Il 2024 sarà l’anno del centenario dalla morte di Franz Kafka, avvenuta a Kierling nel 1924. La sua nascita è avvenuta a Praga nel 1883. Ma è a un’altra città, ovvero Berlino, che è legata una vicenda la quale, plausibilmente, ha rappresentato la spinta propulsiva alla scrittura de Il processo. Un libro di cui egli sembrava essersi pentito e che non voleva pubblicare. Il romanzo infatti è stato pubblicato postumo.
Nel luglio del 1914 Kafka si reca a Berlino per sciogliere il fidanzamento che lo lega a Felice Bauer. L’incontro avrà luogo in una camera d’albergo, alla presenza della sorella e di un’amica di lei. Nei suoi diari, l’autore lo paragona a un «tribunale». Poche settimane dopo, Kafka inizierà la scrittura del Der Proceß – Il Processo.
Una mattina Josef K. Viene dichiarato in arresto. Non ha fatto nulla, sa di non aver commesso alcun reato, eppure è proprio lui che cercano. Josef K. pensa subito a un malinteso, un disguido e così sceglierà di agire secondo ragione. Ma la ragione nei romanzi di Kafka serve a poco o nulla. La colpa di Josef K., qualunque essa sia, richiede un castigo, che si dispiega nella sua arbitrarietà non solo nella condanna finale, ma in tutto ciò che avviene in mezzo: deve lottare ogni giorno tra avvocati, interrogatori e udienze per raggiungere la libertà.
E, paradossalmente, spesso sembra dover combattere anche contro se stesso, contro la sua mente, la sua stessa ragione su cui tanto ha fatto affidamento.
Josef K. sembra non comprendere gli eventi ma, solamente, subirli. Con questo schema scelto da Kafka il lettore riesce a entrare nella storia come ne fosse parte attiva, o meglio “passiva”, proprio come il protagonista. E, insieme, sembrano scoprire cosa accade. Ma, ovviamente, non è così. Perché Josef K., inventato ad uopo da Kafka, di riflesso sa per certo cosa accade e cosa accadrà. Nel libro. Ma potrebbe Kafka essersi sentito nella stessa identica maniera del suo protagonista durante il suo di processo, quello svoltosi nel tribunale della camera di albergo. Tutto questo intricato intreccio non fa altro che catturare il lettore e stupirlo, meravigliarlo e lasciarlo gioire della grandezza artistica dell’autore.
Come fosse tutta una percezione: il mondo in cui sta vivendo Josef K. è reale ma è anche una beffa. Un complicato intreccio di inganni ordito da menti superiori, nascoste, che controllano Josef K. e controllano il mondo che lui vorrebbe controllare con la ragione.
Rileggendo oggi Il Processo il lettore nuovamente si stupisce di quanto Kafka sia riuscito a creare con le parole. Spesso la mente rimanda alle immagini di Matrix1, con le sue acrobazie fatte con la mente e al tentativo di dare una ragione a ciò che senso proprio non ne ha.
L’angoscia di Josef K., pagina dopo pagina, assorbe anche il lettore il quale sembra venire risucchiato da questa surreale claustrofobia che sottende all’intera vicenda. E così pare anche a lui ormai impossibile una vita libera dalle circostanze esterne, dalle convenzioni sociali, dal potere dell’Altro su di noi.
Una narrazione che riesce a far guardare al mondo con occhi diversi e, al contempo, “costringe” a indagare se stessi con la stessa crudele e dolorosa e necessaria precisione.
Kafka non è una lettura semplice. Non lo è per quasi nessuno dei suoi scritti. Eppure leggendolo ci si accorge ogni volta di quanto sia necessaria. Utile a comprendere il mondo, di allora come di oggi. Per comprendere anche se stessi. A tratti, leggere Kafka, potrà sembrare una lettura incomprensibile ma non è così. È il racconto della vita reale e complicata che porta la scrittura a essere o diventare complessa. Perché è proprio la vita, spesso, a essere incomprensibile, insopportabile, esattamente come le ingiustizie di cui Kafka racconta. Ingiustizie che neppure l’accettazione, voluta o subita, della Legge può giustificare. Per certo, nell’analisi di Kafka, non può giustificare l’esistenza del mito sacrificale, del tipo di quello cui è stato sottoposto Josef K.
Il nesso fondamentale che lega l’ingiustizia al diritto è quello della Necessità: la Necessità è il grande altare su cui viene sacrificato il Possibile, là viene spaccato il cuore del Possibile escluso nascondendo il sangue scorso nella spazzatura del pensiero. E, quando Josef K. rifiuta di lasciarsi sacrificare con la sponte sua, si rifiuta di dare ragione alla «necessità», accade qualcosa di inspiegabile: nel momento in cui Josef K. riconosce la possibilità che può spezzare la necessità, e la riconosce nel suo prossimo apparso fragile e indifeso nel gesto della muta offerta d’aiuto delle braccia levate, proprio in quel momento un guardiano gli affonda il coltello nel cuore e Il processo si chiude.2
È triste, certo. Ma non è pessimismo. Piuttosto una visione della vita e della realtà oltre le immagini simboliche e stereotipate. In poche parole: è Kafka.
Il libro
Franz Kafka, Il processo, Il Saggiatore, Milano, 2023. Traduzione di Valentina Tortelli.
1Film di Fantascienza diretto da Lana e Lilly Wachowski, anno 1999.
2Giuseppe Montesano, Lettori selvaggi. Dai misteriosi artisti della Preistoria a Saffo a Beethoven a Borges la vita vera è altrove, Giunti Editore, Firenze, 2016.
Cosa può mai accadere di brutto sull’isola della felicità? Perché è in questo modo che tutti conoscono la piccola isola di Lauttasaaari, a pochi chilometri dal centro di Helsinki. Un’isola, una città e una nazione – la Finlandia – pressoché perfette sotto molti aspetti. Eppure Eeva Louko immagina una storia nella quale i tormenti della giovane protagonista la spingono a fuggire da quei posti, lontano, per ricominciare una nuova vita. Vi farà ritorno, Ronja, perché l’isola della felicità le ha portato via il padre, uccidendolo. Beh non proprio l’isola ma quello che vi accade e rimane nascosto.
Indagando a fondo su quanto accaduto, nel tentativo di far luce sugli eventi che hanno portato alla morte del padre, Ronja scopre un mondo sommerso, un uomo completamente diverso da quello che sapeva o immaginava essere suo padre, e tanti segreti e bugie in una piccola e isolata comunità. Ed è proprio su questo grande isolamento che il lettore viene invogliato, più volte, a riflettere. Sulla vita delle persone che vivono queste piccole realtà lontane dal resto del mondo, isolate per lunghi periodi, costrette, in un certo qual modo, a vivere insieme e condividere tutto. Anche i segreti. Che diventano di tutti per restare di nessuno.
Si è trattato di vendetta, regolamento di conti o di un brutale omicidio a sangue freddo? Ronja indaga sempre con maggiore foga nella speranza che, svelando il mistero, scopra anche chi fosse stato in realtà suo padre. E, soprattutto, che legame o ruolo avesse avuto nella scomparsa di due bambini dalla spiaggia di Kasinonranta nel 1975.
Perché la madre di quei bambini vuole far del male a lei? Che rapporti aveva con suo padre?
Domande che diventano veri e propri tormenti per la protagonista del libro costretta anche a fare i conti con un passato che credeva dimenticato, che pensava di aver superato con la sua nuova vita a Londra.
Indagando sull’omicidio di suo padre, Ronja si ritrova più volte a indagare se stessa, realizzando di non essere mai stata la figlia perfetta che sempre aveva creduto essere e così, non senza tribolazioni, la ricerca della verità diventa anche una forma di redenzione personale. Di riscatto dai propri sensi di colpa.
Delitto sull’isola di ghiaccio è il romanzo d’esordio di Eeva Louko ma, per certo, ella dimostra di conoscere a fondo il mondo della comunicazione e del “male”. La storia è costruita e narrata in ogni dettaglio con una capacità di scrittura che rendono notevole la lettura di questo libro. Una concatenazione di eventi nella quale ogni singolo momento trova la sua casella a formare il mosaico perfetto regalando al lettore suspence e intrattenimento. Un viaggio nella fantasia degli eventi ma sempre con i piedi ancorati al territorio di cui sembra quasi poter godere di odori e sapori. Svelando i misteri della storia che si è inventata l’autrice regala al lettore anche spaccati di vita reali dei luoghi narrati.
Il libro
Eeva Louko, Delitto sull’isola di ghiaccio, Newton Compton Editori, Roma, 2023. Traduzione di Paola Brigaglia.
L’autrice
Eeva Louko: reporter esperta di comunicazione, specializzata nelle storie crime e horror.
Una grande città vuota. Così si presenta agli occhi del protagonista una Pietroburgo lasciata sola dalla gran parte dei suoi abitanti, andati via per le vacanze. E così un profondo senso di solitudine assale il protagonista che è anche la voce narrante di un racconto struggente, per l’intensità e il carico di emozioni, sentimenti e speranze. Vissuti o immaginati.
Pensieri cupi e tristi invadono la mente del protagonista, ormai buia come tutto intorno a lui. Eppure è sufficiente un inaspettato incontro con una giovane donna affinché il suo cuore rinvigorisca.
La solitudine è dolore, mancanza di stimoli, di gratificazione e di ricompensa. È una condizione emotiva che va a incidere anche sul corpo nonché, naturalmente, sulla socialità. Tuttavia la solitudine non è essere soli bensì sentirsi tale.
Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere melanconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?
Una via da seguire può essere quella di curare gli altri per curare se stessi.1
Dostoevskij sceglie di dare al protagonista de Le notti bianche l’illusione che la sua ancora di salvezza sia questa giovane donna, sofferente e misteriosa. Aiutando lei spera di salvare anche se stesso. E di trovare l’amore.
Il mondo raccontato dall’autore è diverso da quello odierno, la sua stessa vita lo è stata. Cresciuto in una famiglia numerosa con un padre rigido, in un ambiente difficile e in una realtà complessa, non poteva non volgere la sua attenzione alle complicanze dell’esistenza umana, alle turbolenze esistenziali. E la sua analisi raggiunge talmente le profondità dell’animo umano che nulla potrà mai toglierlo dall’Olimpo degli scrittori.
Un grande sognatore, il protagonista del racconto, intento nelle sue interminabili passeggiate per le vie della città, privo di una vera vita sociale, realizza, dall’incontro con la ragazza, di aver così ottenuto un autentico momento di vita da ricordare. Ma anche di essere diventato, nel tempo, strano agli occhi degli altri, diverso, assente e di essersene reso conto solo dopo l’impatto con questa ragazza, ovvero lo scontro con la vita reale.
La narrazione è fatta di lunghe attese, momenti fugaci che restano impressi nella mente e che diventano ricordi indelebili a cui cuore e mente si aggrappano per sopravvivere a delusioni e dolori. Racconto di un mondo, in questo, completamente diverso da quello di oggi nel quale, invece, tutto ciò che sembra avere importanza è il qui e adesso. L’istante, la velocità e il cambiamento sembrano essere gli unici valori esistenziali rimasti.
Questo è stato definito «il secolo della solitudine» ma è un sentimento diverso rispetto al passato, abbraccia e viene abbracciata da altri e differenti aspetti della società che ha originato una sorta di economia della solitudine, nata per sostenere e sfruttare chi si sente solo. Un ulteriore tema collegato con il diffuso senso di solitudine attuale è il progressivo isolamento dal mondo reale per rifugiarsi nella realtà virtuale della Rete e dei social. Le vite condivise online sono un’accurata serie di momenti felici e ideali, feste e celebrazioni, spiagge di sabbia bianca e foto di piatti da acquolina in bocca. Il problema però è che queste versioni ritoccate e filtrate di noi stessi sono troppo spesso estremamente lontane dalla vita reale.2
Esattamente come accade al protagonista del racconto di Dostoevskij, il quale si rifugia in un mondo tutto suo, fatto di passeggiate e pensieri, di idee e sentimenti non reali, non condivisi non concludenti.
A volte sembra quasi che la Rete e social siano diventati il luogo immaginario – virtuale – nel quale si riversano tutte quelle fantasie che prima, come ai tempi dell’autore, albergavano solo nella mente della persona che li generava.
Il libro
Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Le notti bianche, Garzanti, 2014.
Se il dolore che una persona prova è già insopportabile, quale sarà allora il limite verso cui si spingerà per superarlo e dimenticarlo? La protagonista del romanzo di Maria Teresa Casella soffre di emicrania al punto da cercare emozioni sempre più violente che le facciano dimenticare il dolore. Una strada molto pericolosa che la porta a condurre una vita oltre ogni limite. Nel tentativo di liberarsi dalle trame di un dolore fortissimo finisce vittima di una rete di sofferenza ancora più forte.
Un personaggio davvero potente quello creato da Casella in Trappola mentale che spinge molto anche sull’intera vicenda. Non è la prima volta che Casella studia dei personaggi indagando il loro lato mentale. Devianze, malattie, perversioni, emozioni, sensazioni… sono certamente aspetti dell’esistenza che l’autrice riesce a indagare e narrare egregiamente, riuscendo a inventare storie che colpiscono il lettore, attraendolo al punto da voler leggere il libro quasi d’un fiato.
Trappola mentale è un thriller in cui l’aspetto psicologico, mentale è centrale. Coinvolgente al punto che il lettore di continuo cerca di interpretare il pensiero della protagonista per venire a capo della vicenda, anche laddove appare evidente si tratta di un labirinto talmente ben studiato che è praticamente impossibile. Riesce molto bene Casella a giocare tra reale e immaginario, sfruttando al massimo il potenziale offerto dalla trappola mentale della protagonista, di cui sembrano diventare tutti vittime, lettore compreso.
Trattandosi di un thriller la storia sembra ruotare intorno all’indagine per omicidio, che vede coinvolta anche la protagonista, eppure fin da subito si comprende come il tutto in realtà sia stato pensato per essere una vera e propria corsa contro il tempo.
Il tempo è uno dei più affascinanti e sfuggenti aspetti dell’esperienza umana, talmente ubiquitario e pervasivo da essere talvolta dato per scontato. In effetti, ogni atto è temporale nella misura in cui presuppone un cambiamento o un’aspettativa di cambiamento.1
È proprio la ricerca di un cambiamento a spingere Giorgia verso le violente emozioni le quali dovranno poi diventare la sua via di fuga dal dolore dell’emicrania.
Il libro è ben strutturato, la trama ben congegnata e i personaggi ben caratterizzati. Tutto questo però non meraviglia il lettore che già conosce i libri di Maria Teresa Casella. La meraviglia arriva allorquando si entra in contatto con Giorgia, la protagonista. Quando Casella apre la sua mente al lettore. Quando si indaga nel profondo l’essere e il malessere di una persona malata, che soffre per una patologia mentale, invalidante al pari di qualsiasi altra patologia ma meno visibile e, forse anche per questo, meno comprensibile. Pulsioni e ossessioni sono già state oggetto di indagine da parte dell’autrice che, anche questa volta, di certo non delude il lettore. Perché per Giorgia la ricerca di emozioni forti diventa ben presto una vera e propria ossessione.
La lettura di Trappola mentale spinge il lettore anche verso approfondite riflessioni inerenti il mondo visto attraverso la griglia di una malattia, trama di una vera e propria trappola, iconograficamente rappresentabile come una fitta ragnatela, solo in apparenza innocua e fragile.
Trappola mentale di Maria Teresa Casella è assolutamente una lettura consigliata.
1A. Nicolosi, Il tempo come esperienza simbolica di apertura, Quaderni di Cultura Junghiana, numero 2, 2021: https://quadernidiculturajunghiana.it/il-tempo-come-esperienza-simbolica-di-apertura/
Nella Parigi della Belle Époque, Georges Duroy detto Bel-Ami sogna l’ascesa sociale. Disposto a tutto pur di abbandonare la sua mansarda affacciata sulla ferrovia ed entrare trionfalmente nei salotti della buona società, sfrutta senza ritegno il suo charme e moltiplica le proprie conquiste, facendo così carriera nel giornale in cui lavora e meritandosi la fama di colto viveur. Seduttore senza scrupoli, Georges sa anteporre a ogni valore la propria ambizione, sfrenata e insaziabile, e costruire su di essa una fortuna che sembra non conoscere ombre.
Capolavoro assoluto di Maupassant, Bel-Ami – scritto nel 1885 – offre al lettore moderno un ritratto dellasocietà parigina del XIX secolo, in cui si mescolano giornalismo, politica e gli spiriti animali del nascente capitalismo.
Innumerevoli sono gli spunti di riflessione che il lettore può trarre dalla lettura del libro di Maupassant, sulla società parigina dell’epoca certo, ma anche su quella attuale, in cui tutti gli embrionali spiriti animali di allora non sembrano aver fatto altro che crescere in maniera esponenziale.
Prima di approdare a Parigi, Bel-Ami aveva trascorso un periodo in Africa, come soldato nella campagna d’Algeria, mosso da non proprio nobili intenti, comportandosi più da predone che da gentiluomo. Filosofia di vita che addirittura inasprì una volta giunto in Francia.
Lo stile narrativo, i personaggi come anche le ambientazioni sono pregne dell’aria dell’epoca. Nulla sembra aver fatto Maupassant per edulcorare l’amara realtà, anche laddove si lascia andare a una finzione ricercata. Lungo tutto il libro si percepisce una sorta di pessimismo, che rimanda a tratti all’esistenzialismo dei vinti di Giovanni Verga.
Non c’è alcuna speranza nel mondo raccontato da Maupassant e neanche l’arte sembra riuscire a salvare questa umanità dalla barbarie sopraffina certo ma, al tempo stesso, brutale e insensata.
Una solitudine diffusa sembra accompagnare gli uomini e l’umanità intera. Anche quando le persone si riuniscono e si uniscono.
Una solitudine che ci conduce proprio al giorno d’oggi perché di certo non è un sentimento che nasce in questo secolo ma è in questo periodo storico che abbraccia e viene abbracciata da altri e differenti aspetti della società, originando una vera e propria “economia della solitudine”. Un male sottile che si è insinuato dentro di noi e ha permeato ogni aspetto della nostra società. É la solitudine strutturale del sistema capitalistico, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici.1
Bel-Ami non è soltanto una tranche de vie sull’ambiente del giornalismo parigino, nella tradizione balzachiana e zoliana, è soprattutto una storia di spietato disincanto sulla chiusura di ogni speranza umana nella Francia degli affari, dei banchieri e degli speculatori. Il rapido successo del romanzo è la conferma di un sistema corrotto che consente tutto agli avventurieri spregiudicati, calpestando sentimenti e nobili aspirazioni, inclinazioni all’eroismo romantico.
E anche in questo, purtroppo, il tempo non ha fatto altro che dare modo al genere umano di aggravare le sue posizioni.
Le banche, soprattutto quelle grandi, investono molto tempo nel tentativo di apparire quanto più sicure e organizzate possibile ma in realtà molti bancari non hanno competenze richieste in altri settori economici. Grandi o piccole che siano, in genere sono organizzate in compartimenti stagni e sono fortemente scoraggiati i confronti tra vari settori che non siano quelli verticali e istituzionali. Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia, ma in realtà intendono la capacità di far fare soldi e di farli a loro volta.2
La parola d’ordine sembra essere, oggi come ieri, arricchitevi!
Nel libro di Maupassant puntuali sono i riferimenti ai traffici coloniali e alla situazione politica francese, all’affarismo dei politici, al giornalismo asservito agli interessi finanziari. Argomenti tutti che spingono il lettore a una corposa serie di riflessioni sulla contemporaneità degli scritti dell’autore, sui nodi e sui problemi ancora irrisolti, in alcuni casi peggiorati in altri, per fortuna, migliorati. Sulla società francese dell’epoca e su quella attuale. E la possibilità concreta di estendere tali riflessioni alla società italiana.
Il libro
Guy De Maupassant, Bel-Ami, Garzanti – Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, Milano, 2017. Traduzione dal francese di Lanfranco Binni.
1Noreena Hertz, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni, Il Saggiatore, Milano, 2021.
2Joris Luyendijk, Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, Einaudi, Torino, 2016.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Il Medioevo comprende svariati secoli. Si tratta di un’epoca lunghissima caratterizzata da avvenimenti i quali, spesso, hanno cambiato il corso della storia. Di esso ci si ricorda più delle immagini stereotipate piuttosto che delle grandi evoluzioni e dei cambiamenti avuti. Delfina Ducci ha deciso di raccontare il Medioevo dall’interno, dal punto di vista delle persone “comuni” che non vengono citate nei libri di storia, se non per grandi categorie, ma che c’erano e, in qualche modo, hanno contribuito allo svolgersi e al cambiamento della storia. Oppure ne hanno dovuto subire le conseguenze.
Guardare da vicino la vita di agricoltori, mercanti, soldati e sacerdoti può essere un modo per conoscere meglio la cosiddetta «epoca di mezzo», per avere un punto di vista privilegiato sugli aspetti concreti che scandivano la realtà dei medievali. Uomini e donne alle prese con la loro condizione sociale, con i costumi dell’epoca, gli alimenti, le usanze, gli amori e la sofferenza, gli sforzi per fare della loro esistenza qualcosa da conquistare anche attraverso le armi, il duro lavoro o l’intelletto.
Lo scopo dell’autrice è quello di comprendere abitudini, usi e mentalità di un’epoca che ella considera profondamente diversa da quella attuale. Un’epoca lunga che ha segnato indelebilmente il cammino della stessa evoluzione umana. Basti pensare alle numerose Guerre Sante e alle attuali guerre religiose. Un’epoca diversa certo, ma che può sempre aiutare a comprendere le attuali evoluzioni di società più o meno evolute rispetto ad allora.
Delfina Ducci ha scelto uno stile narrativo insolito per un libro del genere. Il narrato si presenta al lettore quasi come un romanzo, seguendo quindi gli eventi e gli sviluppi di personaggi da lei voluti, raccontando i quali l’autrice racconta il Medioevo. Ma la storia narrata non è mero frutto di fantasia, piuttosto il risultato di un lavoro approfondito di ricerca e analisi. La presenza di personaggi di sua invenzione ha per certo aiutato l’autrice nell’indirizzare il narrato verso potenziali riflessioni che mettano in relazione il passato con il presente, creando analogie e similitudini o, per contro, evidenziando tratti distintivi dell’una o dell’altra epoca.
Dietro tanta presenza dell’autrice, il rischio è che la storicità del narrato venga in qualche modo compromessa, sfumando anch’essa nell’immaginario. I riferimenti costanti alle fonti documentali sono un aiuto concreto affinché ciò non avvenga.
Il libro
Delfina Ducci, Il Medioevo giorno per giorno. Storie e segreti per conoscere da vicino la vita di agricoltori, mercanti, soldati e sacerdoti della cosiddetta «epoca di mezzo», Newton Compton Editori, Roma, 2023.
L’autrice
Delfina Ducci: ricercatrice e autrice di saggi di carattere storico e artistico. Impegnata in attività giornalistiche e incontri di studio sull’universo femminile.
Cosa può accadere in una giornata. Nulla. Oppure tutto. Il tempo che compone un giorno può passare senza che alcunché di significativo accada oppure basta un giorno per dare significato a intere esistenze.
Il libro di Elena Mearini concentra il racconto nell’arco di temporale di un solo giorno. Ma tema della narrazione è anche il luogo dove gli eventi di questa particolare giornata si volgono: una palestra di boxe. Ed ecco che tempo, luogo, sport e legami diventano baluardi di una profonda simbologia che deve per certo aver ispirato l’autrice.
Una palestra che appare senza tempo, nel senso che il tempo sembra essersi fermato, eppure in essa si assiste e si è assistito (nel tempo) alla disfatta o alla rinascita di intere e esistenze, dentro e fuori dal ring. Legami che nascono e si sciolgono all’ombra della comune passione sportiva – la boxe appunto – emblema simbolico dell’incontro-scontro della vita.
La storia sembra procedere lungo una linea, un chiaroscuro che la fa scorrere verso la tanta agognata quanto odiata perfezione. Una perfezione che riguarda il modellare i reali comportamenti ma che finisce con il coinvolgere anche i sogni e le ambizioni di ognuno, al punto che reale e immaginario sembrano confondersi e danneggiarsi a vicenda. Esattamente come accade nella vita reale, allorquando, nel tentativo di apparire perfetti a ogni costo ci si ritrova disposti a sacrificare perfino se stessi. Si pensi, ad esempio, all’immagine edulcorata di se stessi che si crea sui social, in questo mondo virtuale dove tutti o quasi vogliono apparire per ciò che poi non sono ma vorrebbero essere.
In diversi punti di Corpo a corpo il lettore si ritrova a riflettere su queste tematiche, esposte a volte anche in una maniera che potrebbe sembrare brutale ma che si rivela essere per certo efficace, a volte necessaria.
Ci sono delle morti nel libro di Mearini ma definirlo un romanzo noir sarebbe restrittivo, più adatti forse gli aggettivi psicologico e introspettivo. Anche perché le vere indagini svolte nel libro sono quelle condotte nella mente dei personaggi, nei sentimenti come anche nelle devianze. Pulsioni distruttive e auto-distruttive, sentimenti forti e devastanti, come l’invidia, che generano vero e proprio tormento.
La scrittura di Elena Mearini è chiara, decisa, diretta. Riesce l’autrice a regalare al lettore pagine molto intense con un linguaggio tutto sommato “semplice”, con una storia tutto sommato “ordinaria”, con dei protagonisti tutto sommato “normali”. Riesce anche a non rendere il tutto banale e il risultato è un libro davvero straordinario.
Il libro
Elena Mearini, Corpo a corpo, Arkadia Editore, Cagliari 2023.
L’autrice
Elena Mearini: autrice e docente di scrittura creativa e poesia.
Source: Si ringraziano l’Agenzia Anna Maria Riva e l’Ufficio Stampa di Arkadia Editore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Storia e letteratura sono piene di narrazioni di eroi, avventurieri perlopiù maschi che esplorano il mondo, inventano oggetti, rivoluzionano il modo di essere e di pensare. Poche volte si sentono gli stessi racconti ma al femminile e questo non perché le donne mancassero di inventiva o di iniziativa. È sempre stata la libertà a mancare. La libertà di pensare prima ancora di quella di agire.
Eppure gli esempi di donne coraggiose, avventuriere, rivoluzionarie non mancano.
Emanuela Monti in Memorie di un’avventuriera racconta una storia liberamente ispirata alla vita di Aphra Behn, la prima donna della letteratura inglese riuscita a guadagnarsi da vivere come scrittrice. Una donna che ha viaggiato molto, spostandosi in diversi paesi e fu anche arruolata come agente segreto al servizio di re Carlo II. Una donna libera e avventuriera, aperta e moderna e, per queste ragioni, anche accusata di oscenità e libertinaggio a causa del contenuto esplicito riguardo a relazioni sessuali e prostituzione nelle proprie opere. Una donna, femminista dentro, che ha scelto e deciso di non sottostare alle regole maschiliste dell’Inghilterra del Seicento pagando a caro prezzo le proprie convinzioni.
La vicenda di Aphra Behn è narrata prevalentemente sotto forma di mémoire in prima persona, con un linguaggio parlatodiretto e attuale. Riesce però l’autrice a imprimere nella storia un taglio psicologico che conferisce al personaggio un carattere universale. La storia è liberamente ispirata alla vita realmente vissuta da Behn, per cui Monti sopperisce ai vuoti biografici con la propria fantasia, rimanendo comunque sempre fedele ai principi di verosimiglianza e al valore della prospettiva storica che l’hanno ispirata. Utilizza inoltre, l’autrice, l’espediente di lettere e diari per dare voce ai fatti accaduti in assenza di Behn o avvenuti dopo la sua morte. Questa scelta narrativa per certo contribuisce a regalare al lettore pagine intense, pregne di pathos e sentimento e contribuisce a formare l’immagine della donna forte quale Aphra Behn è stata.
Memorie di un’avventuriera racconta nel dettaglio la vita di una donna, vissuta nel Seicento, che ha dovuto lottare ogni giorno per conquistare la propria libertà, per far valere il proprio pensiero e vivere la propria vita, seguendo istinto e desiderio. Ma la storia raccontata da Emanuela Monti riguarda tutte le donne, di ogni epoca, anche quella attuale, perché rappresenta un monito a tenere sempre alta l’attenzione, essere vigili sui propri diritti, consapevoli del fatto che, laddove diventino un qualcosa dato per scontato, vorrà dire che sono in pericolo e con loro la libertà, di essere, di pensare e di agire.
L’alternarsi di parti narrate in prima persona con parti sotto forma di diari o lettere, unitamente al linguaggio di forte ascendenza seicentesca, a tratti ingenerano confusione nel lettore, il quale si ritrova in più punti a dover arrestare la lettura per riflettere sul contenuto e sul significato della narrazione. Alla scorrevolezza non giova neanche la presenza dei numerosi personaggi, ognuno a suo modo protagonista della storia raccontata. Ciò però si avverte soprattutto all’inizio, man mano che si prosegue nella lettura si entra nell’ordine della narrazione voluta dall’autrice come anche nella struttura stessa del romanzo e ogni passo appare chiaro e significativo, necessario per comprendere il libro nel suo essere complesso e profondo, come la vita stessa della protagonista.
In generale, quindi, Memorie di un’avventuriera risulta una gradevole lettura, interessante per la storia narrata come anche per gli sviluppi impliciti, per gli insegnamenti che da essa se traggono, per il monito alla tutela dei diritti delle donne, di tutte le donne come anche di tutte le persone, degli esseri umani, qualunque sia il loro genere.
Il libro
Emanuela Monti, Memorie di un’avventuriera. Liberamente ispirato alla vita di Aphra Behn, Il ramo e la foglia edizioni, Roma, 2022.
L’autrice
Emanuela Monti: editor, lessicografa, scrittrice, curatrice della rubrica letteraria Di parola in parola sul blog Culturificio.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa IRELFE – Il Ramo e la Foglia Edizioni per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Emilio Salgari è forse più di tutti lo scrittore che ha incarnato la forza e la potenza della fantasia quando incontra la penna e la carta. I viaggi che non si possono fare fisicamente diventano la materia prima da plasmare con le parole, i desideri, le emozioni, le sensazioni, le idee. E così anche un “viaggio virtuale” può diventare reale, a almeno sembrarlo.
Ora, non si sa se Mia Another sia fisicamente mai andata in Giappone, ma per certo la sua fantasia e la sua scrittura trasmettono egualmente tutta la forza e la potenza che a un buon libro viene richiesto. Racconta la storia dei suoi protagonisti l’autrice ma, soprattutto, conduce il lettore in un viaggio in Giappone, una terra tutt’ora esotica e affascinante che sembra essere raccontata da una persona che lì davvero ci ha vissuto.
Tokyo a mezzanotte si apre al lettore con una sgradevole vicenda che ha visto coinvolta la protagonista. Una situazione destabilizzante, acutizzata dal trasferimento in una nuova terra, diversa e complessa. Una terra da scoprire, riscoprire e amare, come la stessa vita dopo un brutto colpo, allorquando ti accorgi che, nonostante tutto, non tutto è perduto e vale sempre la pena ricominciare.
La storia è raccontata in prima persona alternando le voci dei due protagonisti principali, con uno stile narrativo molto attento, curato in ogni dettaglio. Riesce l’autrice a coinvolgere il lettore fin dalle prime battute e per certo gli appassionati del genere non resteranno delusi anche dalla prorompente sensualità della narrazione.
Il dualismo presente nella vita della protagonista e il fatto che, letteralmente ella debba “farsi” in due per guadagnare il più possibile, si ritrova anche nel racconto di una città, Tokyo, duale: fredda e stretta da rigide regole anche comportamentali quella diurna, scottante e misteriosa quella notturna.
L’immagine che Hailey si era creata del Giappone, grazie anche ai racconti fantasiosi del fratello che lì si era trasferito e, a suo dire, si era realizzato professionalmente e umanamente, impattano non poco con la realtà nella quale la ragazza si ritrova a vivere, soprattutto nella fase iniziale.
Senza lasciarsi troppo tentare da immagini stereotipate e pregiudizi netti, l’autrice racconta di un Giappone vero, di un Paese alle prese con i tanti problemi e difficoltà della vita quotidiana, né più né meno di tutti gli altri Stati del mondo. A tratti potrebbe quasi sembrare che l’autrice manifesti un marcato giudizio filo-americano ma, in realtà, il tutto sembra essere funzionale alla storia raccontata, ricordando, tra l’altro, che la protagonista è americana di origine.
C’è un ulteriore aspetto del libro che merita qualche considerazione. La protagonista è una ragazza giovane sempre alle prese con lo smartphone, con le app e con i social e sembra essere convinta che questo le basti per conoscere il mondo e, soprattutto, Tokyo. Naturalmente una volta atterrata in questa nuova città tutto le appare molto diverso, complesso e caotico. Troverà la sua guida ma, per la gran parte della narrazione, non sembrerà la scelta migliore. Il punto di congiunzione tra lei e la sua “guida” sembrerà essere la determinazione che entrambi hanno nel non volersi arrendere e nel voler andare avanti a ogni costo. Come il tempo che non si può mai fermare. Come i giorni che passano inesorabili. Anche se il loro punto di incontro sembra labile e inafferrabile come quell’attimo, a mezzanotte, che unisce e al contempo divide due giorni consecutivi.
È un libro interessante, Tokyo a mezzanotte di Mia Another, non tanto e non solo per la trama in sé quanto per le sfumature che l’autrice riesce a dare a singoli eventi e al carattere dei protagonisti, come dei personaggi in generale, ben ideati e che rappresentano forse la vera forza del romanzo.
Il libro
Mia Another, Tokyo a mezzanotte, Newton Compton editori, Roma, 2021. Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma.
L’autrice
Mia Another: pseudonimo di una scrittrice che vive nel modenese. Dopo aver lavorato in un web magazine a tema hi-tech, ha iniziato la sua avventura nel self-publishing.
Per raccontare lo scontro generazionale tra i queer, idealisti e romantici, e i loro precursori, pionieri e truci operai spaziali, Fabio Carta fa attraversare al lettore l’intera Via Lattea. In una narrazione tanto futuristica quanto attuale. Ne nasce un romanzo di fantascienza quasi paradossalmente ancorato alla realtà in maniera incredibile, che racconta e analizza tematiche di stretta attualità con una visione d’insieme certamente originale.
Su una remota miniera extrasolare denominata Geuse, un vecchio mek-operaio, giorno dopo giorno, vede i frutti del suo duro lavoro sfumare a causa di una crisi economica senza precedenti, che coinvolge tutte le colonie della Via Lattea. Come molti altri medita di prendere ciò che gli spetta e cambiare vita. Ma non è così facile.
Ad anni luce da lì la Metrobubble, la capitale finanziaria della galassia, è stravolta dallo slittamento temporale tra sistemi planetari, dai disordini e dalle rivoluzioni. Ora a regnare è un feroce dittatore che si fa chiamare Meklord. I nativi del pianeta, i queer, gli fanno guerra per quanto possono, mentre attendono l’aiuto della Terra o di chiunque avrà il coraggio di sfidare per loro le maree del tempo e le armate meccaniche del tiranno.
Armilla Meccanica è una space opera senza alieni, ma con molte società, culture e sub-culture umane “alienate” o conformi al grande consesso cosmico informatico a governo della Via Lattea, l’Armilla appunto.
Una space opera dove forte è la presenza di veri e propri mecha japan-style, ovvero meka, delle macchine industriali bipedi pilotate come mezzi corazzati.
Grazie allo slittamento temporale tra vari sistemi planetari, Carta propone al lettore una lotta generazionale che vede scontrarsi due opposti schieramenti dotati del vigore, dell’incoscienza e della tenacia della gioventù. Singolare la scelta dell’autore di far emergere da questo blocco di giovani il “vecchio eroe” come figura che riuscirà a dare la svolta decisiva all’intera vicenda.
Il libro di Carta si apre al lettore con una citazione di Dostoevskij:
«Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più. Quando tutto l’uomo raggiungerà la felicità, il tempo non vi sarà più, perché non occorrerà. È una idea molto giusta. Dunque dove lo nasconderanno? In nessun posto lo nasconderanno. Il tempo non è un oggetto, è un’idea. Si spegnerà nella mente.»
L’idea del tempo che si trova in Armilla Meccanica rimanda alla visione religiosa di esso ma anche a quella esistenziale analizzata da tanti studiosi e pensatori.
Il tempo è la limitazione stessa dell’essere finito o è la relazione dell’essere finito con Dio?
Relazione che non assicurerebbe tuttavia all’essere un’infinità opposta alla finitezza, né una autosufficienza opposta al bisogno, ma che, al di là della soddisfazione e dell’insoddisfazione, significherebbe il sovrappiù della socialità.
Il tempo non sarebbe quindi l’orizzonte ontologico dell’essere dell’essente, ma modo dell’al di là dell’essere, una relazione del pensiero con l’Altro e – attraverso diverse figure della socialità posta di fronte al volto dell’altro uomo: erotismo, paternità, responsabilità per il prossimo – come relazione con il tutt’Altro, con il Trascendente, con l’Infinito. Il tempo non è una degradazione dell’eternità ma una relazione con ciò che, di per sé inassimilabile, assolutamente altro, non si lascerebbe assimilare dall’esperienza, o con ciò che, di per sé infinito, non si lascerebbe comprendere.
Il tempo non fa parte del modo d’essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri, non si tratta quindi dell’idea del tempo ma del tempo in se stesso.1
Gli argomenti trattati da Carta nel libro sono molteplici e spaziano dall’ambientalismo ai danni prodotti dal capitalismo sfrenato, dalla guerra agli scontri per il potere. Ma l’altro argomento si cui si vuole focalizzare ha anch’esso, in qualche modo, a che fare con il tempo, questa volta “rubato” alle persone e in particolare agli operai, costretti a un lavoro durissimo, vittime di allucinazioni metacroniche.
«Si diceva che alcuni operai fossero impazziti a causa di queste continue cronovisioni, incapaci di distinguere il presente degli eventi, anche quelli fisicamente più prossimi e semplici, ma anche impossibilitati a elaborare la realtà in termini di passato e futuro, secondo il legame eziologico tra causa ed effetto.»
Come si può recuperare il tempo perduto nel vortice turbolento di un’esistenza che costringe le persone a impegnare gran parte della loro vita in attività svolte per il guadagno soprattutto altrui? Come possono gli esseri umani ritrovare se stessi e il loro equilibrio?
Carta identifica nel testo la meditazione degli yogi quale ottimo compromesso tra un pacifico credo religioso e tollerante e una pratica via di fuga mentale dalle nevrosi, dalla solitudine e dalla claustrofobia riscontrata nei primi e sovraffollati habitat artificiali.
La solitudine è un’assenza di tempo. Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere.
L’esistere allora rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente. La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti.
Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cambiamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente.
La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri questi che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.2
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa, ma continua ad avere una visione distorta del mondo.
L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli ebrei sono dei “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Ciò che manca alla nostra società occidentale è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita il male dell’Infinito, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno vedere loro la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.3
Nell’analisi della megacultura occidentale si nota il suo distaccamento dalla natura e la paura del suo arresto. Le chiusure o sospensioni ad essa ascrivibili sono periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… legate comunque all’aspetto economico della cultura occidentale. Invece ciò che viene auspicato è la ricerca di sospensioni o auto-sospensioni che non siano mere pause dalla routine, piuttosto ricerca e cura di se stessi e della natura.
Nella cultura dei nativi americani tutto è sacro, dal ramo dell’albero al sasso, all’acqua, alla Terra e ciò che in essa vive, ovvero tutto. Il rispetto verso se stessi, verso gli antenati, verso la vita passa inesorabilmente attraverso il rispetto per la Terra, per la Grande Madre, la Natura.
Lo scopo della meditazione zen è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali.
L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:
Fisico
Emozionale
Psicologico
Studi e ricerche scientifiche hanno evidenziato effetti benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità e flessibilità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.4
Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?
Sono queste, o similari, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia. Un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi: dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, il lettore viene indotto a osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone la malinconia. La malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone.
La cura per la malinconia è raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.5
Armilla Meccanica di Fabio Carta è un libro che racconta una storia di fantascienza ma offre innumerevoli spunti di riflessioni sulla realtà, sull’umanità, sul tempo e l’interiorità. Una space opera davvero interessante.
Il libro
Fabio Carta, Armilla Meccanica. Nel Cielo, vol. 1, Inspired Digital Publishing, 2021.
L’autore
Fabio Carta: laureato in Scienze Politiche con indirizzo storico, appassionato di fantascienza e letteratura classica. Autore di diversi romanzi e racconti.
1Emmanuel Levinas, Il tempo e l’Altro, Mimesis Edizioni (Milano-Udine), 2021.