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Irma Loredana Galgano

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“Sbirri e culicaldi” di Stefano Talone (Ensemble, 2020)

10 mercoledì Feb 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ensemble, recensione, romanzo, Sbirrieculicaldi, StefanoTalone, thriller

Ambientazione, personaggi, suspence, stile narrativo e, soprattutto, trama sono gli elementi che in un buon libro giallo non devono mancare o altalenare. Nel suo poliziesco d’esordio, Stefano Talone ce l’ha messa tutta affinché il testo presentato ai lettori non mostrasse carenza alcuna. E, in effetti, Sbirri e culicaldi si fa leggere con piacere. Unica pecca è il ritmo iniziale un po’ lento, rispetto anche al resto del libro che, al contrario, mostra una narrazione più serrata, sorretta da un ritmo molto più incalzante, perfetto per libri di questo genere.

Come scrivevo, gli elementi topici ci sono tutti e si presentano bene. L’ambientazione è suggestiva e perfetta per un romanzo che vede scendere in campo polizia, agenti segreti e minacciosi terroristi. Londra, forse anche a seguito della fortunata produzione letteraria di Ian Fleming e sicuramente ancor di più per le versioni cinematografiche con protagonista lo 007 con licenza di uccidere, è diventata, nell’immaginario collettivo, simbolo delle spy stories.

Nel libro di Talone lo spionaggio veste i panni dell’attualità aprendo le indagini alla minaccia incombente di attacchi terroristici che, tristemente, anche di recente hanno campeggiato sui titoli dei giornali europei per settimane. Ed è proprio grazie a questo tema di stretta attualità che l’autore riesce bene a raccontare anche della società che si è costruita tutta intorno a queste minacce e, al contempo, alla medesima società che ha originato i malesseri che questo terrorismo hannogenerato.

Il fenomeno dell’immigrazione, con i problemi a esso connessi e mai risolti. Le mille difficoltà di uno stato sociale assente, latitante o carente. Gli strati di culture e sub-culture che si intrecciano e si incontrano almeno quanto si scontrano e che generano sempre e inevitabilmente dei vuoti e delle lacune difficili da colmare.

Sbirri e culicaldi è anche un viaggio nelle periferie, nei sobborghi multietnici della capitale inglese, una sorta di cammino per incontrare, forse anche per conoscere, i vari e variegati personaggi che sembrano essere tenuti uniti, legati da una solo in apparenza inspiegabile voglia di fede e di martirio. Il racconto che Talone fa della sua Londra contemporanea lascia trasparire le mille difficoltà e i tanti ostacoli che ancora persistono e impediscono una effettiva e totale integrazione, anche dei cosiddetti immigrati di seconda o, addirittura, terza generazione. Le mille sfaccettature, per nulla rosee, di una società che si sponsorizza come multietnica ma lo fa nascondendo forse anche a se stessa i tanti risvolti negativi e nodi ancora da sciogliere.

«Non è facile fare parte di una cultura fuori dal paese che ha dato la vita ai tuoi genitori… Vanno in giro senza essere niente. Né pakistani, né britannici. Sanno solo di essere vivi e di volere cambiare il mondo.»

Il romanzo è scritto molto bene. Talone più volte si sofferma nella descrizione dettagliata e minuziosa, anche di tecniche specifiche di indagine, ma senza appesantire troppo la narrazione e riesce a portare avanti la storia sciogliendo tutti i nodi, i vari intrecci che rendono ancora più interessante la lettura e sorprendente il finale.

Sarà la ricerca di due ragazzi culicaldi, ovvero sospettati di essere potenziali attentatori, che farà incontrare e a volte scontrare i detective di Scotland Yard con gli agenti dell’Antiterrorismo, che dà la possibilità all’autore di mostrare al lettore le diverse fasi e le differenti procedure di indagine, nonché le difficoltà che incontrano gli investigatori allorquando si scontrano con la farraginosa macchina burocratica la quale, impegnata e vincolata com’è al rispetto di tempi e regole ferree, appare troppo lontana da una realtà in continuo divenire e ostacolo, essa stessa, alla giustizia.

Victor Gell e Oliver Outeberry, veri protagonisti del libro, sono entrambi, anche se ognuno a modo proprio, detective che credono in quello che fanno. La loro abnegazione li ha portati a compiere scelte anche difficili, a fare rinunce, a scontrarsi con superiori e amministrazione… ciò a cui proprio non riescono e non vogliono rinunciare è loro stessi, quello che sono o che sono diventati. Traspare, da questo atteggiamento, molto ben analizzato da Talone, il volto umano dei corpi di polizia, dei servizi, degli apparati investigativi.

Un libro, Sbirri e culicaldi di Stefano Talone, nel complesso molto ben strutturato. Una piacevole e interessante lettura.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018) 

“Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione” di Stefano Allievi e Gianpiero Dalla Zuanna (Editori Laterza, 2016) 


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La terra del sogno” di Mariana Campoamor (Mondadori, 2020)

09 mercoledì Dic 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Laterradelsogno, MarianaCampoamor, Mondadori, recensione, romanzo

«Ai viaggiatori di ogni tempo e luogo, e alle terre in cui sperano di seminare un sogno»

La dedica iniziale del libro di Mariana Campoamor racchiude in poche parole un significante straordinario.

La terra del sogno è un romanzo d’esordio, una sintesi tra racconti di vita vissuta e immaginazione. Un romanzo che racconta una storia con un fitto intreccio ma basato, soprattutto, sui sentimenti di chi parte inseguendo un sogno, lavora per realizzare un progetto, vive per dare un senso ai propri pensieri.

Nel 1886 Aldo Masi lascia Milano e l’Italia e, a bordo di un piroscafo, raggiunge le Americhe. Uomo ambizioso, riesce a realizzarsi grazie alla piantagione di indigofera nella terra arsa dal sole del Michoacán eppure continua a coltivare un grande sogno, un desiderio ereditato dal padre, un’idea talmente folle da diventare possibile: coltivare riso in Messico.

Il Messico è la terra che ha accolto Aldo Masi e la sua famiglia, che ha visto nascere e crescere i suoi figli e i suoi desideri. L’Italia è la terra che gli ha dato i natali, è il luogo cui si sente più legato e verso cui ritorna ogni suo pensiero.

Nella storia raccontata da Mariana Campoamor si ritrovano il passato e il presente di quest’uomo, le tradizioni dell’uno e dell’altro paese, e il tutto sembra fondersi al punto da non riuscire quasi a definire le differenze. Come se l’unione delle due culture ne abbia generato una terza, ibrida, che serba e racconta parti di entrambe.

La terra del sogno è un romanzo la cui storia presenta diversi “lati oscuri”, segreti e misteri che rendono a tratti la narrazione vicina a quella di un libro giallo o noir senza mai diventarlo davvero. Rimane, il testo di Campoamor, all’interno dei parametri utili a definirlo “romanzo”, un romanzo moderno che racconta la saga di una famiglia di immigrati italiani in Messico e lo fa con uno stile narrativo vicino a tanta letteratura, soprattutto americana, che ha narrato la vita, la cultura all’interno di queste immense piantagioni, sterminati campi di piante, alberi, vita e vite… in un intreccio di esistenze ed esperienze che sembrano appartenere a una società che non esiste più ormai e che, invece, ha solo trovato differenti protagonisti e luoghi, o terre su cui mettere radici.

Alcune parti del libro sono richiami palesi ai racconti che l’autrice ha ascoltato da sua nonna. Racconti dei suoi antenati al tempo in cui lavoravano nelle piantagioni di proprietà di immigrati italiani. Storie di padroni/proprietari/immigrati e di braccianti/lavoratori/autoctoni. Storie su cui l’autrice ha intessuto la sua, di narrazione, modellata anche dalla volontà di raccontare il riscatto, etnico e di genere.

Un romanzo, La terra del sogno, che lancia innumerevoli spunti di riflessione per il lettore a partire da una storia ben strutturata e ben scritta nella quale l’autrice ha saputo fondere alla perfezione emozione e razionalità.

Bibliografia di riferimento

Mariana Campoamor, La terra del sogno, Mondadori, Milano, 2020. Traduzione di Fiammetta Biancatelli


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Per l’immagine del lago Zirahuen a Michoacán credits www.pixabay.com


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L’occidentalizzazione del mondo non significa che l’Occidente sta diventando il mondo. “Paesaggi migratori” di Iain Chambers (Meltemi, 2018) 

Il dialetto che diventa lingua. La storia delle comunità italo-brasiliane 

“Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina” di Maurizio Pagliassotti (Bollati Boringhieri, 2019) 

La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018) 


 

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“La vera storia di Martia Basile” di Maurizio Ponticello (Mondadori, 2020)

16 lunedì Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LaverastoriadiMartiaBasile, MaurizioPonticello, Mondadori, recensione, romanzo, romanzostorico

Durante il lockdown, un lasso temporale relativamente breve compreso tra i mesi di marzo e aprile 2020, solo in Italia sono state 5.031 le telefonate valide al numero di emergenza per vittime di violenza di genere, il 1522. L’Istat ha calcolato che si tratta del 73 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le campagne di sensibilizzazione si moltiplicano a vista d’occhio e, parzialmente, si registrano sviluppi positivi, soprattutto nell’aumento del numero di denunce.

A guardali in assoluto questi dati lasciano molto perplessi. Ma lo stupore maggiore si prova nel momento in cui li si confronta con il passato, allorquando bisogna affermare che, tutto sommato, la condizione femminile nella società ha fatto passi da gigante. Anche se ovviamente tanto ancora c’è da fare.

Il punto però è che quello che a noi sembra assurdo in realtà è già un miglioramento. E questo è davvero difficile da concepire.

Non sono lontani i giorni in cui in Italia era legale il delitto d’onore, in cui il figlio maschio era l’unico e solo erede, in cui l’istruzione femminile era pressoché assente, in cui esisteva una netta distinzione tra i doveri femminili e quelli maschili… Purtroppo non è raro dover ascoltare ancor oggi visioni ancorate a detti pregiudizi ma il punto è un altro. È necessario e doveroso cambiare il paradigma culturale che fa della differenza di genere una questione di potere, di prestigio, di potenza, supponenza, supremazia e forza fisica e per fare ciò bisogna anche imparare dagli errori del passato.

«All’immenso coraggio delle donne»

È con queste parole che si apre al lettore il libro di Maurizio Ponticello che narra La vera storia di Martia Basile, una donna, poco più di una bambina in realtà, la cui vita è segnata da decisioni prese da un padre e un marito che neanche per un solo istante l’hanno considerata come persona. È una storia tragica e crudele quella di Martia Basile e, purtroppo, non è così rara come si vorrebbe credere, neanche al giorno d’oggi.

La vicenda di Martia Basile si presta particolarmente al racconto narrativo ma non è certo solo per questo che il romanzo di Maurizio Ponticello colpisce il lettore. È il taglio che l’autore ha scelto di dare all’intera vicenda, è il registro narrativo da lui accuratamente scelto che rendono il libro un ottimo romanzo moderno.

Nel racconto di Ponticello si fondono la Napoli e l’Italia intera di oggi con quella del passato, quel mai abbastanza lontano Seicento durante il quale bastava un nonnulla per bandire una donna e tacciarla come strega, per incolpare qualcuno di eresia, per ripudiare una donna che non aveva partorito figli maschi e giustiziarla pubblicamente allorquando tentasse di rifarsi una vita.

A lungo si è discusso sulla reale esistenza o meno di Martia Basile. L’autore dissipa ogni dubbio e, con la sua consueta precisione, racconta vicende di una Napoli antica i cui odori ancora si percepiscono tra gli stretti vicoli che rigano il centro storico e lo definiscono, pezzo dopo pezzo, come il reticolo di una carta geografica. Si scoprono curiosando tra i polverosi scaffali di archivi e biblioteche di cui Ponticello si dimostra sempre avido conoscitore e intenditore. Si animano in quei personaggi senza tempo, proprio come la città che ha dato loro i natali.

In più occasioni Maurizio Ponticello ha dato prova della sua capacità di ricerca e documentazione, della sua abilità nel cimentarsi in minuziose e dettagliate ricerche sul campo e da fonti documentali, elaborando poi il suo resoconto in libri la cui lettura risultasse sempre scorrevole e leggera per il lettore, ma questa volta sembra davvero che sia riuscito a superare se stesso nel modo in cui ha saputo raccontare una storia così potente e complessa e farlo in una maniera davvero eccezionale.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Mondadori Editore e l’autore per la disponibilità e il materiale


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Rolandina, la transgender condannata al rogo. Intervista a Marco Salvador 

Trasformare un ambiente magico in opera d’arte. “Napoli velata e sconosciuta” di Maurizio Ponticello (Newton Compton Editori, 2018) 


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“L’ora buca” di Valerio Varesi (Frassinelli, 2020)

28 mercoledì Ott 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Frassinelli, Lorabuca, recensione, romanzo, ValerioVaresi

A volte è proprio nell’ordinario di una normale e in apparenza banale vita quotidiana che si scatena il caos più totale. A generarlo è un recondito senso di frustrazione che ingenera una ribellione motivata dalla volontà di trasformare il vuoto in pieno. Il protagonista del libro di Valerio Varesi tenta di sopperire alla propria insoddisfazione cercando la notorietà, però per farlo accetta pericolosi compromessi che lo portano dapprima a rovinare esistenze altrui poi la propria.

Il Professore è un insegnante, è un pensatore ed è molto insoddisfatto della vita, della professione che svolge, è deluso per l’incapacità di portare avanti e concludere un progetto concreto e complesso, è demotivato a causa delle insolubili verità esistenziali cui non trova risposte, per sé ma soprattutto per i suoi alunni per cui si sente già destinato alla menzogna.

Una delusione, quella del professore del libro di Varesi, che accende un faro su una condizione più generale, riscontrabile nell’attuale società italiana, nella quale quotidianamente si assiste e ci si scontra con l’assenza di un necessario quanto inesistente progetto sociale e culturale. Sembra quasi sia diventato tutto una finzione, un inganno, una menzogna appunto.

Sarà proprio questa, la menzogna, a dare la svolta tanto attesa alla vita del protagonista de L’ora buca. Nel campo dell’informazione si suole chiamarle fake news ma sempre bugie restano. Ed è su queste e con queste che il Professore costruirà la sua nuova vita, inventata distruggendone un’altra. Nel suo caso la legge del contrappasso sarà molto dura. Alla fine, il Professore non otterrà quello che sperava. O forse no. Otterrà proprio ciò che in cuor suo desiderava.

Il libro di Valerio Varesi è come una stanza degli specchi nella quale, proprio quando pensi di aver trovato l’uscita, sei costretto a ricominciare daccapo. Un vorticoso gioco di rimandi che sembra ruotare intorno a un non senso pericoloso, basato sul nulla, sul vuoto. Un vuoto esistenziale, un vuoto culturale, un vuoto sociale… una rappresentazione senza mezze misure della crisi culturale che sta investendo e travolgendo la società italiana, quella occidentale, globale addirittura. Una “cultura” che fonda le sue radici su talk show, reality, micro video, post e tweet. Un mondo nel quale la conoscenza sembra rimandare ancora troppo al concetto di “chi ti manda” e le competenze sono uno slogan ormai solo pubblicitario e propagandistico.

Anche il titolo del libro, L’ora buca, è emblematico di questo “gioco” basato sul nulla, sul vuoto. Il titolo richiama all’ora che intercorre tra una lezione e l’altra, quella di attesa, di vuoto appunto, nella quale, nel testo, inizia a crearsi la rete della storia e nascono i prodromi di quel risentimento/frustrazione che porteranno o costringeranno il protagonista alla svolta, al cambiamento che altro non sarà che un lento e inesorabile peggioramento, una distruzione e un’autodistruzione. Il lettore non può non chiedersi se sarà così il destino cui va incontro l’attuale società se non sceglierà, per tempo, di invertire la marcia o approntare una poderosa sterzata per cambiare direzione e farlo sul serio, dal verso giusto.

Un’articolazione del pensiero che passa dal locale al globale in maniera eguale e parallela a quanto accade nel testo, ai pensieri e alle considerazioni dello stesso protagonista il quale, narrando di programmi scolastici, capitoli e argomenti, giunge a riflessioni su enormi problemi esistenziali. Un andirivieni che è di per sé simbolico di quanto anche solo un singolo atteggiamento, comportamento, pensiero possa, alla fin fine, andare a incidere sui massimi sistemi, soprattutto se vanno a sommarsi tanti piccoli pezzi che, uniti tra di loro, ne formano uno grande, immenso, globale.

Sembra quasi che Varesi voglia suggerire al lettore che se è il “mondo” a dover essere cambiato ciò deve avvenire per mano dei suoi abitanti, non è certo il pianeta in sé che potrà subire dei cambiamenti, delle modifiche o delle alterazioni. Sono le persone che lo governano a dover fare la differenza. E ciò vale naturalmente per ogni “mondo”. Anche la società è a suo mondo un mondo, oppure un universo. E anch’essa potrà davvero cambiare solo se lo faranno i suoi abitanti.


Articolo disponibile anche qui


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Il senso della vita raccontato da Edith Pearlman in “Intima apparenza” (Bompiani, 2017) 

La disperazione del viver quotidiano in “Ogni spazio felice” di Alberto Schiavone (Guanda, 2017) 

Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016) 

La quotidianità sconfigge i demoni in “Fato e Furia” di Laureen Groff (Bompiani, 2016) 


 

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“Ritorno a Villa Blu” di Gianni Verdoliva (Robin Edizioni, 2020)

14 martedì Lug 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GianniVerdoliva, recensione, RitornoaVillaBlu, RobinEdizioni, romanzo

Ritorno a Villa Blu di Gianni Verdoliva è una storia che mantiene tutta l’architettura classica delle fiabe – nell’impostazione, nella struttura, nei personaggi come anche nel linguaggio – e, al contempo, si presenta innovativa nei contenuti, molto attualizzati rispetto alle consuetudinarie vicende che narrano di principi, principesse, orchi, streghe, fate e folletti.

Tre fratelli che si ritrovano ad aver ereditato l’antica casa famigliare, Villa Blu per l’appunto, e vi si recano per la prima volta soli, senza i parenti “adulti”, ovvero genitori e nonni. Dal prendere le misure su come organizzare e amministrare la proprietà ricevuta in dono si ritrovano catapultati in uno scenario completamente stravolto, nel quale mille avventure li attendono, unitamente a pericoli, personaggi malvagi ma anche buoni.

Alla fin fine il lettore si ritrova dinanzi al classico dualismo tra bene e male, vero grande leit motiv del genere. A salvare il testo di Verdoliva dalla banalità sarà proprio l’aver scelto di rendere molto attuale la vicenda narrata, all’interno della quale si ritrovano diversi spunti di riflessione sul presente.

Espediente parimenti ben riuscito sono i numerosi flashback che l’autore ha inserito nel testo, i quali contribuiscono a dipanare alcuni punti che altrimenti sarebbero potuti rimanere oscuri al lettore.

In diversi punti Verdoliva sembra quasi strizzare l’occhio alla letteratura gialla, allorquando inserisce diversi climax ascendenti per ingenerare in chi legge suspence. Misteri e momenti di tensione narrativa contribuiscono, infatti, a mantenere alto il livello di attenzione durante la lettura. Ma si tratterà sempre e comunque di leggeri momenti di tensione, non ci sono violenti o irruenti splatter nel libro.

Vicende e ritmo sempre più incalzanti e che avranno il loro culmine nella notte del Solstizio d’estate, che sarà la resa dei conti non solo con il sortilegio ma anche con tutto il carico emozionale che grava sui tre fratelli e che investe il presente e il passato dell’intera famiglia.

Lo stile di scrittura è molto equilibrato, caratterizzato da una particolare grazia e cura per i dettagli. Anche nelle lunghe esposizioni e descrizioni, l’autore riesce a donare il giusto ritmo alla scrittura, leggendolo a voce alta si avverte quasi la sensazione di intonare una melodia. È sicuramente un registro narrativo che ben si adatta a un genere letterario per vocazione destinato alla trasmissione, anche orale, al “racconto”.

Gianni Verdoliva, Ritorno a Villa Blu, Torino, Robin Edizioni, 2020

Collana Robin&sons, 184 pagine, 12 euro


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa per la disponibilità e il materiale


Disclosure: per la prima immagine credits www.pixabay.com


 

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“Il complotto Toscanini” di Filippo Iannarone (Piemme, 2018)

18 sabato Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FilippoIannarone, IlcomplottoToscanini, Italia, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone, edito da Piemme in prima edizione a gennaio 2018, si apre al lettore con una citazione di Lucio Anneo Seneca.
«Non osiamo molte cose non perché sono difficili, ma molte cose sono difficili perché non osiamo».
E l’autore, in questo libro, ha osato molto. Un esempio ben costruito e ben riuscito di come i fatti storici reali diventino poi, grazie alla fantasia e all’immaginazione, un canovaccio che rappresenta solo la base di partenza e, al contempo, una piccola parte seppur non marginale, della storia presentata al lettore.

Iannarone, attraverso la descrizione dei ricordi dei protagonisti o degli accadimenti della storia narrata, racconta i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, le speranze e le paure non di un gruppo o di una generazione, bensì di un’intera nazione.
Dopo gli orrori del conflitto, le atrocità della guerra, i combattimenti, i bombardamenti, la distruzione, le rovine… l’Italia sembra risorgere. E per tutti si profila non il desiderio di ricostruire il vecchio, il passato, ma di creare davvero un Paese nuovo, sotto l’egida del grande rinnovamento chiamato Repubblica.
Anche se l’ombra del male, della sofferenza, del dolore e della morte non abbandona nessuno di quelli che l’hanno guardata dritta negli occhi. Il male del conflitto, della guerra, del fanatismo, dell’estremismo, del fascismo e del nazismo.

Notevole anche il modo in cui l’autore riesce a descrivere il profondo rapporto che unisce i protagonisti, Luigi e Iolanda. Un legame che si è creato cercando di strapparlo al buio della vita che finisce. Un’esistenza, quella di Luigi, che è rinata giorno dopo giorno accanto a quella donna che poi sarebbe diventata sua moglie. Ad unirli l’amore, certo, ma anche la passione, il coraggio, gli ideali e gli intenti comuni. Elementi tutti che hanno contribuito a saldare un rapporto nel quale entrambi si vedono e si rispecchiano perfettamente.
Grande l’abilità narrativa di Iannarone nel comunicare al lettore questi sentimenti forti, intensi, lasciandoli trasparire da pochi piccoli gesti e parole legati, tra l’altro, alla “banale” quotidianità.

«La costruzione della comunicazione di buone notizie è ancor più importante in democrazia» perché «la percezione da parte della gente comune di vivere in un paese normale ci permetterebbe di avere meno problemi di ordine pubblico, di disperdere questa continua incitazione al conflitto sia da destra sia da sinistra». Iannarone centra un nodo dolente della democrazia, di tutte le democrazie occidentali, le quali hanno saputo costruire un’immagine mediatica di se stesse basata sulla libertà di pensiero e di idee e sulla libera circolazione delle stesse. Al contempo, hanno sempre puntato su una comunicazione che indichi la propaganda come un qualcosa che non appartiene alla democrazia bensì ai regimi dittatoriali.
Le democrazie in effetti non impongono se stesse, regalano invece una bella, positiva e propositiva immagine di sé.

Riesce l’autore a descrivere e trasmettere al lettore la società italiana degli anni Trenta, come anche di quella dell’immediato dopoguerra, sul finire degli anni Quaranta. Esemplare il modo in cui riesce a cogliere e descrivere anche le minime sfumature comportamentali rispetto ai suddetti periodi, i quali, seppur non lontani sulla linea del tempo, lo sono stati molto invece per tutto il resto. Egual ragionamento vale per i rapporti di genere e di classe. Leggendo Il complotto Toscanini si realizza quanto in effetti il mondo sia cambiato e quanto, invece, sia rimasto invariato o addirittura peggiorato.

Il rapporto tra Luigi e Iolanda, quello professionale molto rigido e gerarchico, la società italiana e le sue classi. I ruoli sociali e famigliari degli uomini e delle donne. Il che non vuol significare che le donne non lavorassero anche fuori di casa, allora come adesso. Vi era solo una più netta e definita distinzione tra i generi che al giorno d’oggi sembra essere stata colmata solamente in apparenza. In realtà si intravede solo una gran confusione, un’illusione di progresso e di parità. Una zona grigia che troppo spesso produce ombre deformi e pericolose.

L’emancipazione femminile di cui tanto si narra deve, per essere cosa seria e concreta, passare necessariamente attraverso la parità, l’eguaglianza e il rispetto reciproco di diritti e doveri. Altrimenti è una farsa. E, purtroppo, è quello a cui sembra di assistere quotidianamente. Come per la comunicazione anche per i diritti civili le battaglie come i traguardi sono tutt’altro che lontani ricordi da poter archiviare.

Ottima la struttura narrativa del libro. Una solida “impalcatura”che regge bene l’intreccio sviluppato lungo una doppia linea temporale. Il presente e il passato che si avvicendano nei vari capitoli che vanno a comporre il testo ma che si intersecano di continuo nel racconto, nello svolgersi delle vicende e nella narrazione dei ricordi o dei pensieri.

Dalla lettura del testo si evince chiaramente il dettagliato lavoro di ricerca preventivo eseguito da Iannarone, il quale deve essersi accuratamente documentato non solo sulla storiografia dell’epoca nella quale ha deciso di ambientare la sua storia, ma anche sui costumi e le abitudini del tempo. I protagonisti infatti vestono, parlano e hanno delle movenze che li identificano perfettamente nel periodo considerato.

Grazie a una cura particolare per i dettagli, a “pause narrative” nelle quali il colonnello Luigi Mari e il suo assistente, il tenente Vinicio Barbetti, fanno il punto della situazione e di quanto scoperto, alle analisi e ai racconti storico-letterari del colonnello o dei suoi intervistati, l’autore riesce a rendere famigliare per il lettore l’intera vicenda, pur nella sua complessità, i tanti personaggi e anche l’ambiente.

Nei ringraziamenti Iannarone sottolinea come lo abbia aiutato la grande passione per la musica e questo sarà certamente vero. Ma deve essergli occorso uno studio profondo e articolato per ricostruire nel suo libro ambienti e accadimenti cui è impossibile abbia presenziato. Ciò che i suoi occhi non hanno visto direttamente, la sua mente ha fatto propri grazie a un minuzioso processo di immedesimazione che poi deve aver trasferito al protagonista, Luigi Mari.

La storia raccontata ne Il complotto Toscanini è un’indagine investigativa indiretta, ovvero condotta da persone diverse dagli inquirenti incaricati ufficialmente, e posticipata nel tempo. Molti anni dopo l’omicidio. Il punto di partenza è una verifica su una celebrità, il maestro Toscanini, al fine di meglio valutare la sua candidatura a senatore a vita.
Nonostante questo, nulla manca al libro rispetto un più classico poliziesco. Piuttosto molto altro si ritrova nel testo di Iannarone.

Informazioni storiche, artistiche, letterarie che arricchiscono la narrazione senza appesantirla e, al contempo, dilatano il lavoro di indagine. Del tutto compatibile con il carattere peculiare dell’investigazione, non ufficiale appunto e non finalizzata a scovare il colpevole e assicurarlo alla giustizia.

Un testo molto valido, Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone. Un’ottima opera letteraria che merita senz’altro di essere letta anche come punto di riferimento e apprendimento.


Articolo originale qui



Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Recensione a “Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano” di Massimo Lugli (Newton Compton, 2019)

03 venerdì Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlgialloPasolini, MassimoLugli, NewtonCompton, recensione, romanzo

La mattina del 2 novembre 1975 il corpo senza vita di Pier Paolo Pasolini viene rinvenuto in un campo incolto in via dell’idroscalo, lungo il litorale romano di Ostia. Sull’atroce delitto non è mai stata fatta veramente luce. Ombre e misteri ancora oscurano la verità, anche dopo così tanti anni.

Nel 2005, a distanza di trent’anni dall’omicidio, l’imputato al processo svoltosi tra il 1975 e il 1976, Pino Pelosi, dichiaratosi in prima istanza colpevole del reato, durante la partecipazione alla trasmissione televisiva Ombre sul giallocondotta da Franca Leosini, ritratta la sua versione e afferma di non essere lui il vero colpevole bensì altre persone di cui non conosceva la reale identità ma che lo avevano minacciato qualora non si fosse addossato la colpa. In seguito alle sue dichiarazioni il processo non fu riaperto ma il mistero è tutt’altro che concluso.

Un tragico evento che ha scosso gli animi dell’intera comunità letteraria del Novecento italiano e quella di numerosi cittadini di allora e di oggi, soprattutto in virtù delle considerazioni che scaturiscono ovvie pensando alla “scomodità” dei temi che Pasolini trattava nei suoi articoli di giornale, alla “delicatezza” degli argomenti sui quali indagava…

Un tragico evento che, per certo, deve aver scosso anche Massimo Lugli, cronista di nera per La Repubblica per quarant’anni. Molto deve essersi documentato Lugli sui fatti del ’75. Indagini, analisi, considerazioni, che gli sono rimaste in testa per anni. Informazioni che ha metabolizzato. Su cui ha riflettuto. Che sono poi diventate l’anello centrale dell’impalcatura intorno alla quale ha scritto il suo romanzo Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano. Un libro il cui protagonista sembra essere l’alter ego dello stesso autore, basta immaginarlo alle prime battute lavorative quaranta anni fa.

Tranne alcuni sparuti passaggi, Lugli sembra aver completamente abbandonato la scrittura “tecnica” del giornalista e, nel romanzo, utilizza un registro narrativo che sembra rifarsi molto più al parlato locale, alla Roma con i suoi sobborghi dove la storia è per intero ambientata. Uno stile narrativo molto diretto, a tratti spietato, in alcuni paragrafi molto cruento… in sintesi uno stile che si adatta molto bene ai contenuti della vicenda narrata.

Marco Corvino, protagonista del libro, indaga sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini lasciando credere a tutti quelli con cui viene in contatto di essere incaricato dal giornale per il quale lavora. Una menzogna che lo mette in pericolo quasi quanto il rischio che corre per essersi esposto sulla strada. Troppe domande si tramutano in breve tempo in rischio molto alto.

Raccontando del delitto Pasolini, Lugli offre al lettore uno spaccato della Roma e dell’Italia tutta degli anni Settanta, con la delinquenza di strada e le bande, i movimenti studenteschi, l’estremismo rosso e nero, il femminismo e l’esplosione di una società tutta in continua evoluzione, cambiamento.

Un romanzo, Il giallo Pasolini di Massimo Lugli, che mostra al lettore del nuovo millennio quanto distanti sembriamo essere da quei tempi e quanto in realtà ne siamo vicini, legati da un filo invisibile che unisce passato e presente. Una lotta continua dalla cui evoluzione deriverà il futuro.

I personaggi del romanzo sono tutti ben caratterizzati, raccolti dal volgo di una Roma tanto aristocratica quanto popolare, allora come oggi. Dai delinquenti di borgata ai poliziotti coriacei, dai colleghi giornalisti, trai i quali si notano figure che rimandano a nomi molto noti del panorama giornalistici italiano della seconda metà del Novecento e degli inizi del nuovo millennio, al “saggio” maestro di karate. Personaggi tutti che si alternano e si mescolano su quel simbolico palcoscenico che sono i capitoli del libro di Lugli, dando così vita e risalto a un teatro di luci e di ombre, di speranze e delusioni, gioie e dolori… nient’altro che lo spettacolo della vita.

Massimo Lugli, Il giallo Pasolini. Il romanzo di un delitto italiano

Newton Compton Editori, prima edizione ottobre 2019

Pagine 336

Rilegato 8.42 euro

Epub 4.99 euro


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Newton Compton Editori per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La classe avversa” di Alberto Albertini (Hacca, 2020)

03 martedì Mar 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AlbertoAlbertini, Hacca, Laclasseavversa, recensione, romanzo

Uscito il 27 febbraio 2020 con Hacca Edizioni, La classe avversa, romanzo d’esordio di Alberto Albertini conta due segnalazioni al Premio Italo Calvino.

Il libro si apre al lettore con una citazione di Ottiero Ottieri, tratta da La linea gotica:

«Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra – e non si esce – facilmente. Chi può descriverlo? Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione: a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti, il che sembra piuttosto raro. Gli artisti che vivono fuori, come possono penetrare in una industria? I pochi che ci lavorano diventano muti, per ragioni di tempo, di opportunità, ecc. Gli altri non ne capiscono niente: possono farvi brevi ricognizioni, inchieste, ma l’arte non nasce dall’inchiesta bensì dalla assimilazione. Anche per questo l’industria è inespressiva; è la sua caratteristica.»

Ottieri aveva una visione ben delineata dell’industria, dalla “fabbrica” intesa proprio come mondo a sé. Pensieri tutti condensati all’interno del libro Tempi stretti, romanzo di fabbrica per eccellenza che ambiva a raccontare la grande industria italiana dall’interno e farlo in un periodo storico particolare. Una fase di grandi cambiamenti, di evoluzioni ma anche di dure lotte sociali. Pubblicato la prima volta nel 1957 il libro ha trovato poi un’ulteriore edizione, nel 2011, con Hacca, la medesima casa editrice che si è interessata al lavoro di Albertini.

Leggendo La classe avversa traspare chiaramente l’ammirazione professionale che l’autore prova nei riguardi di Ottieri di cui però non si limita a seguirne le orme, reinterpretando il romanzo di fabbrica per adattarlo perfettamente alla contemporaneità.

Un viaggio all’interno di un mondo solo in apparenza ben noto. Questo sembra compiere il lettore scorrendo le pagine del libro di Albertini. Un mondo variegato, in costante contrasto e, al contempo, armonia tra passato e futuro. Dove il presente non rappresenta che la fucina dalla quale nascono i cambiamenti. Dove tutto sembra rimanere uguale quando invece è in continua metamorfosi. E ciò vale per l’intero sistema ma ancor di più per le persone che lo animano e lo vanno a comporre.

Il romanzo di Albertini è la narrazione, lucida e spietata, del fallimento di un sistema che sembra aver tenuto sulle proprie spalle l’intero comparto industriale italiano. Il modello a conduzione famigliare che si è ritenuto essere il vero segreto di quel tanto decantato miracolo italiano, talmente distante ormai dall’Italia di oggi da non afferrarne quasi più neanche il significato. L’analisi del disfacimento di un intero paradigma passa, nel libro di Albertini, attraverso il racconto di una sola esistenza, quella del protagonista. Incarnazione simbolica del popolo operaio italiano. Ambivalenza molto particolare essendo egli, o meglio avendo dovuto essere il rappresentante invece del padrone, figlio ed erede di uno dei proprietari dell’azienda.

Molto più simile invece “il Poeta” a Zeno Cosini, protagonista de La coscienza di Zeno di Italo Svevo. Nel risalire alle radici del proprio io, Zeno smaschera la finta natura della cosiddetta normalità e svela le falsità e le ipocrisie dell’ordine borghese. Nel protagonista del libro di Albertini si intravede la medesima corrosione personale e collettiva.

La classe avversa degli industriali italiani sembrano essere loro stessi, laddove hanno lasciato che il tempo scorresse senza mobilitarsi per rincorrerlo o, meglio ancora, permettere fossero i “nuovi arrivati” a farlo. Un ricambio generazionale troppo lento che sembra essere la causa se non principale di sicuro preponderante del decadimento, morale prima ancora che economico, di intere generazioni.

Accanto alle avversioni di carattere generale, vi sono poi quelle personali, intime. Come la grande passione che il protagonista prova per le conoscenze umanistiche. Costretto a mostrarsi come un leader di ferro sogna invece una laurea in Lettere e prova ammirazione non per fatturato e carriera ma per il compagno Franco che ha saputo mostrarsi più forte e ribelle e si è licenziato. Una decisione che, ai suoi occhi, appare una sorta di liberazione.

Non stupisce che il libro di Alberto Albertini abbia ricevuto due segnalazioni per il Premio Italo Calvino, rappresenta infatti una perfetta e contemporanea versione di un grande romanzo del Novecento.


Articolo originale qui


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“L’acqua alta e i denti del lupo” di Emanuele Termini (Ĕxòrma Edizioni, 2019)

02 lunedì Mar 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EmanueleTermini, Exorma, Lacqualataeidentidellupo, recensione, romanzo

Emanuele Termini, L’acqua alta e i denti del lupo. Josif Džugašvili a Venezia, Ĕxòrma Edizioni, Roma, 2019 (Prima edizione ottobre 2019, pagine 192, prezzo euro 15.00, collana Scritti Traversi)

Fin dal momento in cui si prende in mano per la prima volta il piccolo libro di Emanuele Termini, stampato in un formato tascabile, ci si rende conto che, unitamente ai protagonisti della vicenda narrata, è la città di Venezia a dominare l’intera scena narrativa e visiva. Ricchissimo infatti di illustrazioni, L’acqua alta e i denti del lupo sembra essere stato studiato proprio per catturare trasversalmente i sensi del lettore.

Riprende l’autore una storia del recente passato avvolta da una fitta nebbia di mistero, di domande senza risposta e di ipotesi più o meno verificate o verificabili.
Nei primi mesi del 1907, l’allora ventinovenne Josif Vissarionovič Džugašvili (il futuro Stalin) avrebbe soggiornato nella laguna veneta, ospite dei mechitaristi del Monastero di San Lazzaro degli Armeni. Le delicate implicazioni rispetto al futuro del Partito che guidò la Rivoluzione Russa del 1917, furono il motivo per cui quel viaggio doveva rimanere segreto. Negli anni Cinquanta il giornalista italiano Gustavo Traglia, forse con troppo anticipo rispetto ai consueti tempi necessari affinché una vicenda possa diventare Storia, cercò di scoprire le motivazioni che avrebbero portato il leader bolscevico in Europa ma la pubblicazione delle sue ricerche sarebbe stata nettamente ostacolata.
Oggi, dopo oltre cinquant’anni dal lavoro di Traglia, Emanuele Termini indaga, insegue le tracce e i tanti pseudonimi che Josif Vissarionovič Džugašvili avrebbe disseminato lungo il suo cammino, accede all’archivio di Traglia, incontra persone che prima di lui hanno raccolto indizi, rintraccia le fonti, e passo dopo passo si persuade sempre più che si tratterebbe di fatti realmente accaduti.
Il viaggio che Stalin avrebbe compiuto passando da Venezia per raggiungere Berlino, e Lenin, narrato da Termini assume spesso tratti rocamboleschi davvero ai limiti della leggenda: infatti prima avrebbe viaggiato come clandestino nella sala macchine di un cargo che trasportava grano da Odessa fino ad Ancona, poi con l’aiuto degli anarchici anconetani sarebbe arrivato a Venezia e presentato alla soglia del monastero di San Lazzaro degli Armeni da dove poi infine si sarebbe allontanato clandestinamente per riapparire a Londra qualche mese dopo.
A rendere però più che plausibile questo viaggio, viene riportata nel testo l’intervista di Emil Ludwig nel 1931 al Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica al Cremlino.

«Diverse furono le domande scomode che Ludwig rivolse al dittatore e quando gli chiese un parere in merito “all’amore tipicamente tedesco per l’ordine, più sviluppato dell’amore per la libertà”, Stalin rispose con un aneddoto vissuto in prima persona:
“Quando nel 1907 mi capitò di trovarmi a Berlino...»

Una storia, quella narrata da Termini, che si snoda lungo due filoni narrativi distinti, afferenti a precisi capitoli del libro. Da una parte racconta la biografia di Stalin soffermandosi molto sull’attività politica, l’esilio in Finlandia e le tante peregrinazioni in lungo e in largo per l’Europa. Dall’altra invece il lettore segue passo passo le frenetiche ricerche svolte dal protagonista del libro, il quale indaga in ogni dove e, proprio come un segugio, non tralascia alcuna traccia o indizio.
Sullo sfondo, ma sempre pronta ad emergere, la Serenissima in tutto il suo splendore, senza tempo e senza limiti.

Degno d’attenzione è apparso sin dalle prime pagine lo stile narrativo di Emanuele Termini, il quale con L’acqua alta e i denti del lupo è al suo esordio letterario. Una scrittura avvolgente e coinvolgente, complice anche la passione e l’interesse che egli sembra provare per la vicenda indagata e per la città raccontata. Un vero e proprio amore che trasmette al lettore, unitamente a quel senso di smarrimento, incanto o meraviglia. Basti citare il passaggio nel quale descrive le sensazioni provate all’ingresso della molto famosa libreria Acqua Alta.

«C’era una sorta di magia dentro quello spazio disordinato e privo di indicazioni, ognuno seguiva i propri interessi mosso dal suo rapporto personale con i libri. […] Una scala fatta di enciclopedie offriva un’insolita vista su Rio de la Tetta, mentre una piccola porticina dava su Calle Pinelli. A metà libreria, vicino a una gondola, c’era un altro passaggio che permetteva di raggiungere la saggistica, la letteratura italiana, i fumetti e un angolo dedicato ai libri d’arte e agli spartiti musicali. In fondo alla stanza un’altra via di fuga, verso l’acqua. […]. La persona a cui chiesi informazioni mi invitò a guardare con attenzione uno strano quadro che teneva in bella vista, una sorta di cartoncino piegato in uno strano modo, dove Venezia diventava tridimensionale.»

L’acqua alta e i denti del lupo di Emanuele Termini non raggiunge la tridimensionalità ma è per certo una lettura consigliata.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia la Anna Maria Riva Comunicazione & Promozione per la disponibilità e il materiale



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Storie di ordinaria integrazione: “Mare Fermo” di Guy Chiappaventi (Ensemble, 2019)

04 martedì Feb 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Ensemble, GuyChiappaventi, MareFermo, recensione, romanzo

La squadra si chiama Save the Youths, “Salvate i giovani”. Gioca in Terza categoria, a Fermo, nelle Marche, provincia felix prima della crisi del distretto calzaturiero più famoso del mondo, trentacinquemila abitanti e centoquaranta richiedenti asilo. Nel 2016 un delitto terribile e razzista, quello di Emmanuel, un profugo nigeriano e cattolico, ucciso con un pugno da un italiano.

I calciatori africani della Save the Youths hanno attraversato il deserto, sono passati dalle prigioni della Libia e poi hanno fatto la traversata in mare con il barcone. Come Alhagie Fofana detto “Barbadillo”, gambiano, muratore, che ha dovuto fare due volte il viaggio nel canale di Sicilia. Ha visto morire nella stiva quarantasette persone. Questa è la storia di una squadra precaria per definizione – tre di loro sono partiti per l’estero a metà stagione dopo le restrizioni nella concessione della protezione umanitaria – che è anche un racconto della provincia italiana nell’epoca dei porti chiusi e del rancore verso gli immigrati.

In un’epoca che sembra vorticosamente avvilupparsi su se stessa e, a volte, anche strangolarsi con le medesime catene create e generate dagli interminabili discorsi che riguardano le migrazioni, le immigrazioni, addirittura le invasioni di migranti, ebbene proprio in questo momento Guy Chiappaventi scrive e pubblica un libro, Mare Fermo, che sembra rappresentare proprio un fermo immagine. Non una richiesta di aiuto o quant’altro, piuttosto la trasposizione scritta di quella che è, contrariamente alla narrazione diffusa, la quotidianità di chi vive in Italia, di chi vive l’Italia. Quella vera, quotidiana, dei piccoli o piccolissimi centri urbani sparsi su tutto il territorio nazionale. Storie di ordinaria integrazione.

Esiste per certo, purtroppo, il razzismo e la discriminazione, inutile negarlo. Ma esiste anche altro, tanto altro che va oltre la retorica che di recente sembra farla da padrona. Ed è proprio di questo che Chiappaventi ha voluto narrare in questo suo libro che si presenta al lettore con una dedica molto significativa. A due generazioni di persone differenti, che hanno vissuto un Paese completamente diverso, opposto per certi versi. Eppure traspare, dalle parole dell’autore, la naturalezza di certi comportamenti e sentimenti, maggiormente laddove permangono scevri da pregiudizi o storture varie.

Se Mare Fermo di Guy Chiappaventi fosse una favola, la sua morale potrebbe per certo essere individuata nel bisogno di non stigmatizzare mai luoghi o individui, né strumentalizzarli per fini politici.

La piccola città marchigiana di Fermo tempo fa è balzata alla cronaca per tristissimi episodi di delinquenza, violenza e razzismo. Ma Chiappaventi ha dimostrato che in quella città e, soprattutto, tra i suoi abitanti c’è molto altro.

Non tutti gli italiani sono razzisti, o delinquenti, o mafiosi, o imbroglioni… e questo assunto vale per ogni etnia, razza, nazionalità o cittadinanza. Punto. Ovviamente è vero anche il contrario, altrimenti è alto il rischio di cadere nella trappola dell’esaltazione infondata di un nazionalismo dal sapore troppo estremista oppure nel tristemente noto ad etnologi ed antropologi “mito del buon selvaggio”.

Mare Fermo di Guy Chiappaventi, attraverso parole e immagini, racconta storie di un presente troppo spesso distorto, di bisogni strumentalizzati, di valori confusi. Semplicemente storie di umana resilienza.

Guy Chiappaventi: Giornalista e inviato del TgLa7. Ha vinto il premio Ilaria Alpi nel 1998. È autore di numerosi documentari tra cui: L’uomo nero. Storia di Massimo Carminati (premio Parise 2017); La caduta, su Siena e David Rossi; Il sindaco, il vescovo e il boss, sulla città di Gela; Le lenzuola della mafia, sull’omosessualità nella camorra e nella mafia. Ha pubblicato diversi libri di successo tra cui: Pistole e palloni (uscito in sette edizioni), Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi (segnalazione al Premio FIGC Ghirelli nel 2017) e La valigia del centravanti. Nove storie di numeri


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni Ensemble per la disponibilità e il materiale


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