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Irma Loredana Galgano

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Hikikomori: il fenomeno dei ‘ragazzi ritirati’ in “Due fiocchi di neve uguali” di Laura Calosso (SEM, 2018)

29 martedì Gen 2019

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Duefiocchidineveuguali, LauraCalosso, recensione, romanzo, SEM

Restarsene in disparte, isolarsi. Scegliere di rimanere volontariamente segregati in casa, nella propria stanza, piuttosto che socializzare, frequentare la scuola o il lavoro. Nessun contatto con il mondo reale ma intensa e protratta attività in quello virtuale, dei giochi e delle chat. Hikikomori è il nome, di origine giapponese, designato per indicare questo triste fenomeno che in Italia, secondo stime riportate sul sito hikikomoriitalia.it, interesserebbe almeno 100mila casi.
Il mondo virtuale, digitale non è però la causa dell’isolamento, bensì un rifugio contro il proprio malessere, che ha origini diverse e svariate. Quali sono allora le cause di questo fenomeno pericolosamente in aumento?

Laura Calosso in Due fiocchi di neve uguali pur raccontando una storia inventata, specificando che il suo libro è un’opera di fantasia, compie un’attenta ed elaborata analisi del fenomeno come delle cause e delle conseguenze.
Nel testo vengono raccontate le storie di tanti adolescenti e, di rimando, quelle dei genitori, protagonisti carnefici e vittime, più o meno consapevoli, più o meno in parti uguali, di quanto accade ai propri figli. E di quello che diventano negli anni che li trasformano da bambini in ragazzi e poi in adulti.
Ragazzi apparentemente così diversi eppure, in fondo, tanto simili, accomunati da quell’insidioso malessere, che è proprio mal di vivere, e che li rende taciturni, melanconici, rabbiosi o addirittura frenetici ed euforici.

Margherita, Carlo, Marta, Gabriele, Umberto… sono tutti “sbandati”, anche se ognuno a modo proprio. Non hanno punti di riferimento, né solide e valide linee guida lungo cui scorrere per crescere e maturare la propria esistenza. Sono tutti “ragazzi ritirati”, anche se agli occhi degli altri solamente Carlo lo è, perché lui lo è fisicamente. Dal momento in cui si è chiuso nella sua stanza nella speranza, vana, di lasciare il resto del mondo fuori è apparso chiaro a tutti il suo ‘problema’. Ma il suo isolamento, il tempo trascorso al computer a chattare o a disegnare non è la malattia, è un sintomo. È la manifestazione di un problema. E sarà proprio la sua visibilità, forse, a salvarlo. Contrariamente a Margherita, il cui malessere invece se l’è portato sempre dentro, ben nascosto da un’apparente calma e determinazione.

E poi ci sono i genitori nella storia raccontata dalla Calosso. Adulti che hanno più problemi esistenziali dei figli. Insoddisfatti, depressi, smaniosi di trasfondere loro i propri desideri, incuranti del fatto che queste giovani esistenze non rappresentano lo sfogo delle proprie frustrazioni o l’incarnazione di una seconda opportunità per i propri desideri irrealizzati. I figli sono persone che hanno sogni, desideri, aspirazioni, emozioni, sentimenti… indipendenti e autonomi, a qualunque età.
Genitori che non sanno più fare i genitori, così presi dai loro problemi personali o dalla smania di apparire, di sembrare il successo cui tanto ambiscono, che dimenticano di educare i propri figli alla vita. La vita quella vera.

Il registro narrativo scelto da Laura Calosso in Due fiocchi di neve uguali è molto intimistico, introspettivo, profondo, intenso. Lo stile della scrittura si adatta perfettamente al narrato. L’ambientazione assume un significato quasi evanescente rispetto alle storie che si stanno ivi consumando. I luoghi sono ben descritti e definiti, scelti con cura meticolosa e altrettanto attentamente raccontati attraverso gli occhi dei protagonisti, in particolare quelli incuriositi di Margherita. Eppure sembrano rimanere sempre nell’ombra. Come fossero fragili ologrammi che si spengono in batter di ciglia, scompaiono per poi riapparire sotto nuove forme e colori. La scena si sposta senza alcun intralcio per il lettore da una camera semibuia e disordinata ai paesaggi incantevoli della Costa azzurra, dalle aule di un liceo torinese alla camera di un ospedale. Ed è proprio in quest’ultimo luogo che il tempo, come lo spazio, sembrano dilatarsi oltremisura, esattamente come il dolore di una madre che realizza di non conoscere affatto la propria figlia. Di aver sempre erroneamente pensato che, siccome si comportava come le sue coetanee, dovesse per forza essere come loro. Che i problemi risiedessero altrove, lontano. Magari in quelle storie di droga e altro raccontate alla televisione. Non in sua figlia. Non dentro di lei. Pensava che il male potesse giungere solo da fuori e mai dall’interno.

Il malessere invece nasce dal sentirsi diversi. Diversi e incompresi. Soprattutto quando i genitori, la scuola e la società non chiedono altro che vedere la “normalità”, quella falsa che non ammette possano esistere due fiocchi di neve che non siano perfettamente uguali.


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“Arma Infero. Il mastro di forgia” di Fabio Carta (Inspired Digital Publishing, 2015)

29 martedì Gen 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ArmaInfero, FabioCarta, fantascientifico, fantascienza, fantasy, InspiredDigitalPublishing, recensione, romanzo

Gli appassionati di fantasy amano immergersi in queste interminabili saghe dalle quali spesso vengono tratti altrettanti “corposi” film. Se lo scopo di questo genere di letture è l’estraniarsi completamente dal mondo reale per immergersi in quello immaginato dallo scrittore per i suoi lettori, allora le migliaia di pagine che vanno a comporre queste opere letterarie possono anche sembrare una quantità equa, giusta. Se invece lo scopo di chi legge è trovare anche altro l’impresa può farsi oltremodo ardua.

Fabio Carta, che in apertura del libro mette nero su bianco la sua passione per Guerre Stellari, per Star Trek e per tutto ciò che riguarda il genere, resta pienamente fedele alla tradizione e scrive una trilogia, Arma Infero, di cui solo il primo libro conta quasi settecento pagine. L’opera di Carta somiglia molto a un distopico all’interno del quale l’autore è riuscito a inserire i frammenti dell’altra sua grande passione: la Storia. E questo è fuor di dubbio l’aspetto più originale del libro. Un mix di narrazioni fantastiche e storiche che oppongono e al contempo legano due mondi: quello terrestre e il pianeta Muareb.

Quello che invece non convince è il linguaggio scelto dall’autore. Troppo carico di espressioni lontane dall’uso quotidiano, ancora una volta ottenute dalla sintesi del vecchio (la Storia) con il nuovo (l’extra-terrestre). Per quanto riguarda il registro linguistico forse Carta ha marcato troppo la sua volontà di dare un carattere forte e deciso al suo testo, che appare in questo modo a tratti molto appesantito proprio dal linguaggio eccessivamente ricercato.
I personaggi sono ben delineati e il lettore impara fin da subito a riconoscerli e identificarli all’interno del narrato. Sulle eccessive descrizioni ambientali invece vale un discorso analogo a quello fatto per il linguaggio. Il voler definire con la scrittura ogni dettaglio anche minimo toglie un po’ di spazio alla fantasia del lettore e appesantisce la narrazione.

Si intravede nel racconto una denuncia per la distruzione protratta e inarrestabile cui viene sottoposto continuamente il pianeta Terra da parte dei suoi abitanti umani e questo è senz’altro un aspetto molto interessante che lega il romanzo all’attualità. Aspetto che però Carta preferisce lasciare a margine della vicenda narrata. D’altronde si sta parlando di un fantascientifico e non di un romanzo-denuncia. Altri autori contemporanei di questo genere narrativo o cinematografico però hanno scelto di spostare l’attenzione anche su questa tipologia di “denuncia” e il risultato è sembrato molto interessante. Si riportano a titolo di esempio i libri della trilogia Silo di Hugh Howey o le opere di James Cameron, in particolare Avatar. Nel primo caso l’autore, attraverso la narrazione degli eventi, denuncia in maniera velata ma decisa le scelte politiche ed economiche spietate e immotivate dei governi occidentali, in ispecie quello americano. Nel secondo invece il regista canadese porta gli spettatori, attraverso le azioni degli avatar, a conoscere il mondo meraviglioso degli autoctoni di Pandora, facilmente identificabili con i nativi o con gli indios. Un universo incontaminato che rischia l’estinzione a causa dell’avidità economica degli esponenti del mondo “civilizzato”.
Fabio Carta scegli un finale aperto, del resto doveva già avere in mente i sequel al momento in cui ha scritto il primo libro, Il mastro di forgia. Pratica molto comune tra gli autori di fantasy.

Un libro, Arma Infero. Il mastro di forgia di Fabio Carta che nel complesso non delude di certo gli appassionati del genere che potranno immergersi nell’immaginario mondo di Muareb, lasciarsi stregare dall’intreccio serrato di accadimenti, intrighi e misteri sempre in bilico tra passato, presente e futuro.


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Dove sta l’umanità? “Carnaio” di Giulio Cavalli (Fandango Libri, 2018)

28 venerdì Dic 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Carnaio, Fandango, flussimigratori, GiulioCavalli, migrazioni, monocolooccidentale, recensione, romanzo

Cadaveri ripescati in mare. Ecco qual è l’immagine che Giulio Cavalli sceglie come overture del suo nuovo romanzo Carnaio, edito da Fandango Libri. Il fotogramma più cruento e drammatico di questa enorme e globale emergenza che sono diventate le migrazioni di popoli.
Perché alla fin fine, se passassimo al setaccio l’intero “problema”, non resterebbero che la morte e il dolore. Oppure entrambi.

Morte e dolore che finiscono, inevitabilmente, per alimentare dibattiti infiniti generati, si racconta, dal bisogno di solidarietà e umanità. Motivati, in realtà, per la gran parte, da ipocrisia o peggio opportunismo.
E non dimentica certo di parlare di tutto questo Giulio Cavalli in Carnaio. Racconta nel dettaglio tutta la grande ipocrisia che si può accumulare anche in un piccolo paese arroccato su delle aspre scogliere, abitato per la maggiore da pescatori o figli di pescatori, da sindaci figli di sindaci, da preti che non perdono occasione per fare la morale anche quando tutti sanno che facilmente si lasciano tentare dal gentil sesso, anche senza il gentile.

Carnaio sembra essere un romanzo corale, grazie soprattutto all’espediente narrativo adottato dall’autore di dare voce a più protagonisti. In questo modo lo stesso accadimento viene osservato e commentato da diversi punti di vista e il lettore può “ascoltare”, ovvero leggere, le differenti opinioni in merito, esattamente come accadrebbe e come accade per un fatto reale.
Il narrato di Cavalli è originato dalla sua fantasia di scrittore certo ma è egualmente molto realistico, cruento e “crudele”. Nel senso che descrive, immaginando una storia, esattamente quello che accade da anni, decenni e che ha trasformato, purtroppo, il Mare nostrum in un’immensa pozza di morte, ingiustizie, dolore, indifferenza e opportunismo.

Cavalli è politicamente attivo e, giornalisticamente parlando, molto prolifico. La sua opinione, categorica, in merito a quanto sta accadendo non è certo un mistero, eppure egli riesce, con la dote che è propria di chi è scrittore e non semplicemente perché tale si dichiara, che siano il racconto e la narrazione a parlare, non i pregiudizi e i preconcetti che possono scaturire da posizioni eccessivamente rigide.
Ovvio che il libro è scritto dall’autore, e sempre lui ha scelto cosa far dire ai protagonisti e cosa no, ma l’impostazione del narrato, pur nella sua causticità, lascia libero il lettore di formarsi una propria opinione. In questo caso in base alla propria coscienza. E alla propria umanità.

Nel testo si ritrovano tutti gli aspetti e gli sviluppi del fenomeno migratorio che campeggia nei titoli di giornali e telegiornali quasi sempre per notizie o eventi drammatici, disastrosi. Una crisi umanitaria derivata dalla degenerazione dell’umanità che ha scelto di votarsi e immolarsi verso la crescita economica a ogni costo. Inarrestabile. Anche laddove è palese ormai che a rimetterci sono la stessa umanità e il pianeta che la ospita.

Giulio Cavalli è un ottimo narratore, sa bene cosa raccontare e come farlo. La domanda da porsi è: quale sarà il messaggio che il lettore vorrà raccogliere?
Si sceglierà di aver letto un semplice romanzo oppure si ammetterà di aver letto la versione romanzata di una triste realtà? Si preferirà archiviare il libro come semplice narrativa oppure si ammetterà di avere tra le mani la versione letteraria del resoconto “storico” di una struggente attualità?
L’autore ha lasciato libero il lettore di fare le proprie scelte. Non poteva fare altrimenti del resto.

In Carnaio Giulio Cavalli mantiene intatta la sua grande capacità di scrittura. Uno stile coinvolgente che cattura il lettore fin dalle prime battute. Quasi un rapimento sensoriale per l’intera durata della lettura di quella che acquisisce a tutti gli effetti i connotati di una accuratissima pièce teatrale. Una scena costruita intorno a un fenomeno troppo carico di dolore e sofferenza per poter lasciare umanamente indifferente chi legge. Al pari di quando si apprendono simil eventi nei resoconti di cronaca. Peggio se nera. Sprazzi di solidarietà ed empatia che vanno o andrebbero poi tradotti in mutazioni radicali di comportamenti singoli e globali altrimenti si rischia la banale retorica. Ma questo è un altro discorso. Chi scrive concorda con l’autore nel lasciare piena libertà al lettore o allo spettatore, in base alla coscienza che ognuno ha o ritiene di avere.


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Cosa significa davvero scegliere di essere un medico in Italia? “Dal profondo del cuore” di Ciro Campanella (Di Renzo Editore, 2017)

08 sabato Dic 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CiroCampanella, Dalprofondodelcuore, DiRenzoEditore, recensione, romanzo

Tagli all’istruzione. Tagli alla sanità. Scelte politiche e non mediche. Organizzazione d’interesse e non di necessità. Dirigenti che devono diventare manager e dipendenti schiavi. Il tutto senza soldi. O meglio, con una distribuzione irresponsabile dei fondi. Quando, in Italia, si parla di malasanità, giustamente, ci si riferisce alla scarsa qualità dei servizi offerti all’utenza, ai pazienti, ovvero ai malati che si rivolgono al servizio sanitario nazionale per ricevere le supposte dovute cure. Ma bisognerebbe includere e ricordarsi, ogni volta, che di malasanità soffrono anche le persone (medici, infermieri, operatori socio-sanitari, …) i quali ogni giorno affrontano davvero il problema, sulla propria pelle.

È la politica che decide cosa spetta ai pazienti. Quali esami, quali farmaci, se e quanti giorni di degenza, se e quali tipi di intervento… Sulla base delle linee guida nazionali e internazionali certo ma, soprattutto, seguendo la logica di interessi che spesso non sono né medici né professionali e in base a quanti fondi si riescono a destinare.
Quali conseguenze ha tutto questo sulla vita, sulla psiche, sulla carriera e sull’essere di un medico che non è un politico e neanche un burocrate?

Leggere Dal profondo del cuore di Ciro Campanella aiuta a farsene un’idea precisa. Un libro, definito dallo stesso autore un diario edito lo scorso anno da Di Renzo Editore, che racconta la parabola professionale e personale di un ragazzo che sceglie di fare il medico perché «fare qualcosa di positivo per gli altri è ciò che porta maggiori premi morali». Una scelta che è solo l’inizio di un lungo percorso di studio e lavoro che lo ha condotto a girare gli ospedali del mondo per imparare le tecniche migliori, il metodo e il modo per salvare le persone. Per cercare di farlo. Per riuscirci il maggior numero di volte possibile.

La vita è fatta di questo in fondo, «di scelte, talvolta crudeli, talaltra avventurose. E non sai mai se hai fatto quella giusta, finché non ne paghi il conto». E Campanella ne ha pagato uno salato. Tanti anni lontano gli avevano fatto dimenticare cosa è in realtà la sanità in Italia. La scelta di ritornare gliela ha sbattuto di nuovo in faccia quell’inadeguatezza che aveva percepito già da studente. Quel metodo sbagliato di affrontare politicamente scelte e decisioni che devono, o dovrebbero essere, solo mediche e scientifiche.

Ciro Campanella ha lavorato come cardiochirurgo in Sudafrica, in Scozia, in Cina, India, Stati Uniti, Europa, Turchia. Ha conosciuto aspetti della vita e del mondo che in tanti ignorano del tutto. Ha lavorato e studiato sodo eppure scrive un libro adottando uno stile narrativo che è l’emblema della semplicità e della linearità. Sembra raccontare le esperienze della sua vita attraverso gli occhi sognanti e disincantati di quel giovane uomo che sceglie di fare il medico e salvare vite umane per ottenerne in cambio ‘solo’ premi morali.

Dal profondo del cuore di Ciro Campanella è fuor di dubbio un diario all’interno del quale l’autore racconta la sua personale esperienza ma rappresenta per certo anche il racconto, la denuncia di un sistema sanitario che mette colui che dovrebbe esserne il fulcro, ovvero il paziente, in ultima posizione. Lo ignora come ne ignora i reali bisogni. E questo è sotto gli occhi e sulla pelle di tutti e di ogni cittadino italiano che ogni giorno si vede costretto a lottare per vedere riconosciutogli un diritto che dovrebbe essere già acquisito: il diritto a ricevere adeguate cure e un trattamento dignitoso. Non è così e non lo è da tanto di quel tempo che si potrebbe anche ipotizzare non lo sia mai stato.

Un libro, Dal profondo del cuore, scritto con uno stile semplice e lineare ma che affronta un problema complesso e grave. Un diario che merita senz’altro di essere letto anche perché spinge il lettore a guardare oltre la storia personale ivi narrata e volgere lo sguardo verso l’origine del problema, la causa. Perché è da lì che deve o dovrebbe partire il cambiamento se si desidera che sia reale, concreto ed efficace.


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Tanta spiritualità nascosta dietro una pungente ironia: “Cammino doppio” di Serenella Baldesi (AUGH! Edizioni, 2017)

03 venerdì Ago 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AUGH!, CamminoDoppio, recensione, romanzo, SerenellaBaldesi

Un romanzo molto intimistico, Cammino doppio di Serenella Baldesi. Lo stesso può dirsi dello stile narrativo. Il racconto scorre attraverso i pensieri della protagonista che osserva, riflette, commenta, scrive e descrive tutto ciò che accade dentro e fuori se stessa. Ed è attraverso questo “filtro” che il lettore scopre il romanzo, la protagonista e la sua storia. Nonché il paesaggio e gli scenari da lei visti lungo il Cammino che la condurrà, insieme ai compagni di viaggio, a Santiago de Compostela.

L’ironia spesso presente nei pensieri e nelle parole di Alex, espressione neanche troppo velata di un maturo cinismo, strappa ripetuti sorrisi al lettore e contribuisce ad alleggerire il “peso” della lettura. Riesce l’autrice a non trasformare la sua creazione letteraria in un troppo scontato romanzo di formazione o, peggio, in un libretto educativo-informativo dei benefici mistici del Cammino.

Un libro che si fa leggere, Cammino doppio. Pur nella apparente semplicità del registro narrativo e del narrato si rivela e si conferma fino in fondo una lettura interessante e, direttamente o indirettamente, introspettiva.

La protagonista, Alessandra detta Alex, pagina dopo pagina, conquista sempre più il lettore. Una vera e propria eroina contemporanea alle prese con tutti i problemi di una vita “crudele” e “spietata” come solo quella vera può essere. Lei stessa realizzerà lungo il Cammino che i problemi reali sono altri però e che i sassi che si porta nel cuore e nello zaino possono essere trasformati in sogni o in realtà, spetta solo a lei decidere, scegliere e agire.

Ottima la rappresentazione, volontaria o involontaria che sia stata, che la Baldesi fa dell’uomo-donna contemporaneo medio, culturalmente parlando, che conosce e riconosce tutte le marche commerciali, tutti i loghi e i brand ma ignora o mal ricorda le fonti, quindi gli autori, delle citazioni letterarie o storiche. Che ha fretta e voglia di condividere sui social ogni istante della propria esistenza che, altrimenti, gli sembrerebbe quasi inutile, vuota. Che conosce ogni aspetto della vita e delle azioni del suo calciatore preferito, della squadra cui appartiene, dell’industria posta in essere per promuoverlo e ignora del tutto aspetti che dovrebbero interessarlo davvero. Offre, in questo modo, la Baldesi uno scorcio di un’umanità alla deriva che proprio grazie al Cammino, o comunque anche per esso, ritrova o sembra ritrovare i propri argini.

Quello che forse delude un po’ il lettore, o quantomeno lo disillude rispetto alle premesse, è il finale. Troppo romanzato rispetto al taglio che l’autrice sembrava volesse dare al suo libro, all’immagine se vogliano a suo modo rivoluzionaria della protagonista la quale, invece, sembra perdere molto del suo “ironico” fascino rischiando di trasformarsi nell’ennesima donzella in pericolo salvata dal prode cavaliere in sella al valoroso destriero.

Nel complesso comunque Cammino doppio di Serenella Baldesi viene giudicato positivamente e considerato una lettura da consigliare, leggera ma con stile.

Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’addetta stampa per la disponibilità e il materiale


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La musica come rinascita spirituale. “Il pianoforte segreto” di Zhu Xiao-Mei (Bollati Boringheri, 2018)

31 martedì Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ilpianoforte segreto, Occidente, Oriente, recensione, romanzo, ZhuZiaoMei

Da sempre la musica, ma andrebbe detto l’arte in generale, detiene un immenso potere: quello di muovere e smuovere le masse, il popolo. Ed è per questo che gli artisti, soprattutto quelli definiti “ribelli” o “rivoluzionari” perché non accettano di livellarsi agli altri, che non mentono ma raccontano senza veli la verità, sono considerati pericolosi per «la loro costante messa in discussione della realtà, e la loro sempre maggiore richiesta di libertà».

Tutto ciò era ben chiaro anche a Mao Zedong il quale affermava che «i cinesi non saranno mai più un popolo di schiavi», riferendosi al capitalismo e all’Occidente e a tutte quelle che considerava devianze e perversioni culturali. Mai più schiavi delle idee e ideologie altrui quindi… solo delle proprie. Infatti il suo regime non ha creato progresso, civiltà, cultura, innovazione. Quella che lui stesso e i suoi sostenitori chiamavano “Rivoluzione Culturale” altro non è stata che una dittatura di colore opposto a quelle più tristemente note. Che ha avuto i suoi seguaci, i suoi oppositori, i perseguitati e i reietti. Gli impuri, come la famiglia di origine di Zhu Xiao-Mei, rei di essere “musicisti e intellettuali”.

Bollati Boringheri pubblica a giugno di quest’anno la versione tradotta da Tania Spagnoli de La Rivière et son secret di Zhu Xiao-Mei, appellandola Il pianoforte segreto. Si percepisce, nel libro di Zhu Xiao-Mei, una grazia, una semplicità, una naturalezza, nel racconto come nella scrittura, che sono affatto comuni.
Un libro che non è il racconto di chi vuol apparire, o di chi vuol insegnare, no, Il pianoforte segreto narra “semplicemente” una storia. Vuole aprire al mondo una biografia che non è solo quella personale dell’autrice bensì di una nazione intera, la Cina, alle prese con un potere che, professando uguaglianza e parità, ha finito con il generare solo ingiustizia e povertà, economica e culturale.
Anche le idee migliori quando diventano ideologie imposte ad altri e rappresentano quindi delle imposizioni esplodono per intero nella loro accezione negativa.

Il pianoforte segreto può essere definito un libro lento. Una scrittura che si sofferma nei dettagli, precisa nel raccontare aspetti che, se anche in un primo momento possono apparire secondari o addirittura irrilevanti, si sveleranno poi tutti fondamentali per poter ammirare il quadro che l’autrice ha dipinto con la sua penna, o meglio ancora l’aria che le sue mani hanno sentito e suonato al pianoforte. In questo modo Xiao-Mei ha scritto lo spartito della sua esistenza che si intreccia a quella di tanti altri giovani cinesi illusi prima e disillusi poi dalla Rivoluzione Culturale tanto attesa, di tanti uomini e donne, anche occidentali, che con impegno e dedizione trovano il loro personale riscatto, emblema e simbolo di un’evoluzione più ampia che nasce e può nascere solo allorquando si accetta di «mescolare le culture e farle dialogare».

Mao affermava che la Cina «è povera e bianca, ma su una pagina bianca si possono scrivere dei bei poemi». Purtroppo a fare eco alle sue parole non arrivarono i poemi bensì la carestia, la povertà, il nero di una cultura svuotata e oscurata, le sedute di denuncia e autocritica, gli istituti di correzione e tutto quanto poteva servire per nascondere quanto più a lungo possibile il fallimento della sua ideologia.

Le pagine prima bianche del suo libro Xiao-Mei invece le ha riempite di parole utili. Necessarie innanzitutto alle vittime della Rivoluzione Culturale. Ma anche a coloro i quali, come la stessa autrice, quella Rivoluzione l’hanno superata e hanno avuto la possibilità di una «rinascita spirituale», grazia all’arte in generale ma, soprattutto, alla musica. Grazie ad essa Zhu Xiao-Mei afferma di aver ritrovato la propria umanità.
Un libro assolutamente consigliato, Il pianoforte segreto di Zhu Xiao-Mei, anche per conoscere a fondo un periodo storico ancora alquanto sconosciuto in Occidente.


Articolo originale qui


Disclosure: Fonte trama libro e biografia dell’autrice www.bollatiboringheri.it


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Le nuove frontiere della suspense: “Alla ricerca della vita”, il thriller ‘biologico’ di Giovanni Nebuloni (13Lab, 2018)

18 mercoledì Lug 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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13Lab, Allaricercadellavita, GiovanniNebuloni, recensione, romanzo, thriller

Nulla si teme più per la salute di un’epidemia. Ne Alla ricerca della vita Giovanni Nebuloni ne ha immaginato una di cancro umano trasmissibile.
Un thriller originale quello scritto da Nebuloni e pubblicato a marzo di quest’anno da 13Lab. Un giallo pieno di suspense che lui stesso ama definire ‘biologico’. E, in effetti, non è solo e non è tanto l’azione volontaria degli uomini a generare l’intrigo quanto quella della natura, o meglio della biologia animale, cui l’uomo appartiene.

La ricerca della vita che l’autore fa compiere alle protagoniste del libro sembra essere più uno scavo profondo nel torbido dell’animo umano, mosso da sentimenti di rivincita, di rivalsa, di supremazia. Scienza e vita si incontrano e si scontrano brutalmente all’interno di un laboratorio nella lontana e misteriosa città di Johannesburg, in South Africa. Uno scontro dove sembra uscirne vittoriosa solo la morte. Ma è un inganno. Oppure no.

Si è certamente divertito Giovanni Nebuloni a ‘sfidare’ i suoi lettori in un gioco di azioni e reazioni, emozioni e riflessioni, un vortice esistenziale che rasenta a tratti l’esistenzialismo puro.

Ad accogliere il lettore è una citazione di Gabriel García Márquez che racchiude in sé il senso estremo anche del libro di Nebuloni.

«Lo turbò il sospetto che è la vita, più che la morte, a non avere limiti».

Nebuloni è giunto al decimo romanzo e sta portando avanti la sua ricerca sulla conoscenza ma anche sulla scrittura. E sull’intreccio di entrambe. Per il fondatore della Fact-Finding Writing (Scrittura conoscitiva – Scrivere per conoscere) infatti l’immobilità, del corpo ma soprattutto della mente, se non proprio deleteria è di sicuro inutile. Il movimento implica invece evoluzione e, pertanto, «eventualmente, anche la vita – si pensi alle erbe che tenacemente, partendo dal seme attecchiscono nel cemento». Oppure, ritornando al nuovo romanzo, alle cellule che mostrano metamorfosi e cambiamento, ai corpi che generano anticorpi, alle malattie, alle epidemie come pure le resistenze immunitarie alle medesime.

La vita, la natura, la biologia, la scienza e la medicina… che nel libro di Nebuloni si fondono al mistero, alla suspence, all’intrigo e sono tenute insieme, non solo e non tanto dalla storia narrata, quanto dallo stile della narrazione. Una scrittura che appare studiata, maturata proprio per raccontare questo genere di storie.

I personaggi, come l’ambientazione stessa, a volte appaiono troppo mutevoli e sfuggenti, quasi evanescenti. Sembrano sfuggire al lettore che vorrebbe meglio inquadrarli, definirli. Ma forse è una scelta voluta dell’autore che permette in questo modo una migliore concentrazione proprio sulla scrittura, sulla evoluzione del suo percorso narrativo e conoscitivo.

Le storie dei romanzi di Nebuloni sono comunque auto-conclusive per cui il lettore, anche laddove non avesse seguito il suo percorso o non avesse letto le precedenti pubblicazioni, non riscontrerà alcun intoppo in tal senso nel leggere Alla ricerca della vita. Un testo interessante, nell’ottica del percorso di scrittura conoscitiva che Nebuloni segue da anni, ma valido anche come mera lettura di un thriller, in questo caso ‘biologico’.


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Source: Si ringrazia l’autore, Giovanni Nebuloni, per la disponibilità e il materiale


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È la lavorazione a fare il libro, non i singoli ‘ingredienti’: la ‘ricetta’ di Giovanni Ricciardi intervistato per “Gli occhi di Borges” 

L’importanza di indagare sul senso della vita ne “Il segreto del coltivatore di rose” di Antonino La Piana (Falco Editore, 2016) 

Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza” (Bompiani, 2017) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“A bon droit” di Luciana Benotto (La Vita Felice, 2017)

22 venerdì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Abondroit, LaVitaFelice, LucianaBenotto, recensione, romanzo, romanzostorico

C’è una condizione essenziale per scrivere un buon romanzo storico: la passione per la Storia. Qualità che di certo non manca a Luciana Benotto, la quale a novembre 2017 è ritornata in libreria con A bon droit. Il piacere della vendetta, edito sempre con La Vita Felice, come il suo precedente lavoro, Il Duca e il Cortigiano, imprese d’arme e d’amore. Una conoscenza dettagliata del periodo storico, dei personaggi che sono poi diventati i protagonisti del romanzo, un grande amore per i luoghi e le opere, sia pittoriche che architettoniche, sono lo sfondo e, al contempo, lo scheletro portante del libro della Benotto.

Il Rinascimento italiano visto attraverso gli occhi avidi della vendetta, i fasti del lusso e del potere minati da tensioni, intrighi, tradimenti… il tutto tenuto insieme da uno stile narrativo minuzioso che a volte sembra perdersi nei dettagli pur non cedendo mai alla monotonia o alla fastidiosa ripetizione.
Un tuffo in un passato che è più che mai presente, nelle vicende riscontrabili ancora come nei luoghi. Apprendere e immaginare i palazzi e le tenute com’erano un tempo invoglia il lettore a conoscerle e scoprire come sono oggi diventate. Luoghi che la Benotto deve conoscere a fondo, e amare.

Ci sono emozioni, sensazioni che la mera fantasia non può rimandare al lettore attraverso le sole parole scritte e poi lette, è lo scrittore che deve vivere o “appropriarsi” di determinati sentimenti e metterli nero su bianco come se fossero i propri. Solo in questo modo il lettore li ritroverà, leggendoli, e li farà a sua volta propri. Luciana Benotto riesce molto bene in questo al punto che, a tratti, i suoi personaggi diventano quasi comparse del discorso, o meglio del dialogo che lei stessa intrattiene coi suoi lettori.

Una lettura per certo consigliata agli amanti del romanzo storico, A bon droit di Luciana Benotto, e anche a coloro che amano “il piacere della vendetta”.

LUCIANA BENOTTO: laureata in Lettere Moderne, insegna in una scuola superiore. Ha collaborato a rubriche di Cultura per diverse testate, anche nazionali. I suoi scritti sono stati selezionati come finalisti a numerosi concorsi letterari. Ha scritto diversi romanzi e racconti. Organizza, con l’associazione culturale equiLibri, eventi letterari e artistici.


Source: Si ringrazia l’autrice, Luciana Benotto, per la disponibilità e il materiale.


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La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

20 mercoledì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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GuerinieAssociati, intervista, Ioavvocatodistrada, MassimilianoArena, romanzo, saggio

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Massimiliano Arena si augura che «i giovani di oggi facciano un po’ meno master, meno corsi di perfezionamento e di aggiornamento, e si buttino un po’ di più sulle strade del mondo, a fare esperienze di vita. A sentire odori, anche nauseabondi. Sporcarsi mani e piedi», perché lui crede nella propria professione. Lui vede nell’avvocato “l’angelo custode” del cliente, un suo alleato. Eppure, nell’immaginario collettivo e anche nella gran parte della realtà in cui anch’egli vive e lavora, il legale è, troppo spesso, uno scaccia-guai avido di denaro che non disdegna di difendere anche corrotti, assassini e malavitosi pur di vedersi accreditata la lauta parcella.

Ma chi sono davvero gli avvocati e, soprattutto, chi è Massimiliano Arena e cosa fa con lo sportello Avvocati di strada? Ne abbiamo parlato in un’intervista in occasione dell’uscita del suo libro, Io, avvocato di strada edito da Baldini+Castoldi.

Prima di entrare nel vivo del suo libro, se mi permette, vorrei chiedere la sua opinione riguardo la dichiarazione di Giuseppe Conte: «Sarò l’avvocato di tutti gli italiani». E subito su social e web si sono scatenati adducendo come motivazione più diffusa la non necessità di avere un avvocato. Ciò è dovuto forse anche al fatto che un supporto legale viene associato quasi sempre a qualcosa di negativo. Lei come commenta la dichiarazione del Presidente del Consiglio e la reazione del “popolo della Rete”?

Credo che il premier Conte volesse fare leva sulla sua biografia personale, per dimostrare continuità tra l’impegno forense e l’impegno politico. La nostra cultura ci impone di pensare al paziente dello psicologo come a un matto e al cliente di uno studio legale come ad una persona nei guai o, peggio, malavitosa. Nella cultura anglosassone l’avvocato è una sorta di angelo custode. L’avvocato negli Usa è un alleato del quotidiano, piuttosto che una risorsa da attivare in caso di urgenza e necessità.

Al di là di tutto non mi cambia nulla la dichiarazione del Premier, tanto meno la reazione del web. Andiamo alla sostanza delle cose, al saper fare, al saper essere.

Poi, beato il popolo che non ha bisogno di eroi, di avvocati e di giudici.

Nello specifico della sua esperienza personale invece lei si è quasi subito scontrato con un mondo diverso da quello immaginato. Dilaga un atteggiamento arrivista e opportunista tra i suoi colleghi. Com’è stato l’impatto con la realtà?

Devo ammettere che la esperienza come avvocato di strada ha salvato l’amore per questo lavoro e l’attaccamento ai valori e agli ideali da cui trae origine. È ovvio che ogni mestiere, arte e professione può essere contaminata da luoghi comuni e anche quella forense è una professione non immune da questo vizio.

Io me la tengo stretta e credo che sia una professione, o forse un’arte, nobile al pari di quella medica, nella misura in cui ripristina dignità e diritto, e di conseguenza migliora la salute dell’individuo e della comunità.

So di essere stato oggetto di derisione, di scherno da parte di tanti colleghi, i più anziani, o quelli che non hanno altro impegno se non quello dell’esercizio dell’invidia. Poi mi chiedo invidia di cosa, se il nostro studio legale, quello di avvocato di strada, pur essendo il più grande in Italia, è quello che paradossalmente fattura meno, cioè nulla.

La bellezza e i paradossi ci salveranno!

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Il tempo trascorso in Bolivia, in Guinea Bissau, negli orfanotrofi, nelle comunità rurali e agricole l’hanno avvicinata alla vita vera, quella dura, spietata. E ha rappresentato l’input per una svolta nella sua di vita e nella carriera professionale. Si sente una persona migliore oggi?

Mi sento migliore rispetto a me stesso, mai rispetto agli altri. Tenere a bada l’Ego non è facile, è la sfida più grande. Anzi il mio messaggio è che se uno coi miei limiti ha fatto tutto ciò, allora è la prova provata che chiunque possa farlo, ed anche meglio.

Allo stesso tempo mi auguro che i giovani di oggi facciano un po’ meno master, meno corsi di perfezionamento e di aggiornamento, e si buttino un po’ di più sulle strade del mondo, a fare esperienze di vita. A sentire odori, anche nauseabondi. Sporcarsi mani e piedi. Riequilibrare il totale squilibrio tra il saper fare e il saper essere.

Quali sono state le difficoltà maggiori riscontrate nell’apertura dello sportello Avvocati di strada?

In primis la diffidenza degli altri avvocati. È ovvio che uno sportello di assistenza legale gratuita possa celare dietro le quinte il pericolo di procacciamento illegale della clientela. Per questa ragione io ho imposto che al mio sportello nessuno dei colleghi e delle colleghe possa ricevere il conferimento di un mandato. Noi possiamo solo dare orientamento e assistenza. Per il resto non ho visto grandissime resistenze anzi è stato un crescendo di riconoscimenti, di attestati, alla lunga anche da parte dell’ordine forense.

Si è mai ritrovato a pensare che, alla fin fine, non ne valeva la pena?

I poveri puzzano, si lamentano, raccontano bugie e ti prendono in giro. Lo fanno continuamente. Per molti di loro è un modello di vita e di comportamento. Tutto ciò mette a dura prova la resistenza di chi vuole aiutarli. Eppure, è proprio in questa resistenza che si misura l’attaccamento ai valori ideali che muovono verso la solidarietà. Il chiedersi se valga la pena è naturale. Me lo sono chiesto in Bolivia quando vedevo la gente che prendeva i pacchi dono e li andava a vendere al mercato. Me lo sono chiesto quando ho scoperto che chi chiede aiuto in realtà sta meglio di tanti altri. La missione dell’avvocato è quella di difendere tutti, noi non giudichiamo nessuno.

LEGGI ANCHE – L’arte di non avere niente. “Less is more” di Salvatore La Porta

Lei vive e lavora in una realtà, la città di Foggia, che vede un tessuto sociale minato da una diffusa prostituzione e un radicato caporalato. Uno sfruttamento presente in tantissime zone d’Italia, tra l’altro. Qual è la risposta delle istituzioni e della cittadinanza alla vostra attività professionale?

Le istituzioni ricorrono alla nostra associazione molto spesso, siamo il surrogato di uno Stato sociale traballante. Mettiamo spesso pezze a colori grazie anche alla rete del volontariato e dell’associazionismo locale, che è sdoganato da limiti di spesa pubblica. Conta solo il cuore, buttarlo oltre la ragione e darsi da fare. Nella nostra città noi e le nostre associazioni gemelle siamo molto ben voluti, la gente ci cerca, ci segnala i casi di emergenza e noi ci muoviamo dallo sportello sia in città che nelle campagne limitrofe, soprattutto nei periodi di raccolta del pomodoro dove i picchi di caporalato, di prostituzione e di schiavitù umana raggiungono livelli da gironi infernali.

La vita di un avvocato di strada. Intervista a Massimiliano Arena

Quale ritiene essere il disagio maggiore nella società odierna?

Il disagio maggiore della società moderna è una educazione perversa all’egoismo e al conflitto. Anche la comunicazione politica oramai è viziata da egoismo, individualismo e naturale propensione al conflitto. Chiunque giunge al potere si sente in diritto di distruggere tutto il resto e si atteggia a salvatore del mondo. Questo paese, le comunità che lo popolano e che lo animano, hanno bisogno di una pace sociale. Il più grande investimento che si possa fare in questo momento in questo paese non è sulle infrastrutture, o sulla detassazione. Noi dobbiamo investire in riconciliazione, dobbiamo fare la pace e sanare i conflitti e le ferite. Così come fu fatto magnificamente dai padri costituenti nel secondo dopoguerra. Ed infatti dal secondo dopoguerra nacque una generazione di cittadini che hanno scritto la storia del nostro paese e lo hanno portato al boom economico.

Molti di noi pensano che Nelson Mandela abbia vinto il premio Nobel per la Pace perché è stato in carcere per più di 25 anni. Falso. Nelson Mandela ha legittimato il suo premio Nobel nella misura in cui una volta giunto al potere, anziché vendicarsi contro i suoi aguzzini, li ha perdonati e ha aperto in ogni provincia i così detti tribunali della riconciliazione, dove bianchi e neri si sono scambiati il perdono di anni di segregazione razziale, di uccisioni, di rapimenti e stupri. Il Sudafrica è ripartito, affondando le proprie fondamenta sul perdono e sulla riconciliazione e ciò ha fatto di quel paese un paese moderno e proiettato al futuro.

Dove non è presente il volontariato come lo sportello Avvocati di strada chi si occupa di difendere gli interessi e i diritti degli ultimi?

Io sono per propensione naturale ottimista. Trovo modo di riscontrare questo mio ottimismo girando l’Italia. Vi sono eroi anonimi, i quali, senza alcuna organizzazione, si battono per i diritti degli ultimi. Sono loro la speranza che quella grande opera di investimento sulla riconciliazione dei conflitti e sul perdono sociale possa finalmente partire e salvare le sorti delle nostre comunità.


Leggi tutte le nostre interviste a scrittori e scrittrici.

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E se l’inferno fosse vuoto? Intervista a Giuliano Pesce

06 mercoledì Giu 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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GiulianoPesce, intervista, Linfernoèvuoto, MarcosyMarcos, romanzo

Avvicinarsi quanto più possibile al limite è, spesso, l’unico modo per compiere scelte diffcili, esistenziali. Decisioni che altrimenti non si avrebbe la giusta spinta per prenderle. E Giuliano Pesce ne L’inferno è vuoto spinge al massimo i suoi personaggi, “costringendoli” ad affrontare rocambolesche avventure che, proprio nel loro essere così esageratamente surreali, diventano punto d’appoggio per riflessioni intense sulla vita e anche sulla sua fine. Il dualismo esistenziale tra vita e morte raccontato con l’originalità che caratterizza gli scritti di Pesce e l’immancabile pungente ironia con la quale condisce il tutto e lo rende piacevole al lettore.

Gli abbiamo rivolto alcune domande sul nuovo romanzo, edito sempre da Marcos y Marcos, incuriositi anche dal confronto con il precedente.

Esce il nuovo romanzo, sempre per Marcos y Marcos, e questa volta sembra lei abbia voluto scrivere il libro al contrario. Mi spiego: in Io e Henry il lettore scopriva la scena topica solo alle ultime battute mentre adesso costituisce proprio l’incipit. Si tratta di una scelta legata alla storia oppure ci sono altre motivazioni?

Di sicuro non mi piace ripetermi. Ma non è certo una scelta progettata a tavolino. La scena di apertura, con il papa che si getta nel vuoto durante l’Angelus, mi ronzava in testa già da anni, suggerita da un amico, quasi per scherzo. Per iniziare a scrivere un romanzo, però, ho bisogno di avere in mente sia la scena iniziale che quella finale. A quel punto si tratta solo di raccontare – prima di tutto a me stesso – come si collegano quelle due immagini. È come se la storia fosse già lì da qualche parte, e io dovessi solo scriverla.

Anche ne L’inferno è vuoto il tema principale sembra essere legato all’esistenzialismo o sbaglio?

Direi che il romanzo è dominato dall’azione e dalla suspense, più che dalla filosofia. Che poi i personaggi si trovino a scontrarsi con temi come l’angoscia, il peccato, la colpa e il peso delle decisioni prese o subite, credo sia inevitabile, poiché sono calati in situazioni estreme, in cui non possono esimersi dal cercare di dare un senso alla propria esistenza. Penso per esempio al personaggio di Bara, un gangster che, nel momento del suo massimo dramma personale, si trova – suo malgrado, direi – a riflettere su come le esistenze di tutti gli uomini siano intrinsecamente collegate e apparentemente dominate da forze che ci appaiono, in fondo, del tutto incomprensibili:

«Se qualcuno è sopravvissuto a quella tempesta di fuoco, è giusto che sia così. La fortuna è più che un dio tra gli uomini. Perché tutti gli uomini sono solo il risultato della fortuna: la vita è una vincita alla lotteria degli spermatozoi. Tutti nascono unici, sorteggiati fra trecento milioni di girini bianchi. Nascono unici per ritrovarsi circondati da un mucchio di altre persone – tutte vincitrici – aggrovigliate tra loro, intrecciate come i fili dello stesso tappeto. Ma ognuno pensa per sé, tira in una direzione, vuole tracciare il proprio disegno. E allora tiri anche tu, senza sapere nemmeno quale senso abbia quell’ordito. Tu tiri, loro tirano; e all’improvviso è tutto finito. Come se non fosse mai successo.‘fanculo.»

In Io e Henry si percepiva molto del dualismo tra solitudine, fisica o mentale che sia, e condivisione, di vita ed esperienze. Reali o immaginarie che fossero. Ne L’inferno è vuoto invece tutto sembra consumarsi nella lotta infinita ed eterna tra vita e morte. Considerando anche che si parla di personaggi particolari con esistenze borderline, i protagonisti del suo romanzo sono persone che vogliono vivere o morire?

«Possibile che tutti i tuoi discorsi finiscano con la morte?» chiede Bara – uno dei personaggi del romanzo – al suo amico Beccamorto, che gli risponde: «Sembra che la vita funzioni così».

Sicuramente uno dei temi portanti del romanzo è la tensione tra la vita e la morte. I personaggi – che siano gangster, attori o uomini di Chiesa – si trovano costantemente in situazioni di pericolo. Parliamoci chiaro: una pistola puntata alla testa spingerebbe chiunque a fare un bilancio della propria esistenza, e mi intrigava molto l’idea di cogliere i personaggi in un momento di riflessione così estremo. E poi, dopotutto, chi è in grado di cogliere il dramma della fine se non un personaggio letterario? La vita di ognuno di loro – che si concluda con una morte violenta o meno – è destinata a esaurirsi sulla pagina.

Permane la sua volontà e capacità di raccontare aspetti e problemi contemporanei molto seri e attuali attraverso l’uso dell’ironia e dell’autoironia. Nonostante le avventure esilaranti che si avvicendano e si inerpicano nel giro di brevissimo tempo, riesce comunque a dare al lettore margini per riflessioni ponderate. Sono folgorazioni letterarie le sue oppure i suoi scritti rispecchiano un preciso piano di lavoro?

Ogni storia ha il suo modo di essere raccontata. L’inferno è vuoto ondeggia tra commedia e tragedia, e credo che riesca a porre il lettore nel giusto stato d’animo per affrontare le riflessioni a cui fai riferimento: ci si trova di fronte a temi universali, come sono la difficoltà di comprendere il senso della vita e della morte, ma li si osserva dal punto di vista personaggi molto particolari, che spesso stride con il senso comune. Credo che un buon romanzo debba sempre pungolare il lettore, e invitarlo a spingersi un po’ più in là, in luoghi che non pensava di poter raggiungere e che invece sono proprio lì, dietro la pagina.

Sembra esserci molto di autobiografico nel protagonista, aspirante scrittore, Fabio Acerbi e molto di lei scrittore in tutta la storia. Come si inserisce simbolicamente un papa in tutto questo?

Più che a me stesso, il personaggio di Fabio Acerbi – aspirante scrittore, alle dipendenze di un Grande Editore che dispone della sua vita come meglio crede – è ispirato ai tanti giovani che ho visto e vedo affacciarsi nel mondo del lavoro editoriale. Spesso, da fuori, si ha un’idea della Casa Editrice come luogo di cultura per eccellenza, in cui si passa la giornata a discutere di libri e di scrittura, un luogo in cui c’è ancora tanto spazio per il sogno e la fantasia. Ma non è così: le redazioni sono sempre più piccole e i ritmi di lavoro frenetici. E molti si trovano spiazzati.

Per quanto riguarda il papa, non credo che sia un simbolo attinente al mondo editoriale, che infatti occupa solo una piccola parte del romanzo. L’estremo gesto del pontefice si rifà semmai a quella tensione tra vita e morte, inferno e paradiso, salvezza e dannazione di cui abbiamo parlato prima.

Lei popola Roma di personaggi strambi e la anima di persone improbabili le cui rocambolesche vicende solo in apparenza sembrano inverosimili. Viene naturale chiedersi se davvero l’inferno è vuoto?

Non appena Fabio Acerbi mette piede a Roma, riceve una telefonata da un numero sconosciuto. «Chi sei?» chiede. «La tua guida», risponde una voce contraffatta. «Per questo lato dell’inferno».

La maggior parte dei personaggi del romanzo vive una vita immersa nella violenza, fisica o psicologica che sia. Quando si parla di gangster, prostitute e spacciatori, è facile immaginarci la loro esistenza come un oceano di dannazione. Ma, se si estende il discorso anche a personaggi più vicini a noi è impossibile non pensare al Mondo come, quantomeno, all’anticamera dell’inferno. Dappertutto ci sono persone – vecchi, donne e bambini – che vivono per la strada, o addirittura muoiono di fame e in guerre inutili, scatenate dall’avidità e dal disprezzo per la vita di altri uomini come loro, mentre la maggior parte di noi sta a guardare senza fare un bel niente.

In queste condizioni, chi può essere così arrogante da pensare di essere salvo?


Articolo originale qui 


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