Cosa può accadere in una giornata. Nulla. Oppure tutto. Il tempo che compone un giorno può passare senza che alcunché di significativo accada oppure basta un giorno per dare significato a intere esistenze.
Il libro di Elena Mearini concentra il racconto nell’arco di temporale di un solo giorno. Ma tema della narrazione è anche il luogo dove gli eventi di questa particolare giornata si volgono: una palestra di boxe. Ed ecco che tempo, luogo, sport e legami diventano baluardi di una profonda simbologia che deve per certo aver ispirato l’autrice.
Una palestra che appare senza tempo, nel senso che il tempo sembra essersi fermato, eppure in essa si assiste e si è assistito (nel tempo) alla disfatta o alla rinascita di intere e esistenze, dentro e fuori dal ring. Legami che nascono e si sciolgono all’ombra della comune passione sportiva – la boxe appunto – emblema simbolico dell’incontro-scontro della vita.
La storia sembra procedere lungo una linea, un chiaroscuro che la fa scorrere verso la tanta agognata quanto odiata perfezione. Una perfezione che riguarda il modellare i reali comportamenti ma che finisce con il coinvolgere anche i sogni e le ambizioni di ognuno, al punto che reale e immaginario sembrano confondersi e danneggiarsi a vicenda. Esattamente come accade nella vita reale, allorquando, nel tentativo di apparire perfetti a ogni costo ci si ritrova disposti a sacrificare perfino se stessi. Si pensi, ad esempio, all’immagine edulcorata di se stessi che si crea sui social, in questo mondo virtuale dove tutti o quasi vogliono apparire per ciò che poi non sono ma vorrebbero essere.
In diversi punti di Corpo a corpo il lettore si ritrova a riflettere su queste tematiche, esposte a volte anche in una maniera che potrebbe sembrare brutale ma che si rivela essere per certo efficace, a volte necessaria.
Ci sono delle morti nel libro di Mearini ma definirlo un romanzo noir sarebbe restrittivo, più adatti forse gli aggettivi psicologico e introspettivo. Anche perché le vere indagini svolte nel libro sono quelle condotte nella mente dei personaggi, nei sentimenti come anche nelle devianze. Pulsioni distruttive e auto-distruttive, sentimenti forti e devastanti, come l’invidia, che generano vero e proprio tormento.
La scrittura di Elena Mearini è chiara, decisa, diretta. Riesce l’autrice a regalare al lettore pagine molto intense con un linguaggio tutto sommato “semplice”, con una storia tutto sommato “ordinaria”, con dei protagonisti tutto sommato “normali”. Riesce anche a non rendere il tutto banale e il risultato è un libro davvero straordinario.
Il libro
Elena Mearini, Corpo a corpo, Arkadia Editore, Cagliari 2023.
L’autrice
Elena Mearini: autrice e docente di scrittura creativa e poesia.
Source: Si ringraziano l’Agenzia Anna Maria Riva e l’Ufficio Stampa di Arkadia Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Storia e letteratura sono piene di narrazioni di eroi, avventurieri perlopiù maschi che esplorano il mondo, inventano oggetti, rivoluzionano il modo di essere e di pensare. Poche volte si sentono gli stessi racconti ma al femminile e questo non perché le donne mancassero di inventiva o di iniziativa. È sempre stata la libertà a mancare. La libertà di pensare prima ancora di quella di agire.
Eppure gli esempi di donne coraggiose, avventuriere, rivoluzionarie non mancano.
Emanuela Monti in Memorie di un’avventuriera racconta una storia liberamente ispirata alla vita di Aphra Behn, la prima donna della letteratura inglese riuscita a guadagnarsi da vivere come scrittrice. Una donna che ha viaggiato molto, spostandosi in diversi paesi e fu anche arruolata come agente segreto al servizio di re Carlo II. Una donna libera e avventuriera, aperta e moderna e, per queste ragioni, anche accusata di oscenità e libertinaggio a causa del contenuto esplicito riguardo a relazioni sessuali e prostituzione nelle proprie opere. Una donna, femminista dentro, che ha scelto e deciso di non sottostare alle regole maschiliste dell’Inghilterra del Seicento pagando a caro prezzo le proprie convinzioni.
La vicenda di Aphra Behn è narrata prevalentemente sotto forma di mémoire in prima persona, con un linguaggio parlatodiretto e attuale. Riesce però l’autrice a imprimere nella storia un taglio psicologico che conferisce al personaggio un carattere universale. La storia è liberamente ispirata alla vita realmente vissuta da Behn, per cui Monti sopperisce ai vuoti biografici con la propria fantasia, rimanendo comunque sempre fedele ai principi di verosimiglianza e al valore della prospettiva storica che l’hanno ispirata. Utilizza inoltre, l’autrice, l’espediente di lettere e diari per dare voce ai fatti accaduti in assenza di Behn o avvenuti dopo la sua morte. Questa scelta narrativa per certo contribuisce a regalare al lettore pagine intense, pregne di pathos e sentimento e contribuisce a formare l’immagine della donna forte quale Aphra Behn è stata.
Memorie di un’avventuriera racconta nel dettaglio la vita di una donna, vissuta nel Seicento, che ha dovuto lottare ogni giorno per conquistare la propria libertà, per far valere il proprio pensiero e vivere la propria vita, seguendo istinto e desiderio. Ma la storia raccontata da Emanuela Monti riguarda tutte le donne, di ogni epoca, anche quella attuale, perché rappresenta un monito a tenere sempre alta l’attenzione, essere vigili sui propri diritti, consapevoli del fatto che, laddove diventino un qualcosa dato per scontato, vorrà dire che sono in pericolo e con loro la libertà, di essere, di pensare e di agire.
L’alternarsi di parti narrate in prima persona con parti sotto forma di diari o lettere, unitamente al linguaggio di forte ascendenza seicentesca, a tratti ingenerano confusione nel lettore, il quale si ritrova in più punti a dover arrestare la lettura per riflettere sul contenuto e sul significato della narrazione. Alla scorrevolezza non giova neanche la presenza dei numerosi personaggi, ognuno a suo modo protagonista della storia raccontata. Ciò però si avverte soprattutto all’inizio, man mano che si prosegue nella lettura si entra nell’ordine della narrazione voluta dall’autrice come anche nella struttura stessa del romanzo e ogni passo appare chiaro e significativo, necessario per comprendere il libro nel suo essere complesso e profondo, come la vita stessa della protagonista.
In generale, quindi, Memorie di un’avventuriera risulta una gradevole lettura, interessante per la storia narrata come anche per gli sviluppi impliciti, per gli insegnamenti che da essa se traggono, per il monito alla tutela dei diritti delle donne, di tutte le donne come anche di tutte le persone, degli esseri umani, qualunque sia il loro genere.
Il libro
Emanuela Monti, Memorie di un’avventuriera. Liberamente ispirato alla vita di Aphra Behn, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2022.
L’autrice
Emanuela Monti: editor, lessicografa, scrittrice, curatrice della rubrica letteraria Di parola in parola sul blog Culturificio.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa IRELFE – Il Ramo e la Foglia Edizioni per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Emilio Salgari è forse più di tutti lo scrittore che ha incarnato la forza e la potenza della fantasia quando incontra la penna e la carta. I viaggi che non si possono fare fisicamente diventano la materia prima da plasmare con le parole, i desideri, le emozioni, le sensazioni, le idee. E così anche un “viaggio virtuale” può diventare reale, a almeno sembrarlo.
Ora, non si sa se Mia Another sia fisicamente mai andata in Giappone, ma per certo la sua fantasia e la sua scrittura trasmettono egualmente tutta la forza e la potenza che a un buon libro viene richiesto. Racconta la storia dei suoi protagonisti l’autrice ma, soprattutto, conduce il lettore in un viaggio in Giappone, una terra tutt’ora esotica e affascinante che sembra essere raccontata da una persona che lì davvero ci ha vissuto.
Tokyo a mezzanotte si apre al lettore con una sgradevole vicenda che ha visto coinvolta la protagonista. Una situazione destabilizzante, acutizzata dal trasferimento in una nuova terra, diversa e complessa. Una terra da scoprire, riscoprire e amare, come la stessa vita dopo un brutto colpo, allorquando ti accorgi che, nonostante tutto, non tutto è perduto e vale sempre la pena ricominciare.
La storia è raccontata in prima persona alternando le voci dei due protagonisti principali, con uno stile narrativo molto attento, curato in ogni dettaglio. Riesce l’autrice a coinvolgere il lettore fin dalle prime battute e per certo gli appassionati del genere non resteranno delusi anche dalla prorompente sensualità della narrazione.
Il dualismo presente nella vita della protagonista e il fatto che, letteralmente ella debba “farsi” in due per guadagnare il più possibile, si ritrova anche nel racconto di una città, Tokyo, duale: fredda e stretta da rigide regole anche comportamentali quella diurna, scottante e misteriosa quella notturna.
L’immagine che Hailey si era creata del Giappone, grazie anche ai racconti fantasiosi del fratello che lì si era trasferito e, a suo dire, si era realizzato professionalmente e umanamente, impattano non poco con la realtà nella quale la ragazza si ritrova a vivere, soprattutto nella fase iniziale.
Senza lasciarsi troppo tentare da immagini stereotipate e pregiudizi netti, l’autrice racconta di un Giappone vero, di un Paese alle prese con i tanti problemi e difficoltà della vita quotidiana, né più né meno di tutti gli altri Stati del mondo. A tratti potrebbe quasi sembrare che l’autrice manifesti un marcato giudizio filo-americano ma, in realtà, il tutto sembra essere funzionale alla storia raccontata, ricordando, tra l’altro, che la protagonista è americana di origine.
C’è un ulteriore aspetto del libro che merita qualche considerazione. La protagonista è una ragazza giovane sempre alle prese con lo smartphone, con le app e con i social e sembra essere convinta che questo le basti per conoscere il mondo e, soprattutto, Tokyo. Naturalmente una volta atterrata in questa nuova città tutto le appare molto diverso, complesso e caotico. Troverà la sua guida ma, per la gran parte della narrazione, non sembrerà la scelta migliore. Il punto di congiunzione tra lei e la sua “guida” sembrerà essere la determinazione che entrambi hanno nel non volersi arrendere e nel voler andare avanti a ogni costo. Come il tempo che non si può mai fermare. Come i giorni che passano inesorabili. Anche se il loro punto di incontro sembra labile e inafferrabile come quell’attimo, a mezzanotte, che unisce e al contempo divide due giorni consecutivi.
È un libro interessante, Tokyo a mezzanotte di Mia Another, non tanto e non solo per la trama in sé quanto per le sfumature che l’autrice riesce a dare a singoli eventi e al carattere dei protagonisti, come dei personaggi in generale, ben ideati e che rappresentano forse la vera forza del romanzo.
Il libro
Mia Another, Tokyo a mezzanotte, Newton Compton editori, Roma, 2021. Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma.
L’autrice
Mia Another: pseudonimo di una scrittrice che vive nel modenese. Dopo aver lavorato in un web magazine a tema hi-tech, ha iniziato la sua avventura nel self-publishing.
Per raccontare lo scontro generazionale tra i queer, idealisti e romantici, e i loro precursori, pionieri e truci operai spaziali, Fabio Carta fa attraversare al lettore l’intera Via Lattea. In una narrazione tanto futuristica quanto attuale. Ne nasce un romanzo di fantascienza quasi paradossalmente ancorato alla realtà in maniera incredibile, che racconta e analizza tematiche di stretta attualità con una visione d’insieme certamente originale.
Su una remota miniera extrasolare denominata Geuse, un vecchio mek-operaio, giorno dopo giorno, vede i frutti del suo duro lavoro sfumare a causa di una crisi economica senza precedenti, che coinvolge tutte le colonie della Via Lattea. Come molti altri medita di prendere ciò che gli spetta e cambiare vita. Ma non è così facile.
Ad anni luce da lì la Metrobubble, la capitale finanziaria della galassia, è stravolta dallo slittamento temporale tra sistemi planetari, dai disordini e dalle rivoluzioni. Ora a regnare è un feroce dittatore che si fa chiamare Meklord. I nativi del pianeta, i queer, gli fanno guerra per quanto possono, mentre attendono l’aiuto della Terra o di chiunque avrà il coraggio di sfidare per loro le maree del tempo e le armate meccaniche del tiranno.
Armilla Meccanica è una space opera senza alieni, ma con molte società, culture e sub-culture umane “alienate” o conformi al grande consesso cosmico informatico a governo della Via Lattea, l’Armilla appunto.
Una space opera dove forte è la presenza di veri e propri mecha japan-style, ovvero meka, delle macchine industriali bipedi pilotate come mezzi corazzati.
Grazie allo slittamento temporale tra vari sistemi planetari, Carta propone al lettore una lotta generazionale che vede scontrarsi due opposti schieramenti dotati del vigore, dell’incoscienza e della tenacia della gioventù. Singolare la scelta dell’autore di far emergere da questo blocco di giovani il “vecchio eroe” come figura che riuscirà a dare la svolta decisiva all’intera vicenda.
Il libro di Carta si apre al lettore con una citazione di Dostoevskij:
«Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più. Quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità, il tempo non vi sarà più, perché non occorrerà. È una idea molto giusta. Dunque dove lo nasconderanno? In nessun posto lo nasconderanno. Il tempo non è un oggetto, è un’idea. Si spegnerà nella mente.»
L’idea del tempo che si trova in Armilla Meccanica rimanda alla visione religiosa di esso ma anche a quella esistenziale analizzata da tanti studiosi e pensatori.
Il tempo è la limitazione stessa dell’essere finito o è la relazione dell’essere finito con Dio?
Relazione che non assicurerebbe tuttavia all’essere un’infinità opposta alla finitezza, né una autosufficienza opposta al bisogno, ma che, al di là della soddisfazione e dell’insoddisfazione, significherebbe il sovrappiù della socialità.
Il tempo non sarebbe quindi l’orizzonte ontologico dell’essere dell’essente, ma modo dell’al di là dell’essere, una relazione del pensiero con l’Altro e – attraverso diverse figure della socialità posta di fronte al volto dell’altro uomo: erotismo, paternità, responsabilità per il prossimo – come relazione con il tutt’Altro, con il Trascendente, con l’Infinito. Il tempo non è una degradazione dell’eternità ma una relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall’esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe comprendere.
Il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri, non si tratta quindi dell’idea del tempo ma del tempo in se stesso.1
Gli argomenti trattati da Carta nel libro sono molteplici e spaziano dall’ambientalismo ai danni prodotti dal capitalismo sfrenato, dalla guerra agli scontri per il potere. Ma l’altro argomento si cui si vuole focalizzare ha anch’esso, in qualche modo, a che fare con il tempo, questa volta “rubato” alle persone e in particolare agli operai, costretti a un lavoro durissimo, vittime di allucinazioni metacroniche.
«Si diceva che alcuni operai fossero impazziti a causa di queste continue cronovisioni, incapaci di distinguere il presente degli eventi, anche quelli fisicamente più prossimi e semplici, ma anche impossibilitati a elaborare la realtà in termini di passato e futuro, secondo il legame eziologico tra causa ed effetto.»
Come si può recuperare il tempo perduto nel vortice turbolento di un’esistenza che costringe le persone a impegnare gran parte della loro vita in attività svolte per il guadagno soprattutto altrui? Come possono gli esseri umani ritrovare se stessi e il loro equilibrio?
Carta identifica nel testo la meditazione degli yogi quale ottimo compromesso tra un pacifico credo religioso e tollerante e una pratica via di fuga mentale dalle nevrosi, dalla solitudine e dalla claustrofobia riscontrata nei primi e sovraffollati habitat artificiali.
La solitudine è un’assenza di tempo. Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere.
L’esistere allora rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente. La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti.
Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cambiamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente.
La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri questi che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.2
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa, ma continua ad avere una visione distorta del mondo.
L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli ebrei sono dei “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Ciò che manca alla nostra società occidentale è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita il male dell’Infinito, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno vedere loro la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.3
Nell’analisi della megacultura occidentale si nota il suo distaccamento dalla natura e la paura del suo arresto. Le chiusure o sospensioni ad essa ascrivibili sono periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… legate comunque all’aspetto economico della cultura occidentale. Invece ciò che viene auspicato è la ricerca di sospensioni o auto-sospensioni che non siano mere pause dalla routine, piuttosto ricerca e cura di se stessi e della natura.
Nella cultura dei nativi americani tutto è sacro, dal ramo dell’albero al sasso, all’acqua, alla Terra e ciò che in essa vive, ovvero tutto. Il rispetto verso se stessi, verso gli antenati, verso la vita passa inesorabilmente attraverso il rispetto per la Terra, per la Grande Madre, la Natura.
Lo scopo della meditazione zen è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali.
L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:
Fisico
Emozionale
Psicologico
Studi e ricerche scientifiche hanno evidenziato effetti benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità e flessibilità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.4
Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?
Sono queste, o similari, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia. Un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi: dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, il lettore viene indotto a osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone la malinconia. La malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone.
La cura per la malinconia è raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.5
Armilla Meccanica di Fabio Carta è un libro che racconta una storia di fantascienza ma offre innumerevoli spunti di riflessioni sulla realtà, sull’umanità, sul tempo e l’interiorità. Una space opera davvero interessante.
Il libro
Fabio Carta, Armilla Meccanica. Nel Cielo, vol. 1, Inspired Digital Publishing, 2021.
L’autore
Fabio Carta: laureato in Scienze Politiche con indirizzo storico, appassionato di fantascienza e letteratura classica. Autore di diversi romanzi e racconti.
1Emmanuel Levinas, Il tempo e l’Altro, Mimesis Edizioni (Milano-Udine), 2021.
È con questa citazione di Lao Tzu che si apre al lettore il libro di Verdoliva. Il silenzio è per certo fonte di forza, una forza che si ritrova nelle parole del libro, nella storia che l’autore racconta, nelle immagini descritte come anche in quelle evocate.
Il protagonista del libro abita nella sua nuova-antica dimora ma, soprattutto, abita il suo silenzio. Un silenzio fatto di respiri e di sospiri, di anime perse e di anime inquiete, di luoghi solitari e antichi segreti.
La storia raccontata è anche un percorso emotivo o meglio, una serie di percorsi emotivi, relativi ad altrettanti personaggi. Un cammino volto a scoprire le loro anime, non sempre limpide e trasparenti. Un andare sempre più in profondità che non può non condurre i protagonisti alla scoperta o alla riscoperta del dolore.
Nonostante in più punti del libro Verdoliva sfiori argomenti particolarmente sensibili all’animo umano, riesce a non renderli troppo pesanti o aggressivi per il lettore. Il male presentato dall’autore non è totale, si intravede la speranza di sconfiggerlo e questo lancia un grande messaggio positivo che alleggerisce non poco la lettura.
La scrittura sembra modellarsi armoniosamente con la storia che vuole narrare. Ritmata secondo le evoluzioni della vicenda stessa, che sembra rispettare finanche le pause dettate dal silenzio.
L’autore deve coltivare diverse passioni, che vanno dall’esoterismo all’alchimia, ed è riuscito a inserire molte delle sue conoscenze all’interno del testo, utilizzando un linguaggio veramente poco “tecnico”, in modo che anche il lettore più distante da queste discipline riesce comunque a seguire il filo della narrazione.
I continui salti temporali, soprattutto nei primi capitoli del libro, potrebbero disorientare un po’ il lettore ma, seguendo con attenzione le diverse vicende della narrazione, se ne comprende appieno la necessità. Lo stesso può dirsi dei tanti “protagonisti”, ovvero dei numerosi personaggi cui l’autore dedica la medesima attenzione, raccontando nel dettaglio la vita di ognuno di essi. Alla fine si realizza che la scelta di Verdoliva non è né dispersiva né confusionaria, bensì funzionale al messaggio che intende trasmettere. Un messaggio positivo, di speranza. Nonostante tutto. Dolore, paura, timori possono essere superati, vinti, e ognuno avrà diritto alla sua rinascita.
I continui salti temporali utilizzati per raccontare le diverse vite dei personaggi a tratti sembrano anche un continuo alternarsi tra giovinezza e vecchiaia, in un altalenante gioco che altro non è che la stessa vita. Questa vita che può essere indicata come protagonista accanto all’appartamento e al suo silenzio. Un silenzio fatto di respiri, di sospiri, di vuoti e di suoni. Sì, di suoni, perché un altro nodo focale del libro è proprio la stanza della musica. Una stanza che trasuda mistero, le cui mura sembrano trattenere a stento il vorticoso turbinio di segreti in essa rinchiusi.
Un libro, L’appartamento del silenzio di Gianni Verdoliva, che può appassionare o sconvolgere, ma che stupirà, in ogni caso, per la delicatezza con la quale l’autore affronta e racconta storie e tematiche anche molto sensibili.
Il libro
Gianni Verdoliva, L’appartamento del silenzio, Fides Edizioni, Gruppo Editoriale Les Flâneurs, Bari, 2022.
L’autore
Gianni Verdoliva: giornalista pubblicista e scrittore.
Source: Si ringrazia l’addetta stampa che ha curato la promozione del libro per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Un’inconsapevole vittima che perisce sotto gli sferzanti colpi inferti dalle ree mani degli assassini, convinti di essere i dominatori del gioco e ignari di essere anch’essi pedine di un gioco assai più grande e crudele.
È con questa scena che si apre il libro di Patrizia Debicke L’eredità medicea, un romanzo storico ambientato nella Firenze di inizio Cinquecento. Un periodo storico molto controverso e ricco di numerosi eventi per molti versi contraddittori, inquietanti e illuminati al contempo. Un’epoca che l’autrice ha indagato a fondo, studiandone i principali esponenti e traslandoli nel suo libro evidenziandone gli aspetti più utili per la narrazione di una vicenda intricata e intrigante, ricca di colpi scena e di colpi bassi.
Riesce, l’autrice, a far immergere il lettore in un tempo orami lontano fin dalle prime battute, grazie all’uso di uno stile narrativo incalzante ma chiaro, e uno stile di scrittura analiticamente studiato per richiamare l’epoca storica e i suoi costumi senza appesantire o intralciare la lettura stessa, che rimane scorrevole e gradevole.
L’eredità medicearacconta dell’assassinio di Alessandro de’ Medici, della nomina del suo successore Cosimo, delle indagini per smascherare l’esecutore del delitto e soprattutto per trovare il mandante, ma offre anche, grazie all’abilità descrittiva che è propria dell’autrice, uno sguardo d’insieme sulla vita degli uomini e delle donne di quel periodo storico, il corteggiamento e gli amori, ufficiali o clandestini, gli accordi e gli affari, le eredità da dirimere e dietro ogni cosa gli intrighi e le congiure che scorrono attraverso le stanze di palazzi e castelli, ben celati come i numerosi passaggi segreti propri di queste architetture.
Investigazioni basate sull’intuito, sul sospetto e su qualche rara testimonianza diretta o indiretta in un tempo in cui non esistevano supporti tecnici, tecnologici o scientifici e bisognava affidarsi al proprio fiuto, alle parole di qualche informatore, testimone, spia o traditore. Un mondo che appare completamente diverso da quello attuale. Altri aspetti invece sembrano proprio non essere cambiati e li ritroviamo ancor oggi. Per esempio: l’ingerenza della Chiesanegli affari dello Stato, nelle contese dinastiche, nella vita civile della popolazione e di chi la governa, negli intrighi di palazzo, ricatti e delitti. E l’atteggiamento di nobili e amministratori che hanno una considerazione del popolo che di certo non li nobilita.
L’autrice si sofferma più volte nella descrizione dettagliata e minuziosa, anche anatomica, dei protagonisti e la sottolineatura della loro prestanza fisica, la virilità, la forza di valorosi condottieri, uomini forti e determinati. Descrizioni che ne enfatizzano le caratteristiche generali e accentuano l’aspetto deciso e perentorio del loro essere e del loro volere. Uomini blasonati, avvezzi al comando, alla servitù e ai privilegi.
Il Cinquecento raccontato da Patrizia Debicke è il mondo visto dall’aristocrazia, dai principi, dai cardinali, dai pontefici. Nel quale i componenti tutti i livelli inferiori della popolazione vivono le loro esistenze, quando va bene, di riflesso, quando va male, in condizione di completa precarietà e abbandono.
L’eredità medicea è un romanzo storico di genere giallo ma è anche un libro grazie al quale la Debicke invita il lettore a riflessioni forti, a volte amare sulla società, sulla sua stratificazione e sull’importanza o meno della spiritualità. Elementi tutti che rendono il libro una validissima lettura.
Il libro
Patrizia Debicke van der Noot, L’eredità medicea, TEA, Milano, 2022.
Prima edizione: Parallelo45Edizioni, novembre 2015.
L’autrice
Patrizia Debicke van der Noot: autrice di romanzi storici e thriller.
Come si può passare da una famiglia tradizionale a una kumpània rom nel giro di pochi giorni e sentirsi sempre a casa?
Rinunciare all’ordine ormai infranto della propria vita può davvero servire per ritrovare se stessi?
Senza tenere sempre bene in mente questi interrogativi forse non si riuscirebbe a comprendere fino in fondo la portata di un libro come L’ordine infranto di Maria Teresa casella.
Un libro che non racconta semplicemente una storia, narra della vita.
La vita di chi è un reietto, all’interno della propria famiglia o della società. Paria per scelta o per destino. Invisibili che vivono ai margini di una società che sembra accorgersi di loro solo quando accadono tragici eventi.
Una società che non ammette diversi e, per coloro che cercano di ricrearsi una nuova vita fuori dall’ordine infranto, riserva solo la strada e l’emarginazione.
Come accaduto alla protagonista del libro di Casella, una giovane donna, di famiglia benestante, studentessa di medicina e con un promettente futuro che all’improvviso si perde nel dolore dell’inganno e fugge.
Da senzatetto a nomade, quasi inspiegabilmente, il passo sarà breve. E verrà accolta nella comunità rom, pur con qualche reticenza, che diventerà la sua nuova e unica casa. Una comunità da sempre vista come uno scherzo della natura, ingestibile e incomprensibile, per le sue non-regole che le impediscono di standardizzarsi ai rigidi canoni della società globale che la “ospita”. Eppure Casella insegna al lettore che mai le cose sono appaiono e che il fango e l’immondizia, a volte, sono più oneste e limpide di un’animo tormentato.
I rom in Italia sono all’incirca 170mila e Maria Teresa Casella ha simbolicamente scelto di “dare voce” alla numerosa comunità che abita il più grande campo abusivo della capitale. I personaggi narrati dall’autrice sono, naturalmente, frutto della sua fantasia, ma le storie, quelle potrebbero essere vere davvero. E forse lo sono. Lo strazio di bambini che crescono tra immondizia e sostanze pericolose, che giocano con il fuoco e la varechina, si feriscono, si lacerano, bruciano. Ragazze poco più che bambine e giovani adulti dediti all’accattonaggio e al furto. Anziani che gelosamente custodiscono i tesori, anche notevoli, accumulati tra lamiere e stracci.
Un incomprensibile modo di vivere che attrae la protagonista e che sembra risucchiarla in questo vortice intenso di odori e sapori così diversi, nei quali però riconosce, o meglio trova l’amore e altri sentimenti di cui nutriva un immenso bisogno.
Si apprezza, durante la lettura de L’ordine infranto, la capacità dell’autrice di non cadere mai nella banalità o nel pregiudizio. Da entrambe le parti della barricata. Casella racconta i fatti, gli eventi della storia senza nascondere al lettore le verità oggettive della kumpània, come anche della società che la ospita, la nostra.
L’ordine infranto di Maria Teresa Casella è un libro struggente e, al contempo, illuminante, nella capacità dimostrata dall’autrice di indagare i sentimenti e le emozioni delle persone, prese nel loro vivere quotidiano.
Il libro
Maria Teresa Casella, L’ordine infranto, Oltre Edizioni, Sestri Levante, 2022.
L’autrice
Maria Teresa Casella: autrice di romance storici e gialli. Già giornalista e copywriter.
Ci sono eventi o accadimenti che d’istinto si è portati a indicare come spartiacque o pietre miliari nella lunga storia dell’umanità. In epoca recente non si può non indicare il 31 dicembre 2019, ovvero il giorno della prima segnalazione attribuibile al nuovo virus Sars.
Di questi eventi, come ovvio pensare, esiste un prima e un dopo. Ma va ricordato e pensato anche tutto ciò che vi è dentro, all’interno e che si trascina per molto tempo. L’anima devastata di coloro che questi eventi li hanno visti, vissuti, subiti.
Gli esempi da addurre ovviamente potrebbero essere tantissimi, la particolarità di questa pandemia sono le sue immediate ricadute a livello planetario.
Il libro di Goisis e Moroni è interamente centrato sull’evento pandemico legato al Sars-Cov-19, ma raccontato dal suo interno, dal punto di vista di uno, o meglio di due piccoli tasselli che vanno a comporre l’enorme mosaico.
Al 10 ottobre 2022 i casi accertati totali nel mondo di contagio da Sars-Cov-19 sono 621.547.372. I decessi sono 6.557.778.
In Italia i casi totali accertati sono 22.815.736, i decessi 177.519.1
I numeri totali sono per certo impattanti, ma mai bisogna dimenticare che questi sono il risultato della somma di singoli numeri, presi uno alla volta.
Ed è esattamente di ciò che raccontano Goisis e Moroni, in maniera estremamente personale.
Il libro Lock-mind si compone di due parti distinte, i due diari appunto che afferiscono ai rispettivi autori. Il primo, di Angelo Antonio Moroni, è strutturato proprio come il più classico dei diari, con data iniziale e numerazione progressiva. È la narrazione di quanto accaduto nella vita e nella mente dell’autore, dei suoi famigliari e dei suoi pazienti. È il racconto di quanto accaduto, nonché del percorso fisico e mentale che ha condotto tutti attraverso questa fase epocale, mediante la quale l’umanità intera si è trovata ad affrontare la pandemia, l’isolamento, la paura, la solitudine, la malattia. Costretta ad adattarsi, giorno dopo giorno, a un mondo diverso che, forse, tale resterà.
Sono accadute delle cose, durante il lockdown da pandemia, prima inimmaginabili. Di esempi ce ne sono tanti. Moroni pensa, per esempio, al fatto che le sedute virtuali con i suoi giovani pazienti gli hanno consentito di entrare, sempre attraverso lo strumento tecnologico, nel loro mondo, la loro stanza, la cameretta. Accadimenti mai verificatisi prima di allora. Come se l’isolamento da lockdown avesse dato l’opportunità allo psicoterapeuta, tramite l’occhio digitale, di guardare il paziente nel suo ambiente mentre fino ad allora la terapia si svolgeva sempre e solo nello studio medico. Sono situazioni solo in apparenza insignificanti.
La seconda parte del libro invece è il diario di Roberto Goisis, uno scritto che per molti versi chiarisce anche il senso di una sua precedente pubblicazione. Goisis si è ammalato e ha vissuto la Covid da paziente, incredulo della situazione.
In effetti è questo un sentire comune. La Covid ha dei sintomi influenzali, è un virus, eppure ha scatenato una pandemia globale. Non è certo l’unica malattia esistente né la più pericolosa o grave ma è insidiosa, molto. Ha aggredito e si è estesa in una maniera talmente inaspettata da trovare tutti, o quasi, impreparati, increduli, dubbiosi, scettici. In tanti poi sono stati costretti a ricredersi.
I due diari sono molto diversi tra loro, per forma e contenuti, ma hanno in comune la narrazione di un accadimento che ha cambiato tutti, entrando nelle nostre vite per tramite di un virus il quale, seppur invisibile ad occhio nudo, ha permesso a tanti di vedere un mondo totalmente differente.
Lock-mind non è un libro sulla pandemia da Sars-Cov-19, è un libro sugli effetti della pandemia sulle persone, su come un virus possa cambiare la vita, il corpo, la mente e il modo di guardare oltre.
Il Sars-Cov-19 sembra caratterizzarsi per la sua estrema capacità di mutare. E la mutazione, il cambiamento sembra essere anche la caratteristica di questa come di ogni altra epoca, maggiormente laddove un evento straordinario ha mutato drasticamente il suo essere nel profondo. Una vera e propria mutazione genetica della vita.
Il libro
Pietro Roberto Goisis, Angelo Antonio Moroni, Lock-mind. Due diari della pandemia, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2022.
Gli autori
Pietro Roberto Goisis: medico, psichiatra, psicoanalista, membro ordinario SPI e IPA, svolge attività clinica e formativa in Enti pubblici e privati.
Angelo Antonio Moroni: psicologo, psicoterapeuta, psicoanalista, membro ordinario SPI e IPA, è socio fondatore del Centro Psicoanalitico di Pavia (SPI), e collabora come supervisore di Comunità psichiatriche italiane e Servizi Neuropsichiatrici del Canton Ticino.
La mafia. Ma che cos’è veramente questa mafia di cui tanto o tanto poco si parla? Mafiosi sono degli assassini che uccidono a sangue freddo per vendicare uno sgarro o un altro omicidio? Certo. Mafiosi sono coloro che uccidono o gambizzano per il controllo di un territorio? Certo. Mafiosi sono coloro che trafficano in droghe? Certo. Mafiosi sono coloro che corrompono degli amministratori per ottenere appalti e lavori pubblici? Certo. Mafiosi sono coloro che sfruttano il lavoro e i lavoratori? Certo.
Ma mafiosi sono anche gli amministratori che si lasciano corrompere. Lo sono anche i cittadini collusi, omertosi. Coloro che scendono a compromessi per paura o, peggio, per tornaconto personale. Sono i parlamentari che si adoperano per far approvare leggi volute o gradite alla criminalità. Sono i professionisti che offrono consulenze e pareri pur sapendo con chi e per chi lavorano. Sono i membri delle forze dell’ordine che cedono al compromesso.
«Mafia e politici hanno scavato questa galleria che, dalla Sicilia, attraversa sotterranea tutto il sud Italia e va dritta fino a Roma, dentro le stanze della VIII commissione per infiltrarsi nelle grandi opere e nei lavori pubblici, facendo fare ai soldi avanti e indietro. Gli appalti, vinti a tavolino dai mafiosi, diventano mazzette che tornano nelle tasche della politica… e i nostri onorevoli che ci fanno dopo con quei soldi? Altre mazzette per altri mafiosi che, finanziando lo spaccio di droga per evitare il pizzo, danno al tessuto sociale la sensazione che nulla stia accadendo e infatti, in superficie, nulla accade.»
Ma tutto questo non si deve dire. No. È meglio dire e pensare che la mafia non esiste e, se proprio non si può negarne l’esistenza, ricondurla ad aree circoscritte e persone specifiche. Pur sapendo che non è così che stanno le cose. Perché la mafia si spande con un silenzio, un pagamento, un favore, un compromesso… e arriva a inglobare una società intera intrisa dei suoi mali. Ancora oggi si sente dire che la mafia riguarda alcune regioni italiane e alcuni territori all’interno di queste. Forse. Perché in questi specifici territori si nega addirittura la sua esistenza.
«Mio padre era stato sincero? O aveva raccontato che la mafia è una leggenda per farmi smettere di piangere?»
Si chiede il bambino protagonista del libro di Cortese a cui il padre aveva appena ribadito fermamente l’inesistenza della mafia. Ma saranno anche le sue parole a spingere il figlio a cercare altre risposte. A cercare la verità.
Una verità che egli troverà in uno zaino all’interno del quale è veramente difficile trovare il coraggio di guardare. Perché sarebbe come guardarsi allo specchio e non riconoscere l’immagine riflessa.
Eppure sarà proprio grazie a questo, o a causa di esso, che il bambino scoprirà cosa è veramente questa mafia.
Un bambino, uno zaino, un nano e un assassino: questi gli elementi intorno ai quali Cortese ha costruito la sua storia. I bambini sono almeno due e gli assassini tanti. O meglio i mandanti. E la storia raccontata dall’autore è in realtà la storia un po’ di tutti. Di un’intera regione. Di uno Stato. E anche di più.
La storia è ambientata in un piccolo paese volutamente non identificato. Un romanzo teatrale, si legge nella quarta di copertina, «dove le maschere indossate dai personaggi sono necessarie per condurre una vita normale solo in apparenza». Impossibile non pensare a un’influenza pirandelliana. Ma in questi la narrazione serviva a svelare cosa si celasse, in realtà, dietro le maschere. Cortese sembra invece aver volutamente costruito le maschere per i suoi personaggi per nascondere qualcosa al lettore.
Come l’ambientazione stessa ad esempio, non meglio identificata per rendere la narrazione più fantasiosa e meno riconducibile a fatti realmente accaduti.
L’autore mescola fatti di cronaca, eventi realmente accaduti e sue personali considerazioni con narrazioni frutto della sua immaginazione. E cerca di far sembrare i primi meno reali, per essere meno riconoscibili e riconducibili e, al contempo, si premura di dare ai secondi valenza storica e una certezza o rigore quasi scientifico.
Mentre la parte narrativa risulta sempre convincente e accattivante, benché a volte l’autore si soffermi troppo in descrizioni e resoconti, i dialoghi risultano a tratti manierati, poco spontanei. Come se i personaggi fossero attori su un palcoscenico intenti a ricordare le battute del copione da recitare. Ma è lo stesso autore, per tramite del piccolo protagonista, a dare una valida spiegazione: «Restammo ancora un attimo per strada ed ebbi di nuovo l’impressione che stessimo recitando».
Si impara prestissimo cosa si può dire e cosa è meglio tacere, a chi rivolgere la parola e con chi invece è meglio restare muti, in silenzio. E così ogni frase, ogni parola, risulta finta, falsa, perché non è né spontanea né sincera.
Cortese utilizza uno stile di scrittura molto basico, in apparenza semplice, con un fraseggio breve e concetti elementari. Un narrare con la parola scritta quella parlata. In più la narrazione è introdotta al lettore da un io che è un bambino. Una scelta indotta e, quindi, quasi scontata potrebbe sembrare, almeno inizialmente. Poi, la complessità del narrato sembra includere e trascinare con sé anche lo stile di scrittura. Un registro narrativo modellato sulla narrazione e sui temi quindi ma che, comunque, per certi versi sempre fedele alle origini.
Quando il lettore poi scopre che si tratta di ricordi, allora ogni dubbio sulle scelte stilistiche dell’autore viene dissipato.
Nella quarta di copertina il libro viene definito scenario di avventure come un telefilm. Scenario di avventure lo è. Come tanti, innumerevoli libri sono riusciti e riescono ad esserlo. La letteratura é la prima e inesauribile fonte di ispirazione per la fantasia e nutrimento per la mente. Il lettore non cerca scene o avventure da film o telefilm. Vuole di più. Vuole ciò che solo un buon libro, un’ottima narrazione e un’avvincente storia possono dargli. E con La mafia nello zaino di Alessandro Cortese ci si arriva molto vicino.
Il libro
Alessandro Cortese, La mafia nello zaino. Il bimbo, il nano e l’assassino, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2022
Stando ai dati forniti forniti da ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), una parte sostanziale del nostro pianeta è impegnata in una qualche forma di conflitto che coinvolge forze statali o ribelli, o entrambe.
Eppure, se fino al 23 febbraio 2022 in tutto l’Occidente nessuno o quasi parlava di conflitti e di guerra, impegnati come si era ancora nel “combattere” la pandemia o quel che ne restava, dal 24 febbraio 2022 praticamente non si parla d’altro. Perché?
È ormai cosa nota che il conflitto russo-ucraino ha avuto origine ben prima che iniziassero i bombardamenti anche sulla capitale Kiev. Inoltre sono in tanti ad affermare di aver previsto gli eventi in corso. Tra essi anche Nicolai Lilin, scrittore russo di origini siberiane, autore di Putin. L’ultimo zar da San Pietroburgo all’Ucraina (Piemme, 2022), il quale dà anche una possibile motivazione all’interesse verso questa determinata guerra che non è più solo un’idea o un argomento da salotto, bensì un conflitto armato alle porte d’Europa.
Quindi è la vicinanza geografica a determinare l’interesse?
Le domande sono tante, come pure le risposte ma il vero problema risiede, per Lilin, nei presupposti sbagliati da cui si parte per analizzare quanto accade. Senza rendercene conto, il nostro modo di ragionare dipende da fattori legati alla nostra storia, cultura, tradizione. E spesso noi occidentali diamo per scontata una serie di concetti che non lo sono, perché a est, nel mondo orientale, i valori di riferimento sono altri, sono diversi.
Per capire cosa effettivamente sta accadendo, Nicolai Lilin consiglia di mettere in fila e analizzare tutti gli argomenti utili a una disamina obiettiva, che cerchi di tenere presente la storia di Russia e Ucraina, le ambizioni geopolitiche ed economiche, il profilo dei leader che guidano i due paesi.
Non ci sono dubbi sul fatto che l’Ucraina è un paese sovrano che avrebbe il diritto di scegliere il futuro che vuole. Neanche Lilin ha dubbi al riguardo. Come non ne nutre in merito al fatto che quanto sta accadendo, in una forma finale di abbrutimento, sia colpa di tutti non soltanto di Putin o della Russia. Sono tutti colpevoli, e responsabili. Tranne i civili, che sono gli unici innocenti in questa vicenda.
Per l’autore, dalla Guerra Fredda sono cambiate molte cose, ma l’Occidente non ha adeguato il suo spirito di osservazione alla nuova realtà putiniana. Se lo avesse fatto, avrebbe compreso per tempo le intenzioni di Putin, che erano chiare da tempo, e avrebbe, forse, potuto evitarle, fermarle, rallentarle.
Vladimir Putin aveva deciso da un pezzo l’attacco all’Ucraina. Servono anni per preparare un’operazione di questo tipo – che ha l’obiettivo di smilitarizzare il paese -, scegliere le unità militari e disporre gli schieramenti.
Le esercitazioni militari congiunte tra Russia e Bielorussia avvenute in passato avevano per Lilin una doppia utilità:
Per l’esercito e i militari è stato un modo per provare sul terreno l’efficacia dei propri reparti, la logistica e la comunicazione.
Per la geopolitica internazionale era un chiaro segnale all’Occidente.
Non possono essere sfuggiti questi segnali. Di certo sono stati carpiti da Zelenskij che è sembrato il più preparato tra i leader occidentali.
Si chiede Lilin cosa esattamente l’Occidente non capisce, o non vuole comprendere del mondo russo.
Domande simili a quelle poste già da Giulietto Chiesa, il quale in Putinofobia (Piemme, 2016) raccontava della peculiarità tutta russa di essere un po’ Occidente e un po’ Oriente, e proprio per questo criptico e indecifrabile per gli occidentali. Inoltre, ogni volta che la Russia diventa più asiatica, l’Occidente inizia a perdere il controllo dei nervi.
In entrambi i fronti le diplomazie sono state carenti, volutamente per Lilin. Da otto anni non si affrontano le questioni di fondo della vita delle persone nel Donbass, dove si contano oltre 14mila morti.
Perché oggi si contano tutti i morti e se ne mostrano anche le immagini mentre fino a ieri ciò non sembrava interessare nessuno?
Certo è che la guerra non produce alcuna soluzione.
La Russia ha aggredito l’Ucraina, ma ognuna delle parti in causa non ha scongiurato l’escalation.
Si potrebbe anche asserire semplicemente, come molti fanno, che Putin sia un dittatore spregiudicato, un assassino e che i suoi soldati siano dei criminali di guerra e che, quindi, l’unica cosa che conta è aiutare l’Ucraina e il suo presidente a resistere, ad ogni costo.
Ma come si può anche lontanamente immaginare di vincere o sconfiggere un nemico che non si conosce e non si comprende?
Ricorre spesso, nella narrazione comune, il tema delle origini di Vladimir Putin, in particolare il suo essere o essere stato un agente dell’intelligence sovietica, il KGB poi diventato FSB, di cui è stato anche direttore.
Non è certo un segreto che i servizi, in tutti gli Stati, hanno un potere enorme, a volte abnorme, e che la loro attività sia strettamente interconnessa e interdipendente con quella di istituzioni e governi. Risulta quindi molto interessante capire, provarci almeno, perché un agente abbia poi deciso di passare al potere politico pubblico, e di farlo non nascondendo il suo passato da agente dei servizi.
E sarebbe anche interessante conoscere e comprendere l’entità e la diffusione reale di questo fenomeno nei vari Stati, nonché le motivazioni alla base di queste scelte.
Nicolai Lilin ricorda di essere cresciuto in una scuola e una comunità multietniche. Fino al 1992, allorquando la guerra civile in Transnistria non provocò una diffusione capillare dell’odio razziale nei confronti del mondo russo e di tutti coloro che erano rimasti fedeli al modello sovietico. Un malessere che partì dalla Moldavia e si estese a diverse piccole repubbliche e regioni etniche (Cecenia, Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Ossezia, Armenia).
Il partito nazionalista moldavo voleva far entrare il paese nella Nato nella convinzione che, con l’aiuto e l’appoggio degli Stati Uniti, sarebbe diventato una specie di paradiso fiscale.
L’ambizione diffusa era allontanarsi dal sistema sovietico e avvicinarsi a quello democratico occidentale.
Il che rispecchia un po’ quanto accaduto in quasi tutti gli Stati satellite dell’ex Unione Sovietica, Ucraina compresa.
Alcuni studiosi e biografi hanno scritto che il crollo dell’Unione Sovietica e le guerre civili da questo provocate furono alla base della fortuna politica di Putin, perché in quello che alla gente appariva come un periodo di caos e terrore, lui mostrò le proprie qualità di freddo e spietato stratega, concentrato sulla vittoria.
Politicamente, Putin è una figura solitaria sul palcoscenico del potere in Russia.
Il potere del Cremlino si regge non sul consenso popolare, bensì su quello di un’élite finanziaria che di fatto comanda, mentre l’apparato governativo avrebbe un ruolo strettamente funzionale agli interessi di tale élite.
Il che rimanda per sommi capi a quello che denunciavano attivisti e portavoce del Movimento Cinque Stelle della prima ora, allorquando dichiaravano insostenibile l’ingerenza delle lobby e della finanza sulle istituzioni governative e parlamentari italiane.
Vladimir Putin non sembra mai aver avuto grandi manie di cambiamento. Per Lilin egli ha saputo sfruttare con abilità quel che nel Paese era già stato fatto prima di lui, creando però una nuova simbiosi tra il capitalismo, l’economia liberale d’ispirazione occidentale e l’impronta autoritaria dello “Stato forte”. E così tutti i mali del Paese semplicemente sono scivolati nel nuovo secolo: il potere dell’oligarchia, la corruzione, il cinismo delle élite finanziarie, l’assenza di libertà primarie quali quella di parola.
Per quanto autoritario e forte possa apparire, Putin è pur sempre legato a un certo tipo di economia che non potrà mai davvero rivoluzionare, perché ciò metterebbe in difficoltà se stesso e il potere che rappresenta.
Lui ha capito in fretta che l’opinione pubblica in Russia ha un’importanza relativa, mentre quella dei militari e delle strutture repressive ha un ruolo decisivo nel mantenimento e rafforzamento del potere.
È stato solamente dopo aver costruito un solido rapporto con l’esercito, creato la Rosgvardija, stabilito un tandem vincente con la Chiesa ortodossa russa che Putin ha iniziato a dedicarsi seriamente alla politica estera.
Per raggiungere i propri obiettivi, Putin ha investito parecchie energie, partecipando a tutti i summit internazionali importanti, sia politici che economici, nonché quelli legati al tema della sicurezza. Per Lilin, il momento cruciale è stata la Conferenza di Monaco del 2007, allorquando Putin delineò le sette tesi principali sulle quali si basa la sua politica estera:
Nelle relazioni internazionali non può esistere un modello unipolare.
Gli Stati Uniti devono smettere di imporre la propria visione politica.
Tutte le questioni che riguardano gli interventi militari devono essere decise soltanto dall’ONU.
Le iniziative politiche statunitensi sono aggressive.
La NATO non rispetta gli accordi internazionali.
L’OSCE è diventata uno strumento della NATO.
La Russia continuerà a impostare la propria politica estera basandosi solo sui propri interessi.
Da quel momento, la gran parte dei politici occidentali accusò Putin di essere il politico più aggressivo del mondo. Ma un proverbio siberiano recita: «Quando sono affamati, non c’è differenza tra il lupo e il cane».
Anche questa volta, come accaduto già in passato, i politici occidentali, con in testa gli Stati Uniti, hanno asserito di dover agire per scongiurare il pericolo di una guerra nucleare. Giusto. Giustissimo. Bisogna evitare assolutamente che una potenza militare arrivi ad usare qualunque tipologia di arma ma quella nucleare in particolare.
Tutti gli hibakusha e tutte le testimonianze raccolte nel Museo memoriale della Pace di Hiroshima, in Giappone, lo urlano al mondo intero, con il loro dignitoso sussurro.
È necessario e doveroso ricordare, sempre. Il 6 e il 9 agosto del 1945 due bombe nucleari furono sganciate ed esplosero nel cielo a 500 metri di altezza dal suolo delle due cittadine giapponesi. E a farlo sono stati gli americani, gli Stati Uniti d’America.
Ed ecco allora la verità del proverbio siberiano: nella fame, come nella guerra, non c’è differenza tra il lupo e il cane.
Nicolai Lilin afferma che è veramente difficile credere alla sincerità dei “democratici occidentali”, perché essi vedono le vittime solo quando a loro conviene, ovvero quando possono usarle per la loro ipocrita retorica propagandistica.
A onor del vero va detto che questo giudizio l’autore lo esprime in merito a delle considerazioni riguardo quanto accaduto in Siria, non riguardo l’attuale conflitto russo-ucraino.
Ma è un concetto che ben si presta, ahinoi, a una più ampia generalizzazione.
Non da ultimo l’esser costretti ad assistere all’ammirevole e certamente umano fenomeno della pronta e solidale accoglienza dei rifugiati ucraini, ma non riuscire a non pensare quando quelle medesime frontiere vengono letteralmente blindate e spinate per scoraggiarne l’attraversamento da parte di migranti e rifugiati che evidentemente non sonoabbastanza occidentali o europei.
Per tutti i politici e governanti occidentali l’obiettivo prioritario sembra essere quello di indebolire la Russia e soprattutto Putin, innanzitutto rinunciando alle forniture di gas.
Ma siamo davvero certi che ciò contribuirà in maniera sostanziale a salvare il popolo ucraino dall’aggressione militare russa?
Bisogna inoltre scongiurare un’aggressione russa all’Europa.
Ma siamo davvero certi che ciò sia mai stato nelle intenzioni di Vladimir Putin?
Osservando l’evoluzione dei combattimenti dal 23 febbraio ad oggi in realtà l’idea che si profila è tutt’altra. Ovvero che Putin sia ben intenzionato a mantenere il controllo sui territori russofoni dell’Ucraina. Può non essere un democratico ma Putin non è certamente uno sprovveduto o un folle in preda a un delirio. Ha un piano preciso. Lo ha sempre avuto in realtà. Ma prima di cadere noi stessi in un delirio distruttivo dovremmo forse, o avremmo dovuto, cercare di capirlo fino in fondo questo piano e comprendere al meglio chi lo porta avanti e, soprattutto, perché.
Karen Dawisha nel suo libro Putin’s Kleptocracy. Who owns Russia (Simon&Schuster, 2015) ha scritto che la Russia non va vista come una democrazia che sta per implodere, bensì come un regime che sta riuscendo a imporre il suo disegno autoritario. Il problema in Russia non è la mancanza di una cultura democratica, a mancare è proprio la volontà di instaurare una democrazia.
Evidente a questo punto l’errore, di cui parla Lilin, commesso dagli occidentali che si ostinano a guardare e cercare di comprendere l’universo russo attraverso la lente interpretativa occidentale.
Putin ha mostrato di essere in grado di cavalcare gli eventi e sfruttare al meglio soprattutto i momenti drammatici della storia del suo Paese. Sperare di scalfire il suo potere e la sua popolarità proprio quando egli, agli occhi del suo Paese, porta avanti una guerra di protezione e riscatto dei cittadini russofoni dell’Ucraina è davvero utopistico.
Come lo è pensare di schiacciare l’economia russa non acquistando più quel gas che ai paesi europei al momento serve tantissimo. Il gas russo è di buona qualità e viene venduto a un costo accessibile, facile supporre che si troveranno presto nuovi acquirenti. Ma le fabbriche, le industrie, le economie dei paesi europei, già fortemente provate, riusciranno a trovare in maniera parimenti agevole nuove vie da percorrere? E in breve tempo?
Al momento la risposta è per certo negativa, considerando anche la forsennata ricerca di fornitori alternativi cui si sta assistendo. Paesi fornitori i quali, per inciso, sono governati da leader che fino al 23 febbraio 2022 erano guardati con maggiore sospetto e ostilità rispetto a Putin. Ma ora, dicono, questo non conta. E domani poi cosa accadrà?
Nicolai Lilin scrive che gli uomini del calibro di Putin, abituati al potere, conoscono molto bene il passato e a volte sono anche in grado di prevedere qualche passo nel futuro.
Molti affermano sia un bene non avere leader simili nelle democrazie occidentali. Uomini che considerano il mondo come un grande scacchiere, che vedono guerre e conflitti come semplici mezzi utili per raggiungere i propri obiettivi. Non penso che sia così. Ci sono queste persone nell’universo occidentale, solo che possono non coincidere con i frontmen della politica.
Spesso Nicolai Lilin viene criticato e additato come russofilo, in un’accezione evidentemente negativa e dispregiativa. Nel leggere il suo libro e nell’ascoltare alcuni dei suoi interventi televisivi in realtà non si ha l’impressione di una persona intenzionata a fare propaganda per il suo Paese, tutt’altro.
Le sue posizioni verso il Cremlino sono molto critiche, come lo sono del resto verso i Paesi occidentali. Non si tratta però di posizioni e critiche generalizzate e immotivate, piuttosto obiezioni e valutazioni circoscritte ad accadimenti precisi. Il suo fine sembra essere valutare con la massima obiettività eventi e decisioni, indipendentemente da chi li compie. È certamente un modo di agire che evita o quantomeno riduce il rischio di posizioni scarsamente obiettive e viziate da pregiudizi e preconcetti.
Per Lilin sono quattro gli scenari cui si potrebbe assistere riguardo l’attuale conflitto russo-ucraino:
Molti analisti russi pensano che il fine di Putin non sia veramente occupare militarmente l’Ucraina ma solo dimostrare che lo può fare. Poi sfruttare questa azione dimostrativa nei colloqui diplomatici. Avanzare le sue richieste e in cambio concedere il ritiro delle truppe.
Si potrebbe avere una totale occupazione dell’Ucraina. Putin imporrà il suo governo e condurrà i colloqui con i Paesi NATO.
Il terzo scenario possibile vede il ritiro di Putin e il prevalere della diplomazia occidentale. Le sanzioni funzioneranno e Putin perderà l’appoggio degli oligarchi. La situazione in Russia si destabilizza.
L’Europa unita accetta l’ingresso in UE dell’Ucraina. La Russia a quel punto avrà invaso un Paese europeo e quindi si ritira. Non ci sarà il terzo conflitto mondiale ma, avverte Lilin, l’Europa avrà fatto entrare in UE un Paese dove è libera la vendita di armi.
Putin è un uomo che, giunto al Cremlino ha dovuto fare i conti con un Paese in ginocchio e un apparato amministrativo obsoleto e corrotto. Un presidente che ha esercitato ed esercita il potere con il pugno di ferro. Un uomo la cui linea politica, anche dopo venti anni, rimane immutata, disperatamente stagnante.
Giulietto Chiesa, guardando attraverso la lente di ingrandimento della russofobia attuale, ovvero nella Putinofobia, ci vedeva una Russia che, se gli occidentali fossero in grado di capirla, sarebbe uno straordinario ponte di comunicazione proprio per questa sua duplice essenza, europea e asiatica. È l’unico strumento che abbiamo noi europei per capire un po’ meglio l’Asia e il resto del mondo, che abbiamo colonizzato, ma ciò non vuol dire che lo abbiamo capito. Vuol dire solo che lo abbiamo vinto, conquistato, soggiogato.
La Russia può essere il tramite attraverso il quale l’Occidente può capire il resto il mondo. Ma l’Occidente questo non lo vuole, lo ha scartato da principio.
I vecchi attriti non sono mai stati risolti, forse congelati, come afferma Lilin, dai giochi diplomatici e dagli interessi una volta comuni. Interessi soprattutto di natura economica e finanziaria.
Conflitti cui vanno ad aggiungersi nuove tensioni, con grande sfortuna dell’umanità intera costretta a subire le conseguenze di questi assurdi giochi di poteri nei quali i cani e i lupi non fanno che confondersi o addirittura fondersi.
Putin. L’ultimo zar da San Pietroburgo all’Ucraina di Nicolai Lilin è certamente un libro che merita di essere letto senza necessariamente sentirsi o diventare russofili. È un libro che cerca di fare breccia in un mondo pressoché sconosciuto come il leader che lo rappresenta. Per capire. Per tentare almeno di capire quello che accade e perché.