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Irma Loredana Galgano

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Tutti colpevoli: “Putin” di Nicolai Lilin

27 venerdì Mag 2022

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NicolaiLilin, Piemme, Putin, recensione, romanzo

Stando ai dati forniti forniti da ACLED (Armed Conflict Location & Event Data Project), una parte sostanziale del nostro pianeta è impegnata in una qualche forma di conflitto che coinvolge forze statali o ribelli, o entrambe. 

Eppure, se fino al 23 febbraio 2022 in tutto l’Occidente nessuno o quasi parlava di conflitti e di guerra, impegnati come si era ancora nel “combattere” la pandemia o quel che ne restava, dal 24 febbraio 2022 praticamente non si parla d’altro. Perché?

È ormai cosa nota che il conflitto russo-ucraino ha avuto origine ben prima che iniziassero i bombardamenti anche sulla capitale Kiev. Inoltre sono in tanti ad affermare di aver previsto gli eventi in corso. Tra essi anche Nicolai Lilin, scrittore russo di origini siberiane, autore di Putin. L’ultimo zar da San Pietroburgo all’Ucraina (Piemme, 2022), il quale dà anche una possibile motivazione all’interesse verso questa determinata guerra che non è più solo un’idea o un argomento da salotto, bensì un conflitto armato alle porte d’Europa. 

Quindi è la vicinanza geografica a determinare l’interesse?

Le domande sono tante, come pure le risposte ma il vero problema risiede, per Lilin, nei presupposti sbagliati da cui si parte per analizzare quanto accade. Senza rendercene conto, il nostro modo di ragionare dipende da fattori legati alla nostra storia, cultura, tradizione. E spesso noi occidentali diamo per scontata una serie di concetti che non lo sono, perché a est, nel mondo orientale, i valori di riferimento sono altri, sono diversi. 

Per capire cosa effettivamente sta accadendo, Nicolai Lilin consiglia di mettere in fila e analizzare tutti gli argomenti utili a una disamina obiettiva, che cerchi di tenere presente la storia di Russia e Ucraina, le ambizioni geopolitiche ed economiche, il profilo dei leader che guidano i due paesi. 

Non ci sono dubbi sul fatto che l’Ucraina è un paese sovrano che avrebbe il diritto di scegliere il futuro che vuole. Neanche Lilin ha dubbi al riguardo. Come non ne nutre in merito al fatto che quanto sta accadendo, in una forma finale di abbrutimento, sia colpa di tutti non soltanto di Putin o della Russia. Sono tutti colpevoli, e responsabili. Tranne i civili, che sono gli unici innocenti in questa vicenda.

Per l’autore, dalla Guerra Fredda sono cambiate molte cose, ma l’Occidente non ha adeguato il suo spirito di osservazione alla nuova realtà putiniana. Se lo avesse fatto, avrebbe compreso per tempo le intenzioni di Putin, che erano chiare da tempo, e avrebbe, forse, potuto evitarle, fermarle, rallentarle. 

Vladimir Putin aveva deciso da un pezzo l’attacco all’Ucraina. Servono anni per preparare un’operazione di questo tipo – che ha l’obiettivo di smilitarizzare il paese -, scegliere le unità militari e disporre gli schieramenti.

Le esercitazioni militari congiunte tra Russia e Bielorussia avvenute in passato avevano per Lilin una doppia utilità:

  • Per l’esercito e i militari è stato un modo per provare sul terreno l’efficacia dei propri reparti, la logistica e la comunicazione.
  • Per la geopolitica internazionale era un chiaro segnale all’Occidente.

Non possono essere sfuggiti questi segnali. Di certo sono stati carpiti da Zelenskij che è sembrato il più preparato tra i leader occidentali.

Si chiede Lilin cosa esattamente l’Occidente non capisce, o non vuole comprendere del mondo russo.

Domande simili a quelle poste già da Giulietto Chiesa, il quale in Putinofobia (Piemme, 2016) raccontava della peculiarità tutta russa di essere un po’ Occidente e un po’ Oriente, e proprio per questo criptico e indecifrabile per gli occidentali. Inoltre, ogni volta che la Russia diventa più asiatica, l’Occidente inizia a perdere il controllo dei nervi. 

In entrambi i fronti le diplomazie sono state carenti, volutamente per Lilin. Da otto anni non si affrontano le questioni di fondo della vita delle persone nel Donbass, dove si contano oltre 14mila morti. 

Perché oggi si contano tutti i morti e se ne mostrano anche le immagini mentre fino a ieri ciò non sembrava interessare nessuno? 

Certo è che la guerra non produce alcuna soluzione. 

La Russia ha aggredito l’Ucraina, ma ognuna delle parti in causa non ha scongiurato l’escalation. 

Si potrebbe anche asserire semplicemente, come molti fanno, che Putin sia un dittatore spregiudicato, un assassino e che i suoi soldati siano dei criminali di guerra e che, quindi, l’unica cosa che conta è aiutare l’Ucraina e il suo presidente a resistere, ad ogni costo. 

Ma come si può anche lontanamente immaginare di vincere o sconfiggere un nemico che non si conosce e non si comprende?

Ricorre spesso, nella narrazione comune, il tema delle origini di Vladimir Putin, in particolare il suo essere o essere stato un agente dell’intelligence sovietica, il KGB poi diventato FSB, di cui è stato anche direttore. 

Non è certo un segreto che i servizi, in tutti gli Stati, hanno un potere enorme, a volte abnorme, e che la loro attività sia strettamente interconnessa e interdipendente con quella di istituzioni e governi. Risulta quindi molto interessante capire, provarci almeno, perché un agente abbia poi deciso di passare al potere politico pubblico, e di farlo non nascondendo il suo passato da agente dei servizi. 

E sarebbe anche interessante conoscere e comprendere l’entità e la diffusione reale di questo fenomeno nei vari Stati, nonché le motivazioni alla base di queste scelte.

Nicolai Lilin ricorda di essere cresciuto in una scuola e una comunità multietniche. Fino al 1992, allorquando la guerra civile in Transnistria non provocò una diffusione capillare dell’odio razziale nei confronti del mondo russo e di tutti coloro che erano rimasti fedeli al modello sovietico. Un malessere che partì dalla Moldavia e si estese a diverse piccole repubbliche e regioni etniche (Cecenia, Kazakistan, Turkmenistan, Uzbekistan, Ossezia, Armenia). 

Il partito nazionalista moldavo voleva far entrare il paese nella Nato nella convinzione che, con l’aiuto e l’appoggio degli Stati Uniti, sarebbe diventato una specie di paradiso fiscale. 

L’ambizione diffusa era allontanarsi dal sistema sovietico e avvicinarsi a quello democratico occidentale. 

Il che rispecchia un po’ quanto accaduto in quasi tutti gli Stati satellite dell’ex Unione Sovietica, Ucraina compresa.

Alcuni studiosi e biografi hanno scritto che il crollo dell’Unione Sovietica e le guerre civili da questo provocate furono alla base della fortuna politica di Putin, perché in quello che alla gente appariva come un periodo di caos e terrore, lui mostrò le proprie qualità di freddo e spietato stratega, concentrato sulla vittoria. 

Politicamente, Putin è una figura solitaria sul palcoscenico del potere in Russia. 

Il potere del Cremlino si regge non sul consenso popolare, bensì su quello di un’élite finanziaria che di fatto comanda, mentre l’apparato governativo avrebbe un ruolo strettamente funzionale agli interessi di tale élite.

Il che rimanda per sommi capi a quello che denunciavano attivisti e portavoce del Movimento Cinque Stelle della prima ora, allorquando dichiaravano insostenibile l’ingerenza delle lobby e della finanza sulle istituzioni governative e parlamentari italiane. 

Vladimir Putin non sembra mai aver avuto grandi manie di cambiamento. Per Lilin egli ha saputo sfruttare con abilità quel che nel Paese era già stato fatto prima di lui, creando però una nuova simbiosi tra il capitalismo, l’economia liberale d’ispirazione occidentale e l’impronta autoritaria dello “Stato forte”. E così tutti i mali del Paese semplicemente sono scivolati nel nuovo secolo: il potere dell’oligarchia, la corruzione, il cinismo delle élite finanziarie, l’assenza di libertà primarie quali quella di parola. 

Per quanto autoritario e forte possa apparire, Putin è pur sempre legato a un certo tipo di economia che non potrà mai davvero rivoluzionare, perché ciò metterebbe in difficoltà se stesso e il potere che rappresenta. 

Lui ha capito in fretta che l’opinione pubblica in Russia ha un’importanza relativa, mentre quella dei militari e delle strutture repressive ha un ruolo decisivo nel mantenimento e rafforzamento del potere. 

È stato solamente dopo aver costruito un solido rapporto con l’esercito, creato la Rosgvardija, stabilito un tandem vincente con la Chiesa ortodossa russa che Putin ha iniziato a dedicarsi seriamente alla politica estera. 

Per raggiungere i propri obiettivi, Putin ha investito parecchie energie, partecipando a tutti i summit internazionali importanti, sia politici che economici, nonché quelli legati al tema della sicurezza. Per Lilin, il momento cruciale è stata la Conferenza di Monaco del 2007, allorquando Putin delineò le sette tesi principali sulle quali si basa la sua politica estera:

  • Nelle relazioni internazionali non può esistere un modello unipolare.
  • Gli Stati Uniti devono smettere di imporre la propria visione politica.
  • Tutte le questioni che riguardano gli interventi militari devono essere decise soltanto dall’ONU.
  • Le iniziative politiche statunitensi sono aggressive.
  • La NATO non rispetta gli accordi internazionali.
  • L’OSCE è diventata uno strumento della NATO.
  • La Russia continuerà a impostare la propria politica estera basandosi solo sui propri interessi.

Da quel momento, la gran parte dei politici occidentali accusò Putin di essere il politico più aggressivo del mondo. Ma un proverbio siberiano recita: «Quando sono affamati, non c’è differenza tra il lupo e il cane».

Anche questa volta, come accaduto già in passato, i politici occidentali, con in testa gli Stati Uniti, hanno asserito di dover agire per scongiurare il pericolo di una guerra nucleare. Giusto. Giustissimo. Bisogna evitare assolutamente che una potenza militare arrivi ad usare qualunque tipologia di arma ma quella nucleare in particolare. 

Tutti gli hibakusha e tutte le testimonianze raccolte nel Museo memoriale della Pace di Hiroshima, in Giappone, lo urlano al mondo intero, con il loro dignitoso sussurro. 

È necessario e doveroso ricordare, sempre. Il 6 e il 9 agosto del 1945 due bombe nucleari furono sganciate ed esplosero nel cielo a 500 metri di altezza dal suolo delle due cittadine giapponesi. E a farlo sono stati gli americani, gli Stati Uniti d’America.

Ed ecco allora la verità del proverbio siberiano: nella fame, come nella guerra, non c’è differenza tra il lupo e il cane.

Nicolai Lilin afferma che è veramente difficile credere alla sincerità dei “democratici occidentali”, perché essi vedono le vittime solo quando a loro conviene, ovvero quando possono usarle per la loro ipocrita retorica propagandistica.

A onor del vero va detto che questo giudizio l’autore lo esprime in merito a delle considerazioni riguardo quanto accaduto in Siria, non riguardo l’attuale conflitto russo-ucraino.

Ma è un concetto che ben si presta, ahinoi, a una più ampia generalizzazione. 

Non da ultimo l’esser costretti ad assistere all’ammirevole e certamente umano fenomeno della pronta e solidale accoglienza dei rifugiati ucraini, ma non riuscire a non pensare quando quelle medesime frontiere vengono letteralmente blindate e spinate per scoraggiarne l’attraversamento da parte di migranti e rifugiati che evidentemente non sonoabbastanza occidentali o europei. 

Per tutti i politici e governanti occidentali l’obiettivo prioritario sembra essere quello di indebolire la Russia e soprattutto Putin, innanzitutto rinunciando alle forniture di gas.

Ma siamo davvero certi che ciò contribuirà in maniera sostanziale a salvare il popolo ucraino dall’aggressione militare russa?

Bisogna inoltre scongiurare un’aggressione russa all’Europa.

Ma siamo davvero certi che ciò sia mai stato nelle intenzioni di Vladimir Putin?

Osservando l’evoluzione dei combattimenti dal 23 febbraio ad oggi in realtà l’idea che si profila è tutt’altra. Ovvero che Putin sia ben intenzionato a mantenere il controllo sui territori russofoni dell’Ucraina. Può non essere un democratico ma Putin non è certamente uno sprovveduto o un folle in preda a un delirio. Ha un piano preciso. Lo ha sempre avuto in realtà. Ma prima di cadere noi stessi in un delirio distruttivo dovremmo forse, o avremmo dovuto, cercare di capirlo fino in fondo questo piano e comprendere al meglio chi lo porta avanti e, soprattutto, perché.

Karen Dawisha nel suo libro Putin’s Kleptocracy. Who owns Russia (Simon&Schuster, 2015) ha scritto che la Russia non va vista come una democrazia che sta per implodere, bensì come un regime che sta riuscendo a imporre il suo disegno autoritario. Il problema in Russia non è la mancanza di una cultura democratica, a mancare è proprio la volontà di instaurare una democrazia. 

Evidente a questo punto l’errore, di cui parla Lilin, commesso dagli occidentali che si ostinano a guardare e cercare di comprendere l’universo russo attraverso la lente interpretativa occidentale.

Putin ha mostrato di essere in grado di cavalcare gli eventi e sfruttare al meglio soprattutto i momenti drammatici della storia del suo Paese. Sperare di scalfire il suo potere e la sua popolarità proprio quando egli, agli occhi del suo Paese, porta avanti una guerra di protezione e riscatto dei cittadini russofoni dell’Ucraina è davvero utopistico.

Come lo è pensare di schiacciare l’economia russa non acquistando più quel gas che ai paesi europei al momento serve tantissimo. Il gas russo è di buona qualità e viene venduto a un costo accessibile, facile supporre che si troveranno presto nuovi acquirenti. Ma le fabbriche, le industrie, le economie dei paesi europei, già fortemente provate, riusciranno a trovare in maniera parimenti agevole nuove vie da percorrere? E in breve tempo?

Al momento la risposta è per certo negativa, considerando anche la forsennata ricerca di fornitori alternativi cui si sta assistendo. Paesi fornitori i quali, per inciso, sono governati da leader che fino al 23 febbraio 2022 erano guardati con maggiore sospetto e ostilità rispetto a Putin. Ma ora, dicono, questo non conta. E domani poi cosa accadrà?

Nicolai Lilin scrive che gli uomini del calibro di Putin, abituati al potere, conoscono molto bene il passato e a volte sono anche in grado di prevedere qualche passo nel futuro. 

Molti affermano sia un bene non avere leader simili nelle democrazie occidentali. Uomini che considerano il mondo come un grande scacchiere, che vedono guerre e conflitti come semplici mezzi utili per raggiungere i propri obiettivi. Non penso che sia così. Ci sono queste persone nell’universo occidentale, solo che possono non coincidere con i frontmen della politica. 

Spesso Nicolai Lilin viene criticato e additato come russofilo, in un’accezione evidentemente negativa e dispregiativa. Nel leggere il suo libro e nell’ascoltare alcuni dei suoi interventi televisivi in realtà non si ha l’impressione di una persona intenzionata a fare propaganda per il suo Paese, tutt’altro. 

Le sue posizioni verso il Cremlino sono molto critiche, come lo sono del resto verso i Paesi occidentali. Non si tratta però di posizioni e critiche generalizzate e immotivate, piuttosto obiezioni e valutazioni circoscritte ad accadimenti precisi. Il suo fine sembra essere valutare con la massima obiettività eventi e decisioni, indipendentemente da chi li compie. È certamente un modo di agire che evita o quantomeno riduce il rischio di posizioni scarsamente obiettive e viziate da pregiudizi e preconcetti. 

Per Lilin sono quattro gli scenari cui si potrebbe assistere riguardo l’attuale conflitto russo-ucraino:

  • Molti analisti russi pensano che il fine di Putin non sia veramente occupare militarmente l’Ucraina ma solo dimostrare che lo può fare. Poi sfruttare questa azione dimostrativa nei colloqui diplomatici. Avanzare le sue richieste e in cambio concedere il ritiro delle truppe.
  • Si potrebbe avere una totale occupazione dell’Ucraina. Putin imporrà il suo governo e condurrà i colloqui con i Paesi NATO.
  • Il terzo scenario possibile vede il ritiro di Putin e il prevalere della diplomazia occidentale. Le sanzioni funzioneranno e Putin perderà l’appoggio degli oligarchi. La situazione in Russia si destabilizza.
  • L’Europa unita accetta l’ingresso in UE dell’Ucraina. La Russia a quel punto avrà invaso un Paese europeo e quindi si ritira. Non ci sarà il terzo conflitto mondiale ma, avverte Lilin, l’Europa avrà fatto entrare in UE un Paese dove è libera la vendita di armi.

Putin è un uomo che, giunto al Cremlino ha dovuto fare i conti con un Paese in ginocchio e un apparato amministrativo obsoleto e corrotto. Un presidente che ha esercitato ed esercita il potere con il pugno di ferro. Un uomo la cui linea politica, anche dopo venti anni, rimane immutata, disperatamente stagnante. 

Giulietto Chiesa, guardando attraverso la lente di ingrandimento della russofobia attuale, ovvero nella Putinofobia, ci vedeva una Russia che, se gli occidentali fossero in grado di capirla, sarebbe uno straordinario ponte di comunicazione proprio per questa sua duplice essenza, europea e asiatica. È l’unico strumento che abbiamo noi europei per capire un po’ meglio l’Asia e il resto del mondo, che abbiamo colonizzato, ma ciò non vuol dire che lo abbiamo capito. Vuol dire solo che lo abbiamo vinto, conquistato, soggiogato.

La Russia può essere il tramite attraverso il quale l’Occidente può capire il resto il mondo. Ma l’Occidente questo non lo vuole, lo ha scartato da principio.

I vecchi attriti non sono mai stati risolti, forse congelati, come afferma Lilin, dai giochi diplomatici e dagli interessi una volta comuni. Interessi soprattutto di natura economica e finanziaria. 

Conflitti cui vanno ad aggiungersi nuove tensioni, con grande sfortuna dell’umanità intera costretta a subire le conseguenze di questi assurdi giochi di poteri nei quali i cani e i lupi non fanno che confondersi o addirittura fondersi.

Putin. L’ultimo zar da San Pietroburgo all’Ucraina di Nicolai Lilin è certamente un libro che merita di essere letto senza necessariamente sentirsi o diventare russofili. È un libro che cerca di fare breccia in un mondo pressoché sconosciuto come il leader che lo rappresenta. Per capire. Per tentare almeno di capire quello che accade e perché.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de Piemme per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne l’immagine di copertina e il grafico ACLED, credits www.pixabay.com


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“L’altro uomo” di Theresa Melville

06 venerdì Mag 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LaltroUomo, MariaTeresaCasella, recensione, romanzo, TheresaMelville

Cosa fare quando i ruoli che ti impone la vita ti impediscono di dare libero sfogo a desideri e passioni? Come comportarsi quando non si riesce a compiere scelte più audaci e ardimentose del fuoco della passione che ti arde dentro?

Non è solo la mente di Jennifer Dudley, duchessa di Rutherford, a soffrire della grave situazione. È il cuore a darsi il tormento più grande, a non voler soccombere alle rigide regole, sociali e familiari, che il rango cui appartiene leimpongono. 

È il cuore di una giovane donna che non vuole abbandonare l’idea di vivere appieno l’amore senza compromessi, la passione travolgente e una vita intera dominata dai sentimenti e non della buone maniere. Non riesce la mente di Jennifer a fermare le vibranti pulsioni del cuore e soccombe a quella folgorante passione che potrebbe anche segnare la sua rovina. 

Theresa Melville costruisce, intorno a questo grande amore, un intreccio interessante e ben strutturato che si sviluppa all’interno di sfarzose dimore e castelli dell’Inghilterra di inizio Ottocento, con pochi ma interessanti riferimenti al contesto storico più generale.

Non appesantisce l’autrice i discorsi e la narrazione con espressioni tipiche del periodo, preferendo impiegare un registro narrativo più contemporaneo, per così dire. Per cui, tranne limitate parti all’interno del testo, la narrazione risulta molto familiare e la lettura scorrevole. 

Se il lettore non pensa all’ambientazione e si concentra solo sulla storia e sulle parole dei protagonisti, potrebbe anche immaginarseli in un qualsiasi altro posto del mondo e in una qualsiasi altra epoca storica. Il che è molto interessante da indagare. Il libro è ambientato nell’epoca vittoriana che, per antonomasia, viene indicata come l’emblema del pudore e delle buone maniere. A volte sembra che Melville abbia scelto questo preciso periodo storico proprio per mettere in risalto le contraddizioni di tanto decantato puritanesimo. 

D’altronde sono innumerevoli i punti di incontro finanche con la contemporaneità. Purtroppo e paradossalmente verrebbe da dire. Presumibilmente è anche per questo che l’autrice ha voluto donare ai protagonisti uno slang moderno, per creare un legame più che simbolico con l’attualità.

L’altro uomo è un romanzo nel quale non mancano punti di suspense e mistero che contribuiscono a rendere avvincente la storia e ancor più accattivante la lettura. 

Gioca molto Melville sulle apparenze e sui significati incrociati di gesti e parole. Lo scopo è per certo tenere alta l’attenzione di chi legge, il quale si ritrova come rapito dalla lettura, nel tentativo di dare giusto rilievo ai personaggi. Individuare buoni, cattivi e traditori si rivela essere un ottimo espediente. L’autrice ha centrato per certo il suo obiettivo. 

Il buio, la tristezza e l’amarezza delle pagine centrali lasciano poi il posto alla gioia e alla speranza del finale, che si apre all’amore e alla vita come ci si aspetta da un romance che sia davvero tale. Un finale che non è però così scontato e prevedibile come si può temere leggendo libri afferenti a questo particolare genere. Risulta invece essere molto ben studiato, come il resto della storia. 

Un libro che sembra rapire il lettore tra le sue stesse pagine, dov’egli potrà lasciare libero arbitrio alla fantasia e all’immaginazione. Esattamente come fa la stessa protagonista scrivendo le pagine del suo diario che raccoglie non solo i battiti del suo cuore ma dell’intera sua vita. Le pagine de L’altro uomo sono meno ingiallite e meno segrete ma egualmente avvincenti e struggenti. 


Il libro

Theresa Melville, L’altro uomo, 2022, riedizione in self-publishing del libro uscito nel 2009 all’interno del volume Amanti perduti, Mondadori, Milano.

L’autrice

Theresa Melville, pseudonimo di Maria Teresa Casella: autrice di romance storici e di noir. Già giornalista e copywriter.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’autrice per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Madri” di Marisa Fasanella (Castelvecchi, 2021)

04 lunedì Apr 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Castelvecchi, Madri, MarisaFasanella, recensione, romanzo

Nei vicoli storti, fuori e dentro le mura del manicomio,

Lena si appunta su foglietti di carta

le storie che ha udito, per non dimenticarle,

e le custodisce in una borsa di tela rossa.

L’uomo che suonava l’organetto sotto le finestre del manicomio la aspetta sul molo. 

Ti racconto una storia, gli sussurra lei all’orecchio, e poi un’altra e un’altra e ancora un’altra…

Sono storie di confino, dal luogo dove rinchiudono le donne che urlano per le strade e non si lavano e non si pettinano;

storie di uomini che vogliono le donne come proprietà, 

animali per figliare, serve per accudire.

Sono storie di morti e nascite violente, di case-prigioni. 

Nell’immaginario collettivo, la Calabria è come il dio bifronte Giano. O la amatissima meta turistica con il suo splendido mare e l’ottimo cibo, oppure la temutissima terra aspra come le sue montagne, piena di covi, nascondigli, segreti e Male.

Ma la Calabria raccontata da Fasanella nei suoi libri non appartiene ad alcuno di questi fronti, oppure a entrambi. 

L’autrice narra la storia delle donne che vivono o che hanno vissuto quel territorio. Le cui vite sono scivolate attraverso i muri, i pavimenti, i camini sempre accesi e sono giunte fino a noi.

Hanno fatto sentire così la loro voce, altrimenti muta e silenziosa, come i granelli non della sabbia delle spiagge ma della cenere del fuoco con la brace ancora viva, ardente come l’amore, la passione, la sofferenza, il dolore… come i sentimenti che le vanno a comporre quelle vite che Fasanella tramanda. 

Racconta la vita, Fasanella, ma quella intima, quotidiana, personale. Una vita che si consuma tra le mura di abitazioni che possono anche essere o diventare prigioni, o tra quelle di manicomi che prigioni lo sono davvero.

Aliti di vita che sembrano entrare in ogni seppur minima crepa di questi muri, negli oggetti, nei tessuti, come nelle persone, nella loro anima egualmente scalfita dalle crepe lasciate dalla stessa vita. 

Il registro narrativo di Madri è molto introspettivo, come le storie di cui racconta. Frasi brevi, spesso minime, periodi che sembrano la trascrizione letterale dei pensieri e delle immagini presenti nella mente dei protagonisti, delle protagoniste, le cui azioni reali, concrete, si fondono e si confondono con i pensieri, i ricordi, i desideri, i tormenti. 

Ricorre nei racconti di Madri l’immagine di queste donne che cercano la luce, l’aria, il respiro attraverso i vetri delle finestre e più ancora affacciandosi al balcone, in gesti assolutamente ordinari che assumono nelle parole dell’autrice una valenza simbolica di straordinaria importanza e significato. È l’anelito di libertà che, nonostante tutto, muove ancora la mente e il corpo di queste martoriate donne, di queste “indegne” madri. 

Madri che si sentono immeritevoli oppure schiacciate, soffocate quasi da questo ruolo come da quello di mogli, e lo sono o lo diventano perché vittime di umiliazioni e vessazioni psichiche e fisiche. 

Madri, donne che si guardano a vicenda, si studiano, si cercano ma senza mai trovarsi davvero. Senza volerlo in realtà perché, pur nella loro somiglianza, rifiutano di identificarsi le una nelle altre, proprio in virtù di ciò che esse rappresentano per la società: donne di scarto, madri folli, persone indegne, rifiuti umani. 

Tutta questa oppressione influenza e condiziona la mente di queste donne al punto che esse, nel sentirsi inadeguate e inutili, finiscono col desiderare la fine, la morte, il suicidio. 

«Abito questo luogo chiuso da muri e cancelli. Sono finestre alte fino al soffitto 

quelle si affacciano sul parco, chiuse dalle grate, profonde come nicchie, 

si vede solo il cielo nuvolo di questo giorno di fine ottobre, 

si vede che è ancora giorno ma sembra notte. 

Una nebbia fitta ha avvolto il mondo.

Non li chiamano più manicomi. Lo stesso ci legano le braccia,

frugano nelle nostre carni, scavano nelle pupille: siamo merce di scarto.»

Paul Cezanne, Madre dell’artista, olio su tela, 1867

Le donne, le madri di cui scrive Fasanella sono anime e corpi inquieti. Tormentate dai ricordi, dai sogni infranti, dagli amori sbagliati, dai comportamenti “storti” che originano conseguenze “storte”, punizioni spesso malvagie e crudeli, ingiuste e dolorose. 

Più volte si forma nella mente di chi legge un’immagine che rimanda al torso ormai spolpato di una mela, una pera oppure di un qualsiasi frutto. Ai raspi acerbi privati di ogni acino d’uva. 

Queste donne, che hanno imparato fin da piccole la durezza della vita, mostrano sul loro corpo i segni di questa brutalità quasi primitiva, certamente arcaica, ma è soprattutto nella loro anima che si leggono chiaramente i segni dei traumi, scalfiti e profondi come solchi rigati da un grosso aratro. 

Queste donne che per secoli non hanno avuto voce, vittime di una cultura che le relega a un ruolo marginale all’interno della società e della casa. Donne la cui voce resterebbe ancora muta se non fosse la ribellione e il coraggio di chi sceglie, comunque, di parlare, di urlare a gran voce il diritto di esistere, di amare, di sognare, di sbagliare. 

Durante la sua indagine, condotta in lungo e in largo per l’Italia, ciò che ha meravigliato molto Gaia van der Esch è stata la reticenza, l’insicurezza, la riservatezza mostrate dalle donne italiane. Mentre gli uomini, per la maggiore, si sono mostrati più spavaldi e sicuri, per così dire, nelle risposte, le donne esternavano spesso un’insicurezza e un’indecisione non necessariamente dovute a lacune o ignoranza.1 A ciò facilmente si potrebbe obiettare che si è trattato di una casualità. Potrebbe anche darsi ma più probabilmente ciò è il riflesso preciso della realtà, basterebbe osservarla con più attenzione. Come ha fatto Gaia van der Esch. Come fa Marisa Fasanella.

Scrive Peter May ne L’uomo di Lewis che la piccola Ceit ha dovuto imparare presto quanto il mondo può essere più difficile per una giovane donna rispetto a un uomo e che doveva imparare quanto prima a difendersi dagli adulti che la consideravano un peso o peggio un’occasione.2

Rispetto ai libri precedenti, la scrittura di Marisa Fasanella è diventata ancora più intimistica, anche se con ogni probabilità non strettamente personale. Appare fortissimo il legame tra i personaggi e la scrittura che li ha originati. Un certo distacco invece si evince tra i personaggi e la mente di chi li ha originati. Quasi come se l’autrice volesse lasciarli liberi di parlare, di raccontare da sé la loro storia. È questo un “artificio” narrativo di straordinario interesse. 

Sembra quasi che Fasanella non volesse prendersi il merito di averli creati, generati, lasciando il cono di luce e l’intero palcoscenico a loro. 

Una situazione che a tratti ricorda quella generatasi in Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello.3 Qui le protagoniste, le donne, le madri sembrano cercare la loro autrice, il suo assenso, come nel timore di poterla in qualche modo deludere. Il tutto potrebbe anche essere un grande gioco, perfettamente riuscito, della stessa autrice. 

Le storie raccontate in Madri sono dei labirinti intrecciati di vita, ricordi, speranze e sogni infranti, dolore, amore e passione sfioriti, paura e follia. Un viluppo che si inerpica tra le parole tentando di vincerle, di uscire dalle pagine del libro e al contempo restarne imprigionate. Quasi come queste, tutto sommato, rimandano in loro un certo senso di sicurezza e stabilità, esattamente come accade con i muri e le inferriate dei manicomi, all’interno dei quali e in una maniera forse incomprensibile le donne arrivano addirittura a sentirsi a proprio agio, come a casa, più che a casa.

«Da questo luogo non è mai uscito nessuno fino a quando non li hanno chiusi. 

Mi hanno liberata nel mondo e non sapevo dove andare.»

Marc Chagall, Madre per il forno, olio su tela, 1914

Fasanella racconta storie dure, tristi. Storie di soprusi, dolore, violenza. Aggressività fisica e verbale di uomini contro donne. Ma racconta anche quello che c’è dietro o prima. Le privazioni, le umiliazioni perpetrate da altre donne, le stesse cui è stato universalmente riconosciuto il compito di crescere, educare, accudire, amare. Madri. Nonne. Zie. 

Traspaiono così dai racconti dell’autrice tutte le pecche di una cultura che è ancora molto indietro, per rispetto reciproco e senso civico. Una cultura nella quale chi non si allinea, chi è diverso viene additato come malato o pazzo.

Eppure in ognuno di noi albergano follia e malvagità. Bisogna solo vedere in che misura. 

Di certo il libro di Marisa Fasanella non è una lettura distensiva. Il lettore capisce fin da subito di trovarsi tra le mani un testo con uno scopo. Che il suo raccontare «storie che vengono da lontano» serve a non lasciare «al buio le donne che sono venute prima e quelle che verranno». L’importante è sapersene prendere cura. 

Un libro, Madri di Marisa Fasanella, che è un insieme di storie ma è soprattutto un ottimo romanzo moderno. 


Il libro

Marisa Fasanella, Madri. Storie di Lena di luna e di maree, Castelvecchi Editore, Roma, 2021.

L’autrice

Marisa Fasanella: autrice di numerosi romanzi e racconti. Vincitrice dei Premi Letterari Corrado Alvaro e Vincenzo Padula. Menzione della giuria del Rapallo-Carige.


1Gaia van der Esch, Volti d’Italia. Viaggio nei nostri pensieri, desideri e paure, Il Saggiatore, Milano, 2021.

2Peter May, L’uomo di Lewis, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2013.

3Luigi Pirandello, Guido Davico Bonino (a cura di), Sei personaggi in cerca d’autore, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014.


Pablo Picasso, Maternità, olio su tela, 1867

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“Volti d’Italia. Viaggio nei nostri pensieri, desideri e paure” di Gaia van Der Esch (ilSaggiatore, 2021)

“L’uomo di Lewis” di Peter May (Einaudi Stile Libero, 2013)

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Recensione a “Il tesoriere” di Gianluca Calvosa (Mondadori, 2021)

28 martedì Set 2021

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GianlucaCalvosa, Iltesoriere, Mondadori, recensione, romanzo

Si sente spesso la frase “chi non c’era non potrà mai capire”. E, in affetti, spiegare a qualcuno un’intera epoca non è certamente cosa facile. Gli anni Settanta, figli diretti del ’68 e di quella rivoluzione civile che ha abbracciato, travolto e stravolto l’Italia e il mondo intero, almeno quello occidentale in maniera diretta e la resta parte in modo indiretto o consequenziale. Un periodo storico in cui innumerevoli sono stati i cambiamenti, le trasformazioni che hanno traghettatola società direttamente all’oggi. 

Ma gli anni Settanta non sono stati “solo questo”. Si è assistito a una mutazione che, se fosse riferita al campo della biologica, verrebbe indicata come genetica. Per due motivi: da un lato ha interessato il nucleo centrale e profondo della società, dall’altro ne ha modificato i codici di comportamento e azione.

Gianluca Calvosa, scrivendo Il tesoriere, sembra aver voluto in primis parlare di questo determinato periodo storico, dei suoi meccanismi, dei suoi misteri e, solo in seconda linea, raccontare la storia del suo romanzo. Una storia nella quale vivono e rivivono democristiani, comunisti, esponenti della Cia, del Kgb, dei servizi italiani, di quelli deviati, brigatisti e prelati del Vaticano. Una vicenda di spionaggio e intrighi internazionali che vede al suo centro, e fungere da baricentro, l’Italia, Roma. Una città che nasconde, dietro il volto spensierato della Dolce Vita, la sua vera natura. 

Il protagonista del romanzo di Calvosa si chiama Andrea Ferrante. Un funzionario politico impiegato in un anonimo ufficio milanese, dove ha svolto per quattordici anni un altrettanto ordinario ruolo professionale. Un uomo stanco e demotivato, convinto di aver fallito ormai nella ricerca e nel raggiungimento dei propri traguardi, delle proprie aspirazioni. Un personaggio che si sente vinto dalla vita che ormai sembra volerlo per forza condannare all’infelicità. Agenerare irrequietezza in Ferrante è l’ambizione cosicché, non appena gli si presenta uno spiraglio, si scaglia pronto ad afferrare la gloria luminosa del successo, ignaro del fatto che ciò che gli rimarrà sarà effimero proprio come il desiderio di voler catturare un fascio di luce, un bagliore che lo ha accecato e travolto, come ha fatto l’ambizione prima e faranno gli eventi poi.

Andrea Ferrante vive come la realizzazione di un sogno l’essere convocato a Roma per un incarico di tutto rispetto all’interno di quel partito in cui tanto ha voluto credere. La nomina a tesoriere lo lascia basito. Ma sarà la notizia della morte violenta del suo predecessore a sconvolgerlo ancor di più. Inizia così ben presto lo squilibrio emotivo e psichico del protagonista che genererà poi un vero e proprio tormento. 

L’indagine per arrestare il flusso di denaro proveniente da Mosca trascinerà Ferrante all’interno di un mondo dai più ignorato, spesso definito “parallelo” perché coesiste al fianco di quello a tutti noto ma di cui non si conoscono regole e protagonisti. Un mondo animato da spie, agenti dei servizi, personaggi loschi, oscuri e personalità borderline, che vivono la loro vita in entrambe le realtà. 

Non cede però l’autore al fascino di creare una spy story che richiama gli aspetti romanzati e scenografici cui spesso letteratura e cinema hanno abituato il pubblico. Un grande pregio di questo libro è racchiuso proprio nel fatto di non aver spettacolarizzato il mondo parallelo, ma di averlo “semplicemente” raccontato al lettore. 

La storia che vede coinvolti i personaggi del libro di Calvosa si snoda nei meandri di un mondo più che realistico, reale. 

È vero che Il tesoriere è un romanzo di fantasia, non lo si può certo ignorare questo, tuttavia anche la migliore letteratura del Novecento si compone di romanzi di fantasia i quali, però, raccontano l’Italia che era e le persone che la abitavano. 

Il tesoriere di Gianluca Calvosa è un gran bel romanzo novecentesco, scritto nel XXI secolo. 


Il libro

Gianluca Calvosa, Il tesoriere, Mondadori, Milano, 2021, pagg. 396, €19.00

L’autore

Gianluca Calvosa: dopo essersi laureato in ingegneria ha svolto una intensa attività manageriale. Ha fondato OpenEconomics e Standard Football. Già direttore de Il Riformista, New Politics e Quaderni Radicali, ha contribuito alla fondazione del magazine Formiche, di cui è tuttora presidente. 


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“La congiura delle passioni” di Pietro De Sarlo (Altrimedia Edizioni, 2021)

26 lunedì Lug 2021

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Altrimedia, Lacongiuradellepassioni, PietrodeSarlo, recensione, romanzo, romanzostorico

«Capire la Storia e le regioni del Sud è indispensabile per la costruzione di uno Stato realmente Unitario con pieni diritti e dignità per tutti i territori e le persone che ci vivono e che ancora non c’è. Ed è importante soprattutto se una nuova costruzione, quella europea, procede ripetendo spesso, mutatis mutandis, gli stessi errori di quella dell’Italia unita»

È con queste esatte parole che Pietro De Sarlo spiega, nell’appendice del libro, ai suoi lettori il motivo per cui ha ritenuto doveroso e necessario scrivere La congiura delle passioni. Un romanzo nel quale realtà storica e immaginazione si intrecciano originando una fitta trama. La narrazione passa, ripetutamente, dal particolare al globale e viceversa. Le storie di ordinaria vita quotidiana dei protagonisti sono modellate dalle vicende che hanno fatto da preludio al Risorgimento italiano. Grandi accadimenti che hanno finito per condizionare, a volte indirettamente, anche l’esistenza di residenti piccoli e in apparenza ameni borghi incastonati lungo la dorsale appenninica.

Fin dalle prime pagine di questa nuova opera narrativa di De Sarlo, si denota una migliorata capacità descrittiva che rende subito comprensiva e accattivante la scena al lettore, il quale si sente come immerso e rapito nell’ambiente sapientemente descritto. I personaggi sono ben caratterizzati e rappresentano il perfetto trait d’union tra la loro personale storia e quell’Italia intera. 

Ritornano, anche in questo nuovo romanzo, i riferimenti alla magia e alla scaramanzia a cui Pietro De Sarlo aveva già abituato i suoi lettori. Non che al giorno d’oggi queste credenze siano scomparse o anomale, ma nel contesto storico e ambientale de La congiura delle passioni risultano più armonizzate nelle vicende narrate. 

«Non sono uno storico ma per scrivere questo libro mi sono avvalso del lavoro di storici e di documenti originali dell’epoca cercando di immaginare come fosse la vita delle famiglie, delle comunità e delle persone in uno dei borghi montani di Basilicata in quel periodo.»

Monte Saraceno è un toponimo di fantasia ma potrebbe benissimo essere uno qualsiasi dei tanti paesi dislocati sull’Appennino lucano. Le dettagliate descrizioni delle vie, dei palazzi, delle abitazioni, finanche dei panorami lasciano intendere che De Sarlo si sia ispirato a un luogo a lui particolarmente caro, o, quantomeno, abbia assemblato elementi di diverse località e li abbia fatti tutti confluire nel suo luogo ideale.

È vero quanto egli stesso scrive: De Sarlo non è uno storico di professione. Infatti il suo libro non è un saggio in senso stretto né un’opera accademica o scientifica. È un romanzo storico nel quale egli ha sintetizzato le sue conoscenze, quanto appreso dalle ricerche bibliografiche preliminari alla stesura del testo, le sue personali idee sull’Italia di allora e quella di oggi e ha fuso il tutto intrecciandolo con le vicende di fantasia vissute dai protagonisti del libro. Guardandola in quest’ottica, è un’operazione ben riuscita. La scrittura è scorrevole, la storia ben costruita, il finale interessante. Il libro, nel suo complesso, con le dovute differenze, risulta essere molto più vicino a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che a un saggio storico o d’inchiesta. 

Cambia, naturalmente, il punto di vista dell’autore, in quanto La congiura delle passioni è opera di un uomo del XXI secolo che guarda al passato, all’era risorgimentale, a quanto accaduto in quei territori che poi sono diventati l’Italia ma guarda anche all’Europa, politicamente intesa e confluita nell’Unione Europea. De Sarlo non si è limitato a scrivere ciò che già conosceva dei luoghi di Basilicata, oppure le mere suggestioni della sua fantasia, no egli ha svolto un preventivo lavoro di indagine documentale e bibliografica anche da testi molto validi, riportato per esteso alla fine del libro, e questo è per certo positivo. Naturalmente ha poi rielaborato molte delle informazioni apprese per meglio adattarle alla storia narrata, senza comunque mai stravolgerle del tutto. 

Il Risorgimento italiano è uno dei periodi storici più dibattuti, non certo privo di contraddizioni e opposizioni. Sicuramente una fase che merita approfondimenti e analisi, veritieri e imparziali. Gli strumenti per una corretta conoscenza oggi di certo non mancano eppure, spesso, sembra che, al pari di tanti altri argomenti e aspetti seri, si preferisca scadere in aride polemiche che non aiutano la ricerca della verità, piuttosto la ostacolano. 

Frederick Douglass, tra i più noti attivisti dei movimenti per i diritti degli afroamericani del finire del XIX secolo, sosteneva che il suo ruolo fosse quello di raccontare la storia dello schiavo perché, per i vincitori, i narratori non erano mai mancati. E non sono mai mancati. Neanche per il Risorgimento italiano. Ben vengano quindi anche i narratori dei “non vincitori” italiani perché anche se la verità si trovasse non da una parte né dall’altra ma nel mezzo è sempre e comunque meglio conoscerla che ignorarla. 

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Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale

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“Sbirri e culicaldi” di Stefano Talone (Ensemble, 2020)

10 mercoledì Feb 2021

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Ensemble, recensione, romanzo, Sbirrieculicaldi, StefanoTalone, thriller

Ambientazione, personaggi, suspence, stile narrativo e, soprattutto, trama sono gli elementi che in un buon libro giallo non devono mancare o altalenare. Nel suo poliziesco d’esordio, Stefano Talone ce l’ha messa tutta affinché il testo presentato ai lettori non mostrasse carenza alcuna. E, in effetti, Sbirri e culicaldi si fa leggere con piacere. Unica pecca è il ritmo iniziale un po’ lento, rispetto anche al resto del libro che, al contrario, mostra una narrazione più serrata, sorretta da un ritmo molto più incalzante, perfetto per libri di questo genere.

Come scrivevo, gli elementi topici ci sono tutti e si presentano bene. L’ambientazione è suggestiva e perfetta per un romanzo che vede scendere in campo polizia, agenti segreti e minacciosi terroristi. Londra, forse anche a seguito della fortunata produzione letteraria di Ian Fleming e sicuramente ancor di più per le versioni cinematografiche con protagonista lo 007 con licenza di uccidere, è diventata, nell’immaginario collettivo, simbolo delle spy stories.

Nel libro di Talone lo spionaggio veste i panni dell’attualità aprendo le indagini alla minaccia incombente di attacchi terroristici che, tristemente, anche di recente hanno campeggiato sui titoli dei giornali europei per settimane. Ed è proprio grazie a questo tema di stretta attualità che l’autore riesce bene a raccontare anche della società che si è costruita tutta intorno a queste minacce e, al contempo, alla medesima società che ha originato i malesseri che questo terrorismo hannogenerato.

Il fenomeno dell’immigrazione, con i problemi a esso connessi e mai risolti. Le mille difficoltà di uno stato sociale assente, latitante o carente. Gli strati di culture e sub-culture che si intrecciano e si incontrano almeno quanto si scontrano e che generano sempre e inevitabilmente dei vuoti e delle lacune difficili da colmare.

Sbirri e culicaldi è anche un viaggio nelle periferie, nei sobborghi multietnici della capitale inglese, una sorta di cammino per incontrare, forse anche per conoscere, i vari e variegati personaggi che sembrano essere tenuti uniti, legati da una solo in apparenza inspiegabile voglia di fede e di martirio. Il racconto che Talone fa della sua Londra contemporanea lascia trasparire le mille difficoltà e i tanti ostacoli che ancora persistono e impediscono una effettiva e totale integrazione, anche dei cosiddetti immigrati di seconda o, addirittura, terza generazione. Le mille sfaccettature, per nulla rosee, di una società che si sponsorizza come multietnica ma lo fa nascondendo forse anche a se stessa i tanti risvolti negativi e nodi ancora da sciogliere.

«Non è facile fare parte di una cultura fuori dal paese che ha dato la vita ai tuoi genitori… Vanno in giro senza essere niente. Né pakistani, né britannici. Sanno solo di essere vivi e di volere cambiare il mondo.»

Il romanzo è scritto molto bene. Talone più volte si sofferma nella descrizione dettagliata e minuziosa, anche di tecniche specifiche di indagine, ma senza appesantire troppo la narrazione e riesce a portare avanti la storia sciogliendo tutti i nodi, i vari intrecci che rendono ancora più interessante la lettura e sorprendente il finale.

Sarà la ricerca di due ragazzi culicaldi, ovvero sospettati di essere potenziali attentatori, che farà incontrare e a volte scontrare i detective di Scotland Yard con gli agenti dell’Antiterrorismo, che dà la possibilità all’autore di mostrare al lettore le diverse fasi e le differenti procedure di indagine, nonché le difficoltà che incontrano gli investigatori allorquando si scontrano con la farraginosa macchina burocratica la quale, impegnata e vincolata com’è al rispetto di tempi e regole ferree, appare troppo lontana da una realtà in continuo divenire e ostacolo, essa stessa, alla giustizia.

Victor Gell e Oliver Outeberry, veri protagonisti del libro, sono entrambi, anche se ognuno a modo proprio, detective che credono in quello che fanno. La loro abnegazione li ha portati a compiere scelte anche difficili, a fare rinunce, a scontrarsi con superiori e amministrazione… ciò a cui proprio non riescono e non vogliono rinunciare è loro stessi, quello che sono o che sono diventati. Traspare, da questo atteggiamento, molto ben analizzato da Talone, il volto umano dei corpi di polizia, dei servizi, degli apparati investigativi.

Un libro, Sbirri e culicaldi di Stefano Talone, nel complesso molto ben strutturato. Una piacevole e interessante lettura.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018) 

“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016) 


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“La terra del sogno” di Mariana Campoamor (Mondadori, 2020)

09 mercoledì Dic 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Laterradelsogno, MarianaCampoamor, Mondadori, recensione, romanzo

«Ai viaggiatori di ogni tempo e luogo, e alle terre in cui sperano di seminare un sogno»

La dedica iniziale del libro di Mariana Campoamor racchiude in poche parole un significante straordinario.

La terra del sogno è un romanzo d’esordio, una sintesi tra racconti di vita vissuta e immaginazione. Un romanzo che racconta una storia con un fitto intreccio ma basato, soprattutto, sui sentimenti di chi parte inseguendo un sogno, lavora per realizzare un progetto, vive per dare un senso ai propri pensieri.

Nel 1886 Aldo Masi lascia Milano e l’Italia e, a bordo di un piroscafo, raggiunge le Americhe. Uomo ambizioso, riesce a realizzarsi grazie alla piantagione di indigofera nella terra arsa dal sole del Michoacán eppure continua a coltivare un grande sogno, un desiderio ereditato dal padre, un’idea talmente folle da diventare possibile: coltivare riso in Messico.

Il Messico è la terra che ha accolto Aldo Masi e la sua famiglia, che ha visto nascere e crescere i suoi figli e i suoi desideri. L’Italia è la terra che gli ha dato i natali, è il luogo cui si sente più legato e verso cui ritorna ogni suo pensiero.

Nella storia raccontata da Mariana Campoamor si ritrovano il passato e il presente di quest’uomo, le tradizioni dell’uno e dell’altro paese, e il tutto sembra fondersi al punto da non riuscire quasi a definire le differenze. Come se l’unione delle due culture ne abbia generato una terza, ibrida, che serba e racconta parti di entrambe.

La terra del sogno è un romanzo la cui storia presenta diversi “lati oscuri”, segreti e misteri che rendono a tratti la narrazione vicina a quella di un libro giallo o noir senza mai diventarlo davvero. Rimane, il testo di Campoamor, all’interno dei parametri utili a definirlo “romanzo”, un romanzo moderno che racconta la saga di una famiglia di immigrati italiani in Messico e lo fa con uno stile narrativo vicino a tanta letteratura, soprattutto americana, che ha narrato la vita, la cultura all’interno di queste immense piantagioni, sterminati campi di piante, alberi, vita e vite… in un intreccio di esistenze ed esperienze che sembrano appartenere a una società che non esiste più ormai e che, invece, ha solo trovato differenti protagonisti e luoghi, o terre su cui mettere radici.

Alcune parti del libro sono richiami palesi ai racconti che l’autrice ha ascoltato da sua nonna. Racconti dei suoi antenati al tempo in cui lavoravano nelle piantagioni di proprietà di immigrati italiani. Storie di padroni/proprietari/immigrati e di braccianti/lavoratori/autoctoni. Storie su cui l’autrice ha intessuto la sua, di narrazione, modellata anche dalla volontà di raccontare il riscatto, etnico e di genere.

Un romanzo, La terra del sogno, che lancia innumerevoli spunti di riflessione per il lettore a partire da una storia ben strutturata e ben scritta nella quale l’autrice ha saputo fondere alla perfezione emozione e razionalità.

Bibliografia di riferimento

Mariana Campoamor, La terra del sogno, Mondadori, Milano, 2020. Traduzione di Fiammetta Biancatelli


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Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Per l’immagine del lago Zirahuen a Michoacán credits www.pixabay.com


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L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

Il dialetto che diventa lingua. La storia delle comunità italo-brasiliane 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Boringhieri, 2019) 

La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018) 


 

© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La vera storia di Martia Basile” di Maurizio Ponticello (Mondadori, 2020)

16 lunedì Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LaverastoriadiMartiaBasile, MaurizioPonticello, Mondadori, recensione, romanzo, romanzostorico

Durante il lockdown, un lasso temporale relativamente breve compreso tra i mesi di marzo e aprile 2020, solo in Italia sono state 5.031 le telefonate valide al numero di emergenza per vittime di violenza di genere, il 1522. L’Istat ha calcolato che si tratta del 73 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le campagne di sensibilizzazione si moltiplicano a vista d’occhio e, parzialmente, si registrano sviluppi positivi, soprattutto nell’aumento del numero di denunce.

A guardali in assoluto questi dati lasciano molto perplessi. Ma lo stupore maggiore si prova nel momento in cui li si confronta con il passato, allorquando bisogna affermare che, tutto sommato, la condizione femminile nella società ha fatto passi da gigante. Anche se ovviamente tanto ancora c’è da fare.

Il punto però è che quello che a noi sembra assurdo in realtà è già un miglioramento. E questo è davvero difficile da concepire.

Non sono lontani i giorni in cui in Italia era legale il delitto d’onore, in cui il figlio maschio era l’unico e solo erede, in cui l’istruzione femminile era pressoché assente, in cui esisteva una netta distinzione tra i doveri femminili e quelli maschili… Purtroppo non è raro dover ascoltare ancor oggi visioni ancorate a detti pregiudizi ma il punto è un altro. È necessario e doveroso cambiare il paradigma culturale che fa della differenza di genere una questione di potere, di prestigio, di potenza, supponenza, supremazia e forza fisica e per fare ciò bisogna anche imparare dagli errori del passato.

«All’immenso coraggio delle donne»

È con queste parole che si apre al lettore il libro di Maurizio Ponticello che narra La vera storia di Martia Basile, una donna, poco più di una bambina in realtà, la cui vita è segnata da decisioni prese da un padre e un marito che neanche per un solo istante l’hanno considerata come persona. È una storia tragica e crudele quella di Martia Basile e, purtroppo, non è così rara come si vorrebbe credere, neanche al giorno d’oggi.

La vicenda di Martia Basile si presta particolarmente al racconto narrativo ma non è certo solo per questo che il romanzo di Maurizio Ponticello colpisce il lettore. È il taglio che l’autore ha scelto di dare all’intera vicenda, è il registro narrativo da lui accuratamente scelto che rendono il libro un ottimo romanzo moderno.

Nel racconto di Ponticello si fondono la Napoli e l’Italia intera di oggi con quella del passato, quel mai abbastanza lontano Seicento durante il quale bastava un nonnulla per bandire una donna e tacciarla come strega, per incolpare qualcuno di eresia, per ripudiare una donna che non aveva partorito figli maschi e giustiziarla pubblicamente allorquando tentasse di rifarsi una vita.

A lungo si è discusso sulla reale esistenza o meno di Martia Basile. L’autore dissipa ogni dubbio e, con la sua consueta precisione, racconta vicende di una Napoli antica i cui odori ancora si percepiscono tra gli stretti vicoli che rigano il centro storico e lo definiscono, pezzo dopo pezzo, come il reticolo di una carta geografica. Si scoprono curiosando tra i polverosi scaffali di archivi e biblioteche di cui Ponticello si dimostra sempre avido conoscitore e intenditore. Si animano in quei personaggi senza tempo, proprio come la città che ha dato loro i natali.

In più occasioni Maurizio Ponticello ha dato prova della sua capacità di ricerca e documentazione, della sua abilità nel cimentarsi in minuziose e dettagliate ricerche sul campo e da fonti documentali, elaborando poi il suo resoconto in libri la cui lettura risultasse sempre scorrevole e leggera per il lettore, ma questa volta sembra davvero che sia riuscito a superare se stesso nel modo in cui ha saputo raccontare una storia così potente e complessa e farlo in una maniera davvero eccezionale.


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Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Mondadori Editore e l’autore per la disponibilità e il materiale


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Trasformare un ambiente magico in opera d’arte. “Napoli velata e sconosciuta” di Maurizio Ponticello (Newton Compton Editori, 2018) 


© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“L’ora buca” di Valerio Varesi (Frassinelli, 2020)

28 mercoledì Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Frassinelli, Lorabuca, recensione, romanzo, ValerioVaresi

A volte è proprio nell’ordinario di una normale e in apparenza banale vita quotidiana che si scatena il caos più totale. A generarlo è un recondito senso di frustrazione che ingenera una ribellione motivata dalla volontà di trasformare il vuoto in pieno. Il protagonista del libro di Valerio Varesi tenta di sopperire alla propria insoddisfazione cercando la notorietà, però per farlo accetta pericolosi compromessi che lo portano dapprima a rovinare esistenze altrui poi la propria.

Il Professore è un insegnante, è un pensatore ed è molto insoddisfatto della vita, della professione che svolge, è deluso per l’incapacità di portare avanti e concludere un progetto concreto e complesso, è demotivato a causa delle insolubili verità esistenziali cui non trova risposte, per sé ma soprattutto per i suoi alunni per cui si sente già destinato alla menzogna.

Una delusione, quella del professore del libro di Varesi, che accende un faro su una condizione più generale, riscontrabile nell’attuale società italiana, nella quale quotidianamente si assiste e ci si scontra con l’assenza di un necessario quanto inesistente progetto sociale e culturale. Sembra quasi sia diventato tutto una finzione, un inganno, una menzogna appunto.

Sarà proprio questa, la menzogna, a dare la svolta tanto attesa alla vita del protagonista de L’ora buca. Nel campo dell’informazione si suole chiamarle fake news ma sempre bugie restano. Ed è su queste e con queste che il Professore costruirà la sua nuova vita, inventata distruggendone un’altra. Nel suo caso la legge del contrappasso sarà molto dura. Alla fine, il Professore non otterrà quello che sperava. O forse no. Otterrà proprio ciò che in cuor suo desiderava.

Il libro di Valerio Varesi è come una stanza degli specchi nella quale, proprio quando pensi di aver trovato l’uscita, sei costretto a ricominciare daccapo. Un vorticoso gioco di rimandi che sembra ruotare intorno a un non senso pericoloso, basato sul nulla, sul vuoto. Un vuoto esistenziale, un vuoto culturale, un vuoto sociale… una rappresentazione senza mezze misure della crisi culturale che sta investendo e travolgendo la società italiana, quella occidentale, globale addirittura. Una “cultura” che fonda le sue radici su talk show, reality, micro video, post e tweet. Un mondo nel quale la conoscenza sembra rimandare ancora troppo al concetto di “chi ti manda” e le competenze sono uno slogan ormai solo pubblicitario e propagandistico.

Anche il titolo del libro, L’ora buca, è emblematico di questo “gioco” basato sul nulla, sul vuoto. Il titolo richiama all’ora che intercorre tra una lezione e l’altra, quella di attesa, di vuoto appunto, nella quale, nel testo, inizia a crearsi la rete della storia e nascono i prodromi di quel risentimento/frustrazione che porteranno o costringeranno il protagonista alla svolta, al cambiamento che altro non sarà che un lento e inesorabile peggioramento, una distruzione e un’autodistruzione. Il lettore non può non chiedersi se sarà così il destino cui va incontro l’attuale società se non sceglierà, per tempo, di invertire la marcia o approntare una poderosa sterzata per cambiare direzione e farlo sul serio, dal verso giusto.

Un’articolazione del pensiero che passa dal locale al globale in maniera eguale e parallela a quanto accade nel testo, ai pensieri e alle considerazioni dello stesso protagonista il quale, narrando di programmi scolastici, capitoli e argomenti, giunge a riflessioni su enormi problemi esistenziali. Un andirivieni che è di per sé simbolico di quanto anche solo un singolo atteggiamento, comportamento, pensiero possa, alla fin fine, andare a incidere sui massimi sistemi, soprattutto se vanno a sommarsi tanti piccoli pezzi che, uniti tra di loro, ne formano uno grande, immenso, globale.

Sembra quasi che Varesi voglia suggerire al lettore che se è il “mondo” a dover essere cambiato ciò deve avvenire per mano dei suoi abitanti, non è certo il pianeta in sé che potrà subire dei cambiamenti, delle modifiche o delle alterazioni. Sono le persone che lo governano a dover fare la differenza. E ciò vale naturalmente per ogni “mondo”. Anche la società è a suo mondo un mondo, oppure un universo. E anch’essa potrà davvero cambiare solo se lo faranno i suoi abitanti.


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Ritorno a Villa Blu” di Gianni Verdoliva (Robin Edizioni, 2020)

14 martedì Lug 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Tag

GianniVerdoliva, recensione, RitornoaVillaBlu, RobinEdizioni, romanzo

Ritorno a Villa Blu di Gianni Verdoliva è una storia che mantiene tutta l’architettura classica delle fiabe – nell’impostazione, nella struttura, nei personaggi come anche nel linguaggio – e, al contempo, si presenta innovativa nei contenuti, molto attualizzati rispetto alle consuetudinarie vicende che narrano di principi, principesse, orchi, streghe, fate e folletti.

Tre fratelli che si ritrovano ad aver ereditato l’antica casa famigliare, Villa Blu per l’appunto, e vi si recano per la prima volta soli, senza i parenti “adulti”, ovvero genitori e nonni. Dal prendere le misure su come organizzare e amministrare la proprietà ricevuta in dono si ritrovano catapultati in uno scenario completamente stravolto, nel quale mille avventure li attendono, unitamente a pericoli, personaggi malvagi ma anche buoni.

Alla fin fine il lettore si ritrova dinanzi al classico dualismo tra bene e male, vero grande leit motiv del genere. A salvare il testo di Verdoliva dalla banalità sarà proprio l’aver scelto di rendere molto attuale la vicenda narrata, all’interno della quale si ritrovano diversi spunti di riflessione sul presente.

Espediente parimenti ben riuscito sono i numerosi flashback che l’autore ha inserito nel testo, i quali contribuiscono a dipanare alcuni punti che altrimenti sarebbero potuti rimanere oscuri al lettore.

In diversi punti Verdoliva sembra quasi strizzare l’occhio alla letteratura gialla, allorquando inserisce diversi climax ascendenti per ingenerare in chi legge suspence. Misteri e momenti di tensione narrativa contribuiscono, infatti, a mantenere alto il livello di attenzione durante la lettura. Ma si tratterà sempre e comunque di leggeri momenti di tensione, non ci sono violenti o irruenti splatter nel libro.

Vicende e ritmo sempre più incalzanti e che avranno il loro culmine nella notte del Solstizio d’estate, che sarà la resa dei conti non solo con il sortilegio ma anche con tutto il carico emozionale che grava sui tre fratelli e che investe il presente e il passato dell’intera famiglia.

Lo stile di scrittura è molto equilibrato, caratterizzato da una particolare grazia e cura per i dettagli. Anche nelle lunghe esposizioni e descrizioni, l’autore riesce a donare il giusto ritmo alla scrittura, leggendolo a voce alta si avverte quasi la sensazione di intonare una melodia. È sicuramente un registro narrativo che ben si adatta a un genere letterario per vocazione destinato alla trasmissione, anche orale, al “racconto”.

Gianni Verdoliva, Ritorno a Villa Blu, Torino, Robin Edizioni, 2020

Collana Robin&sons, 184 pagine, 12 euro


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale


Disclosure: per la prima immagine credits www.pixabay.com


 

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