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Irma Loredana Galgano

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Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017)

17 venerdì Nov 2017

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EliaMinari, Guardarelamafianegliocchi, mafia, recensione, Rizzoli, saggio

È ora di dire basta alla «antimafia della retorica e delle cerimonie». Non è sufficiente scandalizzarsi, indignarsi e commuoversi, «occorre muoversi». La mentalità mafiosa «conquista molte menti. Ma spesso non lo si confessa neppure a noi stessi». È presente in ognuno, ed è «quella parte della coscienza di ciascuno che è tentata di imboccare una scorciatoia, accettare una lusinga facile, un compromesso, una raccomandazione o un lavoro in nero». La forma mentis del “mi conviene” che ha consentito alle organizzazioni mafiose di estendersi oltre le loro zone di origine, fino a quelle località ritenute estranee a tutto ciò che invece è penetrato nel loro substrato modificando intere economie e società. Anche se in tanti ancora lo negano.

Guardare la mafia negli occhi di Elia Minari, uscito in prima edizione a settembre 2017 con Rizzoli, è il libro che racconta «le inchieste di un ragazzo che svelano i segreti della ‘ndrangheta al Nord» e quelli dei «professionisti plurilaureati, poliziotti, medici, figure istituzionali, giornalisti, preti, impiegati, imprenditori, uomini d’affari, commercialisti, amministratori pubblici» che della criminalità organizzata si servono per soddisfare la loro bramosia di successo, potere e denaro. Perché, è inutile negarlo, «la forza delle mafie è fuori dalle mafie». Come sottolinea il procuratore nazionale antimafia Franco Roberti che ha curato la prefazione al libro di Minari.

Per contrastare la criminalità organizzata, che sia Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta o altro ancora, è necessario «diminuire la domanda di mafia». Gioco d’azzardo, sostanze stupefacenti, prostituzione, prodotti contraffatti o sottocosto, «sono tutti mercati in crescita che alimentano una mafia del capitale». Al pari dei «molti imprenditori del Nord» che ogni giorno richiedono «i servizi delle mafie»: smaltimento rifiuti, false fatturazioni, manodopera sottocosto, recupero crediti, «aggiudicazione degli appalti pubblici, soldi freschi per prestiti facilitati»… Per contrastare la criminalità organizzata bisogna innanzitutto scalfire la “mentalità mafiosa” partendo da «ciascuno di noi, senza delegare gli altri, senza aspettare che arrivino leggi migliori». Perché di certo «non diventeremo onesti per decreto legge».

Il libro di Elia Minari, al pari delle inchieste da lui portate avanti con l’ausilio della “squadra” dell’associazione Cortocircuito da lui stesso fondata, è «una beffa per chi ritiene che ciò che può fare ogni singolo cittadino non conti nulla e per chi si adagia in una comoda rassegnazione», come evidenzia Marco Imperato, magistrato, curatore della postfazione a Guardare la mafia negli occhi. Parole forti, potenti e necessarie perché, per quanto sia lodevole, l’operato di Minari non deve essere descritto come “eroico”. Elia Minari non deve diventare un “eroe” non perché non lo meriti, semplicemente il suo esempio deve essere un monito per altre coscienze, un input per il cambiamento civico di ognuno, e non un mezzo per lavarsi la coscienza pensando che tanto ci sono altri designati a cambiare e migliorare la società.

Ciò naturalmente non significa che non debba essere riconosciuta la scelta coraggiosa di Elia Minari e dei suoi colleghi di Cortocircuito. Tutt’altro. Diviene sempre più necessario e importante fare fronte comune contro «le campagne mediatiche che assicurano visibilità ai mafiosi» e, al contempo, ostacolare «la macchina del fango che è pronta a colpire chi denuncia la criminalità organizzata del Nord-Italia» e non solo, purtroppo. Le persone, i cittadini preferiscono fingere di non vedere ciò che accade intorno a loro, anche perché «non sempre si tratta di comportamenti sanzionabili dal punto di vista penale. Per questo motivo sono atteggiamenti ancora più insidiosi», tuttavia non si può davvero credere che la mafia al Nord, come al Centro, non esiste solo perché non si incontrano per strada soggetti che imbracciano la lupara o indossano un gessato. Questo neanche al Sud lo vedi più ormai. Rimanere ancorati a vecchi stereotipi e luoghi comuni è semplicemente un modo per giustificare il diniego del radicamento, palese e conclamato, della criminalità organizzata in tutto il territorio nazionale e anche oltre.

 

Elia Minari negli anni ha accumulato conoscenza ed esperienza eppure il suo approccio al problema che cerca di analizzare e contrastare è rimasto genuino, semplice, come il modo stesso di raccontarlo. Una chiarezza e una semplicità che è propria di chi dice, unicamente, la verità. Se un “semplice” liceale spulciando su internet, in cerca di informazioni per scrivere il suo articolo per il giornalino della scuola, trova dati e nomi che legano imprenditori locali e malavita, da documenti pubblici accessibili online su siti di istituzioni e Prefettura, viene da chiedersi come mai a nessun “professionista” del settore, locale e non, sia mai venuto in mente di farlo. O peggio, se lo ha fatto perché poi quelle informazioni non sono state diffuse.

Notizie che andrebbero diffuse e che invece passano in sordina. «Quasi nessun telegiornale nazionale ne parla» del «maxi-processo» che si sta svolgendo dal 2016 «nell’aula bunker al centro della Pianura Padana», costruita apposta «nel vasto cortile del tribunale di Reggio Emilia».

Convocare i giornalisti, per parlare a un tavolo con i microfoni accesi, «non è più un’esclusiva di politici e vip: anche i mafiosi scalpitano per avere il proprio spazio mediatico». Chi sono i giornalisti che rispondono al loro appello? Perché lo fanno? Perché scelgono di riportare “fedelmente” la loro versione dei fatti? Diventiamo così «vittime inconsapevoli di un depistaggio culturale», frutto della “campagna mediatica” dei clan. Secondo i magistrati, in alcune aree del Nord Italia, c’è stato un «condizionamento dei cittadini e delle loro menti». Parole che pesano, «parole di piombo».

Se il sindaco di Brescello, il paesino noto per i film di Don Camillo e Peppone, afferma pubblicamente che «i cittadini devono avere la possibilità di leggere al bar la Gazzetta dello Sport senza essere disturbati da un giornalista che fa domande sulla mafie» è evidente che il condizionamento mediatico non avviene solo da parte dei mafiosi dichiarati e se i cittadini appoggiano le sue dichiarazioni diventa palese il grande problema civico e sociale cui non si può assolutamente assistere inermi. Tutto ciò è quantomeno sbalorditivo. Come se il vero diritto per i cittadini fosse leggere le notizie sportive e non vivere nella legalità.

Elia Minari in Guardare la mafia negli occhi riporta una interessante descrizione di fatti, dati e testimonianze della situazione reale di vaste aree indicate come lontane ed estranee alla realtà malavitosa del Sud Italia ma che poi tali non sono. Un resoconto altrettanto interessante delle scelte e dei progetti portati avanti da politici e amministratori locali diventati in seguito “nazionali”. Chiamati quindi a governare l’intero Paese dopo aver compiuto determinate scelte in ambito locale.

Quando preti, amministratori locali e cittadini lamentano il “calo d’immagine” del territorio e il “danno al turismo” come conseguenza delle inchieste, delle denunce e dei processi contro il malaffare comprovato allora davvero non si può negare la presenza mafiosa ma neanche l’esistenza di una propaganda mediatica e sociale che ha come «obiettivo principale screditare gli organi dello Stato», in secondo luogo «creare le condizioni per un atteggiamento più morbido nei confronti di questi “giovani imprenditori edili”» che amano definirsi «vittime delle leggi».

Invita il resoconto di Elia Minari alla riflessione sulla provincia italiana, quella distante dai grandi agglomerati urbani, dove non si trova nulla di ciò che c’è nelle grandi città compreso un presidio delle forze dell’ordine. Ed è proprio qui, nella “tranquilla” provincia che la mafia insinua il suo potere tentacolare presentandosi come “degno” sostituto di uno Stato quantomeno distante quando non proprio assente. Molto educativa anche la storia del nonno di Elia, Lino Minari. L’unica vera “favola” che meriterebbe di essere raccontata a bambini e bambine, ragazzi e ragazze, uomini e donne… di qualunque età. Per contrastare la criminalità mafiosa «non è necessaria la scorta, è sufficiente essere cittadini» e maturare un grande senso civico e civile.

Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Rizzoli e l’Associazione Cortocircuito per l’interesse, il materiale e la disponibilità

Disclosure: Fonte tema libro, biografia autore, info sul testo www.rizzoli.eu

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Le sfide all’ordine mondiale: “Il ritorno delle tribù” di Maurizio Molinari (Rizzoli, 2017)

16 domenica Lug 2017

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Califfo, flussimigratori, Ilritornodelletribu, immigrazione, jihad, MaurizioMolinari, migranti, monocolooccidentale, NWO, ordinemondiale, recensione, Rizzoli, romanzo, saggio, Terrorismo

Esce in prima edizione a maggio 2017 con Rizzoli il libro di Maurizio Molinari Il ritorno delle trbù. La sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale, dedicato dall’autore «Alla mia tribù». Leggendo il testo se ne comprende fin da subito il perché.
Il ritorno delle tribù appare come un articolo/commento lungo in cui l’autore racconta la sua versione di quanto sta accadendo in Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa, una personale analisi della «generale tendenza alla disgregazione che porta all’indebolimento degli Stati nazionali e dei rispettivi establishment».
Un libro che delude per il suo contenuto e stupisce per la presenza di alcuni refusi di punteggiatura, anche se bisogna ammettere che non sono di certo questi il vero problema.

Nelle affermazioni di Molinari il testo è volto «alla ricerca delle origini di rivolte, diseguaglianze e migrazioni per arrivare a descrivere le tribù d’Oriente e d’Occidente che ne sono protagoniste, mettendo in evidenza ciò che le distingue e ciò che le accomuna». In realtà, leggendolo, si ha l’impressione di consultare un vecchio testo di Storia nel quale gli accadimenti e le vicende geo-politiche vengono narrate descritte e commentate dall’unico punto di vista ritenuto giusto valido e attendibile: il monocolo occidentale. L’Universo dell’Occidente, che include anche Israele, guidato dagli Stati Uniti e la cui Legge sembra rappresentare per l’autore il Verbo divino. Come se tutti gli abitanti della Terra, indistintamente, debbano andare inesorabilmente verso l’unica direzione possibile e nota, la medesima tra l’altro che ha determinato e condizionato la Storia passata e presente e che si vorrebbe delimitasse anche quella futura.

Bisognerebbe riuscire ad ammettere quantomeno che le innumerevoli guerre e missioni portate avanti dai governi occidentali non sono rivolte a stabilire la pace e il benessere di tutti gli abitanti del Pianeta piuttosto a fermare chi si ribella all’ordine mondiale voluto e imposto dai suddetti governi.
Far leva sulla paura ingenerata dal terrorismo islamista oppure sulla cosiddetta invasione di migranti è facile e altrettanto facilmente può raccogliere consenso in chi legge. Una lettura meno critica del libro infatti potrebbe con molta semplicità dare la sensazione che gli jihadisti e i migranti siano l’unico vero problema da affrontare e che risolto ciò il Pianeta sarà salvo. È tanto evidente quanto elementare che così non è e così non sarà.

Molinari parla enne volte del «disegno apocalittico o escatologico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfo» nel suo libro, che è certamente contrario alla propaganda jihadista ma scritto con un’enfasi tale da apparire esageratamente e paradossalmente propagandistico a sua volta. Solo che l’apostolato sembra la cronistoria, a volte la giustificazione, delle strategie e delle tattiche degli americani, descritti come la punta, il vertice portabandiera delle imprese militari occidentali volte alla esportazione mondiale delle idee di democrazia progresso crescita e libertà. Secondo la visione dualista del mondo che vede gli occidentali, compresi gli ebrei, da una parte e tutti gli altri dalla parte opposta e in base alle cui regole di supremazia militare politica economica sono stati scritti e riportati oltre 2mila anni di Storia.

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Il terrorismo jihadista, come qualsiasi altra forma di terrorismo, è da biasimare innegabilmente così come il dramma umano dei migranti e dei profughi non può lasciare indifferenti le società “civili” di tutto il mondo ma lo smanioso desiderio di accentuare ed enfatizzare la negatività dell’estremismo jihadista dell’autore sembra gli sia tornato utile per tralasciare, accennandoli appena, alcuni aspetti della vicenda affrancandosi di parlarne nel dettaglio.
Per esempio, l’accenno al Trattato di Sèvres del 1920 in base al quale le potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale promettevano l’indipendenza al popolo curdo e agli Accordi segreti di Sykes-Picot del 1916 siglati tra Inghilterra e Francia per spartirsi il dominio e il controllo sul Medio Oriente, nonché il fatto che tutti i confini degli stati dell’area mediorientale e del Nord Africa sono stati tracciati a tavolino sempre dalle potenze occidentali tenendo conto, presumibilmente, dei propri interessi politici ed economici senza sottolineare come la situazione che vivono queste aree oggi deriva da tutto ciò appare quasi ridicolo, per non dire fuorviante.
La quasi totalità delle rivolte e dei malcontenti in Africa e Medio Oriente ha origine proprio dal fatto che la suddetta suddivisione in “stati a tavolino” ha generato un tale caos che, aggiunto al mal operato di governi corrotti e all’incessante sfruttamento del territorio e delle risorse sempre da parte degli occidentali ha portato dritti dritti alla situazione catastrofica odierna. Come si fa a credere che spetta ancora solo alle potenze occidentali trovare la soluzione?

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La stessa nascita del jihadismo è imputabile, almeno in parte, all’operato degli occidentali i quali prima hanno sfruttato questi “ribelli” considerandoli alla stregua di eroi che combattevano al loro fianco per sconfiggere l’Impero del Male, allora rappresentato dall’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan, e solo in seguito diventati essi stessi il Male perché hanno portato il terrore nel cuore dell’Occidente.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 la missione di tutto l’Occidente, più compatto che mai, era scovare colui che veniva da tutti indicato come il responsabile della tragedia: Osama bin Laden. La cui uccisione è stata proposta alla popolazione come l’unica via per debellare il Male, incarnato dalle cellule terroristiche di al-Qaeda. Versione ingenua o peggio fuorviante. Quel che in realtà è poi accaduto è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Ancor prima di Bin Laden un altro è stato il nemico da battere a ogni costo per mantenere sicure le certezze occidentali: Saddam Hussein, giustiziato nel 2006. La fine del dittatore iracheno ha generato la diaspora dei generali e degli uomini del suo esercito, molti dei quali hanno abbracciato le idee o sono stati ingaggiati dai terroristi islamisti con il compito di addestrare i nuovi adepti, compresi i foreign fighters. Oggi il nemico numero uno dell’Occidente è il Califffo. Ma cosa accadrà una volta che sarà sconfitto?
Ecco che si profila di nuovo il dubbio sull’affidabilità delle potenze occidentali a risolvere la situazione in Medio Oriente e Nord Africa.

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La soluzione auspicata da Maurizio Molinari ne Il ritorno delle tribù riguarda in realtà più il tentativo di superare la crisi economica conseguenza della globalizzazione che ha colpito il ceto medio occidentale e il cui malcontento sta consentendo, a suo dire, l’avanzata del populismo, indicato come il secondo dei mali da combattere. Il primo è il jihadismo. Uno interno e l’altro esterno che debbono essere affrontati separatamente ovvero, nelle parole dell’autore, «combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non vi fosse». La linea indicata da Molinari per superare i due mali che attanagliano le tribù occidentali è molto parziale e sembra non tenere in considerazione non solo la consequenzialità degli eventi ma anche il processo inarrestabile della globalizzazione che non può e non deve essere solo di merci e capitali ma di persone. Per cui se anche fino a questo punto le decisioni dei governi occidentali non hanno voluto tenere in considerazione le conseguenze delle loro decisioni non solo riguardo la propria tribù ma anche per le altre, ciò non è più accettabile. Come non può esserlo l’idea che l’autore vuol far passare di Israele, indicato addirittura come “isola” per la compattezza e l’omogeneità della tribù che fa quadrato contro ogni minaccia «all’esistenza del proprio Stato».

Quelle che l’autore indica come scelte volte alla salvaguardia del proprio Stato o della propria nazione, della sicurezza o della democrazia in realtà, tradotte in fatti, corrispondono a sanguinose guerre e interventi militari che causano centinaia di morti e migliaia di feriti, sfollati, profughi e migranti. E che generano anche sentimenti di odio e risentimento nei confronti degli stranieri invasori e invadenti oppure verso governi corrotti e collusi che si rivelano inadeguati e disinteressati al benessere pubblico e collettivo.

I problemi di cui parla Molinari, ovvero gli jihadisti e i migranti non sono la causa bensì la conseguenza e la conseguenza non la risolvi se non vai a incidere sulla causa, sia fuori che dentro il proprio Universo.
Molinari dedica il libro alla sua tribù perché è l’unico raggruppamento umano verso cui sembra nutrire un certo interesse.

Maurizio Molinari: giornalista e scrittore, direttore del quotidiano La Stampa.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Ornella dell’Ufficio stampa Rizzoli.

Articolo originale qui

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La ‘surreale’ realtà raccontata da Giulio Perrone in “Consigli pratici per uccidere mia suocera” (Rizzoli, 2017)

19 lunedì Giu 2017

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Consiglipraticiperuccideremiasuocera, GiulioPerrone, recensione, Rizzoli, romanzo

Esce a marzo di quest’anno con Rizzoli il nuovo romanzo di Giulio Perrone, Consigli pratici per uccidere mia suocera. Un libro che racconta di come può essere e diventare “surreale” la realtà.

Lo precisa in apertura lo stesso autore che il romanzo è il prodotto della sua fantasia, «ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale». Ma probabile, possibile e plausibile. La vicenda narrata da Perrone e tutte le piccole e grandi sfaccettature che ne fanno da corollario infatti rispecchiano perfettamente storie lette o ascoltate di vera quotidianità, a cui l’autore può aver direttamente assistito o che gli possono essere state raccontate. Dai tormenti adolescenziali alle turbe in età matura, dagli intrighi amorosi all’incapacità di accettare il tempo che passa, dalla volontà costante di “amare” del protagonista alla difficoltà di maturare… il tutto condito con scene e battute divertenti e irriverenti che “alleggeriscono” la lettura rendendola ancor più piacevole.

Lo stile di scrittura scelto da Perrone sembra tratto dal “narrato quotidiano”, con l’io narrante che racconta la sua vita come se la stesse riassumendo a dei vecchi amici incontrati al pub o al bar. Un registro narrativo che sembra ben rispecchiare la realtà di cui parla, esattamente come i protagonisti del libro incarnano perfettamente i tipi narrativi che l’autore ha voluto descrivere. Il ritratto esatto di quanto realmente accade o potrebbe accadere da quando il lavoro, ad esempio, è diventato sempre più “flessibile”, che poi è solo un modo meno chiaro e palese di dire intangibile, ovvero evanescente.

Consigli pratici per uccidere mia suocera sembra una “commedia dell’incontrario”, con il protagonista Leo che pur trascorrendo le sue giornate nulla-facendo manifesta il suo costante bisogno di evasione dal mondo e dai problemi, rifugge dalla madre che tenta di metterlo in guardia e corre in direzione opposta verso il padre che i problemi invece li attrae come una calamita. Pur rammaricato dal non potersi più «prendere una vacanza dalla vita», Leo sceglie comunque la strada “giusta” senza ripensamenti… forse. Ma è sicuramente giusto ribadire che la storia raccontata da Giulio Perrone è uno specchio vero e veritiero della condizione attuale di tanti giovani e, per dirla tutta, anche tanti non più così giovani e la loro quasi perenne difficoltà a metabolizzare anche gli oneri dell’età adulta, essendo invece per la maggiore interessati solo ai “piaceri” che questa comporta.

Un romanzo gradevole, Consigli pratici per uccidere mia suocera di Giulio Perrone, che si rivela una lettura piacevole non senza comunque interessanti spunti di riflessione sull’attualità e la modernità. Un libro che pur mancando, per fortuna, di dare concreti consigli per uccidere chicchessia regala al lettore uno spaccato di vita reale e realistica tra le cui righe sorridere e riflettere.

Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore www.rizzoli.eu

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Il mondo parallelo delle guerre segrete in “Prigionieri dell’Islam” di Lilli Gruber

11 mercoledì Mag 2016

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flussimigratori, immigrazione, LilliGruber, migranti, monocolooccidentale, NWO, Occidente, ordinemondiale, Oriente, paura, PrigionieridellIslam, recensione, Rizzoli, saggio, stroncatura, terrore, Terrorismo

 

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

Prigionieri dell’Islam (Rizzoli, 2016) della giornalista Lilli Gruber è un libro ambizioso, che si propone di creare un po’ di ordine nel caos delle informazioni, che circolano in un Occidente in piena crisi, riguardo quanto sta accadendo nel mondo arabo «in pieno naufragio».

Un libro che accoglie in sé: la cronistoria degli attacchi terroristici all’Occidente, a partire dall’11 settembre 2001; un’analisi geopolitica della situazione occidentale, mediorientale, delle primavere arabe, dell’Iran, della Turchia, della Siria… il resoconto dettagliato delle esperienze dirette dell’autrice come inviata; la trascrizione delle interviste fatte come giornalista; riferimenti diretti alla trasmissione televisiva che conduce; episodi e riflessioni legati alla propria vita privata e sentimentale.

Un intreccio di informazioni e stili che a volte funziona altre meno. La struttura del testo è circolare, l’autrice ritorna spesso sullo stesso punto o argomento, arricchendo di volta in volta quanto detto di nuovi particolari oppure analizzando il tutto da un’angolazione diversa.

Il discorso che la Gruber vuole portare avanti in Prigionieri dell’Islam sembra chiaro fin dal principio: non si possono incolpare tutti i musulmani per quanto sta accadendo nel mondo arabo e in Occidente, dobbiamo riconoscere le responsabilità dello stesso Occidente. La situazione in oggetto è molto complessa, colpe ed errori vanno imputati a entrambe le parti in causa (Occidente e anti-Occidente) e naturalmente l’autrice non ha una soluzione ai problemi in corso né per quelli prospettati dal prosieguo o dalla degenerazione delle attuali circostanze.

Ma il vero limite di un libro come questo è l’ostinazione al voler definire una situazione globale analizzandola dal solo punto di vista occidentale. Ammettere in qualche modo le responsabilità delle grandi potenze ma fermarsi nell’esatto momento in cui ci si rende conto che un mondo diverso equivale anche a un Occidente diverso, alla rinuncia dei tanti, troppi, privilegi accaparratisi da chi il mondo lo ha sempre conquistato non solo abitato.

Nel Prologo di Prigionieri dell’Islam la Gruber racconta di aver assistito alla conversione di una giovane ragazza napoletana presso la comunità islamica di viale Jenner a Milano. «Non passa giorno senza che bussi alla porta un nuovo aspirante musulmano», le dicono.

Perché l’Islam attrae sempre più nuovi proseliti? Questo quanto si connette alla diffusione del terrorismo islamico?

Per l’autrice «nel caos di un mondo arabo in pieno naufragio e nelle incertezze di un Occidente in crisi, l’Isis rappresenta un’alternativa concreta».

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Nell’Introduzione al libro l’autrice si sofferma sul resoconto dettagliato di come gli eventi di Parigi del 13 novembre 2015 siano entrati con irruenza nel suo privato lasciando esterrefatti lei e il compagno, il quale proprio mentre gli attacchi avevano luogo era su un volo diretto a Roma e partito da Parigi.

Racconta di come tutto ciò l’abbia riportata indietro nel tempo, all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e a due giorni dopo l’accaduto, quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’AmericaGeorge W. Bush «accende la fiaccola che darà fuoco al mondo: quella della “guerra al terrore”».

Viene da chiedersi se quindici anni di “guerra al terrore” non abbiano portato solo altra guerra e terrore.

La Gruber ipotizza, timidamente, che faccia tutto parte di una sorta di piano, organizzato e giostrato per il potere e il denaro. «Nulla è impossibile nel mondo parallelo delle guerre segrete» “combattute” tra governi e servizi di spionaggio, fatte di embarghi, destabilizzazioni, minacce dirette o indirette, palesi o latenti, infiltrazioni e corruzioni varie… In punta di piedi allude a come il potere decisionale, in fin dei conti, sia sempre e solo nelle mani delle grandi potenze e che a muovere i loro gesti non sia sempre il mero desiderio di proteggere i popoli.

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I limiti di queste “guerre segrete” si sono visti già nel marzo 2011, quando «le capitali occidentali sperano che Assad alzi bandiera bianca», come Ben Ali e Mubarak, ma «gli occidentali sono molto meno influenti in Siria che in Tunisia o in Egitto. L’esercito è corrotto, ovvio, ma l’infiltrazione da parte di potenze straniere è meno capillare che in altri Paesi arabi».

Le operazioni di ingerenza occidentale nel mondo arabo sembrano essersi rivelate dei fallimenti sia dove l’estirpazione del regime è riuscita, come in Tunisia ed Egitto, sia dove non è andata a buon fine, come in Siria. Allora il lettore si chiede il motivo per cui si portano avanti azioni e politiche già rivelatesi fallimentari oppure se nel “mondo parallelo” si sono registrate delle vittorie che non è dato a tutti conoscere.

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

In Prigionieri dell’Islam si legge che, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno intrapreso la guerra contro il terrorismo per annientare al-Qaeda ma anche «per trasformare il mondo musulmano al grido di “esportare la democrazia”».

Con quali risultati? A costo di sacrificare cosa?

In seguito all’uccisione di Osama Bin-Laden e allo smantellamento di gran parte delle cellule che componevano l’organizzazione tutto l’Occidente ha creduto, su input di capi di stato, di governo e organi di stampa, che il terrorismo di matrice islamica fosse stato sconfitto. L’Isis e non solo hanno dimostrato al mondo intero che non è così.

Per la Gruber dall’inizio di aprile 2016 i miliziani dell’Isis sono in difficoltà, le operazioni speciali americane stanno eliminando uno dopo l’altro tutti i capi e ciò lo si può interpretare come l’inizio della fine di questo “mostro” che ha preso il posto di al-Qaeda come nemico numero uno degli Occidentali. Ma c’è poco da esultare perché ci si deve aspettare che, da un momento all’altro, possa «resuscitare altrove e tornare a seminare paura.»

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La Gruber conclude il suo Prigionieri dell’Islam con l’esortazione alla disobbedienza, ma non quella di Gandhi bensì quella di Obama.

«Le dimostrazioni più evidenti della sua disobbedienza sono il riavvicinamento con l’Iran e il rifiuto di muovere guerra alla Siria».

Parla anche dell’umiltà di papa Francesco, dell’ultimo sermone del profeta Maometto nel quale invitava i suoi fedeli a trasmettere il proprio messaggio, di Gesù Cristo e del fatto che cacciasse i mercanti dal tempio, dell’ingresso di nuovi attori (Cina e Russia) pronti a dire la loro sugli squilibri del pianeta, ma soprattutto tiene a sottolineare che «il Medioriente, il Golfo e i loro tormenti non devono minacciare le relazioni tra i colossi del mondo globalizzato».

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Con le sue 352 pagine il libro di Lilli Gruber si presenta al lettore carico di informazioni, di nozioni, di citazioni… ma la situazione analizzata è talmente complessa che tanti sono i dubbi e gli interrogativi che restano.

Ci si chiede chi siano i veri prigionieri dell’Islam: gli arabi o gli occidentali? È l’Islam l’unico vero carceriere di cui aver paura? Che relazione c’è tra il terrorismo di matrice islamica e le “guerre segrete” combattute nel “mondo parallelo” di governi e servizi di spionaggio?

Per la Gruber terrorismo, Islam e immigrazioni «congiungendosi in un triangolo, formano una trappola mortale» che «cambia la nostra vita». Ma chi ha fatto scattare questa trappola? Se i tre vertici del triangolo sono una conseguenza dell’ingerenza occidentale nel mondo arabo non dovrebbe essere l’Occidente il primo a invertire la rotta?

La verità è che l’Occidente è “prigioniero” anche di sé stesso, come ricorda pure l’autrice parlando della disobbedienza del presidente degli Stati Uniti d’America: «Mi colpisce il fatto che l’uomo più potente del mondo abbia il coraggio di riconoscere che è lui stesso prigioniero delle convenzioni, dei preconcetti, dei diktat dell’ideologia».

La morsa che stringe l’Occidente e il mondo intero sembra essere alimentata quindi da molto altro oltre il terrorismo, le migrazioni e l’integrazione, ovvero i vertici del triangolo che per la Gruber ci rendono tutti “prigionieri dell’Islam”.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-mondo-parallelo-delle-guerre-segrete-in-prigionieri-dell-islam-di-lilli-gruber

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“I giorni della Cagna”, come le mafie si sono prese Roma e l’Italia (Rizzoli, 2016). Intervista a Daniele Autieri

11 lunedì Apr 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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DanieleAutieri, Igiornidellacagna, Italia, italiani, mafia, Rizzoli, romanzo

 

“I giorni della Cagna”, come le mafie si sono prese Roma e l'Italia

È uscito a febbraio di quest’anno con Rizzoli I giorni della Cagna. La presa di Roma del giornalista investigativo Daniele Autieri.

Un romanzo che racconta del momento in cui piccole e grandi organizzazioni criminali hanno stretto un patto: unirsi e diventare «la Bestia più feroce che l’Italia abbia mai conosciuto». Nasce così la Cagna, «il patto segreto che in questi ultimi dieci anni mafia autoctona, mafia siciliana, camorra e ‘ndrangheta hanno siglato per prendersi Roma. E lo Stato».

Un libro intense, quello di Autieri, che trasforma la cronaca nera in fiction perché convinto sia l’unico modo per non perdere il contatto con la realtà, per mantenere viva la capacità della letteratura di esplorare l’animo umano. Un libro che spiega e aiuta a comprendere meglio i meccanismi che muovono la grande macchina del crimine attraverso le azioni quotidiane degli attori e delle comparse, dei burattini e dei burattinai e dello Stato, nella sua componente buona, che è costretto a diventare invisibile per combattere la malavita, perché i tentacoli neri di quest’ultima arrivano davvero dove sarebbe inimmaginabile anche solo pensarli.

Daniele Autieri è autore anche di Professione Lolita (Chiarelettere, 2015). Sua è l’inchiesta sullo scandalo delle baby squillo dei Parioli. Attualmente si interessa degli sviluppi di Mafia Capitale.

Abbiamo parlato con Autieri de I giorni della Cagna, della criminalità organizzata che opera a Roma e anche degli effetti di Mafia Capitale nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Come in Professione Lolita anche ne I giorni della cagna lei trasforma tristi vicende di cronaca in storie romanzate. Quali sono i motivi della scelta di questo registro narrativo? Perché preferisce la fiction al reportage?

Rimanere aggrappati alla vita. Questo per me è il romanzo, la narrativa. La possibilità di raccontare la realtà in modo differente. Se perdiamo il contatto con la realtà, rendiamo orfana la letteratura della sua incredibile capacità di affondare nell’animo umano. La realtà ci aiuta a capire, la letteratura a sognare. Insieme ci permettono di vivere.

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La “Cagna” ha unito tutti i malavitosi nella brama di raggiungere il comune obiettivo: trasformare l’Italia in uno Stato criminale. La Storia della criminalità organizzata quanto è intrecciata a quella della capitale e dell’Italia intera?

La Roma di oggi è un esperimento criminale, il luogo dove camorra, ‘ndrangheta, mafia e mafie autoctone hanno stretto un patto di conquista. Per prendersi la città. E da lì prendersi lo Stato. Negli ultimi anni gli uomini delle mafie hanno messo le mani nelle aziende pubbliche, tantissime inchieste giudiziarie lo dimostrano. Ma soprattutto c’è un filo rosso che unisce alcuni degli scandali industriali degli ultimi anni, facendo pensare che dietro molti fatti accaduti ci sia un’unica organizzazione.

“La Cagna”, che si ispira alla Lupa di Dante, è il simbolo di tutto questo e nasce proprio dal patto siglato tra le organizzazioni criminali.

A Roma tutto è stato fatto in “silenzio”. Perché qui i criminali tendono a diventare invisibili più che altrove?

Perché si confondono con la gente per bene. È questo l’inganno eterno di questa città. Il ferro, il piombo entrano in gioco solo quando tutte le altre mediazioni falliscono. E così i criminali si vestono da persone comuni, si confondono, frequentano i migliori ristoranti e condividono amicizie influenti.

Gli ideali e le ideologie non sembrano sopravvivere a lungo, avidità di soldi e potere sì. I criminali si stanno trasformando in uomini di affari e viceversa?

Alle spalle di tutto c’è il denaro, l’avidità. Ed ecco che si ritorna a Dante. I criminali moderni, quelli più pericolosi, hanno capito che il denaro non si fa solo trafficando cocaina, ma anche controllando lo Stato, le sue aziende, i suoi appalti, le sue poltrone. Meglio quindi indossare un abito scuro, vestirsi da uomini d’affari e ottenere uno strapuntino dal quale è più facile mettere le mani sulla cassaforte.

Per sfamare la Cagna vengono preferite teste di legno, facili da comandare e indirizzare. Vale lo stesso per la politica?

Negli ultimi anni a Roma, ma in tutto il resto dell’Italia, sono state costituite migliaia di società di comodo necessarie solo per ottenere commesse dalle aziende pubbliche e per stornare una buona percentuale di tangenti a chi quelle commesse le aveva assegnate. La testa di legno classica si è evoluta e anche alcune istituzioni “malate” hanno cominciato a beneficiarne.

“I giorni della Cagna”, come le mafie si sono prese Roma e l'Italia

A Roma non si spara perché ci sono i figli di tutti. In base a quali accordi riescono a convivere nello stesso territorio camorra, ’ndrangheta, mafia siciliana, criminalità albanese, rom, russa e delinquenti di varie nazionalità?

Gli accordi sono di due tipi. A livello più basso, quello legato al traffico di droga e all’usura, la divisione è territoriale. Gli albanesi controllano alcune zone di Ponte Milvio in accordo con gli uomini di Mafia Capitale; la camorra ha messo le mani su Tor Bella Monaca e altre periferie, e di tanto in tanto si serve di alcune famiglie rom per fare il lavoro sporco; la ‘ndrangheta si occupa prevalentemente del narcotraffico e gestisce i locali del centro.

A livello più alto, il patto viene siglato tra le famiglie mafiose più importanti, quelle che possono mettere sul tavolo i loro legami con politici e manager. Nulla di teorico, anzi. Di tanto in tanto questi uomini si incontrano in uno studio prestigioso di qualche noto avvocato o commercialista romano. Sono riunioni riservatissime e servono per stabilire la linea di comportamento per il futuro. E soprattutto per spartirsi gli affari che contano.

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Quanti “fighetti” come Max Sanna e Claudio Accardi, in bilico tra il bianco e il nero, ci sono in giro per Roma?

Il grigio è il colore dominante. Claudio Accardi, uno dei protagonisti del libro, lo indossa alla perfezione. È un uomo qualunque, che senza aver mai preso una pistola in mano è stato capace di entrare nelle confidenze dei principali boss della Capitale. Lo ha fatto perché aveva un talento: andare per mare e trasportare centinaia di chili di polvere bianca.

Come lui, in tanti camminano in bilico lungo questa zona grigia: notai, avvocati, commercialisti, prestati agli interessi e agli affari del crimine. Questi uomini oggi rappresentano l’anello tra il mondo criminale e le persone comuni.

Il personaggio di Vento invece, spietato, che fa combattimenti clandestini e anche il sicario per guadagnare denaro ma è al contempo un padre attento e premuroso, che sogna per la figlia una vita diversa, migliore della sua vuole indicare che la strada della delinquenza non è per tutti una scelta?

Vento è uno dei miei personaggi preferiti perché è in grado di ribaltare il paradigma, il luogo comune. Dov’è il bene e dov’è il male? A quale tipo di persone ci sentiamo più vicini e quali invece ci sembrano lontanissime dai nostri valori? Forse è la vita che ci rende uomini o belve. Vento è una di quelle persone che non si aspetta risposte e non si aspetta favori. Semplicemente vive. Solo per sé e per sua figlia. E questo lo rende diverso da tanti altri.

Quartieri a cui si accede da un’unica via. Vedette che controllano il traffico e batterie di criminali e spacciatori a spartirsi il territorio. La mente rimanda subito alla Napoli raccontata in Gomorra di Roberto Saviano o alla Sicilia di Sbirritudine di Giorgio Glaviano. Cosa accomuna e cosa divide Roma dalle altre “capitali” della malavita?

Nei metodi di gestione dello spaccio e di controllo del territorio, ormai certe zone di Roma sono del tutto simili a quelle raccontate da Saviano. Di notte, le piazze di spaccio di Tor Bella Monaca o San Basilio non hanno nulla da invidiare al Parco Verde di Caivano. Roma in più ha la caratteristica di ospitare una “criminalità multietnica”, dove il camorrista convive con l’ex-Nar, con l’uomo delle cosche calabresi o con il killer della mafia albanese. Tutto si mischia e si confonde. E quando gli equilibri sballano, allora torna a parlare il piombo.

Cos’è cambiato a Roma dallo scandalo cui è seguita l’inchiesta denominata Mafia Capitale?

Molto in termini di consapevolezza, molto poco in termini di gerarchia criminale. Grazie a Mafia Capitale abbiamo tutti capito che esistono alcune organizzazioni in grado di controllare vaste zone della città e di arrivare con i loro tentacoli fino alla politica. Ma sono le stesse organizzazioni che non hanno mai smesso di fare affari e continuano a farli ancora adesso, durante il processo. Il crimine non si ferma con un’inchiesta. Si ferma con una battaglia culturale di consapevolezza e sensibilizzazione.

A questo servono i libri, capaci di tenere il lettore ancorato alla realtà. Per non dimenticare. E per evitare di rimanere inconsapevolmente schiavi.

http://www.sulromanzo.it/blog/i-giorni-della-cagna-come-le-mafie-si-sono-prese-roma-e-l-italia

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Come la scienza combatte la cattiva informazione? Intervista a Dario Bressanini

08 martedì Mar 2016

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BeatriceMautino, ControNatura, DarioBressanini, intervista, Rizzoli, saggio

Come la scienza combatte la cattiva informazione? Intervista a Dario Bressanini

Come può la scienza combattere la cattiva informazione che, nel gran calderone dell’informazione globale, sembra proliferare come una coltura in laboratorio? Quali mezzi ha a disposizione affinché false scoperte o finte teorie vengano passate come scoop scientifici quando in realtà altro non sono che colossali bufale?

Ne abbiamo discusso con Dario Bressanini, ricercatore presso il dipartimento di Scienze chimiche e ambientali dell’Università degli studi dell’Insubria a Como e autore, insieme a Beatrice Mautino, del saggio Contro Natura. Dagli OGM al«Bio», falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola (Rizzoli, 2015), tra i titoli finalisti al Premio Galileo per la divulgazione scientifica edizione 2016.

Contro Natura è stato pensato e strutturato per fornire non certezze ma dubbi. Far ricredere le persone sulle loro convinzioni. Proprio come si fa in un normale processo scientifico: si parte analizzando i fatti per poi verificare se i preconcetti, le idee concordano. Se i fatti contraddicono le opinioni queste vanno cambiate.

Avvicinare i giovani alla scienza e abituarli al metodo scientifico è, per Bressanini, fondamentale. Utile per diventare cittadini critici in grado di sviscerare le informazioni e scovare le bufale mediatiche.

Medicina omeopatica, soluzioni fai da te, cibo biologico, alimenti geneticamente modificati e geneticamente mutati, mutazioni naturali e operazioni di laboratorio, paure, pregiudizi, preconcetti, bufale e divulgazione scientifica… ne abbiamo parlato con Dario Bressanini in un’intervista.

Nel testo, scritto a quattro mani con Beatrice Mautino, avete dichiarato di voler scrivere un libro alla Micheal Pollan, il giornalista americano noto per i suoi reportage sul campo. Perché?

Riteniamo sia un modo molto efficace di fare divulgazione scientifica. Il saggio tipico di divulgazione scientifica, in Italia ma anche all’estero, di solito si concentra sulla scienza, sui dettagli tecnici, invece l’approccio di Pollan l’abbiamo un po’ adottato perché parte dalle storie. Raccontare delle storie che hanno, in questo caso, uno sfondo scientifico ma in maniera tale da far arrivare il messaggio a un numero maggiore di lettori. Comprensibile anche ai non specialisti della materia.

Come la scienza combatte la cattiva informazione? Intervista a Dario Bressanini

I “laureati alla Google University” hanno trovato il loro colpevole mentre gli scienziati ancora cercano di trovare i fondamenti dell’esistenza o meno della sensibilità al glutine. È colpa dei “laureati alla Google University”, dell’informazione, spesso sommaria e contraddittoria, oppure della mancanza, fuori dalla cerchia degli addetti ai lavori, di un canale di diffusione diretta e globale di una corretta divulgazione scientifica?

Le cause sono molteplici. C’è una fetta di lettori-commentatori che ora con i social network hanno più possibilità di dare sfogo alle loro teorie complottiste o ascentifiche. Cattiva informazione sul web ce n’è tanta. Quello che manca, per chi non è addetto, è la capacità di distinguere le stupidaggini dalle ricerche serie. E a questo punto, siccome non si può pretendere che il pubblico sia esperto di tutto, nessuno lo è, si sente la mancanza, almeno in Italia, di quel filtro del giornalismo scientifico. Nel nostro Paese l’informazione scientifica la fa il giornalista generalista.

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La varietà di piante create con la tecnica della mutagenesi ammonta a oltre 2200 specie e innumerevoli sono i mutamenti avvenuti direttamente in natura. Qual è il rapporto tra la naturale evoluzione genetica e le mirate operazioni compiute nei laboratori di tutto il mondo?

Quello che si fa nei laboratori di tutto il mondo, con qualsivoglia tecnica, in realtà non è nient’altro che una emulazione di quello che accade in natura. Non c’è alcun motivo razionale nel ritenere una modifica avvenuta in natura per forza migliore di una fatta in laboratorio.

Qual è la reale differenza tra i cibi geneticamente modificati e quelli geneticamente mutati? Perché in Italia si demonizzano i primi e si accettano i secondi?

Non c’è una risposta scientifica, nel senso che per la scienza non importa come è stata ottenuta la modifica genetica ma contano le proprietà dell’alimento. La legislazione europea distingue invece il modo in cui sono ottenuti i vari vegetali e questo ha generato una diffidenza nelle persone che ritengono i cibi modificati diversi dal resto di ciò che mangiamo. Con la tecnica della modificazione genetica si possono fare cose molto più avanzate, precise e potenti e forse è anche questo che scatena un po’ di paura.

Come la scienza combatte la cattiva informazione? Intervista a Dario Bressanini

Contro Natura è tra i cinque saggi finalisti al Premio Galileo edizione 2016, è fuori di dubbio positiva l’attenzione dei ragazzi verso questa tematica ma, in generale, l’interesse sembra molto scarso se non addirittura inesistente. Ritiene ciò sia imputabile ai ragazzi stessi o al sistema di educazione e formazione?

Sinceramente non sono molto d’accordo. Mi reco spesso negli istituti superiori, lo stesso fa la mia co-autrice Beatrice Mautino, e riscontro sempre molto interesse. Certo i ragazzi sono bombardati da tantissime cose ma non li ritengo così apatici e disinteressati come spesso vengono descritti.

Quanto è importante, secondo lei, avvicinare i giovani alla scienza e abituarli a ragionare secondo un metodo scientifico?

Secondo me è fondamentale. L’approccio al metodo scientifico diventa un modo di approcciare i problemi e le questioni che ci interessano come cittadini. È importante studiare la scienza ma lo è parimenti apprenderne il funzionamento. L’idea di non prendere per buono tutto ciò che ci viene detto o tramandato ma metterlo alla prova, fare dei test, dei ragionamenti. Lo studio delle scienze non deve essere finalizzato al diventare uno scienziato, lo diventa una piccolissima parte. La conoscenza del metodo scientifico ci permette di essere dei cittadini migliori, capaci di distinguere la cattiva dalla corretta informazione, le bufale da ciò che invece è scientificamente provato.

http://www.sulromanzo.it/blog/come-la-scienza-combatte-la-cattiva-informazione-intervista-a-dario-bressanini

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“Mio padre in una scatola di scarpe” di Giulio Cavalli (Rizzoli, 2015)

25 venerdì Set 2015

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GiulioCavalli, mafia, Miopadreinunascatoladiscarpe, recensione, Rizzoli, romanzo

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Il 17 di questo mese è uscito per Rizzoli “Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli.

Ci sono dei cantanti che hanno una voce talmente melodiosa che ti cattura appena la senti.
Ci sono dei musicisti talmente dotati che ti fanno piacere la loro musica fin dalle prime note.
E poi ci sono quegli scrittori così bravi che ‘rapiscono’ il lettore fin dalle prime battute.
Giulio Cavalli appartiene senza dubbio alcuno a questa categoria.

“Mio padre in una scatola da scarpe” racconta la storia semplice di Michele, cresciuto dove «non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro», in una città che può trovarsi dove si trova, in provincia di Caserta, o in qualsiasi altro posto del mondo perché «Mondragone si sveglia rotonda tutte le mattine, per poi sformarsi attraverso i suoi abitanti».

Una vita sospesa, quella degli “altri”, soprattutto quando propendono per il bianco, in quanto «questa è una terra che va abitata in punta di piedi, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili». Cercava di spiegare suo nonno a un giovanissimo Michele, che non capiva… non riusciva a capacitarsi, esattamente come quarantanni più tardi non ci riuscirà Andrea, suo figlio.
Perché una persona che vuole solo coltivare il proprio amore, formare una famiglia, lavorare, pagare le tasse e trascorrere del tempo con i propri figli e nipoti deve vivere terrorizzato da ciò che può accadere a lui, o peggio a propri famigliari, anche solo come conseguenza per aver rifiutato o accettato un caffè?
Perché un cittadino deve essere costretto a subire l’indifferenza delle forze dell’ordine soggiogate al male peggio dei “neri”?
Perché un uomo o una donna non possono formulare queste domande a voce alta senza rischiare gravi conseguenze e ritorsioni?

Alcuni soggetti afferenti alla malavita organizzata si ritengono dei soldati, arruolati in un diverso esercito certo ma comunque ligi a un codice di regolamentazione che una volta arruolati si sceglie di seguire e rispettare. Va bene. Ma chi non compie questa scelta perché è costretto a subirne comunque le conseguenze?

« Se è mafioso solo chi ammazza allora la mafia non c’è davvero, qui. Quelli che hanno fatto finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi. Tu ti ostini a pensare che siano solo cattivi o prepotenti o violenti, e invece sono mafiosi.»

Michele e Rosalba trascorrono la vita a cercare di diventare invisibili e soprattutto di far essere tale i propri figli e nipoti, coltivando il loro amore che è «un amore antico, se lo ripetono tutti i giorni, perché è tra persone che sono cresciute imparando ad aggiustare le cose senza buttarle». Ma certe cose o certe situazioni non si possono aggiustare, sono come la miccia di un mortaretto… una volta incendiato non resta che aspettare lo scoppio.
Andrea, Giovanni, Antonio e Angela questo scoppio se lo sentono scorrere nelle vene, anche più di Rosalba e decidono insieme di compiere il gesto più rivoluzionario della loro vita, varcando i limiti della legalità e lo fanno con il coraggio e la consapevolezza di doverlo fare, perché rappresenta per loro non solo una rivincita ma una vera e propria catarsi. E così, a modo loro, riescono a sconfiggerlo il Male che li voleva oppressi, immobili e silenti.

“Mio padre in una scatola da scarpe” di Giulio Cavalli è il racconto semplice di una famiglia normale che cerca di coltivare i propri sogni in un mondo disumano, crudele e spietato nel quale l’amore e i sentimenti per vincere devono combattere quotidianamente contro colossi armati, contro il potere, la violenza e il potere della violenza.

:: Mio padre in una scatola da scarpe, Giulio Cavalli (Rizzoli, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

« Nonostante tutto lei non tornerebbe indietro, no, non rinuncerebbe a nessuno dei momenti vissuto fino a qui, dolori inclusi, perché la sua famiglia è un’opera titanica e artistica che la riempie di fierezza e di orgoglio.»

© 2015 – 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Contro natura” di Bressanini e Mautino (Rizzoli, 2015)

25 sabato Lug 2015

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BeatriceMautino, ControNatura, DarioBressanini, recensione, Rizzoli, saggio

OGM e bio: cibo contro natura?

Contro natura. Dagli OGM al “bio”, falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola di Dario Bressanini, chimico, e Beatrice Mautino, biotecnologa, è uscito lo scorso maggio per Rizzoli. Un libro non va mai giudicato dalla copertina, né dai primi capitoli… vero in questo caso più che mai. Per le prime cinquanta pagine non si riesce bene a comprendere il senso del discorso portato avanti dagli autori e il lettore quasi si indispone, avallato anche dal forte bagaglio di pregiudizi e preconcetti sui tanto famigerati, ma al contempo pressoché sconosciuti, “organismi geneticamente modificati”. Poi la tela costruita da Bressanini e Mautino per sostenere le loro tesi si dipana e, a ogni pagina, la lettura si fa più interessante. Il registro linguistico utilizzato dagli autori è volutamente poco tecnico, molto discorsivo e pieno di esempi tratti dalla quotidianità. Un metodo efficace per raggiungere una fetta di lettori più ampia possibile.

Le domande a cui il libro cerca di dare una risposta sono molteplici: «Cosa sono gli OGM? E cosa i mutagenesi? Cosa possiamo o dobbiamo considerare “contro natura”? I media e le autorità ci stanno dicendo la verità al riguardo?». Nelle primissime pagine viene citato un articolo di Tullio Regge,Spaghetti geneticamente modificati, apparso su «Le Scienze» del gennaio 2000, come spunto per riflessioni e considerazioni riguardo al clamore che ha generato. «Il messaggio che Tullio Regge voleva far passare era che gli OGM non sono poi così diversi da quel che mangiamo tutti i giorni, e che nessuno dopo tutto aveva mai avuto problemi con gli spaghetti o i fusilli. Invece il messaggio che è passato è che era proprio il CRESO a essere diverso da ciò che mangiamo tutti i giorni».

Il CRESO è un grano ottenuto dall’incrocio tra la linea messicana del CIMMYT e il mutante del Cappelli Cp8144, sottoposto a una lunga serie di prove agronomiche in varie località dell’Italia centrale e ottenuto trattando il Cappelli con raggi X. Non ci sono errori di lettura o scrittura, è proprio così che si ricavano le tipologie di grano più diffuse per la produzione di paste alimentari. «Piante trattate in reattori nucleari o sui campi di coltivazione con cannoni al Cobalto 60 o con raggi X». Le piante create con la “tecnica della mutagenesi” nei laboratori di tutto il mondo sono all’incirca 2250, compresi i grani duri come il CRESO e le varietà di mandarino senza nocciolo. «Numeri che avrebbero dovuto aiutare a mettere nella giusta prospettiva le cose: le piante mutate sono tantissime, molte più di quelle che immaginiamo, e le mangiamo ogni giorno senza avere problemi»; invece il risultato delle affermazioni di Regge è stato il tacciare il CRESO come il “nemico numero uno” e alimentare costantemente una politica e, al contempo, una propaganda contro gli OGM.

È a questo punto che viene chiarito il discorso portato avanti dagli autori: «La scelta legislativa di definire una classe di organismi in base al modo in cui sono stati ottenuti e non in base alle loro caratteristiche, che alla fine sono le uniche cose che ci interessano quando le dobbiamo coltivare e mangiare, è a nostro parere la radice di tutti i mali, perché ha dato luogo a una legislazione irrazionale e a caratteristiche simili in modo diverso». In Italia sono vietati gli organismi “geneticamente modificati” ma sono consentiti quelli “geneticamente mutati”, come il grano CRESO. Gli autori e non solo loro si chiedono il perché. Stando ai resoconti dei gruppi di ricerca istituiti dall’UE «le biotecnologie e in particolare gli OGM non sono, di per sé, più rischiose delle tecnologie convenzionali di breeding delle piante», ma allora perché trattarle diversamente?

Va inoltre puntualizzato, e Bressanini e Mautino lo fanno benissimo, che se anche è stata dichiarata illegale la coltivazione degli OGM, in Italia non si è fatto lo stesso per il loro utilizzo. «E sì, perché gli OGM in Italia non si coltivano, almeno ufficialmente, ma si “utilizzano” eccome. Alla luce del sole. Legalmente e senza alcuna opposizione». Ammontano a 4 milioni le tonnellate di farina di soia importate ogni anno dall’industria mangimistica. Gli autori hanno calcolato che equivalgono a «55 chili di soia OGM per ogni italiano, deputati, ministri e attivisti compresi».

OGM e "bio": cibo contro natura?

Ecco allora che emerge un quadro chiaro della situazione: dopo aver più o meno inconsapevolmente prodotto, distribuito e mangiato per quasi cinquant’anni “pasta radioattiva”, si regala agli italiani un nemico da combattere, gli OGM, e allo stesso tempo si continua la sperimentazione e la coltivazione dei mutagenesi. Da un punto di vista legale questi continuano a essere consentiti, come lo è l’importazione e la lavorazione di piante o cereali OGM. Ufficialmente in Italia è vietata solo la loro coltivazione. Ma mentre per il legislatore i grani come il CRESO non sono OGM e quindi la loro coltivazione non è illegale, per l’opinione pubblica il CRESO e simili sono diventati OGM e responsabili tra l’altro di “malattie” come la celiachia. Bressanini e Mautino in Contro naturasi soffermano a lungo nell’esposizione di quanto accaduto nel circo mediatico della televisione e della stampa, sottolineando gli errori, le superficialità e a volte la facile speculazione che ha portato gli italiani verso una dannosa disinformazione riguardo gli OGM, i mutagenesi e i prodotti biologici.

OGM e "bio": cibo contro natura?

Gli autori non sono per principio favorevoli o contrari agli OGM, ai mutagenesi oppure ancora ai prodotti “bio”; cercano solo di fare un po’ di chiarezza in “universi” di cui si fa un gran parlare ma che in fondo restano poco conosciuti.

Si può anche persistere nella convinzione che gli OGM siano dannosi, che i mutagenesi lo siano di più o di meno, che i prodotti biologici siano “naturali” ma il libro è comunque interessante. Contro natura. Dagli OGM al “bio”, falsi allarmi e verità nascoste del cibo che portiamo in tavola di Dario Bressanini e Beatrice Mautino è, insomma, un’analisi di tutto rispetto.

http://www.sulromanzo.it/blog/ogm-e-bio-cibo-contro-natura

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Sbirritudine” di Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015)

09 giovedì Lug 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GiorgioGlaviano, recensione, Rizzoli, romanzo, Sbirritudine, thriller

7Esordio letterario straordinario quello di Giorgio Glaviano che pubblica quest’anno con Rizzoli il suo primo romanzo. “Sbirritudine”: un libro che ti entra nelle viscere, una storia che ti scuote mostrandoti il lato nascosto e vero della Sicilia e dell’Italia.
Il libro è frutto dell’immaginazione dell’autore. Nomi, personaggi e luoghi sono fittizi o usati in modo fittizio ma gli avvenimenti sono ispirati a una storia vera. Ed è proprio questo a sconvolgere perché un conto è affermare in maniera generica che nel nostro Paese siamo tutti corrotti, tutti collusi, che Stato e Mafia non si fanno la guerra ma si spartiscono la torta… un altro è vedere, o di rimando leggere, ciò che realmente accade e perché, assistere agli incontri, agli accordi, subire gli intrighi, le minacce, le calunnie solo per aver cercato di fare il proprio lavoro, ovvero difendere la legalità.
Il libro di Glaviano è narrato in prima persona, è il poliziotto siciliano protagonista degli accadimenti che racconta vicende e stati d’animo e lo fa con una tale incisività, merito dell’abile penna della scrittore, da regalare al lettore innumerevoli fotogrammi che come pezzi di un intricato puzzle pian piano si incasellano al loro posto restituendo un’immagine meno nitida seppur evidente di ciò che realmente accade. È la rabbia che si prova a rendere l’immagine sfocata, è il confine tra Stato e Mafia sempre più labile a mostrarla incerta e indefinita.

«Combattere la mafia significa combattere contro il proprio Paese. Io sono stato un traditore, un terrorista, un nemico dell’Italia, uno a cui dare la caccia. Uno che ha odiato la sua terra. Per combattere la mafia dovevo combattere la gente, i miei colleghi, la mia famiglia, i miei superiori e il loro modo di pensare. Ero io quello difettato, perché per tutti gli altri non c’era alcun problema. […] La normalità è la mafia. La normalità è dire e pensare che la mafia non esiste. La normalità è credere che sia vero. La normalità è andare a votare, comprare, vivere in un Paese come questo.»

“Un Paese come questo”, un Paese nel quale un poliziotto che vuole combattere una guerra contro la criminalità organizzata deve farlo senza mezzi e senza ‘organizzazione’, perché la sua squadra viene decimata di continuo dalla burocrazia, dai trasferimenti, dalle intimidazioni, dalle pressioni… un Paese nel quale se un poliziotto vuole catturare i vertici della Cupola viene minacciato e gambizzato, dai suoi colleghi e diretti superiori prima che da quelli che riteneva essere i suoi avversari, alcuni dei quali, per ironia della sorte, si riveleranno essere poi dei validi alleati, seppur motivati da ragioni differenti.
Riemerge con grande forza nel testo di Glaviano il problema serio dell’informazione, o meglio della disinformazione del nostro Paese fatta per la gran parte di notizie banali e scontate, già assimilate come possibili o probabili e passate dai media nazionali come il decalogo delle cose da sapere nell’illusione indotta di aver avuto accesso a tutte le info che bisognava conoscere per essere o diventare delle ‘persone informate’. Invece no. Per la maggiore si tratta di notizie preconfezionate o verità edulcorate e solo in minima parte rispondenti ai fatti.

«Io servivo a ripulire Pandolfo. Con la denuncia della richiesta di pizzo lui diventa un imprenditore vergine, perché si è dimostrato onesto e ha lottato contro la mafia. Lo Stato ha visto tutto: ci sono i filmati che testimoniano il mio tentativo di estorsione. Così lui viene protetto dallo Stato e può chiedere i soldi all’Europa. Risultato: tanti soldi. Tra poco, con il parco eolico e quello fotovoltaico, ci sarà lavoro per molta gente, qui a Prezia. E il lavoro significa voti e i voti forza politica… Per avere i fondi europei serviva che Prezia fosse un po’ più pulita. Serviva un arresto eccellente… Il vecchio boss è malato, e ora si potrà curare a spese dello Stato.»

Gli eclatanti arresti di decennali latitanti passati da stampa e tg come grandiosi colpi inferti alla criminalità organizzata che in realtà altro non sono che frutto dell’accordo stretto tra uomini di Stato e uomini di Mafia. Ci si interroga su dove possa mai trovare la forza per continuare a combattere un poliziotto a cui viene mostrata la foto del suo dirigente immortalato tra boss e capi-mandamento.

«Erano tutti insieme: politica, Polizia, Carabinieri, mafia. Mancava un prete a benedire e sarebbe stata la cartolina perfetta della Sicilia.»

Non bisogna dimenticare però, come popolo, che il vero Stato siamo noi e questa sarebbe la vera grande Rivoluzione che assesterebbe durissimi colpi alle organizzazioni criminali e ai collusi. Rete e solidarietà per creare la forza necessaria e propedeutica a un reale cambiamento. Il protagonista indica la strada suggerendo di ‘imitare’ i mafiosi che creano gruppi compatti e impenetrabili e con essi generano la paura nelle persone isolandole, lasciando credere loro di non avere alternative. Solo prendendo coscienza che non è così si può svoltare, insieme.
E non basta e non serve più neanche tentare di giustificare la propria passività circoscrivendo il problema e additandolo come ‘siciliano’. I fatti di cronaca ormai ci smentiscono da anni.

«Lui il sesto senso non ce l’aveva e non capiva che il Nord era stato già colonizzato. La Sicilia ha sicilianizzato l’Italia. L’ha infettata con il morbo di Cosa Nostra. Ecco perché ho deciso di tornare giù. Giù o su era la lo stesso. […] Si lavorava, si rubava, si approfittava di questo. Ma nessuno vedeva, nessuno sentiva e nessuno parlava. Tutti muti. Tutti vigliacchi. Da Nord a Sud, da Est a Ovest: ogni italiano. I figli, i padri, le madri, i vivi e i morti. Avevo visto che eravamo tutti quella cosa. Quella cosa loro era anche Cosa Nostra.»

Il ‘sesto senso’ di cui parla il poliziotto è ciò che i mafiosi chiamano “sbirritudine”, quel fiuto che ti permette di riconoscere un mafioso anche solo da un semplice gesto, da uno sguardo, da una parola. «Sembrano uguali a tutti gli altri e invece sono maliùti. Malacarne in tutto e per tutto.»
Quella stessa “sbirritudine” che per il protagonista del libro diventa una vera ossessione trascinandolo in un tunnel di inganni e ingiustizie tali da sopraffarlo e allora lui sarà talmente preso dal suo lavoro da non trovare le forze per combattere altre battaglie, per salvare il suo matrimonio, per godersi i propri figli… per vivere la propria vita.

«Avevo imparato una lezione importante. Il grigio si nasconde anche nel bianco. Perché tutto è collegato, in Italia. Tutto è connesso. Tutto è colluso. Se tiri un filo strappi il sipario. Se indaghi su una partita di arance avariate di Ribera, alla fine vengono fuori il capo dei capi e i pezzi da novanta della politica.»

Impressiona il leggere di come uomini di mafia abbiano nel tempo conservato più ‘onore’ di certi uomini di Stato. Rattrista il fatto che nel nostro Paese gli impavidi che scelgono di opporsi ai poteri forti e a quelli illegali vengano in genere lasciati soli. Ed è anche per questi motivi che Sbirritudine di Giorgio Glaviano è un libro che va letto, perché certe considerazioni è bene che le faccia ogni italiano, da Nord a Sud, da Est a Ovest.

:: Sbirritudine. Un poliziotto dentro la mafia più feroce. Una storia vera, Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015) a cura di Irma Loredana Galgano

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La Repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi” di Marco Damilano (Rizzoli, 2015)

09 giovedì Apr 2015

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Italia, italiani, LaRepubblicadelselfie, MarcoDamilano, recensione, Rizzoli, saggio

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Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? Sembra essere la domanda che si è posto Marco Damilano quando ha iniziato ad analizzare la situazione politica e sociale dell’Italia contemporanea, che è l’argomento principale de La Repubblica del selfie (Rizzoli, 2015). E per trovare le risposte è partito dalle origini, da quando la nostra Italia repubblicana è nata, apparentemente risorta dalle ceneri devastanti di una guerra e di una monarchia che si è cercato di scacciare e tenere lontane il più possibile dal ‘Nuovo Stato’.

«Il mio ideale politico è l’ideale democratico. Ciascuno deve essere rispettato nella sua personalità e nessuno deve essere idolatrato. Per me l’elemento prezioso dell’ingranaggio dell’umanità non è lo Stato ma è l’individuo creatore e sensibile, è insomma la personalità. È questa che crea il nobile e sublime, mentre la massa è stolida nel pensiero e limitata nei suoi sentimenti». Così Albert Einstein definisce il suo ideale politico e il come i politici sfruttino la massa stolida nel pensiero e limitata nei suoi sentimenti per affermare la propria personalità ben lo descrive Damilano ne La Repubblica del selfie. Per il fisico tedesco nessuno deve essere idolatrato invece la storia politica della Repubblica italiana è piena zeppa di ‘idoli’ i quali indistintamente hanno cercato di captare i bisogni e i malesseri della massa per propagandarli come obiettivi e finalità. Destra, sinistra, centro-destra e centro-sinistra senza distinzione alcuna e se c’è un punto in cui tutte le forze politiche si sono sempre incontrate è proprio nell’aver ‘sfruttato’ il popolo per le personali scalate ai vertici del potere.

Damilano in più punti e per più personaggi evidenzia le analogie come le differenze dei vari leader ma ciò che tristemente emerge dal suo resoconto è la reazione pressoché invariata della gente che immancabilmente ha finito con il credere alle parole del Ciceronedi turno, piena di speranze e aspettative, immancabilmente deluse. E succede anche questa volta con un vero e proprio assalto alla diligenza nel tentativo di salire quanto prima sul carro del vincitore e ciò accade non solo tra gli elettori.

«Dall’uno contro tutti, come appariva Renzi nel 2012, al tutti per uno attuale, quando nella Roma dei palazzi è diventato impossibile trovare un emergente, o un consumato gattopardo, che non si dichiari preventivamente renziano.»

Come abbiamo fatto ad arrivare a questo punto? «La Prima Repubblica era la Repubblica dei partiti. Con l’ossessione della rappresentanza. Nessuno doveva sentirsi escluso dal gioco: nessuna ideologia, nessuna categoria. Tutti dovevano sentirsi coinvolti nella partita. […] La Seconda Repubblica è stata la Repubblica della rappresentazione. Il suo simbolo è stata la tv commerciale che già negli anni Ottanta, prima che il berlusconismo prendesse forma politica, proponeva modelli di vita, rappresentazioni cui uniformarsi. […] La Terza Repubblica, la Repubblica di Renzi, sarà la stagione dell’auto-rappresentazione. Saltare i canali di comunicazione del passato. La Prima Repubblica aveva la Rai, la Seconda la tv commerciale, la Terza Twitter.»

Damilano riprende e ripercorre la storia delle ‘origini politiche’ di Matteo Renzi, dei suoi amici, collaboratori, dei presunti finanziatori e presumibili recruiter. Passaggi importanti, determinanti per analizzare ciò che è stato e soprattutto ciò che sarà, tappe fondamentali della sua ascesa politica che sembrano non interessare alcuno dei suoi fan o followerimmancabilmente pronti a ritwittare ogni cinguettio del selfie-made-man nazionale, come lo ha definito il giornalista Marco Travaglio scrivendo la prefazione a L’Intoccabile. Matteo Renzi. La vera storia di Davide Vecchi (Chiarelettere, 2014).

«Il renzismo è figlio del berlusconismo? Per provare a rispondere bisogna recuperare un documento destinato a restare segreto e rivelato dall’Espresso nell’estate 2012. Il progetto denominato “Rosa tricolore” era stato preparato da esponenti del cerchio magico che circonda Berlusconi vicini al toscano Denis Verdini, il potente padrone dell’apparato forzista. Si prevedeva in breve tempo l’azzeramento di tutto il gruppo dirigente del Pdl (Verdini escluso) e l’ingresso sulla scena di un nome nuovo. Il solo giovane uomo che ci fa vincere: Matteo Renzi, si leggeva nel titolo.»

D’altronde che Renzi sia ben visto e ben voluto dalla cerchia filo-berlusconiana ben lo si evince dalle dichiarazioni di Giuliano Ferrara: «E volete che un vecchio berlusconiano pop, come me, non si innamori del boy scout della Provvidenza?». Un ‘amore’ così forte da sopravvivere anche al ‘tradimento del Patto’ perché, scrive Damilano, «Renzi per Ferrara è qualcosa di più del semplice prediletto del berlusconismo: è il discendente di una cultura che vede l’essenza della politica nella Realpolitik, nell’analisi feroce e spietata dei rapporti di forza, nel cinismo dei patti traditi e dei capovolgimenti di pensiero».

Non dovrebbero stupire e trovare largo consenso a questo punto le accuse di chi punta il dita sul ‘vuoto’ creatosi negli ideali tanto professati dalla Sinistra italiana, la mancanza pressoché assoluta di politiche che rimandano al welfare, al sociale, al collettivo, le accuse di chi vede completamente svuotati di valori e di ideali questi partiti diventati a tutti gli effetti degli uffici di collocamento del business della politica e invece sono veramente pochi gli italiani che ammettono il fallimento e ancor di meno sono gli operatori del settore dell’informazione che scrivono o dicono esattamente come stanno le cose e perché, quelli che il Presidente del Consiglio in carica chiama i “gufi”. Meglio non dire, meglio non riflettere, senza analisi e senza critiche profonde si va avanti a colpi di tweet e selfie che sono o sembrano dei veri e proprio lanci pubblicitari. «Un selfie moltiplicato per milioni di italiani. Auto-scatto, auto-promozione sui social network, auto-identità, auto-referenzialità. Auto-rappresentazione, appunto».

Ne La Repubblica del selfie Marco Damilano scava a fondo nella storia politica contemporanea illuminando quei personaggi o quegli eventi apparentemente distanti, lontani, volutamente o casualmente passati nel dimenticatoio collettivo e li riporta in prima fila, allineando pensieri e riflessioni e regalando al lettore uno spaccato della nostra Repubblica che invita molto alla riflessione e perché no all’autocritica, come italiani ma soprattutto come elettori e, nella «Repubblica di Renzi», anche come follower. L’autore non manca di ricordare che alle scorse elezioni europee il partito democratico ha superato il 40% e ottenuto un consenso che neanche Berlusconi aveva raggiunto, eguagliando la popolarità dei tempi d’oro della Democrazia cristiana.

Per tutte le 270 pagine che compongono il libro Damilano racconta, da giornalista e narratore, una considerevole mole di fatti, accadimenti, riportando dati, informazioni, nomi e luoghi ma lo fa con un linguaggio molto discorsivo, non pesante che, unitamente alla curiosità che nasce nel voler saperne ancora, conduce il lettore voracemente fino alla conclusione che in realtà rappresenta solamente l’inizio di un qualcosa che, nonostante tutto, non si è riusciti a definire fino in fondo.

«“Trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retro pensieri: basta una sera alla tv e finalmente capisci la crisi dei talk show in Italia” scrive mentre sta guardando Piazza Pulita. “Dobbiamo cambiare modo di raccontare l’Italia e la politica” aggiunge. Cambiare il modo di raccontare l’Italia per cambiare l’Italia. Proposito vagamente inquietante, se a esprimerlo è il presidente del Consiglio.»

Mahatma Gandhi sosteneva che «l’uomo si distrugge con la politica senza princìpi, col piacere senza la coscienza, con la ricchezza senza lavoro, con la conoscenza senza carattere, con gli affari senza morale, con la scienza senza umanità, con la fede senza sacrifici».

Marco Damilano, “la repubblica del selfie. Dalla meglio gioventù a Matteo Renzi”

© 2015 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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