «lo Cnel e l’Istat hanno elaborato degli indicatori per misurare il BES, il benessere equo e sostenibile», ricollegando concettualmente il tasso di benessere di una società a fattori che «comprendono cultura e salute e altri aspetti immateriali della vita contemporanea».

Ecco che entra in gioco il concetto di apprendimento per tutto l’arco della vita, che diventa «un aspetto essenziale nella prospettiva esistenziale delle persone». L’intelligenza degli individui, ma anche quella di ognuno, non può essere ricondotta a una sola tipologia, «educare a pensare la complessità diventa un obiettivo rilevante per la società della conoscenza». L’azione della biblioteca pubblica può essere interpretata come una «sintesi efficace delle diverse vocazioni e stratificazioni di senso che il concetto di cultura rappresenta».
Affinché cultura e creatività si radichino in un territorio è necessario che si sviluppi una “atmosfera creativa”. In base al concetto largamente esposto nelle sue opere da Walter Santagata, per rendere percepibile un’atmosfera creativa è necessario che «il bagaglio di idee e creatività raggiunga un certo livello» e che siano presenti determinati ingredienti: «le reti creative, i sistemi locali della creatività, le microimprese di servizi». Anche le biblioteche, gli archivi e i musei sono soggetti essenziali da questo punto di vista, perché anch’essi qualificano il tessuto economico e sociale di un dato territorio, «aumentando la predisposizione delle persone a investire nelle loro capacità e competenze conoscitive e accrescendo la qualità sociale di una comunità».
Laddove per “qualità sociale” deve intendersi la misura secondo cui le persone sono capaci di «partecipare attivamente alla vita sociale, economica e culturale e allo sviluppo delle loro comunità», in condizioni che migliorino il benessere collettivo e il potenziale individuale.

Nella filiera del patrimonio culturale proprio le biblioteche possono conquistare «un ruolo e una rilevanza centrali, ancora solo parzialmente esplorate», e contribuire, per la loro capillarità e accessibilità e la loro vocazione alla divulgazione, a «promuovere la più ampia conoscenza e fruizione possibili del patrimonio culturale del nostro paese». Come indicato nel Manifesto IFLA/Unesco, la biblioteca pubblica svolge un «ruolo centrale anche nel promuovere la consapevolezza dell’importanza dell’eredità culturale che è propria di una comunità e di un territorio», non solo nel senso più scontato del mettere a disposizione del pubblico i fondi di storia e cultura locale o i documenti conservati nelle sezioni “Manoscritti e Rari”, ma più in generale come «promozione della capacità di lettura e interpretazione del patrimonio culturale di una comunità» al fine di trovare nuovi modi per raccontarlo, «nella consapevolezza delle nuove sfide poste dalla società multiculturale e dal digitale».

La vita degli adulti dovrebbe essere centrata sull’apprendimento continuo. Una educazione «fortemente correlata a una diversa concezione del sapere», non più focalizzato solo sull’acquisizione di abilità e contenuti ma anche di atteggiamenti e comportamenti. Esiste un sottostimato ma innegabile «legame fra formazione permanente e sviluppo democratico della comunità». L’atto di conoscere è a un tempo biologico, linguistico, culturale, sociale e storico e «la conoscenza non può essere dissociata dalla vita umana e dalla relazione sociale».
Nicholas Carr sostiene che la rete ci ha confinato nella superficialità e nell’incapacità di approfondire, mentre Rheingold Howard ritiene che questa ci aiuti a sviluppare appieno tutto il potenziale dell’intelligenza collettiva. Per Cecilia Cognini forse hanno ragione entrambi. Innegabile è di sicuro il fatto che internet e le nuove tecnologie hanno «modificato le modalità di apprendimento, i contesti e gli scenari di riferimento e con essi il ruolo delle biblioteche», da ricercarsi proprio nella formazione permanente.

La formazione permanente può avere un ruolo centrale nel «contrastare il ritardo di alfabetizzazione presente nel nostro paese».
Stando ai dati ISOFOL-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) l’Italia è la più bassa fra i paesi Ocse per partecipazione ad attività di apprendimento formale e informale degli adulti, con appena il 24% a fronte di una media del 52%. In questo ambito la biblioteca «può promuovere una visione proattiva e non passiva della cultura».
Per Cecilia Cognini l’azione della biblioteca si esplica sostanzialmente in quattro modi:
Predisposizione all’accesso.
Formazione dei cittadini.
Definizione di un ambiente sicuro.
Costruzione della motivazione a imparare.

Nella premessa al testo di Mauro Guerrini curato da Tiziana Stagni De Bibliothecariis. Persone Idee Linguaggi (Firenze University Press, 2017) Luigi Dei, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Firenze, definisce le biblioteche «uno dei più preziosi patrimoni che le Università posseggono o ai quali gli Atenei fanno costante riferimento come irrinunciabile stella polare per le loro missioni». Per il rettore Dei non bisogna lasciarsi intimorire dal progresso scientifico-tecnologico, dal digitale, dalla rete… perché «la nostra era non è più unica di quanto lo sembrassero le precedenti ai nostri predecessori». I nuovi media troveranno «il loro posto nelle biblioteche» e così i bibliotecari assolveranno alla loro missione secondo modalità «stupendamente innovative e con strumenti d’inenarrabile potenza e versatilità». Il destino che attende quindi queste istituzioni, secondo Luigi Dei, è quello di «rivestire nel futuro un ruolo sempre più centrale nella vita dell’uomo».

Il testo di Mauro Guerrini si apre al lettore con una citazione di Shiyali Ramamrita Ranganathan:

«Fino a quando l’obiettivo principale di una biblioteca fu la conservazione dei libri, tutto quello che si pretese dal suo personale fu che fosse costituito da guardiani capaci di combattere i quattro nemici dei libri: fuoco, acqua, parassiti e uomini. Non era strano che un posto di lavoro in biblioteca rappresentasse il rifugio possibile per le persone incapaci di fare altri lavori. Ci volle davvero molto tempo perché si comprendesse che era necessario un bibliotecario professionale.»

Per Guerrini il tronco di attività e di competenze che regge la professione bibliotecaria si basa essenzialmente su due temi caratterizzanti: gli utenti e le risorse bibliografiche. «Il bibliotecario mette in relazione positiva queste due entità». La biblioteca pubblica italiana è, in questa fase storica, chiamata a difendere la Costituzione, le istituzioni democratiche, il diritto a un’informazione libera, tempestiva e plurale, «arginando le manipolazioni che pervadono, armai da sessant’anni, l’assetto partitocratico delle istituzioni e dei mass-media». Non può esistere democrazia senza controllo. E il controllo, oltre che dalla tripartizione dei poteri, deve essere esercitato dall’elettorato: «un cittadino bene informato è un requisito della democrazia perché conosce e giudica tramite la scheda elettorale l’operato dei politici, dei potenti, della società».
La biblioteca è chiamata a documentare in modo imparziale i diversi punti di vista dai quali un tema può essere interpretato anche conflittualmente e senza avanzare, in modo evidente o tra le righe, la preferenza per nessuno.

Quella del bibliotecario è una professione, e la capacità di scindere tra orientamenti personali e comportamento professionale fa parte del bagaglio culturale e professionale, «anzi ne determina il livello di professionalità». Libro è libertà sono indissolubili. La biblioteca non è il luogo di una verità unica, e neanche della verità degli altri, è il luogo dove «il lettore deve costruirsi la propria».
Il diritto alla conoscenza, la libertà di pensiero e la libertà di espressione sono condizioni necessarie per la libertà di accesso all’informazione. «Il bibliotecario è il garante dell’accesso a un’informazione libera», senza restrizioni e non condizionata da ideologie, credi religiosi, pregiudizi razziali, condizioni sociali, ecc… «ovvero da tutto ciò che in qualsiasi misura possa rappresentare un fattore di discriminazione e di censura». Suo compito è inoltre garantire la riservatezza dell’utente e «promuovere, quale strumento di democrazia, l’efficienza del servizio bibliotecario».

Guerrini ritiene doveroso cercare di individuare le ragioni, in una prospettiva storica, sia della mancata consapevolezza da parte del cittadino dei servizi e delle potenzialità informative che le biblioteche mettono a disposizione della comunità, sia del venir meno di quei servizi essenziali verso il cittadino da parte di alcuni enti pubblici, motivati dal continuo costante e inarrestabile taglio dei finanziamenti statali. I tagli dei fondi alla cultura sono intesi e lasciati intendere come «tagli al superfluo». E allora, si chiede Mauro Guerrini: «quando si capirà che investire in biblioteche significa investire per la democrazia, lo sviluppo economico e la qualità della vita?»
L’Italia può, o meglio potrebbe, svolgere un ruolo importante a livello politico generale, come «ponte di cultura» ma anche di pace e di libertà intellettuale, di scambio informativo, di modello di conoscenza, «di incontro e di dialogo fra culture diverse, fra Nord Europa e paesi che si affacciano sul Mediterraneo». L’Italia è un Paese di confine che «subisce l’urto dei flussi migratori», ma «la nostra cultura, le nostre biblioteche possono essere un efficace strumento di pace, di diffusione della comprensione e di reciproco rispetto».

Per Antonella Agnoli, autrice de Le piazze del sapere (Editori Laterza, 2014), in una società caratterizzata da disuguaglianza crescente e dalla scomparsa o dalla privatizzazione di molti servizi sociali, «la biblioteca è diventata un presidio del welfare». Occorre fare della cultura una questione politica centrale per il paese, «chiedere al governo e agli enti locali di tornare a investire sulla scuola e sulla cultura». Tante buone pratiche si affermano a livello locale ma, alla fin fine, tutte o quasi sono costrette a cedere sotto il peso di una politica nazionale che «va in direzione opposta».
Inoltre va sottolineato che scuole, università, biblioteche e altre istituzioni culturali sul territorio «non comunicano tra loro, non agiscono in sinergia», non vanno a costituire un «ambiente globale dove i talenti possano svilupparsi e lavorare».
Le biblioteche pubbliche, per Agnoli, devono essere considerate «un servizio universale, come la scuola o l’ospedale». Ma, soprattutto, dovrebbero agire in sinergia con tutte le altre istituzioni culturali, soprattutto afferenti al sistema scolastico, secondo progetti e programmi coordinati dallo stesso Miur per ovviare a oggettivi e oramai sistemici deficit di apprendimento.
Stando ai dati Ocse-PISA (Programme for International Students Assessment), la capacità degli studenti italiani di leggere e interpretare un testo sono molto inferiori a quelli degli studenti degli altri paesi europei. Il che significa che diventeranno adulti non in grado di «leggere un libro o un giornale» e di comprenderne appieno il significato e, soprattutto, cittadini a rischio nei loro diritti elementari perché «in difficoltà a capire una scheda elettorale, una bolletta della luce o un estratto conto». Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Ne La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica, 2014) Antonella Agnoli ricorda che ogni giorno in Italia si condividono online 5milioni di foto, Facebook ha 20milioni di iscritti mentre Twitter ne ha 10milioni e afferma che «il prezzo che paghiamo alle meraviglie offerte da iTunes, Youtube, Twitter e Instagram è la rinuncia, del tutto volontaria, ai libri. La fine della lettura». Ma è davvero così? Prima dell’avvento di internet e dei social le persone leggevano davvero molto più di adesso? E in che misura?
Tralasciando i tempi in cui il tasso di analfabetismo era ancora molto elevato e diffuso e osservando l’Italia e gli italiani della seconda metà del Novecento si deve ammettere di trovarsi di fronte un quadro dipinto per la maggiore da radio, calcio e televisione. Internet e i social sono solo il mezzo di distrazione del nuovo millennio che è andato ad aggiungersi o a sostituirsi a quelli imperanti nel secolo scorso. I lettori, quelli forti, che non si lasciavano attrarre dalla televisione nel Novecento non si lasciano sedurre neanche dai nuovi media. I numeri erano pochi allora e lo sono anche oggi. È questo il nocciolo del problema.

Andrea Capaccioni in Le biblioteche dell’Università (Maggioli Editore, 2018) sottolinea come già numerosi stati hanno incrementato gli investimenti per sostenere un più efficiente sistema di istruzione superiore e per fornire ai cittadini un accesso alla formazione lungo tutto l’arco della vita. Gli atenei sono dunque chiamati a svolgere «un ruolo sociale (civic university) sempre più importante» e a garantire livelli qualitativi elevati attraverso «periodiche verifiche dei risultati raggiunti sul piano scientifico e divulgativo». C’è un forte legame tra la biblioteca, l’insegnamento e la ricerca al punto che le biblioteche dell’università sono state definite «specchio dell’educazione superiore». Troppe volte però la biblioteca, invece di «luogo privilegiato della propria missione», viene considerata dagli atenei come mero «strumento da includere tra le attrezzature didattiche».
È tuttavia innegabile che in una società sempre più interessata alla produzione e alla gestione dell’informazione «le università costituiscono un obiettivo strategico per i governi di tutto il mondo» e con esse tutti i luoghi di produzione e conservazione delle informazioni e della cultura, comprese naturalmente le biblioteche.
Si prospetta la necessità di ripensare il ruolo e le funzioni della biblioteca nel nuovo contesto culturale e tecnologico e Capaccioni si chiede se le università siano pronte a gestire il cambiamento. Ma egli stesso rammenta poi che nel mondo è in costante crescita il numero di università che hanno individuato nelle loro biblioteche il luogo ideale per istituire dei learning center «in cui ai tradizionali servizi bibliotecari si affiancano iniziative legate alla didattica e all’information literacy».

Per John Palfrey, autore di BIBLIOTECH (Editrice Bibliografica, 2016), «le biblioteche sono in pericolo perché ci siamo dimenticati quanto esse siano eccezionali». Le biblioteche danno accesso alle abilità e alle conoscenze necessarie per adempiere al nostro ruolo di cittadini attivi. La conoscenza che le biblioteche offrono e l’aiuto che i bibliotecari forniscono «sono la linfa di una repubblica informata e impegnata». Le democrazie possono funzionare soltanto se tutti i cittadini hanno pari accesso all’informazione e alla cultura, in modo tale che possano «essere aiutati a fare buone scelte, siano esse relative alle consultazioni elettorali o ad altri aspetti della vita pubblica». E l’accesso eguale e paritario alla cultura può esserci solo laddove ci siano istituti e istituzioni pubbliche (scuole, atenei, biblioteche, archivi, …) per usufruire dei quali non è importante «quanto denaro si ha in tasca». Nel mondo digitale le biblioteche, come anche gli altri istituti della cultura, devono continuare a ricoprire le funzioni essenziali di accesso libero alla conoscenza, laboratori per lo studio, l’apprendimento e la ricerca, depositi della conoscenza. Esattamente come hanno fatto nel periodo analogico.
Il futuro delle biblioteche è importante per vari motivi, ma per Palfrey in testa alla lista delle priorità vi è fuor di dubbio il loro ruolo nel tutelare in modo certo la conoscenza culturale nel lungo periodo.
Allorquando i nuovi materiali digitalizzati verrano seriamente inclusi nei piani di studio scolastici, «un’iniziativa nazionale fra biblioteche, che renda disponibili documenti di supporto appropriati a tutti i docenti e agli studenti» potrebbe abbattere i costi della transizione per le scuole e permettere agli allievi di avere «un facile accesso e gratuito a strumenti di studio rilevanti».
La scusante che va per la maggiore, in genere, è la mancanza di risorse finanziarie, ma in molti casi le questioni relative all’educazione non hanno molto a che fare con i soldi, quanto piuttosto «con l’amministrazione, la visione, l’impegno».

La mancanza di visione e impegno rischia di continuare a lasciare i cittadini di oggi e di domani in balìa di questo immenso «rumore informazionale di fondo», un vero e proprio «turbine di gossip» che genera una diffusa condizione di alfabetizzati-illetterati storditi «dagli irrilevanti contributi di un pervadente disturbo che li strania da ogni stimolo di autentica realtà». Alfredo Serrai, in La biblioteca tra informazione e cultura (Settegiorni Editore, 2016), indica come unica strada percorribile il progettare «un salvataggio della intellettualità antica racchiusa nelle gloriose biblioteche antiche innestandola nel quadro sistematico di una sintesi culturale che la valorizzi». Naturalmente incorporandola nella storia e nella cultura del passato ma «con le estensioni, gli sviluppi e i rivolgimenti prodotti dalle acquisizioni, tecnologiche e concettuali, del pensiero moderno».
Perché, a rifletterci bene, sottolinea Serrai, il problema di fondo rimane quello del rapporto che si intende avere con il passato. Conservarlo come fossero resti mummificati oppure continuare a «sentirci il ramo più alto di uno stesso grande albero ancora vitale» e verosimilmente prosperoso. Quando le biblioteche si ridurranno a Musei, nel senso di luoghi destinati alla conservazione delle testimonianze, sarà anche la fine della cultura che le biblioteche aveva generate e alimentate.
Chiedersi se spariranno le biblioteche va di pari passo con il domandarsi se continuerà il dissolvimento di quella che si continua a riconoscere ancora come la nostra attuale cultura.

Come conseguenza della aumentata velocità dei mezzi di comunicazione, della immediatezza delle comunicazioni, spesso identiche e ripetitive, si assiste a una generale e uniforme «omologazione concettuale e a un diffuso appiattimento di pensiero». Si percepisce come unicamente reale, «non solo sul piano personale ma anche su quello cosmico», soltanto il presente e l’immediato. Ma se l’informazione non diventa Cultura, ovvero «trama di un ordito molteplice e complesso» che si nutre del passato per affrontare il presente e guardare il futuro, allora è ben poca cosa, avverte Serrai. La biblioteca è e deve sempre porsi come sorgente di cultura e non di informazione o ragguaglio, come sono invece i motori di ricerca molto utilizzati nella navigazione su internet.

La motivazione a documentarsi, a interrogarsi, a immaginare ipotesi risolutive, a indagare e anche semplicemente a leggere può originarsi in «modo intrinseco solo se queste attività vengono comprese come necessarie per capire i mondi con cui si entra in contatto». Se l’intenzione è capire, non è sufficiente porsi di fronte a un testo, bisogna «costruire il proprio testo esplorando altri testi alla ricerca, in primo luogo, di ciò che non si capisce».
Tentare di motivare alla lettura attraverso la proclamazione della sua importanza, l’imposizione della sua realizzazione, la gratificazione del suo essere compiuta si rivelano, pressoché sempre, operazioni non sufficienti a produrre un’abitudine duratura nel ricorrere al documentarsi per conoscere, per capire, perché «non si basano su alcun bisogno del soggetto che dovrebbe compiere l’atto di leggere».
Attualmente in Italia la formazione scolastica «non riesce a trasmettere un approccio metodologico alla ricerca bibliografica» e, soprattutto, «non sempre aiuta a comprendere l’importanza di buoni documenti» per la ricerca e per l’approfondimento «per la vita, per il lavoro, per le scelte importanti».
Tra le convinzioni comuni c’è quasi sempre l’idea, «ben nota ai docenti e ai bibliotecari», che la rete, «o meglio un indifferenziato Google», sia la fonte documentale unica. Naturalmente non è così. È necessario dunque cominciare a trasmettere con fermezza l’idea che l’importante non è solo ottenere delle risposte immediate, indistinte e omogenee, bensì imparare a valutare «quali strumenti potrebbero aiutarci a raggiungere delle informazioni rilevanti, oltre che corrette». E così internet, invece che essere il mezzo attraverso cui si accede, «con approcci specifici, a libri elettronici, articoli scientifici da acquistare, preziosa documentazione di fonte pubblica, documenti open access da consultare, migliaia di cataloghi di biblioteche nel mondo da interrogare,» … diventa un tutto indistinto, in cui il recupero è affidato al «funzionamento di algoritmi non noti o all’uso di pochissime fonti note».
Queste alcune delle importanti indicazioni illustrate da Piero Cavaleri e Laura Ballestra nel Manuale per la didattica della ricerca documentale (Editrice Bibliografica, 2014).
L’obiettivo è quello di rendere gli studenti consapevoli del processo che conduce a «una trasformazione dei dati informativi in reali conoscenza e cultura». Consapevolezze e competenze che il personale docente dovrebbe già aver acquisito.

La lezione di Roberto Tassi del 2015, raccolta da Ugo Fantasia nel testo Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche ed edita da il Mulino nel 2017 è la miglior risposta possibile al quesito di senso sull’esistenza delle biblioteche.
Nel testo si compiono un’analisi e un’indagine sulle origini e sulla storia delle biblioteche, condotte attraverso i testi antichi e i documenti anche meno noti, tali da diventare esse stesse la testimonianza diretta dell’importanza della conservazione. Dal diventare la ragione evidente per la quale tutto il sapere accumulato non deve andare perduto bensì custodito, coltivato, nutrito, incrementato, fortificato.

«Studiare la storia dei testi significa studiare la storia della realtà bibliotecaria.»

Si fa tanto e presto a dire che bisogna avvicinare i giovani alla lettura. E questo è senz’altro un ottimo proposito. Ma gli adulti quanto leggono? Genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, al ministero, la classe politica e dirigente in generale quanto leggono e quanto si documentano in realtà?
L’importanza perentoria delle biblioteche, degli archivi, dei musei e di tutti gli istituti della cultura è innegabile. Ciò che invece va accantonata, dismessa, dimenticata è la convinzione dell’inutilità della cultura e della sua scarsa incidenza sul benessere collettivo, anche economico.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Andrea Capaccioni, Le biblioteche dell’Università. Storia, Modelli, Tendenze, Maggioli Editore (nuova edizione 2018).

Andrea Capaccioni, Le origini della biblioteca contemporanea. Un istituto in cerca d’identità tra vecchio e nuovo continente (secoli XVII-XIX), Editrice Bibliografica, 2017.

Mauro Guerrini, Tiziana Stagni (a cura di), De Bibliothecariis. Persone, Idee, Linguaggi, Firenze University Press, 2017.

Cecilia Cognini, L’azione culturale della biblioteca pubblica, Editrice Bibliografica, 2014.

John Palfrey, Elena Corradini (traduzione di), BIBLIOTECH. Perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google, Editrice Bibliografica, 2016.

Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Editori Laterza, 2014.

Antonella Agnoli, La biblioteca che vorrei. Spazi, Creatività, Partecipazione, Editrice Bibliografica, 2014.

Alfredo Serrai, La biblioteca tra informazione e cultura, Settegiorni Editore, 2016.

Piero Cavaleri, Laura Ballestra, Manuale per la didattica della ricerca documentale, Editrice Bibliografica, 2014.

Anna Maria Mandillo – Giovanna Merola (a cura di), Archivi Biblioteche e Innovazione. Atti del Seminario tenuto a Roma il 28 novembre 2006 (Annale 19/2008 dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli fondata da Giulio Carlo Argan), Iacobelli Editore, 2008.

Massimo Accarisi – Massimo Belotti (a cura di), La biblioteca e il suo pubblico. Centralità dell’utente e servizi d’informazione, Editrice Bibliografica, 1994.

Ugo Fantasia (a cura di), Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche (Lezione Roberto Tassi 2015), il Mulino, 2017.


Articolo apparso sul numero 54 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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Lamafianera, mafia, NewtonCompton, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, terrore, VincenzoCeruso

Con la sconfitta del nazifascismo iniziava per l’Europa il più lungo periodo di pace mai conosciuto. Ma non è stato così per tutti gli europei. Per tanti a cominciare è stato solamente un conflitto differente, combattuto in modo diverso e che ha richiesto l’impiego di una nuova tipologia di soldati.
Sentimenti ostili nei confronti della neonata Repubblica e paura riguardo la possibile o probabile avanzata di ideologie diverse, opposte, che avanzavano da quello che ancora veniva indicato tra i principali nemici da combattere, il blocco dell’Est sovietico.
Il generale Arpino, capo di Stato maggiore dell’esercito, ha dichiarato dinanzi a una commissione parlamentare: «per noi, ancora negli anni Ottanta, un terzo del parlamento era il nemico».

Il conflitto che lacerava la società italiana all’indomani del secondo conflitto mondiale appare «feroce, come può esserlo solamente una guerra ideologica». Se il comunismo era impegnato a forgiare «un nuovo tipo di uomo, una macchina senz’anima», un docile strumento al servizio della guerra totale, anche i difensori del mondo libero dovevano affrancarsi da ogni preconcetto morale, per rispondere adeguatamente alle sfide che li attendevano. A partire dalla creazione del «soldato rivoluzionario», educato al nuovo tipo di guerra che il comunismo aveva imposto, addestrato tecnicamente e dotato di un’adeguata «educazione morale». Un «soldato d’élite», ideologicamente preparato al suo compito.

Questo e tanto altro si legge nella relazione di Edgardo Beltrametti, giornalista e collaboratore del corpo di Stato maggiore della Difesa, scritta in occasione del convegno che si tenne a Roma nel maggio 1965 dal titolo La guerra rivoluzionaria. Incontri, eventi, accadimenti che, unitamente alla narrazione storica più nota e alla documentazione di inchieste, indagini e processi, si trovano ampiamente analizzati ne La mafia nera di Vincenzo Ceruso, edito da Newton Compton a ottobre 2018. Un libro che racconta la storia di un’Italia oscura, le stragi, i depistaggi e le relazioni occulte tra lo Stato e il non-Stato. Eversione neofascista, brigatismo rosso, apparati dello Stato, società segrete e organizzazioni mafiose che si muovono e si sono sempre mossi all’interno del medesimo scacchiere per spartirsi o contendersi il medesimo bottino. A rischio sempre più elevato la democrazia e il bene comune.

L’Italia ha avuto ed ha numerose agenzie di depistaggio. I principali protagonisti di queste azioni sono ben identificabili dentro i nostri apparati di sicurezza, «abituati a muoversi al confine tra il legale e l’illegale». Alcune delle principali associazioni di natura criminale e sovversiva che il nostro Paese ha avuto ed ha, «hanno svolto anche le funzioni di agenzie di depistaggio». Viene da sé che a suscitare maggiore scandalo sono i «reati commessi da uomini nel cuore delle istituzioni».

Ceruso indica in quanto accaduto dopo la strage di via d’Amelio, nella quale persero la vita il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della sua scorta, il tentativo di costruire un «depistaggio perfetto». Le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino, Francesco Andriotta, Salvatore Candura e Calogero Pulci andarono a comporre «una ricostruzione dell’attentato in via d’Amelio che avrebbe retto ai tre gradi di giudizio». Scarantino però era «del tutto non credibile, sia nei panni dello stragista che del mafioso». Il 21 luglio 1995 ritrattò le sue dichiarazioni e accusò il capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e i suoi uomini di «torture nei suoi confronti». La Barbera sarebbe stato «un agente sotto copertura, con il nome in codice di Rutilius, e avrebbe percepito dal Sisde un assegno di un milione di lire nel 1986 e 1987». Perché Scarantino ha accusato degli innocenti, seppur sempre di affiliati si parla?

Il giorno 5 novembre 2018 si è aperto il dibattimento che vede i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo accusati di calunnia aggravata dalla Procura di Caltanissetta. Avrebbero creato a tavolino falsi pentiti, come Scarantino, per costruire una versione non veritiera di quanto accaduto.

Tra il 1992 e il 1993 furono poste in essere sette stragi sul territorio della Repubblica italiana. Come ai tempi di piazza Fontana, ma ben venticinque anni dopo, «venne indagato l’ordinovista Franco Freda», per il quale venne ipotizzato il reato di strage. L’indagine portò ad alcuna accusa a carico di Freda. In una delle riunioni avvenute alla vigilia degli attentati, «di cui hanno parlato Sinacori e altri collaboratori di giustizia», i boss avrebbero decretato che gli atti terroristici sarebbero stati «rivendicati usando il nome della Falange Armata».
L’ammiraglio Francesco Paolo Fulci, durante una dichiarazione rilasciata per il processo sulla trattativa Stato-mafia, avrebbe rivelato che questa denominazione «serviva a identificare una struttura clandestina dei servizi segreti, che si muoveva secondo le tipiche di guerra psicologica utilizzate nell’ambito di Gladio». Gli esiti di un’indagine da lui stesso ordinata furono due mappe che indicavano, nei luoghi da dove partivano le telefonate a nome della Falange, «sedi periferiche del Sisde». Secondo quanto si legge nella Sentenza nei confronti di Bagarella Leoluca e altri del 20 aprile 2018 della Corte d’assise di Palermo.

I magistrati di Palermo, indagando su quegli anni, hanno utilizzato l’espressione «sistema criminale» per indicare «l’alleanza eterogenea di soggetti che agivano per portare a termine un comune progetto eversivo». Gli investigatori hanno accertato che, alla vigilia delle stragi, c’era in Sicilia «un gran viavai di personaggi legati alle trame eversive degli anni Settanta».
L’obiettivo finale del ‘sistema criminale’ era attuare una «forma di golpe che mutasse radicalmente il quadro politico-istituzionale». Secondo quando si legge nella richiesta di archiviazione nei confronti di Gelli Licio e altri del 21 marzo 2001 della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.
Una mutazione del quadro politico da portare avanti «attraverso le stragi e a cui avrebbe aderito anche lo stesso Riina».
Secondo i collaboratori di giustizia calabresi, il vasto piano politico-criminale prevedeva la «piena collaborazione della ‘ndrangheta attraverso la figura dell’avvocato Paolo Romeo», esponente di Avanguardia Nazionale negli anni Settanta. Un altro personaggio centrale nel raccordo con il mondo politico era «Vito Ciancimino», il quale, in un interrogatorio del 1998 proponeva, come movente della strage di Capaci, «il sabotaggio della candidatura di Giulio Andreotti quale presidente della Repubblica». Il ruolo di mediatore di Ciancimino sarebbe stato assunto, in un secondo momento della trattativa, «da Marcello dell’Utri».

Durante la stagione delle stragi mafiose, tra il 1992 e il 1994, «i vertici del Ros, insieme agli uomini di Cosa nostra», avrebbero «minacciato e tentato di condizionare il governo della Repubblica». Il livello politico, cui avrebbero fatto riferimento gli ufficiali dei carabinieri, «non è stato però individuato». A meno che non si voglia pensare a «esecutori – quindi ad apparati di sicurezza – che non rispondevano a nessuno», oppure a «referenti estranei al governo della Repubblica» e distanti dagli interessi nazionali.

I magistrati hanno tratteggiato più volte nelle indagini sulle stragi la tecnica «piduista e mistificatoria» di fornire una massa di informazioni difficilmente verificabili e orchestrare campagne di stampa, confondendo fatti veri e falsi.
Alcune figure apicali dei nostri servizi segreti, prima ai vertici del Sid e poi a quelli che saranno il Sismi e il Sisde, «hanno ritenuto che spettasse svolgere ai servizi stessi un ruolo di agenzia di depistaggio» rispetto ad alcuni dei fatti più sanguinosi della cronaca eversiva. Per quanto riguarda le stragi di piazza Fontana e della stazione di Bologna, «le responsabilità parziali degli agenti sono state definitivamente individuate». Rimane tuttavia da chiarire il motivo per cui lo hanno fatto.
Non è più un mistero neanche la oramai «prassi consolidata dell’utilizzo delle forze sovversive e criminali da parte degli uomini che sarebbero preposti alla loro repressione».
La mafia, «sfruttando quelle capacità di adattamento alle diverse epoche che le sono proprie», ha adottato, in periodi cruciali della storia italiana, «l’habitus proprio dell’organizzazione terrorista». A questa mutazione in senso terroristico hanno contribuito anche «le sollecitazioni provenienti da determinati organismi statali», allorquando hanno visto nella mafia siciliana un potenziale e potente alleato per realizzare quello che ritenevano «sarebbe stato l’ordine giusto per il nostro Paese». Basti pensare a quanto accaduto «nel secondo dopoguerra e tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso».
Parimenti, anche «eversione nera e le mafie hanno stabilito», in particolari momenti della loro storia, «relazioni significative».

Esiste una «ideologia stragista» il cui nucleo essenziale consiste nel considerare la morte di innocenti come un obiettivo strategico da perseguire, «una condizione necessaria per incidere sull’esistente e modificare le strutture statali». Risultati da raggiungere con omicidi mirati o con massacri indiscriminati ma, in ogni caso, con «uno sforzo costante per occultare la verità».
Cosa nostra e Ordine Nuovo, a partire da un certo momento e per un lungo tratto della loro storia, «sono stati i due principali gruppi terroristici, con finalità stragiste» presenti in Italia.
Se guardiamo alle due organizzazioni senza preconcetti, sarà più facile «accertare una serie rilevante di punti in comune»:

•collusione con la politica e con gli apparati di sicurezza deviati;
•dichiarata visione fortemente ostile allo Stato e alle sue leggi;
•ideologia organica cui i loro membri sono tenuti ad aderire;
•straordinaria capacità militare;
•vocazione stragista;
•natura di associazione sovversiva;
•impiego del terrorismo politico.

Come per le Brigate Rosse, la principale banda armata comunista, anche le organizzazioni eversive di destra non hanno disdegnato di cercare «accordi con esponenti delle diverse associazioni mafiose», in nome della comune lotta allo Stato.
La mafia siciliana dal canto suo ha utilizzato lo stragismo per fini politici fin dall’immediato dopoguerra, con il massacro di Portella della Ginestra, e «ha affinato questa sua propensione negli anni Novanta del Novecento».

Si può compiere una strage per depistare. Ed è esattamente quanto sarebbe accaduto durante il periodo definito della «strategia della tensione», allorquando l’obiettivo era la creazione di un clima politico favorevole alle forze conservatrici mediante «l’attacco di obiettivi civili e il perseguimento di un disegno terroristico». Piazza Fontana fu un attacco terroristico, «ma servì anche ad altro».
L’eccidio mostrò ai burattinai delle stragi che era possibile colpire indiscriminatamente una folla di cittadini indifesi, nel cuore della capitale economica del Paese, e riuscire a indirizzare le indagini verso «colpevoli del tutto improbabili».

I soggetti collettivi che pensarono, promossero e ordinarono la strage di piazza Fontana, «erano gli stessi che avrebbero pensato, promosso e ordinato le stragi che insanguinarono il nostro Paese fino al principio degli anni Ottanta». Con piazza Fontana era iniziata una stagione di stragi che avrebbe reso l’Italia «un Paese a sovranità limitata», condizionata da «forze oscure» che ne avrebbero fatto il teatro di «una guerra non convenzionale», rivolta principalmente verso la popolazione civile. Molto simile a quanto poi si verificherà agli inizi degli anni Novanta, quando il filo conduttore sembra essere legato alle parole di Riina: “Si fa la guerra per poi fare la pace”. Creare instabilità per offrirsi come garante della agognata stabilità in fondo è sempre stato un must delle organizzazioni malavitose.

I misteri italiani analizzati da Ceruso sono molteplici, non tutti ma tanti, e abbracciano anche il mai attuato golpe Borghese, l’omicidio Pecorelli, piazza della Loggia, l’Italicus, il «suicidio simulato» di Peppino Impastato… e impressiona non poco la veridicità delle parole riportate nella Sentenza contro Moggi Carlo Maria e altri del 22 luglio 2015 della Corte di assise di appello di Milano: «Tutte le stragi che hanno insanguinato l’Italia appartengono a un’unica matrice organizzativa».
Ricorrono le medesime organizzazioni sovversive e malavitose ma lo fanno anche i nomi dei rappresentanti dello Stato in varie istituzioni e servizi. Persone che, magari, non hanno commesso dei reati eppure, forse, con i loro comportamenti non hanno neanche impedito che dette stragi si verificassero. Laddove non dovesse persistere una responsabilità civile o penale permane e persiste per certo quella etica e sociale, per la quale non c’è prescrizione che tenga.

Il lavoro di ricerca e analisi svolto da Vincenzo Ceruso per la composizione de La mafia nera deve aver richiesto notevole pazienza e determinazione, da parte dell’autore. Un’indagine certosina sulle fonti, sui documenti, sugli atti processuali che ha prodotto un lavoro notevole. Un libro che rappresenta una pietra miliare per la conoscenza della storia occulta di quell’Italia oscura che in tanti, in troppi vorrebbero lasciare nell’ombra.


Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa della Newton Compton per la disponibilità e il materiale



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16 martedì Ott 2018

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AntonioIngroia, Imprimatur, LeTrattative, mafia, PietroOrsatti, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

Se governo, istituzioni e cittadini cedono al compromesso, se la magistratura viene ripetutamente denigrata per le inchieste e i processi contro i “sistemi criminali”, che senso hanno le celebrazioni e le commemorazioni? Ricordare i “caduti” senza raccontarne i veri motivi, senza creare una solida memoria collettiva, induce il rischio concreto di immortalarli come novelli don Chisciotte, morti per un ideale irrealizzabile, per una causa persa in partenza.

Le Trattative di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti è fuor di dubbio una lettura interessante e, anche per chi ha cercato di informarsi su quanto accaduto, risultano illuminanti molti passaggi del testo. Utili, necessari e doverosi per costruire una solida memoria storica collettiva che racconti la verità, la realtà di chi ogni giorno porta avanti la sua personale lotta alla mafia. Una guerra combattuta per tutti ma appoggiata e sostenuta, nei fatti, da pochi.

«Si muore perché si è soli» diceva Falcone. E i giudici Falcone e Borsellino, gli agenti, gli uomini e le donne delle loro scorte, sono morti perché sono stati traditi dalla parte marcia dello Stato italiano e perché sono stati ingiustamente attaccati dalla parte deviata e venduta dell’informazione italiana e perché sono stati abbandonati dai cittadini italiani. Sottolinea Ingroia nel testo come il maxiprocesso stesso, simbolo ed emblema della vera lotta giudiziaria alla mafia, non sarebbe mai andato in porto se non ci fosse stata la primavera palermitana, «frutto di un movimento di massa, cioè della progressiva mobilitazione che si determinò sull’onda delle emozioni per i delitti degli anni Ottanta». In particolare gli omicidi Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa.

Senza la spinta e il sostegno del movimento antimafia di massa, Falcone e Borsellino non avrebbero potuto affrontare tutti i tentativi, «dentro il Palazzo di Giustizia di Palermo e a Roma ad opera del governo nazionale», di fermare «tutto questo processo di riscatto contro la mafia». Poi, dopo le sentenze di condanna del maxiprocesso si è deciso che bisognava fermare questo cambiamento che, evidentemente, non andava bene a tanti, tantissimi italiani, fuori e dentro le istituzioni.

Leggere il racconto di Antonio Ingroia mette addosso una grande tristezza. Per tutto quello che è stato, certo. Per le stragi, assolutamente. Ma anche per le conclusioni, le considerazioni che trovano adito riguardo lo Stato italiano, la nostra Repubblica, sui cittadini e sui rappresentanti degli stessi nelle istituzioni. Sulla parte marcia di questi ma anche su quella che si ritiene sana ma che, per ventisei lunghissimi anni, ha preferito girarsi dall’altra parte. E, purtroppo, sembra bene intenzionata a farlo tuttora.

Quando ancora in vita e operativi, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati oggetto, troppo spesso, di attacchi, non solo ma anche mediatici, di minacce, non solo ma anche da parte dei malavitosi. Sono stati isolati. Eppure dopo gli attentati di quel davvero terribile 1992 nessuno, almeno pubblicamente, ne parla male, ne parla contro o allude con accezione negativa al lavoro da essi svolto in Procura. Tutto questo è stato invece riservato negli anni ai magistrati ancora operativi. Fra i tanti anche lo stesso Ingroia e Antonino Di Matteo. Perché? Domanda ovviamente retorica di cui tutti ben conosciamo la risposta.

Falcone e Borsellino stavano per raggiungere risultati che «avrebbero riscritto la storia della Repubblica». Sono stati fermati dalle bombe del Sistema criminale, mentre «la Trattativa, che prese forma in quel periodo, ci ha fermato dall’altra parte». Si trattò col potere criminale «per coprire il passato e assicurare l’impunità a chi aveva gestito quel sistema».
Chi partecipava all’accordo «si assicurava anni, forse decenni, di potere, successi e impunità». E pronti a «firmare l’accordo con una parte di Cosa nostra un pezzo dei servizi, un pezzo del mondo degli affari sporchi della massoneria» ma soprattutto «complice di tutti la politica collusa». Gli imputati del processo Trattativa rappresentano «solo una parte di questo mondo, perché è l’unica parte che siamo stati in grado di portare a processo».

Nessuna iniziativa giudiziaria dirompente contro criminalità di tipo sistemico «si può avere senza la spinta di un’opinione pubblica favorevole che la preceda e l’accompagni». Inoltre, «la Giustizia ha bisogno di una buona politica». In Italia sono mancate entrambe.

Emerge, dal testo di Ingroia, l’importanza delle leggi e del legiferare. Provvedimenti che possono davvero essere decisivi, in un senso o nell’altro. Vere cartine tornasole della linea che lo Stato italiano e il suo Governo intendono tenere nei confronti dei mafiosi, dei collusi, dei corrotti. Poi viene il lavoro degli investigatori e dei magistrati certo ma questi possono ben poco se la rete legislativa ha le maglie eccessivamente larghe.

«Quando il centrosinistra nomina Giovanni Maria Flick ministro della Giustizia del governo Prodi c’è stata la svolta». Ancora non si sapeva ma la trattativa si era chiusa, «la nuova pax tra Stato e mafia nella quale gli unici inceppi negli ingranaggi eravamo noi». E lo dice con profondo rammarico Ingroia tutto questo perché «che lo facesse il governo Berlusconi te lo potevi aspettare, che lo facesse il governo Prodi no».
Che Italia avremmo oggi se i giudici Falcone e Borsellino, unitamente ai loro colleghi del pool antimafia, avessero continuato il proprio lavoro e se i governi di destra o di sinistra che fossero non avessero mantenuto fermo l’obiettivo di fermare o almeno limitare il loro incedere?

«Non esito a definire Grasso la più grande delusione professionale della mia carriera». Tutte le indagini e le notizie di reato considerate «politicamente scomode finivano, in un modo o nell’altro, nel cestino della procura» e la classe politica, «di destra come di sinistra, gliene è sempre stata grata».

Un’indagine, la Trattativa, che «colpisce indiscriminatamente tutto l’arco costituzionale da destra a sinistra» e conduce anche «allo scontro epocale con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano». L’intercettazione della telefonata fra Mancino e Napolitano diventa una «trappola» perché poi, «come è successo con il processo Andreotti che era fondato su tantissimi elementi e poi è diventato il processo del bacio, il processo Trattativa era fondato su tantissimi elementi e poi la telefonata Mancino-Napolitano ne è diventata la semplificazione». Ma non era certo quello il cuore del processo. Il contenuto dell’intercettazione, tra l’altro, poteva avere una rilevanza etico-politica ma non giudiziaria, altrimenti «non avremmo lasciato che venisse distrutta, ma avremmo insistito che venisse trascritta».

Un muro di gomma, lo definisce Marco Travaglio nella prefazione, «così impenetrabile alla verità» che lui stesso ammette di ricordare un solo precedente e che «riguarda un processo assolutamente speculare: quello a Giulio Andreotti, spacciato per assolto mentre risultò – in appello e in Cassazione – colpevole di associazione per delinquere con la mafia fino al 1980». Quindi «reato commesso ma prescritto». E prescrizione non è certamente assoluzione.

Resta a Ingroia un interrogativo: «Chi fece il doppio gioco e cercò di creare le condizioni perché Napolitano arrivasse sino in fondo e così sollevasse il conflitto di attribuzioni che fu la pietra tombale su quell’indagine, così fermata nel suo incedere verso la verità?»
E una speranza: «Che questo libro possa aiutare a fare luce sui retroscena degli ostacoli e sabotaggi di tutti i tipi che quest’indagine ha subito».
Non solo quelli svelati, «ma anche quelli che mai sono stati scoperti».

Riporta Ingroia ne Le Trattative le parole del professor Miglio tratte da un’intervista rilasciata a Il Giornale il 20 marzo 1999: «Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. […] C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate».
Se determinate affermazioni, certi comportamenti e noti fatti, processi, condanne, non destano clamore, scalpore, indignazione, ribellione, non più di tanto almeno, o peggio trovano l’appoggio e il consenso dei cittadini, parte di essi almeno, e dei rappresentanti dello Stato nelle varie istituzioni, parte di essi almeno, allora si può affermare, purtroppo, che la “costituzionalizzazione” di cui parlava Miglio, in via ufficiosa se non in via ufficiale, è per certo già avvenuta.

Il libro Ingroia lo dedica al suo maestro Paolo Borsellino, il quale «in nome dell’intransigenza contro la mafia e ostile a ogni trattativa ha sacrificato la vita per tutti noi». Nella introduzione curata da Franco Roberti sono ricordate anche le parole di un altro coraggioso “investigatore” che ha preferito il medesimo sacrifico piuttosto che vivere nell’ipocrisia e nella finzione del non capire, del non vedere, del non sentire. L’articolo pubblicato nel 1975 scritto da Pier Paolo Pasolini e intitolato simbolicamente Il processo dove si trova anche «l’elenco morale dei reati commessi da coloro che hanno governato l’Italia». Veri processi del genere i magistrati, pur tra mille difficoltà, sono riusciti a istruirli, «partendo dai fatti, dalle inchieste, dallo studio delle carte». Processi («Andreotti, Contrada, inchiesta Sistemi criminali, Dell’Utri, Mori-Obinu, Trattativa») non «indirizzati specificamente solo al potere democristiano».

Ingroia considera l’indagine sulla Trattativa «il massimo sforzo che la magistratura ha potuto fare in questo ventennio per trovare la verità» sulla stagione delle stragi ma anche «sullo stretto legame di queste ultime con la genesi della seconda Repubblica». Se davvero siamo entrati nella terza Repubblica allora questa sentenza può rappresentare «un punto di riferimento nello sforzo di ricostruire la storia, dal punto di vista ovviamente giudiziario-criminale, di quello che sono state la fine della prima Repubblica e il marchio che la trattativa ha impresso su tutta la seconda Repubblica».
Un nuova Repubblica, la terza, che nasce sotto l’egida di una dichiarata volontà di cambiamento. «Certamente siamo in una fase di transizione» ma non si può davvero credere di poter costruire «su fondamenta solide una nuova Repubblica che incarni davvero un processo di maturazione della nostra democrazia se non si fanno i conti col passato».

La virata, affinché sia efficace, deve essere poderosa, decisa e scevra da ogni compromesso. Un segno tangibile di questo cambiamento potrebbe essere, secondo Ingroia, la costituzione di «una commissione parlamentare d’inchiesta, ad hoc, ma d’inchiesta sul serio». Un ulteriore ottimo segnale di vero cambiamento sarebbe stato la nomina a ministro di Di Matteo, di cui si era parlato ma poi non se n’è fatto nulla. «Tuttavia c’è ancora tempo per dare altri segnali, da parte del Governo, ma anche da parte del Parlamento».

Segnali, azioni, gesti concreti che i rappresentanti nelle istituzioni devono dare e che i cittadini italiani devono pretendere a gran voce e, al contempo, dare essi stessi. Perché, parafrasando Mahatma Gandhi, tutti dobbiamo diventare il cambiamento che vogliamo vedere.


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“Less is more. Sull’arte di non avere niente” di Salvatore La Porta (il Saggiatore, 2018)

09 mercoledì Mag 2018

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IlSaggiatore, Lessismore, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, SalvatoreLaPorta

La casa editrice ilSaggiatore pubblica quest’anno Less is more, il libro sull’arte di non avere niente che Salvatore La Porta ha non scritto, come sottolinea lui stesso nella conclusione. Per scrivere realmente un libro su questa grande arte l’autore avrebbe dovuto ‘tediare’ il lettore con un, per fortuna, lungo elenco di esempi, dati e citazioni. Avrebbe dovuto raccontare di questa arte praticata «principalmente da chi non ha alcuna visibilità»e, sparso in tutte le parti del mondo, «spende quel poco che possiede per seguire le proprie idee».

Avrebbe certamente potuto La Porta scrivere un testo del genere. Se lo avesse fatto però si sarebbe trattato soltanto della «ennesima trappola». Il lettore avrebbe avuto l’illusione di non avere più nulla da imparare riguardo questo argomento. Avrebbe perso «la coscienza della propria ignoranza», presupposto fondamentale affinché ci si faccia «ammaliare dal demone della ricerca».

Questo il motivo per cui l’autore non ha scritto il libro che avrebbe dovuto dando vita invece a un saggio che potrebbe essere definito esplorativo di un argomento per certi versi ancora troppo ostico per gran parte della collettività, convinta che la felicità vada inseguita nell’ultimo modello di smartphone o console per giochi, nell’autovettura più high tech si possa immagine o nella vacanza più glam possa essere concepita. La Porta si chiede però il perché del fatto che più le persone accumulino beni, averi, proprietà, legami, posizioni, impegni e quant’altro è più siano infelici, insoddisfatti, inappagati e stressati. È evidente a tutti allora che c’è in questo meccanismo una perversione di fondo che ingenera malessere proprio laddove promette il tanto agognato benessere.

Le persone continuano ad accumulare beni, averi e oggetti vari e ogni qual volta ultimano un acquisto vengono pervasi da una strana sensazione di vuoto, di incompletezza, come avessero dimenticato qualcosa, di comprare altro che, forse, li avrebbe fatti sentire più soddisfatti e così non si vede l’ora di ritornare al centro commerciale, che incarna alla perfezione questo meccanismo-mito del consumismo. Così nel tentativo di trovare finalmente quello che manca per terminare «il nostro ritratto», non ci rendiamo che, «come pittori inesperti che tornano continuamente su di un quadro, lo stiamo opprimendo di pennellate fino a renderlo inguardabile».

Solo che non si parla di un ‘semplice’ ritratto bensì della nostra stessa identità sempre più oppressa da tutto ciò che compriamo e accumuliamo. Al punto che in tanti, in troppi, arrivano a legare e far dipendere la propria autostima dal possedere o meno un determinato bene di consumo che può essere un paio di sneakers o uno smartphone.

Dalla mitologia greca ai poeti maledetti, dai miti della Letteratura americana alla cultura degli hippy, passando dal racconto di storie vere più o meno contemporanee Salvatore La Porta analizza l’arte di non avere niente, la ricerca e la rinuncia, i punti d’incontro e quelli di divergenza tra coloro che hanno coraggiosamente scelto di vivere fino in fondo il sogno della libertà: dai legami, dagli averi, dalle aspettative… ovvero dall’esoscheletro costruito, a strati sempre più spessi, e modellato su ogni persona dalla società, dai legami, dagli averi appunto. Da tutto quello definisce e inquadra ogni persona nella società facendogli però, al contempo, dimenticare se stesso.

Un saggio davvero interessante, Less is more di Salvatore La porta anche laddove qualche esempio addotto nel corso della narrazione è potuto sembrare quasi un azzardo al lettore. In realtà per comprendere appieno il senso del libro bisogna attendere di averlo letto per intero, compresa la conclusione che serve a chiarirne molti aspetti che sono potuti sembrare ambigui o confusi. Un libro scritto con un intento e uno scopo ben diverso da quello che il lettore ha immaginato leggendo capitolo dopo capitolo. Un fine più nobile di quello ipotizzato. Un saggio critico che vuol spronare chi legge insinuando dubbi legittimi che portano inevitabilmente a porsi degli interrogativi e stimolare la curiosità sempre positiva della conoscenza. Un libro che invita a «rimanere umani», a non piegarsi «alla schiavitù del possesso» che distrugge il nostro coraggio e «rende la nostra vita un’infelice menzogna».

Salvatore La Porta: È nato e vive a Catania. Autore di numerosi romanzi e racconti. Insegna Diritto d’Autore e Legislazione Editoriale all’Accademia delle Editorie.


Disclosure: Fonte trama libro www.ilsaggiatore.it


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Il dossier “UNDER. Giovani mafie periferie” curato da Danilo Chirico e Marco Carta per illuminare il buio dei suburbi di vita (Giulio Persone Editore, 2017) 

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Che futuro ha una società che non investe sulle nuove generazioni? “La parola ai giovani” di Umberto Galimberti (Feltrinelli Editore, 2018)

06 domenica Mag 2018

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Feltrinelli, Laparolaaigiovani, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, UmbertoGalimberti

“Bond of union” – Maurits Cornelis Escher 

I giovani di età compresa tra i quindici e i trenta anni sono al massimo della potenza biologica, sessuale e ideativa eppure la società «se non ne fa proprio a meno, certamente non impiega opportunamente e utilmente quella generazione». E allora non si può non domandarsi quale futuro avrà, se ce l’avrà, questa società. Se lo è chiesto anche Umberto Galimberti il quale ha preferito far rispondere direttamente a loro, ai giovani che lo incarnano in toto il futuro di cui tanto si parla.

Esce in prima edizione a gennaio 2018 nella Serie Bianca di Feltrinelli Editore La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, un saggio sul “disagio giovanile” che è in realtà una “crisi culturale”, una «condizione culturale depressiva in cui l’individuo è vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti». Ma quali ne sono le cause? E quali le responsabilità?

Dal groviglio inestricabile di opinioni, riflessioni, pareri, statistiche e ammonimenti vari che si leggono e si ascoltano su media, social, incontri, convegni e via discorrendo non si riesce a cavare un ragno dal buco e il «deserto di senso» delle discussioni non fa che lievitare al punto che Galimberti ha ritenuto doveroso ridare, o dare finalmente, la parola ai diretti interessati, ai giovani appunto. E dalle loro parole emerge un quadro dai tratti e dalle tinte molto diverso da quello che ci viene continuamente descritto.

La verità è che, per certi versi, la ‘vecchia’ società, ancorata a quelli che ritiene baluardi e principi inderogabili, sembra quasi aver paura di questa ‘massa giovane’ di nichilisti attivi che appaiono come i soli ad aver compreso che «l’amore è l’unico antidoto al valore del denaro», che non hanno timore di cambiare, stravolgere l’ordine dato, evolversi in altro, evolvere la società in altro. Così la paura arriva a essere camuffata in necessità di inquadrare questi corpi e queste giovani menti negli schemi dati e certi «dell’efficienza e della produttività», nonostante il fatto che «a differenza dei loro padri, i giovani d’oggi non hanno fatto del denaro lo scopo della loro vita».

È davvero possibile pensare che questa società abbia un futuro? Galimberti è giunto alla conclusione che uno spiraglio c’è, ma «unicamente a opera dei ‘nichilisti attivi’» i quali però, sono una minoranza e «spesso trovano solo all’estero le condizioni per potersi esprimere».

Il saggio si apre al lettore con una introduzione dello stesso autore che sembra una contraddizione, un invito a non leggere il testo allorquando Galimberti invita ad ascoltare i giovani, a parlare con loro invece di continuare a impantanarsi nelle innumerevoli considerazioni di psicologi, sociologi, insegnanti, educatori che parlano di loro. Il perché di queste affermazioni lo si comprende proseguendo la lettura che si rivelerà invece davvero utile e necessaria.

Dopo la prima breve parte introduttiva il saggio si compone quasi interamente delle lettere che i giovani hanno inviato a Galimberti per la rubrica che egli tiene settimanalmente per D di Repubblica, intervallate da chiose e cappelli dell’autore stesso. I temi trattati spaziano dalla sessualità alla crescita, dalla formazione al lavoro, dalla spiritualità ai desideri e sono affrontati tutti in maniera originale, unica. Il solo filo conduttore comune è la singolarità dei punti di vista mai falsati da luoghi comuni, pregiudizi di genere, razzismo, omofobia…

Si parla di una parte di giovani, quella che ha scelto di rivolgersi all’autore per la sua rubrica. Non si tratta quindi della totalità dei giovani bensì di un campione più o meno corposo e rappresentativo. Tuttavia in esso si ritrova più equilibro, giudizio e metodo che non in tanta informazione “matura” o in una scuola strutturata sempre più «sull’oggettività di insegnamenti e verifiche, nella quale la soggettività di ogni studente tende sempre più a venire schiacciata, compressa, arginata, limitata». Un sistema educativo che dovrebbe invece avere come obiettivi: «la formazione, il senso critico e la capacità di ricerca». Una scuola, ma si potrebbe tranquillamente parlare di una società tutta, che «si esonera dall’educazione emotiva dei giovani», concentrandosi sulla sola istruzione, ovvero sulla «semplice trasmissione di informazioni da testa a testa».

Occorrerebbero, ed è esattamente quello che i giovani chiedono a gran voce, «insegnanti motivati e carismatici» perché, inutile negarlo, il miglior metodo per apprendere qualcosa o appassionarvisi è la fascinazione, come accade sempre o quasi per ogni cosa nella vita.

“Cubic space division” – Maurits Cornelis Escher

Forse siamo oggi in presenza di un’alienazione ben più radicale di quella denunciata da Marx, ipotizza Galimberti, vittime tutti di una società nella quale «l’uomo non è più il soggetto del suo operare, ma il semplice esecutore di azioni descritte e prescritte dall’apparato tecnico», sempre in nome di quegli imperativi categorici che neanche si vuol più sapere con esattezza dove condurranno il mondo intero (efficienza, produttività, lavoro, guadagno, crescita, consumo…).

Un saggio fuor di dubbio interessante La parola ai giovani di Umberto Galimberti. Un libro che obbliga chi legge a interrogarsi, insieme all’autore, insieme ai giovani e per loro sul senso di tanti atteggiamenti dati troppo per scontati. Come il fatto che se la felicità consiste nella realizzazione di sé, «che senso ha una vita dove si ha l’impressione che altro non resti se non eseguire azioni descritte e prescritte dagli apparati di appartenenza»? Un libro necessario, assolutamente da leggere.


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Feltrinelli Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama e biografia dell’autore www.feltrinellieditore.it



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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Continuare a lavorare per un mondo migliore. “L’ultima lezione” di Zygmunt Bauman (Editori Laterza, 2018)

26 giovedì Apr 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Laterza, Lultimalezione, monocolooccidentale, Occidente, ordinemondiale, Oriente, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio, ZygmuntBauman

Esce in prima edizione a gennaio 2018 per Laterza L’ultima lezione di Zygmunt Bauman nella versione tradotta da Valentina Pianezzi e Fabio Galimberti, che si è occupato de L’eredità del XX secolo e come ricordarla; contenente anche un saggio di Wlodek Goldkorm. Un libro con un grande insegnamento positivo, come sottolinea nella prefazione Fabio Cavallucci: «La crisi della storia, le avversità della natura, persino la natura spesso malvagia dell’uomo non possono impedirci di continuare a operare, a costruire, a lavorare per un mondo migliore». Un saggio frutto delle più profonde e importanti analisi di Bauman orientate dallo sforzo costante di individuare i fili nascosti della trama della vita sociale e di trasformare in senso comune le idee maturate nella propria ricerca intellettuale. Unico modo per garantire «quell’osmosi feconda tra riflessione e vita condivisa», come evidenzia lo stesso editore nella sua nota.

Un filosofare, quello di Zygmunt Bauman, che nasce spesso da «teorizzazioni delle sue vicende biografiche», ricorda a margine del saggio Goldkorm. Una biografia che ne ha di cose da raccontare, pregna di esperienze difficili e che hanno portato l’autore a vedere davvero il mondo con occhi diversi. Una visione globale del pianeta che abbraccia soprattutto i popoli e non, come si vorrebbe, soltanto le economie. Un’analisi obiettiva e a tratti ‘spietata’ degli errori commessi e protratti nell’affrontare conseguenze gravi, come le migrazioni globali di popoli, con una visione ancora troppo nazionalista e faziosa.

Un rifiuto nel vedere e soprattutto nel tentare di capire quanto sta accadendo nel mondo, il perché intere popolazioni sono costrette a migrare, nel razionalizzare, coscientemente o meno, che quanto sta accadendo a loro è, alla fin fine, casuale, nel senso che potrebbe un giorno accadere anche a noi. E se da un lato è vero che qualsiasi cosa accade nell’universo è casuale, lo è anche che le guerre «possiamo fare in modo che non scoppino». Tuttavia nello Stato moderno si preferisce scegliere la strada del rifiuto e della negazione con «l’esclusione di tutto ciò che è ingestibile e pertanto indesiderabile». Arrivando ripetutamente agli “omicidi categoriali”, allorquando «uomini, donne e bambini sono stati sterminati perché assegnati a una categoria di esseri da sterminare». E Bauman parla in maniera approfondita degli ebrei, degli armeni, dei kulaki, dei musulmani, degli induisti… sottolineando come «tutti i continenti della terra hanno avuto i loro hutu che hanno massacrato i loro vicini tutsi, e ovunque i tutsi del luogo hanno ripagato con la stessa moneta i loro persecutori».

Edith Birkin, “A Camp of Twins – Auschwitz” – 1980/1982

Quello che conta è arrivare in cima e rimanerci, essere il più forte. L’inattaccabile. Mascherando la ferocia con la necessità di sopravvivere, un valore che «vale la pena perseguire di per sé, non importa quanto elevato possa essere il costo per gli sconfitti, e fino a che punto possano uscirne depravati e degradati i vincitori». Una lezione che Bauman stesso definisce “terrificante”.

Nel nostro mondo di modernità liquida, di rapida disintegrazione dei legami sociali e dei loro contesti tradizionali, le comunità, così come le società, possono essere soltanto conquiste, «artifizi di uno sforzo produttivo». E l’omicidio categoriale va inteso ormai come un sottoprodotto, «un effetto collaterale o una scoria della loro produzione». Per Bauman, la rilevanza dell’olocausto «risiede nel suo ruolo di laboratorio», dove sono state condensate, portate in superficie e rese visibili «certe potenzialità, precedentemente diluite e sparpagliate, delle forme moderne e largamente condivise di convivenza umana». La lezione più importante che dà è il rivelare «il potenziale genocidiale innato nelle nostre forme di vita e le condizioni in presenza delle quali tale potenziale più produrre i suoi frutti letali».

Per tagliare alle radici la tendenza genocida «si deve dichiarare inammissibile il sistema dei due pesi e delle due misure», del trattamento differenziato e della separazione, che getta le basi per «una battaglia per la sopravvivenza condotta come gioco a somma zero». La “concorrenza sfrenata per la violenza” si alimenta dello stesso «disordine mondiale su cui prospera la concorrenza sfrenata per i profitti». Non esistono soluzioni locali a problemi globali e, in un pianeta in via di globalizzazione, «i problemi umani possono essere affrontati e risolti solo da un’umanità solidale».

Un grande saggio L’ultima lezione di Zygmunt Bauman, un testo che espone senza pregiudizi quanto accade o è accaduto e che propone delle soluzioni assolutamente non di parte, come è giusto che sia, se risolutive si vuole esse siano. Un libro assolutamente da leggere.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa del Gruppo Editoriale Laterza per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore www.laterza.it


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“La Genovese. Una storia d’amore e di rabbia” di Enrico Fierro (Aliberti Compagnia Editoriale, 2017)

04 mercoledì Apr 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Aliberti, EnricoFierro, LaGenovese, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, romanzo

 

Aliberti Compagnia Editoriale pubblica nel 2017 il romanzo La Genovese del giornalista Enrico Fierro. Un libro che solo in apparenza è il racconto delle vicissitudini professionali e private di Frank Santaniello. Narra invece uno spaccato profondo di un’Italia intera e di alcuni degli eventi più significativi della seconda metà del secolo scorso attraverso gli occhi impavidi e disincantati di un cronista, prima giovane poi maturo, che ha lottato con se stesso e con il mondo intero per non diventare mai «come tutti volevano». Dove finisce Frank Santaniello e inizia Enrico Fierro l’autore, naturalmente, non lo dice ed è presumibile non lo farà mai. Leggendo il testo, tuttavia, si comprende fin da subito che, per quanto possa trattarsi di un romanzo di fantasia, Fierro è presente in ogni singola parola vi si trova scritta, in ogni cadenza, inflessione, critica o opinione.
Un libro che è un manifesto alla raggia e contro di essa, al giornalismo e contro di esso, alla politica e contro di essa, al popolo e contro di esso. Il perché di tutto questo lo si comprende fin troppo bene leggendo, capitolo dopo capitolo, il romanzo di Fierro.

La scrittura come anche il narrato di Fierro ricorda molto gli scritti di Michael Ende e la sua grande capacità di denuncia sociale raccontando il mondo reale come fosse inventato, perché troppo spesso, purtroppo, la gente è attratta e preferisce “le favole” alla realtà e alla verità che essa inesorabilmente contiene. Uno stile narrativo caratterizzato da un’amara ironia e da un pungente sarcasmo, che a tratti sembra voler essere una “seria” presa in giro di personaggi che facilmente potrebbero incarnare i tipi di cui Fierro racconta.

L’enfasi che l’autore mette nel racconto delle vicende e dei pensieri di Frank, dei litigi con il caporedattore e dei compromessi che proprio non riesce ad accettare sembrano quasi uno sfogo personale dello stesso Fierro il quale, indirettamente, sceglie di tirare fuori anche la sua raggia, come fa il protagonista del libro.
Traspare una vena critica molto amara, o meglio amareggiata. Per un’Italia che poteva essere grande, per il rinnovamento, il progresso paventatosi negli ultimi decenni del millennio scorso e che invece di rinvigorire è andato inesorabilmente scemando. Un progresso che non era e non avrebbe dovuto essere solo economico, ma civile e culturale.

Dalla politica italiana con i suoi innumerevoli scandali alla questione volutamente meridionale, dal ricordo di quanto accaduto lungo il confine tra Albania e Serbia a tangentopoli, dal sisma del 1980 alla vergognosa ricostruzione che ne è derivata… ne La Genovese di Enrico Fierro si trova tutto quello che un lettore attento si aspettava di trovare. Un libro che si legge con la curiosità di conoscere gli sviluppi della vicenda di Frank certo, ma soprattutto con la consapevolezza delle responsabilità che ognuno ha e ha avuto nel determinare, direttamente o indirettamente, il destino dell’Italia e di conseguenza di tutti gli italiani. Un libro che di sicuro non delude anche se rappresenta un boccone molto più amaro da ingoiare rispetto alla succulenta genovese che il protagonista si gusta congedandosi dal lettore.

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Source: si ringrazia l’Ufficio Stampa della Aliberti Compagnia Editoriale per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia dell’autore e trama del libro www.aliberticompagniaeditoriale.it


 

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Scuola dell’Infanzia violata da maltrattamenti e abusi. Come fermare tanta rabbia?

22 giovedì Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, paura, RinnovamentoCulturaleItaliano, violenza

Dalla onlus La via dei colori, fondata e presieduta da Ilaria Maggi, avvertono di usare con cautela termini come maltrattamenti e abusi, almeno fin quando non si hanno prove certe di quanto può rivelarsi solo un’apprensione esagerata o un fraintendimento. Esistono dei campanelli d’allarme, sintomi specifici che connotano in maniera pressoché inequivocabile una situazione d’abuso. Questi campanelli però sembra che li ascoltino troppi genitori.

Dal dicembre 2010 al marzo 2017, La via dei colori ha preso in carico circa 95 processi per reati di maltrattamento (572 cp), abuso dei mezzi di correzione (571), abuso sessuale e pedofilia. 95 processi, non segnalazioni o denunce. Sul sito ministeriale si legge che, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, è previsto un numero minimo di 18 e uno massimo di 26 bambini per classe. Considerando una semplice media ponderale di 22 bambini se ne deduce che nei 95 processi seguiti dalla onlus sono coinvolti, a vario titolo, almeno 2090 alunni. La via dei colori non è l’unica associazione che si occupa di questo e i tribunali in Italia sono tantissimi… Si arriva così a cifre spaventosamente alte da indurre immediatamente a chiedersi cosa in concreto è stato fatto per prevenire ulteriori aggressioni e maltrattamenti, denunce e processi.

Sembra impossibile reperire, forse perché non esiste, un dossier, un report ufficiale, un’indagine conoscitiva istituzionale sulla situazione scolastica italiana, o meglio sulle qualifiche degli insegnanti, sulle procedure di valutazione, se ce ne sono, e sui dati relativi ai maltrattamenti e agli abusi ma soprattutto sulle conseguenze a lungo termine. Sulle innocenti vittime certo ma anche su chi le ha generate. Che fine fanno questi insegnanti?

I casi balzati alla cronaca che hanno destato maggiore clamore sono stati sovente accompagnati da spezzoni di video delle riprese effettuate dalle telecamere nascoste posizionate dalle forze dell’ordine. Immagini che colpiscono soprattutto per le urla, tante urla da parte delle o degli insegnanti. I locali di quelle scuole hanno l’isolamento acustico? Difficile a credersi. Come arduo è pensare che nessuno sentisse. Non si denuncia per omertà o perché lo si considera un atteggiamento educativo normale? In entrambi i casi si parla di situazione terrificante inammissibile e inaccettabile.

In un’intervista rilasciata per ilfattoquotidiano.it, la Maggi parla di circa 13 segnalazioni al giorno ricevute al numero verde dell’associazione. Non sempre si tratta di reati già commessi certo ma nel corso della loro attività hanno scoperto di «insegnanti che li tengono legati, che fanno mangiare loro il cibo vomitato e che usano percosse non solo con le mani. Le vessazioni sono all’ordine del giorno».

Più di una volta è capitato che i dirigenti dell’istituto coinvolto hanno provato a giustificarsi adducendo di non sapere, di non essere a conoscenza e di non essersi mai resi conto… scusanti che, in ogni caso, non li esimono dalla responsabilità legale e, soprattutto, morale di quanto accaduto. La legge italiana non ammette ignoranza, neanche noncuranza e mai come in questi casi così deve essere.

Violenze non solo fisiche ma anche psicologiche sono state documentate in diversi asili nido, con «urla sistematiche e cibo spesso raccolto da terra e imboccato a forza erano purtroppo la norma per una ventina di spaventatissimi bambini, troppo piccoli per reagire o solo per parlare con i genitori». Agghiacciante il resoconto che rovigooggi.it fa di quanto accaduto nell’asilo dove l’intero corpo docente, composto da tre maestre, è risultato coinvolto. Violenze fisiche e psicologiche protratte su bambini di età compresa tra uno e tre anni.

Sembra che oltre al danno ci si diverta quasi ad aggiungere anche la beffa allorquando si tenta di giustificare i comportamenti ritenuti “meno gravi” come reminiscenza di una formazione e, conseguentemente, di un’educazione all’antica. Il fatto è che non conta se e quando era in vigore o di uso comune una simile tipologia di educazione, in famiglia o a scuola, il punto è che nel Terzo Millennio è assolutamente inaccettabile anche solo credere di poter giustificare una tal simile mancanza di correttezza e professionalità in educatori ed educatrici che sono, in un certo senso, figure istituzionali perché si occupano, o dovrebbero farlo, dell’educazione di coloro che saranno i cittadini futuro dello Stato, che direttamente o indirettamente, tra l’altro, garantisce loro il posto di lavoro e il salario.

Lavorare a stretto contatto con i minori di anni sei richiede una preparazione e delle conoscenze che non riguardano solo la sfera della didattica, abbracciando invece campi che vanno dalla psicologia alla medicina in senso stretto. Gli operatori de La via dei colori sottolineano l’importanza di conoscere aspetti e caratteristiche del funzionamento del corpo umano anche per evitare di causare danni involontari ma che potrebbero egualmente essere gravi e irreversibili per i piccoli alunni.

Shaken Baby Syndrome, ovvero la ‘sindrome da bambino scosso‘ può essere una terribile conseguenza di un gesto che in pochi sanno o ritengono essere potenzialmente molto pericoloso. Il cervello dei neonati e dei bambini molto piccoli è ancora immaturo e lo scuotimento con brusche accelerazioni e decelerazioni del capo causa o può causare lesioni di tipo meccanico all’encefalo.

Il 21 novembre 2013 La via dei colori ha lanciato, a tal proposito, l’iniziativa #iostoconMattia per sensibilizzare genitori e insegnanti «sulla Shaken Baby Syndrome che ha ucciso il piccolo Mattia» e anche per fare in modo che la triste vicenda di Mattia Pierinelli, per troppo tempo passata in sordina, continui a essere raccontata sia come riscatto che come monito a non sbagliare più.

Negli Stati Uniti 30 bambini ogni 100mila nati l’anno subiscono gravi danni a causa della ‘sindrome da bambino scosso’. In Italia mancano dati ufficiali ma «tutte le strutture ospedaliere più avanzate per la diagnosi precoce del maltrattamento sui bambini ci confermano la necessità di avviare un’ampia azione informativa per la prevenzione». A dirlo è Federica Giannotta, responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes, che ha lanciato la prima campagna di sensibilizzazione su questa sindrome, “Non scuoterlo!”, con uno spot tv e un sito informativo dedicato.

La scusante più frequente al comportamento aggressivo degli insegnati è la diseducazione o mala-educazione dei bambini che assumerebbero atteggiamenti ingestibili, emulati anche dai soggetti più remissivi, generando il caos in classe. Sottolineando che bisogna anche tenere presente le condizioni precarie e oggettivamente difficili nelle quali sono costretti a operare i docenti. E la soluzione che avrebbero trovato è aggredire i bambini? Viene da sé che questo ragionamento, portato avanti da chi vuol difendere l’indifendibile, non convince neanche un po’. Se ci sono dei bambini con deficit comportamentali non è aggredendoli che la situazione migliora. Se ci sono carenze strutturali e di organico sul posto di lavoro non è aggredendo i piccoli ospiti della struttura che si migliorano le cose.

Si dice che la violenza è lo strumento preferito di chi non ha a disposizione altri strumenti. E gli insegnanti di strumenti e metodi dovrebbero averne molti altri e differenti. Soprattutto con i bambini piccoli, piccolissimi e in età da asilo nido.

L’ordinamento giuridico italiano pone tra i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo il pieno sviluppo della persona umana. L’articolo 13 della Costituzione sancisce che “la libertà personale è inviolabile”. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’articolo 2 consacra espressamente “il diritto alla vita”. Quando si parla di persona o di uomo bisogna leggere ogni cittadino di qualunque sesso o età anagrafica. Maltrattare verbalmente, psicologicamente e/o fisicamente un bambino è una grave violazione della sua libertà, della sua persona e dei suoi diritti umani.

Nel pieno di un dibattito pubblico e mediatico sulla sicurezza dei bambini dietro le porte chiuse delle aule, la segreteria nazionale della Federazione Italiana Scuole Materne (FISM) diffonde una nota nella quale, pur dichiarando di comprendere le preoccupazioni dei genitori, ritiene che «la richiesta di introdurre negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia sistemi di videosorveglianza allo scopo di prevenire comportamenti di violenza e maltrattamenti sui bambini da un lato non risolverebbe la preoccupazione, dall’altro darebbe origine ad altre questioni di non poco conto». La telecamera «disincentiva, quando non sostituisce, il dialogo, l’ascolto, la relazione indispensabili tra scuola e famiglia». Non sarebbe quindi necessario l’uso di questo strumento per ‘controllare’ «come gli insegnanti impostano e realizzano il lavoro educativo». Molto meglio sarebbe, a parer loro, il confronto, il dialogo, la parola… I genitori «devono essere aiutati a imparare a partecipare alla vita della scuola», perché «devono essere aiutati a imparare a ‘vedere’, leggere, capire, direttamente nei/dai loro figli la presenza di eventuali problemi e non guardare la loro esperienza di vita scolastica attraverso una telecamera».

Il punto è che proprio attraverso la ‘lettura’ del comportamento dei propri figli i tanti genitori che hanno denunciato si sono accorti di quanto in realtà accadeva a scuola. Dopo che era accaduto. Invece di insistere tanto sul voler aiutare i genitori a ‘vedere’ i segnali di pericolo perché non si tenta di studiare un modo per prevenire i danni? Si può anche convenire che l’uso delle telecamere non sia la migliore delle soluzioni ma almeno si focalizzi sulla prevenzione, perché un bimbo maltrattato non è un danno collaterale ma il nocciolo della questione.

Una posizione che ricalca quella del garante della privacy espressosi in merito alla legge 2574 (Prevenzione abusi in asili e case di cura) ma che, forse, la minimizza troppo. Per Antonello Soro infatti non bisogna «inseguire le scorciatoie tecnologiche come esclusiva risposta ai problemi complessi» ma è importante sottolineare come «anche uno solo di questi episodi costituisce motivo di apprensione e di grave allarme sociale». Dovrebbe. Invece si rabbrividisce a leggere la voce pressoché univoca di coloro che operano a vario titolo nel comparto scolastico e che, pressoché all’unisono, definiscono il sistema scolastico nazionale un ambiente “sano” e un’istituzione che funziona “bene”, certo l’esistenza di mele marce, anche alla luce dei processi e delle sentenze giudiziarie, non può essere negata ma di casi isolati vogliono si tratti.

La realtà e l’onestà intellettuale invece vorrebbero che a fronte di maltrattamenti visti, sentiti e taciuti ognuno di questi operatori si passasse una mano sulla coscienza. Perché l’omertà difronte a un reato, anche laddove non è punibile legalmente, lo è per certo moralmente.

«La tecnica non potrà mai sostituire “l’uomo”, nessuna telecamera potrà mai sopperire a carenze insite nella scelta e nella formazione del personale deputato all’educazione e all’assistenza di soggetti particolarmente vulnerabili». Necessario quindi seguire le indicazioni del «disegno di legge approvato» volte a «introdurre sistemi di controlli più articolati ed efficaci che coinvolgano attivamente il personale tutto e, se del caso, le famiglie stesse».

Nel ddl 2574 infatti si parla di accurati metodi di valutazione dei requisiti all’atto dell’assunzione e di successivi e continuati processi formativi e di aggiornamento. Sostegno e ricollocamento per chi risulta non idoneo. Persiste il solito intoppo che dalle modifiche apportate «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» che stride notevolmente quando si parla di strutture pubbliche, statali o comunali. Nel testo ci si sofferma poi sull’utilizzo e sui modi di impiego delle telecamere di sorveglianza e sugli oneri finanziari, null’altro su requisiti, formazione e aggiornamento degli operatori.

Il quadro che emerge dall’osservazione di questo grave allarme sociale dipinge i tratti a tinte forti di una formazione (quella degli operatori) che cerca di fare il più possibile quadrato per difendere la categoria e anche il posto di lavoro, che si indispone e assume un atteggiamento ostile per ogni critica o accusa, continuando ad accumulare in questo modo rabbia e frustrazione. Per contro c’è la ressa dei genitori, intimoriti e spaventati, impossibilitati a ottenere garanzie certe e vessati dalla necessità di affidare i propri figli a queste strutture, diversamente non avrebbero a chi affidarli durante quelle ore. Anche in loro questa situazione genera rabbia e frustrazione. Quasi marginale appare la figura di questi piccoli che sembrano non avere voce e non solo perché per molti di loro è prematuro anche il solo saper parlare.

Lo Stress Lavoro Correlato è «la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste», secondo la definizione datane dalla European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA). Le categorie professionali più interessate dallo Stress Lavoro Correlato sono:
Medici
Infermieri
Poliziotti
Assistenti Sociali
Insegnanti
Autotrasportatori

Lasciando da parte un attimo le professioni sanitarie, immaginiamo che dei poliziotti sfoghino tutto l’eccesso di rabbia accumulata e il senso di frustrazione su vittime, a caso, inermi. Tipo quanto accaduto alla scuola Diaz dopo il G8 di Genova. Oppure che un autotrasportatore dia di matto e sfoghi tutto lo stress accumulato verso ignari automobilisti che, per caso, lo incontrano lungo le strade percorse. Anche i bambini che subiscono maltrattamenti sono vittime casuali. Visionando gli spezzoni di video delle riprese delle camere posizionate dalle forze dell’ordine si può osservare che si tratta, semplicemente, di bambini, con i loro atteggiamenti e le loro peculiarità. Niente di più e niente di meno.

Il voler cercare a tutti i costi di ridimensionare quanto sta accadendo, considerando gli eventi come esempi isolati e non come un grave allarme sociale rischia di ingigantire il problema piuttosto che arginarlo. Poi succede che i genitori, esasperati, cercano di farsi giustizia da soli, cercano la vendetta e per trovarla usano a loro volta la violenza.

Ilaria Maggi de La via dei colori, lei stessa genitore di un bambino maltrattato a scuola, lancia un accorato appello affinché episodi del genere non si verifichino più: «non solo corriamo il rischio di inficiare il processo, che è la giusta sede per punire i maltrattamenti, ma incorriamo nel grave errore di non dare il buon esempio. I nostri bambini hanno già conosciuto la violenza e meritano da noi un esempio diverso». Eguali parole sarebbe stato utile ascoltare o leggere da tutti quegli operatori che si ritengono la parte buona del ben funzionante sistema scolastico nazionale e sarebbe stata già una ottima base di partenza per contrastare il fenomeno. Il persistente tentativo diffuso di minimizzare, di negare, di distrarre oltre a confermare una carenza o una mancanza addirittura di professionalità, non fa altro che alimentare il fuoco della rabbia e della frustrazione, di entrambe le posizioni.


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Il futuro della comunicazione sono i video? Nasce a Milano il Festival #videomakeroftheyear

09 venerdì Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Comunicazione, RinnovamentoCulturaleItaliano

Se il futuro della comunicazione sono i video allora ciò implica una grande responsabilità in coloro che li elaborano, ovvero la nuova figura professionale definita videomaker. Persone che, con l’avvento dell’era digitale, hanno condensato in un’unica figura le professioni di regista, cameraman, montatore, produttore e autore.

Una responsabilità enorme se si pensa che la maggiore diffusione i video la trovano nelle piattaforme online che premiano le visualizzazioni e non i contenuti, con il rischio elevato di far diventare virali produzioni trash, kitch, di cattivo gusto o gossip. Responsabilità degli utenti che li visualizzano certo ma anche di chi li produce con lo scopo precipuo di diffonderli.

Anche per questo motivo ben vengano iniziative volte a regolamentare le produzioni video e a premiare i meritevoli, in senso buono. Ovvero le produzioni di qualità.

Nasce a Milano #videomakeroftheyear il primo Festival dei videomaker e della comunicazione, che avrà luogo il 14 e il 15 marzo 2018 in diverse sale messe a disposizione dalla Libera Università di Lingue e Comunicazione (IULM). L’intero progetto nasce da un’idea del suo direttore, Marco Bertani, e sarà un’occasione per visionare i tanti video iscritti al concorso (500), premiare i più meritevoli, parlare della professione del videomaker, del filmmaker e dei video come strumento di comunicazione. Una parte dell’evento sarà dedicata alle opportunità di sviluppo del lavoro legato a videomaking e comunicazione, con incontri dedicati anche ad avvicinare differenti figure professionali del settore per discutere su idee e progetti, convergenze e possibilità (Meet Your Director).

Sono 15 le categorie video da premiare:

  • Cortometraggio
  • Lungometraggio
  • Documentario
  • Wedding
  • Spot
  • Virale/Fake
  • Travel/Reportage
  • Music/Videoclip
  • Sport
  • Action
  • Recensione
  • Vblog
  • Web serie
  • Istituzionale/Fashion/Training
  • Graphic/Animated

Cui si aggiungeranno 3 premi speciali offerti dalla rivista Tutto Digitale, per la miglior regia, miglior montaggio e miglior fotografia.

La giuria tecnica di 10 esperti sarà affiancata da 3 membri scelti tra videomaker professionisti e 3 semi-professionisti. Numerosi gli ospiti che interverranno durante gli speech, i workshop e le cerimonie di apertura e chiusura. Il Festival è aperto a tutti i talenti: il professionista, il semi-professionista, l’amatore e lo youtuber. I video inviati provengono da videomaker di ogni parte del mondo. Cosa che ha meravigliato gli stessi organizzatori. Ma, in fondo, questo è proprio uno degli aspetti peculiari della Rete e dell’era digitale.

Il Festival rientra tra le iniziative in programma per la Milano Digital Week (15-18 marzo), di cui è anche partner.

Tutte le info su www.videomakeroftheyear.com

C’è molta attesa ora per la visione dei video in concorso e per la premiazione, nella speranza che il Festival serva a lanciare un grande messaggio di qualità e professionalità, anche amatoriale, perché se è vero che i video sono il futuro della comunicazione lo è anche il fatto che rivestiranno sempre maggiore importanza nella diffusione della cultura, campo al quale il trash e il kitch non dovrebbero mai appartenere.


Source: Si ringraziano il direttore Marco Bertani e Ferdinando de Martino dell’Ufficio Stampa del Festival videomakeroftheyear per la disponibilità e il materiale


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