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Irma Loredana Galgano

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“La vera storia di Martia Basile” di Maurizio Ponticello (Mondadori, 2020)

16 lunedì Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LaverastoriadiMartiaBasile, MaurizioPonticello, Mondadori, recensione, romanzo, romanzostorico

Durante il lockdown, un lasso temporale relativamente breve compreso tra i mesi di marzo e aprile 2020, solo in Italia sono state 5.031 le telefonate valide al numero di emergenza per vittime di violenza di genere, il 1522. L’Istat ha calcolato che si tratta del 73 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le campagne di sensibilizzazione si moltiplicano a vista d’occhio e, parzialmente, si registrano sviluppi positivi, soprattutto nell’aumento del numero di denunce.

A guardali in assoluto questi dati lasciano molto perplessi. Ma lo stupore maggiore si prova nel momento in cui li si confronta con il passato, allorquando bisogna affermare che, tutto sommato, la condizione femminile nella società ha fatto passi da gigante. Anche se ovviamente tanto ancora c’è da fare.

Il punto però è che quello che a noi sembra assurdo in realtà è già un miglioramento. E questo è davvero difficile da concepire.

Non sono lontani i giorni in cui in Italia era legale il delitto d’onore, in cui il figlio maschio era l’unico e solo erede, in cui l’istruzione femminile era pressoché assente, in cui esisteva una netta distinzione tra i doveri femminili e quelli maschili… Purtroppo non è raro dover ascoltare ancor oggi visioni ancorate a detti pregiudizi ma il punto è un altro. È necessario e doveroso cambiare il paradigma culturale che fa della differenza di genere una questione di potere, di prestigio, di potenza, supponenza, supremazia e forza fisica e per fare ciò bisogna anche imparare dagli errori del passato.

«All’immenso coraggio delle donne»

È con queste parole che si apre al lettore il libro di Maurizio Ponticello che narra La vera storia di Martia Basile, una donna, poco più di una bambina in realtà, la cui vita è segnata da decisioni prese da un padre e un marito che neanche per un solo istante l’hanno considerata come persona. È una storia tragica e crudele quella di Martia Basile e, purtroppo, non è così rara come si vorrebbe credere, neanche al giorno d’oggi.

La vicenda di Martia Basile si presta particolarmente al racconto narrativo ma non è certo solo per questo che il romanzo di Maurizio Ponticello colpisce il lettore. È il taglio che l’autore ha scelto di dare all’intera vicenda, è il registro narrativo da lui accuratamente scelto che rendono il libro un ottimo romanzo moderno.

Nel racconto di Ponticello si fondono la Napoli e l’Italia intera di oggi con quella del passato, quel mai abbastanza lontano Seicento durante il quale bastava un nonnulla per bandire una donna e tacciarla come strega, per incolpare qualcuno di eresia, per ripudiare una donna che non aveva partorito figli maschi e giustiziarla pubblicamente allorquando tentasse di rifarsi una vita.

A lungo si è discusso sulla reale esistenza o meno di Martia Basile. L’autore dissipa ogni dubbio e, con la sua consueta precisione, racconta vicende di una Napoli antica i cui odori ancora si percepiscono tra gli stretti vicoli che rigano il centro storico e lo definiscono, pezzo dopo pezzo, come il reticolo di una carta geografica. Si scoprono curiosando tra i polverosi scaffali di archivi e biblioteche di cui Ponticello si dimostra sempre avido conoscitore e intenditore. Si animano in quei personaggi senza tempo, proprio come la città che ha dato loro i natali.

In più occasioni Maurizio Ponticello ha dato prova della sua capacità di ricerca e documentazione, della sua abilità nel cimentarsi in minuziose e dettagliate ricerche sul campo e da fonti documentali, elaborando poi il suo resoconto in libri la cui lettura risultasse sempre scorrevole e leggera per il lettore, ma questa volta sembra davvero che sia riuscito a superare se stesso nel modo in cui ha saputo raccontare una storia così potente e complessa e farlo in una maniera davvero eccezionale.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Mondadori Editore e l’autore per la disponibilità e il materiale


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“Il complotto Toscanini” di Filippo Iannarone (Piemme, 2018)

18 sabato Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FilippoIannarone, IlcomplottoToscanini, Italia, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone, edito da Piemme in prima edizione a gennaio 2018, si apre al lettore con una citazione di Lucio Anneo Seneca.
«Non osiamo molte cose non perché sono difficili, ma molte cose sono difficili perché non osiamo».
E l’autore, in questo libro, ha osato molto. Un esempio ben costruito e ben riuscito di come i fatti storici reali diventino poi, grazie alla fantasia e all’immaginazione, un canovaccio che rappresenta solo la base di partenza e, al contempo, una piccola parte seppur non marginale, della storia presentata al lettore.

Iannarone, attraverso la descrizione dei ricordi dei protagonisti o degli accadimenti della storia narrata, racconta i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, le speranze e le paure non di un gruppo o di una generazione, bensì di un’intera nazione.
Dopo gli orrori del conflitto, le atrocità della guerra, i combattimenti, i bombardamenti, la distruzione, le rovine… l’Italia sembra risorgere. E per tutti si profila non il desiderio di ricostruire il vecchio, il passato, ma di creare davvero un Paese nuovo, sotto l’egida del grande rinnovamento chiamato Repubblica.
Anche se l’ombra del male, della sofferenza, del dolore e della morte non abbandona nessuno di quelli che l’hanno guardata dritta negli occhi. Il male del conflitto, della guerra, del fanatismo, dell’estremismo, del fascismo e del nazismo.

Notevole anche il modo in cui l’autore riesce a descrivere il profondo rapporto che unisce i protagonisti, Luigi e Iolanda. Un legame che si è creato cercando di strapparlo al buio della vita che finisce. Un’esistenza, quella di Luigi, che è rinata giorno dopo giorno accanto a quella donna che poi sarebbe diventata sua moglie. Ad unirli l’amore, certo, ma anche la passione, il coraggio, gli ideali e gli intenti comuni. Elementi tutti che hanno contribuito a saldare un rapporto nel quale entrambi si vedono e si rispecchiano perfettamente.
Grande l’abilità narrativa di Iannarone nel comunicare al lettore questi sentimenti forti, intensi, lasciandoli trasparire da pochi piccoli gesti e parole legati, tra l’altro, alla “banale” quotidianità.

«La costruzione della comunicazione di buone notizie è ancor più importante in democrazia» perché «la percezione da parte della gente comune di vivere in un paese normale ci permetterebbe di avere meno problemi di ordine pubblico, di disperdere questa continua incitazione al conflitto sia da destra sia da sinistra». Iannarone centra un nodo dolente della democrazia, di tutte le democrazie occidentali, le quali hanno saputo costruire un’immagine mediatica di se stesse basata sulla libertà di pensiero e di idee e sulla libera circolazione delle stesse. Al contempo, hanno sempre puntato su una comunicazione che indichi la propaganda come un qualcosa che non appartiene alla democrazia bensì ai regimi dittatoriali.
Le democrazie in effetti non impongono se stesse, regalano invece una bella, positiva e propositiva immagine di sé.

Riesce l’autore a descrivere e trasmettere al lettore la società italiana degli anni Trenta, come anche di quella dell’immediato dopoguerra, sul finire degli anni Quaranta. Esemplare il modo in cui riesce a cogliere e descrivere anche le minime sfumature comportamentali rispetto ai suddetti periodi, i quali, seppur non lontani sulla linea del tempo, lo sono stati molto invece per tutto il resto. Egual ragionamento vale per i rapporti di genere e di classe. Leggendo Il complotto Toscanini si realizza quanto in effetti il mondo sia cambiato e quanto, invece, sia rimasto invariato o addirittura peggiorato.

Il rapporto tra Luigi e Iolanda, quello professionale molto rigido e gerarchico, la società italiana e le sue classi. I ruoli sociali e famigliari degli uomini e delle donne. Il che non vuol significare che le donne non lavorassero anche fuori di casa, allora come adesso. Vi era solo una più netta e definita distinzione tra i generi che al giorno d’oggi sembra essere stata colmata solamente in apparenza. In realtà si intravede solo una gran confusione, un’illusione di progresso e di parità. Una zona grigia che troppo spesso produce ombre deformi e pericolose.

L’emancipazione femminile di cui tanto si narra deve, per essere cosa seria e concreta, passare necessariamente attraverso la parità, l’eguaglianza e il rispetto reciproco di diritti e doveri. Altrimenti è una farsa. E, purtroppo, è quello a cui sembra di assistere quotidianamente. Come per la comunicazione anche per i diritti civili le battaglie come i traguardi sono tutt’altro che lontani ricordi da poter archiviare.

Ottima la struttura narrativa del libro. Una solida “impalcatura”che regge bene l’intreccio sviluppato lungo una doppia linea temporale. Il presente e il passato che si avvicendano nei vari capitoli che vanno a comporre il testo ma che si intersecano di continuo nel racconto, nello svolgersi delle vicende e nella narrazione dei ricordi o dei pensieri.

Dalla lettura del testo si evince chiaramente il dettagliato lavoro di ricerca preventivo eseguito da Iannarone, il quale deve essersi accuratamente documentato non solo sulla storiografia dell’epoca nella quale ha deciso di ambientare la sua storia, ma anche sui costumi e le abitudini del tempo. I protagonisti infatti vestono, parlano e hanno delle movenze che li identificano perfettamente nel periodo considerato.

Grazie a una cura particolare per i dettagli, a “pause narrative” nelle quali il colonnello Luigi Mari e il suo assistente, il tenente Vinicio Barbetti, fanno il punto della situazione e di quanto scoperto, alle analisi e ai racconti storico-letterari del colonnello o dei suoi intervistati, l’autore riesce a rendere famigliare per il lettore l’intera vicenda, pur nella sua complessità, i tanti personaggi e anche l’ambiente.

Nei ringraziamenti Iannarone sottolinea come lo abbia aiutato la grande passione per la musica e questo sarà certamente vero. Ma deve essergli occorso uno studio profondo e articolato per ricostruire nel suo libro ambienti e accadimenti cui è impossibile abbia presenziato. Ciò che i suoi occhi non hanno visto direttamente, la sua mente ha fatto propri grazie a un minuzioso processo di immedesimazione che poi deve aver trasferito al protagonista, Luigi Mari.

La storia raccontata ne Il complotto Toscanini è un’indagine investigativa indiretta, ovvero condotta da persone diverse dagli inquirenti incaricati ufficialmente, e posticipata nel tempo. Molti anni dopo l’omicidio. Il punto di partenza è una verifica su una celebrità, il maestro Toscanini, al fine di meglio valutare la sua candidatura a senatore a vita.
Nonostante questo, nulla manca al libro rispetto un più classico poliziesco. Piuttosto molto altro si ritrova nel testo di Iannarone.

Informazioni storiche, artistiche, letterarie che arricchiscono la narrazione senza appesantirla e, al contempo, dilatano il lavoro di indagine. Del tutto compatibile con il carattere peculiare dell’investigazione, non ufficiale appunto e non finalizzata a scovare il colpevole e assicurarlo alla giustizia.

Un testo molto valido, Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone. Un’ottima opera letteraria che merita senz’altro di essere letta anche come punto di riferimento e apprendimento.


Articolo originale qui



Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“L’oro dei Medici” di Patrizia Debicke Van der Noot (Tea, 2018)

16 sabato Mar 2019

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LorodeiMedici, PatriziaDebicke, recensione, romanzo, romanzostorico, Tea, WMI

L’oro dei Medici, pubblicato con Tea, è un romanzo storico che Patrizia Debicke sceglie di ambientare, almeno in parte, a bordo di una nave, nella fattispecie un’imbarcazione della flotta granducale, da guerra.
Un rischio e un ulteriore livello di difficoltà. Una sfida che l’autrice sembra aver voluto lanciare a se stessa. Il linguaggio e la parlata propri del Cinquecento in un contesto ancor più arduo.
Il lavoro di documentazione che certamente la Debicke ha fatto, unitamente a un’attenta verifica, hanno comunque dato buoni frutti.
Il linguaggio, seppur preciso e tecnico, non risulta ostico o stucchevole. È attento, elaborato, ma fluido e scorre bene come l’intera vicenda narrata.

Persiste anche in questo lavoro letterario la descrizione dettagliata e minuziosa, anche anatomica, dei protagonisti e la sottolineatura della loro prestanza fisica, la virilità, la forza di valorosi condottieri, uomini forti e determinati. Descrizioni che ne enfatizzano le caratteristiche generali e accentuano l’aspetto deciso e perentorio del loro essere e del loro volere. Uomini blasonati, avvezzi al comando, alla servitù e ai privilegi.

La Debicke ha studiato molto e in maniera approfondita il periodo in cui ha deciso di ambientare i suoi romanzi storici. Leggendo i libri di colei che più volte e a buon diritto è stata indicata come “la signora del Cinquecento”, traspare l’impegno profuso e la cura per ogni dettaglio, che sia di interesse storico artistico architettonico o linguistico.
Eppure riesce l’autrice, nei suoi libri e attraverso le sue storie, ad attualizzare, per così dire, le vicende come anche i protagonisti i quali, pur essendo perfettamente inseriti nel contesto storico di riferimento, sembrano avere sempre un qualcosa che li avvicina e li accomuna agli uomini e alle donne, ai governanti e alla popolazione, ai benestanti come agli indigenti di oggi.

Il Cinquecento raccontato ne L’oro dei Medici, come anche negli altri romanzi di Patrizia Debicke, è un mondo, il mondo visto dall’aristocrazia, dai principi, dai cardinali, dai pontefici. Nel quale i componenti tutti i livelli inferiori della popolazione vivono le loro esistenze, quando va bene, di riflesso, quando va male, in condizione di completa precarietà e abbandono.
D’altronde è esattamente questo il mondo cinquecentesco che è passato alla Storia attraverso libri, scritti e opere d’arte. Fu solo a cavallo tra 1500 e 1600 infatti che Annibale Carracci, per fare un esempio, compì la sua grande e personale rivoluzione nella pittura: la rappresentazione della vita quotidiana di bassa estrazione come opera d’arte. Il suo Bottega del macellaio è tra le opere più famose al riguardo. Ancor più audace, controversa ed estrema la rivoluzione portata avanti da Michelangelo Merisi, ovvero Caravaggio.

Questa volta la Debicke ha scelto come protagonista un personaggio che è anche un cliché: Don Giovanni. Il suo appartiene alla famiglia de’ Medici, figlio naturale di Cosimo I ed Eleonora Albizzi, legittimato per volere del padre. Un vero Don Giovanni di nome e di fatto. Ma l’autrice è riuscita a renderlo di gran lunga più interessante raccontando di un uomo e delle sue “conquiste” amorose certo ma anche dei suoi principi, dei sentimenti, del coraggio e del rispetto che si conquista con l’onore e il valore e non solo e non tanto con il denaro e i titoli nobiliari.

L’utilizzo di figure retoriche e la ricercatezza di termini e linguaggio fanno sì che la Debicke regali al lettore “immagini di parole” molto suggestive. Per riportare alcuni esempi: «Ma il sole, coi connotati dell’inverno che incombeva, mostrava gran fretta di coricarsi nel letto di nuvole basse, arrossate, che sfioravano il mare» oppure «il grande portone della Canaviglia si spalancò, prontamente vorace, ad accogliere il ritorno di Don Giovanni».
Patrizia Debicke racconta, di fantasia certo seppur con incredibile verosimiglianza, gli intrighi, i complotti, gli inganni, i tradimenti posti in essere, per posizione privilegi e denaro, da aristocratici, nobili, condottieri, notabili e prelati. Lotte di potere quasi sempre intestine o afferenti a qualcuno facente parte della Curia romana. Una Chiesa di preghiera e potere che ancora oggi sembra aver conservato le sue peculiari tipicità.

Un libro scritto nell’era di internet e della comunicazione ultra-veloce e che sembra trasportare il lettore in un mondo quasi surreale, dove il tempo si misura con le clessidre, le notizie viaggiano attraverso lettere e missive sigillate e consegnate a mano. Un mondo diverso, antico eppure, per certi versi, così ancora tristemente attuale.

L’oro dei Medici di Patrizia Debicke, pubblicato in seconda edizione digitale da Tea a maggio 2018, è una lettura senz’altro consigliata.


Recensione apparsa sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte 



Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa di Tea e AnnaMaria Riva – Comunicazione e Promozione per la segnalazione, la disponibilità e il materiale.


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“A bon droit” di Luciana Benotto (La Vita Felice, 2017)

22 venerdì Giu 2018

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Abondroit, LaVitaFelice, LucianaBenotto, recensione, romanzo, romanzostorico

C’è una condizione essenziale per scrivere un buon romanzo storico: la passione per la Storia. Qualità che di certo non manca a Luciana Benotto, la quale a novembre 2017 è ritornata in libreria con A bon droit. Il piacere della vendetta, edito sempre con La Vita Felice, come il suo precedente lavoro, Il Duca e il Cortigiano, imprese d’arme e d’amore. Una conoscenza dettagliata del periodo storico, dei personaggi che sono poi diventati i protagonisti del romanzo, un grande amore per i luoghi e le opere, sia pittoriche che architettoniche, sono lo sfondo e, al contempo, lo scheletro portante del libro della Benotto.

Il Rinascimento italiano visto attraverso gli occhi avidi della vendetta, i fasti del lusso e del potere minati da tensioni, intrighi, tradimenti… il tutto tenuto insieme da uno stile narrativo minuzioso che a volte sembra perdersi nei dettagli pur non cedendo mai alla monotonia o alla fastidiosa ripetizione.
Un tuffo in un passato che è più che mai presente, nelle vicende riscontrabili ancora come nei luoghi. Apprendere e immaginare i palazzi e le tenute com’erano un tempo invoglia il lettore a conoscerle e scoprire come sono oggi diventate. Luoghi che la Benotto deve conoscere a fondo, e amare.

Ci sono emozioni, sensazioni che la mera fantasia non può rimandare al lettore attraverso le sole parole scritte e poi lette, è lo scrittore che deve vivere o “appropriarsi” di determinati sentimenti e metterli nero su bianco come se fossero i propri. Solo in questo modo il lettore li ritroverà, leggendoli, e li farà a sua volta propri. Luciana Benotto riesce molto bene in questo al punto che, a tratti, i suoi personaggi diventano quasi comparse del discorso, o meglio del dialogo che lei stessa intrattiene coi suoi lettori.

Una lettura per certo consigliata agli amanti del romanzo storico, A bon droit di Luciana Benotto, e anche a coloro che amano “il piacere della vendetta”.

LUCIANA BENOTTO: laureata in Lettere Moderne, insegna in una scuola superiore. Ha collaborato a rubriche di Cultura per diverse testate, anche nazionali. I suoi scritti sono stati selezionati come finalisti a numerosi concorsi letterari. Ha scritto diversi romanzi e racconti. Organizza, con l’associazione culturale equiLibri, eventi letterari e artistici.


Source: Si ringrazia l’autrice, Luciana Benotto, per la disponibilità e il materiale.


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Quando l’intreccio di un libro è quello di vite vere. “Il bambino del treno” di Paolo Casadio (Piemme, 2018)

13 martedì Feb 2018

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Ilbambinodeltreno, PaoloCasadio, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Uscito in prima edizione con la casa editrice Piemme il 23 gennaio 2018, a ridosso della Giornata della Memoria, Il bambino del treno di Paolo Casadio non è un libro sui peccati o sulle colpe bensì un resoconto sui fatti, sulle testimonianze, sui ricordi che devono anche essere un monito. Non è un libro, l’ennesimo, sulla deportazione degli ebrei ma un’opera letteraria sull’umanità e anche, purtroppo, sulla sovente disumanità degli stessi umani.

Il casellante Giovanni Tini è tra i vincitori del concorso da capostazione, dopo essersi finalmente iscritto al PNF. Un’adesione tardiva, provocata più dal desiderio di migliorare lo stipendio che di condividere ideali. Ma l’avanzamento ottenuto ha il sapore della beffa, come l’uomo comprende nell’istante in cui giunge alla stazione di Fornello, nel giugno 1935, insieme alla moglie incinta e a un cane d’incerta razza; perché attorno ai binari e all’edificio che sarà biglietteria e casa non c’è nulla. Mulattiere, montagne, torrenti, castagneti e rari edifici di arenaria sperduti in quella valle appenninica: questo è ciò che il destino ha in serbo per lui. Tre mesi più tardi, in quella stessa stazione, nasce Romeo, l’unico figlio di Giovanni e Lucia, e quel luogo che ai coniugi Tini pareva così sperduto e solitario si riempie di vita. Romeo cresce così, gli orari scanditi dai radi passaggi dei convogli, i ritmi immutabili delle stagioni, i giochi con il cane Pipito, l’antica lentezza di un paese che il mondo e le nuove leggi che lo governano sembrano aver dimenticato. Una sera del dicembre 1943, però, tutto cambia, e la vita che Giovanni, Lucia e Romeo hanno conosciuto e amato viene spazzata via. Quando un convoglio diverso dagli altri cancella l’isolamento. Trasporta uomini, donne, bambini, ed è diretto in Germania. Per Giovanni è lo scontro con le scelte che ha fatto, forse con troppa leggerezza, le cui conseguenze non ha mai voluto guardare da vicino. Per Romeo è l’incontro con una realtà di cui non è in grado di concepire l’esistenza. Per entrambi, quell’unico treno tra i molti che hanno visto passare segnerà un punto di non ritorno.

La scrittura di Casadio è molto poetica, melodiosa, risuona in chi legge anche a voce bassa e ricorda quasi una lieve musica di sottofondo alle scene di vita di Giovannino, di sua moglie Lucia e del loro bambino Romeo.
Una scrittura che riesce a strappare anche qualche sorriso al lettore. Come per l’apprendimento vorace del piccolo Romeo dalle pagine del «Carlino», che riportano enfaticamente quanto sta accadendo in Europa alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Un bambino alla soglia dell’età scolare che si rivolge così al padre e agli altri commensali: «stasera sgavazziamo. Mangiamo la carcassa del coniglio che ci fa orgasmo».
Uno stile melodioso quindi ma che a tratti appare proprio canzonatorio. Come quando sembra voler farsi burla degli stessi pensieri di Giovannino, il quale tenta di nascondere finanche a se stesso i reali motivi che lo hanno spinto ad accettare quel trasferimento che suona troppo come un esilio, un avanzamento di carriera che sembra quasi una punizione per il ritardo all’adesione al partito. Una punizione che può rappresentare la salvezza, dal medesimo partito. Ma poi bisogna fare i conti con il destino…

«E il capostazione ebbe la percezione nuova che la valle del Muccione stesse divenendo una specie d’ospizio per sconfitti, un luogo separato dal mondo dove si condensavano i relitti umani, e il pensiero gli regalò attimi d’autentica, inattesa commozione.»

In chi legge si forma l’immagine di un microcosmo ricreato da Giovannino dove i “relitti umani” in realtà sono coloro che si sentono ‘diversi dentro’ come lui stesso del resto, come sua moglie, anche se non se lo sono mai detto, e come il loro bambino. Un po’ consapevolmente e un po’ no ha accettato questo esilio volontario lontano dai centri del regime nella speranza di esserne appunto quanto più isolato possibile. Una lontananza che si evidenzia anche nello scarso interesse mostrato verso i diplomi, le medaglie, i riconoscimenti, i premi e ogni genere di cose intraprese dal regime per lodare e premiare i cittadini che si fossero distinti, ma in realtà poste in essere per alimentare il forte attaccamento alla patria, al senso del dovere e alle regole, necessario per avere una sudditanza omologata alla perfezione.
E mette una gran tristezza notare l’impiego ripetuto di questi “contentini” anche da parte di quei governi e quelle istituzioni che si professano altro, nate proprio come antitetiche al fascismo e ai regimi dittatoriali in generale.

«I privilegi fanno le differenze, e le differenze costruiscono le distanze.»

Casadio ripropone ne Il ragazzo del treno anche l’immagine ormai lontana di tanti italiani che «s’imbarcavano per l’impero», ovvero cercavano sollievo alle sofferenze, agli stenti e alla fame chiedendo di poter lasciare la patria in cambio di un appezzamento e una nuova vita in Etiopia. Ecco forse la vera colonizzazione italiana. Ed ecco ancora come la Storia ritorna e si ripete nelle tante famiglie africane, anche etiopi, che compiono il viaggio inverso ma motivate dalle medesime ragioni.

Il libro di Paolo Casadio non è un testo proclama contro il fascismo, è il racconto di vita delle persone che subiscono, loro malgrado, le ripercussioni dei regimi dittatoriali, che lasciano poco o per nulla spazio alla libertà, che ognuno dovrebbe avere, di scegliere.
Ed è così che la storia di Giovannino, Lucia e Romeo potrebbe essere quello che è, ovvero il racconto di una famiglia italiana che tardivamente ha aderito al partito, oppure altro. La narrazione delle vicende di una qualsiasi famiglia in una qualunque località del mondo, vittima innocente e passiva di scelte non proprie, di decisioni insindacabili, di politiche inamovibili, di una società nella quale il bisogno (di nutrirsi, di dare sostentamento alla propria famiglia, …) “costringe” al compromesso e alla rinuncia dei propri ideali. All’annientamento della persona in favore della crescita del popolo, all’interno del quale non c’è spazio per l’estro e per il diverso, additati seduta stante come una minaccia. Perché il diverso può creare un diversivo, rompere l’equilibrio e mostrare a tutti un qualcosa che invece deve essere occultato. La crescita nella diversità. Il progresso e l’evoluzione nella cultura e nella conoscenza.

«Divieto di vivere, ecco il fine, l’obiettivo» dei prevaricatori e i genitori, a qualunque parte o fazione appartengano, si ritrovano tutti a compiere i medesimi gesti protettivi rivolti ai propri figli, nel momento in cui per loro si teme. Ed è proprio in questi gesti, come in quelli privi di pregiudizio dei bambini, che bisognerebbe cercare il seme dell’uguaglianza e farlo germogliare ovunque e per chiunque.
Riesce Casadio, ne Il bambino del treno, a far trapelare profonde riflessioni come questa senza il bisogno di manifestarle apertamente. Sono i piccoli gesti, egregiamente riprodotti dalla scrittura, a parlare per loro.

Si ha quasi l’impressione, leggendo il romanzo di Casadio, di avere tra le mani o davanti agli occhi un libro d’altri tempi, un racconto nel quale la storia e i suoi protagonisti viaggiano a rallentatore, o meglio a un ritmo più lento di quello che la frenesia odierna impone. Un tempo in cui un semplice gesto, anche solo uno sguardo era importante. E diventava una svolta oppure un ricordo.

Il bambino del treno di Paolo Casadio è un libro che fa commuovere il lettore. Dopo avergli strappato diversi sorrisi lo aspetta al varco con un finale che umanamente non può lasciare indifferenti. Ma ciò che maggiormente colpisce è il senso stesso del libro, che in parte traspare nel testo e per il resto è ben spiegato dallo stesso autore nella nota conclusiva che precede i ringraziamenti. E non è affatto scontato. E questo forse è il motivo per cui il libro non può che essere “giudicato” positivamente anche da chi magari si era intestardito nel volerlo per forza considerare l’ennesimo racconto sui deportati ebrei ad Auschwitz. C’è anche questo nel romanzo di Casadio ma unitamente a molto altro ancora.

È un intreccio, questo forse il termine più adatto a riassumere l’essenza del libro. Un intreccio di vite, di esistenze, di ricordi… di destini. Un libro da leggere, valido e necessario.

Paolo Casadio: Nato a Ravenna nel 1955, s’interessa da anni alla lingua, ai racconti e alla storia della sua terra. Esordisce come coautore con il romanzo Alan Sagrot (Il Maestrale, 2012). La quarta estate, pubblicata da Piemme, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, il suo primo romanzo come autore singolo, ha riscosso grande successo di critica ed è stato insignito di numerosi premi: premio “Ravenna e le sue pagine 2015”, premio “Il Delfino – Marina di Pisa 2015”, premio letterario internazionale “Montefiore 2015”, premio speciale opera prima “Cinque Terre-Golfo dei Poeti 2016”, premio della giuria al concorso internazionale “Città di Pontremoli 2016”, premio speciale “Cattolica 2016”, premio letterario “Massarosa” per opera prima, Contropremio “Carver” 2017, Premio “Francesco Serantini” 2017.


Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Copyright prima immagine: URBEX – La stazione di Fornello; seconda immagine: EVENTBRITE – PhotoWalk alla scoperta della vecchia miniera di Fornello.


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Il volto inedito e gli amori impossibili degli ‘ospitalieri’ di Malta ne “La carezza del cavaliere” di Paolo Gambi

24 mercoledì Gen 2018

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Lacarezzadelcavaliere, ordinemondiale, PaoloGambi, recensione, romanzo, romanzostorico

Seconda prova narrativa per l’eclettico e spumeggiante Paolo Gambi. La carezza del cavaliere, un romance storico auto-prodotto, racconta al lettore le vicende e le vicissitudini di un nobile cavaliere sempre in bilico tra la vita reale e quella impostagli dall’Ordine. Un muro, neanche troppo invisibile, che separa i due mondi come il grande portone in legno divide e isola la sua lussuosa e silenziosa dimora dal circo frenetico della capitale appena fuori di esso. Un miscuglio di emozioni e sensazioni, esperienze e rimorsi che hanno contribuito a delineare i contorni di un’amara esistenza vista oramai dallo stesso Bertrando come «un enorme peccato. Un lunghissimo peccato d’omissione».

Rispettare tutte le regole imposte dall’Ordine e dal rango hanno costretto il protagonista a una vera e propria “omissione di vita” che lui stesso rimette al suo confessore-confidente in un momento, della sua lunga esistenza, in cui inizia a prevalere il senso di inquietudine e insofferenza per le briglie che lo hanno frenato, nella vita come nell’amore.

L’autore porta i suoi lettori, o meglio la loro fantasia, dentro i palazzi più antichi e aristocratici della capitale. Un mondo ai più sconosciuto, fatto di cerimoniali, pompa magna, etichetta e dressage, titoli nobiliari e un grande grandissimo vuoto… esistenziale, determinato perlopiù dall’essere ‘costretti’ a vivere una vita dentro una bolla che, per quanto dorata e luccicante possa essere, facilmente tende a diventare una prigione e una condanna.

Lo stile narrativo di Gambi è lento, modellato quasi a seguire il passo del venerando protagonista. Analitico e descrittivo ma mai eccessivamente pomposo o stucchevole. Spiccano le stoccate ironiche e satiriche che alleggeriscono di molto la lettura del testo e strappano ripetuti sorrisi in chi legge.

La carezza del cavaliere ricorda, per certi versi, una ‘crociata‘ contro le ipocrisie, una battaglia che troppo spesso assume i contorni semiseri di un’avventura donchisciottesca. Una vita di rinunce e regole per distinguersi da chi in fondo è molto più simile di quanto si pensi, in un mondo dove l’ossessione del distinguersi diventa, alla fin fine, omologazione allo stato puro.


«matrone romane a passeggio per dimenticare la propria infanzia a Frascati; squali dei palazzi con sguardi affilati dalla coscienza delle proprie malefatte, ma ammantati di perfette giacche e cravatte. Il tutto sotto lo sguardo attento della Malavita che governa la città»


Un libro, La carezza del cavaliere di Paolo Gambi, che si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura interessante a, al contempo, leggera e divertente.


Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale


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Quanto ha inciso l’essere imbecille nell’evoluzione umana? “L’imbecillità è una cosa seria” di Maurizio Ferraris (Il Mulino, 2016) 


 

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Un viaggio nella Letteratura tra miti e leggende in “Morfisa o l’acqua che dorme” di Antonella Cilento (Mondadori, 2018)

23 martedì Gen 2018

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AntonellaCilento, Mondadori, Morfisaolacquachedorme, recensione, romanzo, romanzostorico


Fresco di stampa per Mondadori il nuovo romanzo di Antonella Cilento, Morfisa o l’acqua che dorme, si apre al lettore con tre intense citazioni d’autore. Lente e profonde, come il testo stesso della Cilento.

Uno stile narrativo, quello dell’autrice, molto più vicino, per indole e carattere, agli scrittori citati (Montero, Tomasi di Lampedusa, Croce) che agli scrittori, o meglio ai narratori di oggi.

Leggere le storie della Cilento è un’immersione, ogni volta sempre più intensa, nella Letteratura con l’iniziale maiuscola. Quell’universo che ha appassionato tanti lettori e tanti critici, di ogni epoca ed età. Libri che sono mondi da esplorare. Personaggi che sono guide, esempi, eroine ed eroi, paria e rinnegati… ma sempre e comunque interessanti. Illuminanti. Personaggi che sono, anche, animali bizzarri, strambi, nani e gobbi e popolano tutti la città senza tempo dove l’autrice è nata e lavora.

Una città, Napoli, nella quale sacro e profano si mescolano da sempre in un fluido inscindibile che travolge mito e realtà e rende unica la città, i suoi abitanti e la loro storia.

Tra miti e mitologia, personaggi strambi e animali bizzarri, vicende del presente e del passato trovano spazio, nel testo della Cilento, anche scene che rimandano al teatro popolare che ha contribuito a creare la storia e la cultura della città partenopea. Sceneggiate come quella di Nennella che rifiuta di sposare l’uomo per lei scelto dal padre. Un “buon partito” che lei rinnega perché nzevuso. Ma Egidio, accecato dai denari del promesso sposo questa puzza proprio non la sente, fiutando solo il profumo di un matrimonio che sarebbe l’unione di sua figlia con «una miniera d’oro». Scene che rimandano al teatro di Scarpetta e De Filippo, un genere tanto popolare quanto amato, nel suo amaro realismo.

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Una vera e propria magia che scaturisce dall’incontro e dalla fusione degli opposti, il serio e il faceto, il sacro e il profano, il mare e la montagna vulcano di nome Vesuvio che guarda tutti e sembra minacciarli col suo sguardo di fuoco. Uno sguardo immutato nei secoli. Un legame che ha reso immortale questa cultura. La medesima dalla quale la Cilento attinge con bramosia informazioni e spunti di riflessione. In questo testo preferendo il periodo, come lei stessa sottolinea, di una Napoli senza dominatoriné conquistatori. Il Ducato, noto ai più come bizantino ma «di fatto indipendente». Una scelta che la Cilento motiva come un sogno di lunga data ma che per realizzarsi necessitava forse di tutto il tempo intercorso. Tempo che l’autrice ha impiegato a documentarsi e istruirsi. E si ritrova tutta la sua meticolosa ricerca nel testo, nelle descrizioni, nelle narrazioni.

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Non è mai facile, e forse neanche necessario, inquadrare le storie e la scrittura della Cilento. Del resto, per sua stessa ammissione, non hanno mai un rigido percorso prestabilito. Si plasmano a seconda delle notizie, delle informazioni, delle esperienze, delle conoscenze che l’autrice assorbe e studia, modellando poi, pagina dopo pagina, intreccio, personaggi e stile narrativo. Il tutto tenuto assieme forse più che dal narrato, proprio dal linguaggio che sale e scende a seconda dei personaggi e delle scene, come il cavo d’acciaio che segue e al contempo trattiene trapezisti e acrobati.

 

Un libro che entusiasma il lettore sia quando il linguaggio è aulico sia quando ricorda la vulgata dei vichi e dei vasci. Un testo, Morfisa o l’acqua che dorme che certo non può essere inteso come romanzo commerciale e che forse proprio per questo è meritevole di una larghissima diffusione.


Per la prima foto, copyright: Théo Roland.


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“Rosso Parigi” di Maureen Gibbon

30 lunedì Gen 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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EdouardManet, Einaudi, Europa, Francia, MaureenGibbon, Parigi, recensione, romanzo, romanzostorico, RossoParigi, VictorineMeurent

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Il rosso è il colore del sangue vivo, della porpora, del rubino, simbolo della passione, della carnalità, dell’amore… elementi tutti che si ritrovano nelle pagine di Rosso Parigi di Maureen Gibbon, edito in Italia da Einaudi nella versione tradotta da Giulia Boringhieri.
Un libro intenso anche se dal ritmo lento, caratterizzato da una narrazione avvolgente e travolgente che accoglie il lettore e lo “rapisce” esattamente come fa un dipinto di Edouard Manet che ha ispirato il protagonista maschile, indicato nel testo semplicemente come E.
Rosso Parigi vuole raccontare la storia della diciassettenne Victorine diventata, quasi per caso, la musa ispiratrice del maestro. Una ragazza la cui vita viene stravolta e trasformata dall’incontro con quest’uomo che lei inizialmente chiama “lo sconosciuto”. Un adulto che la trascina in un vortice di passione e sensualità, facendole provare emozioni sempre nuove, sempre diverse. Sentimenti contrastanti che colpiscono come i colori accesi di una tavolozza.
Leggendo le pagine di Rosso Parigi emerge chiaramente lo sforzo portato avanti dall’autrice nel tentativo di dare maggiore risalto a quella che lei voleva restasse la protagonista, Victorine, e che l’esuberanza di E. non ne oscurasse i tratti. Gibbon è riuscita nel suo intento ma chi legge il libro inevitabilmente pensa a Manet e alle sue tele, a Colazione sull’erba e Olympia, ai colori, alle sfumature, alle impressioni che si delineano come tratti di una tela in lavorazione e fanno in modo che la storia narrata da Maureen Gibbon ne fuoriesca come l’immagine di Victorine Meurent dai dipinti e prenda forma dinanzi agli occhi del lettore.
Una scrittura, quella della Gibbon, che regala a chi la legge quasi sensazioni tridimensionali. Si ha come l’impressione di muoversi insieme ai protagonisti nella Parigi di fine Ottocento, di sentirne i profumi, di “assaporare” la vita dell’epoca. Un libro che da romanzo erotico e di amore sembra acquistare pagina dopo pagina la valenza di un grande romanzo storico.

Maureen Gibbon: vive in Minnesota. Ha pubblicato Swimming Sweet Arrow, Thief e Paris Red.

Articolo originale qui

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“Cesare l’immortale. Oltre i confini del mondo” di Franco Forte

23 domenica Ott 2016

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Cesarelimmortale, FrancoForte, Mondadori, recensione, romanzo, romanzostorico, thriller

Cesare l’immortale. Oltre i confini del mondo (Mondadori, 2016) di Franco Forte è un romanzo storico che si apre al lettore con una bellissima dedica che l’autore indirizza ai suoi figli e che ogni genitore dovrebbe desiderare far propria.

«…nella speranza che prima o poi capiscano quanto sia meraviglioso immergersi nella lettura di un romanzo. Non solo nei loro smartphone e tablet…»

L’antefatto racconta di uno degli accadimenti più celebri della storia romana: le Idi di marzo, divenute nel tempo l’emblema delle congiure e delle cospirazioni di stampo politico e motivate da brama di potere e interessi che prima erano solo economici ora anche finanziari. In Cesare l’immortale però la vera ‘congiura’ l’ha portata avanti lui, il dittatore Gaio Giulio, accecato dal desiderio di travalicare i confini del mondo e diventare veramente invincibile.

Leggere una dopo l’altra le pagine che compongono il libro di Forte è, per il lettore, una immersione lenta e programmata nell’antico impero dei Romani. Rivedere, come in un docu-film trimidensionale, le loro vesti, le abitazioni, le fortificazioni militari, le imbarcazioni… un universo sapientemente riportato alla mente di chi legge con l’uso di termini tipici della tradizione romana inseriti ad uopo nel contesto di un linguaggio, quello in gran parte utilizzato, che invece è molto più contemporaneo.

La scena si sposta presto dai luoghi e dai fasti della Roma imperiale, ritenuti sicuri perché conosciuti, verso mete indicate come piene di insidie ma affascinanti forse proprio perché ancora inesplorate. E sarà proprio tra le immense distese ghiacciate del Nord che i Romani di Franco Forte si scontreranno con l’evanescenza delle certezze non provate ma solo acquisite.

«i Celti che si scaraventavano a petto nudo contro le frecce infuocate dei romani e sotto lo sguardo attento e vigile del loro druido»

La forza della persuasione, una delle armi più potenti, che incita anche ad andare incontro a morte certa, da sempre utilizzata per muovere le masse e piegarle al proprio volere. A volte è un desiderio di rivalsa, altre la promessa di ergersi verso superiori livelli di vita trascendentale, più comunemente l’avidità di ingenti ricompense… ma gli esiti di queste “missioni” sono alla fin fine sempre disastrosi, soprattutto in termini di vite sacrificate. Allora come oggi.

«Mentre il rumore della battaglia, fatto delle grida degli uomini e del clangore delle armi, cresceva sempre più Gaio si riempì i polmoni dell’aria gelida e nera che lo avvolgeva e contemplò soddisfatto il modo in cui i suoi soldati facevano strage di quegli sciocchi selvaggi che si tuffavano a petto nudo contro una fortificazione romana, un baluardo che probabilmente non avevano mai visto in vita loro. Un errore che sarebbe costato la vita alla maggior parte di quei guerrieri, tanto coraggiosi e possenti quanto poco consapevoli di ciò che avevano di fronte.»

Cesare l’immortale invita il lettore a riflettere sull’eterno scontro tra uomini che si ritengono civilizzati e per questo superiori e altri che invece sono considerati selvaggi, primitivi, non all’altezza dei primi. Uno scontro che è sempre stato impari dal punto di vista della forza fisica e soprattutto di quella delle armi ma che in fondo dovrebbe aver insegnato da tempo ormai, ai civilizzati, che forse non è solo questo che conta e che i confini del mondo che allora conoscevano come quello degli attuali stati è una nozione posticcia per un pianeta che è tondo nella forma e inscindibile nel contenuto.

Il Cesare raccontato nei libri di storia come quello narrato da Forte è un guerriero e per questo irrequieto lontano dai campi di battaglia. «Dilatò le narici e immaginò di sentire l’odore del sangue. Un odore afrodisiaco, a cui nessun vero soldato avrebbe mai potuto rinunciare.» L’adrenalina che entra in circolo un attimo prima dello scontro e rinvigorisce lo spirito di chi altrimenti si sentirebbe già vinto. Il coraggio che in fondo distingue gli impavidi dai pavidi. Una sensazione, associata all’impeto giovanile, che si ritrova a vivere anche il filosofo Cicerone, coinvolto dallo stesso Gaio nell’epica avventura della Legio Caesaris, partita dal Mare Nostrum, approdata nel mar del Nord dell’Oceanus Magnus e volta alla nuova traversata del Mediterraneo perché diretta verso il nuovo luogo che sarebbe diventato lo scenario della loro forsennata ricerca.

«Non sapeva che cosa avrebbero trovato, dall’altra parte, ma era chiaro che non avrebbe rinunciato per nulla al mondo, anche se si fosse trattato, semplicemente, di andare incontro alla morte.»

Cesare l’immortale. Oltre i confini del mondo di Franco Forte è un romanzo storico e come tale fonde storia e fantasia. A luoghi e personaggi realmente esistiti l’autore dona tratti e comportamenti modellati dalle sue ricerche come dalla sua immaginazione. Il risultato è ottimo. Il libro merita di essere letto.

(fonte biografia: autori.librimondadori.it)

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“La congiura di San Domenico” di Patrizia Debicke

02 venerdì Set 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LacongiuradisanDomenico, PatriziaDebicke, recensione, romanzo, romanzostorico, thriller, Todaro

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Secondo capitolo della serie dedicata alla Sentinella del Papa, La congiura di San Domenico di Patrizia Debicke van der Noot riporta i lettori ai primi anni del 1500, ai giorni dello Stato della Chiesa e dell’Inquisizione.
Questa volta, ancor più delle altre, la Debicke crea una storia ricca di suspense, di intrighi e di mistero che tiene il lettore incollato al testo. La struttura scelta, con la volontà di non suddividere la storia in capitoli bensì mantenere un continuum articolato in paragrafi, si rivela efficace. Ogni passo è centrato su un indizio, una svolta, una sottolineatura e, visto l’elevato grado di complessità della vicenda narrata, ciò aiuta chi legge a seguire con attenzione gli sviluppi, le indagini e tentare magari anche di anticipare qualche rivelazione.

Giulio II e la sua corte si trovano a Bologna e sarà proprio la Dotta a fare da sfondo alle vicende che coinvolgeranno il Papa e la sua Sentinella, Julius Aloysius von Hertenstein leutnant della Guardia Pontificia, il convento di San Domenico e quello di San Mattia, Santa Maria Celesta, le “vedette” della strada e Michelangelo Buonarroti.

«I fedeli hanno visto e sentito. Non possiamo nascondere o minimizzare. Questo spaventoso delitto nella basilica è un sacrilegio che comporta la sconsacrazione.»

Il rinvenimento del corpo di fra’ Consalvo, vice di fra’ Gaudioso e suo assistente nell’Inquisizione, sui gradini dell’Arca, trafitto da un Cristo dorato e con il cadavere di un gatto nero a cingergli la testa come una corona lascia emergere fin da subito la dimensione del marcio che sta per essere svelato. La posa in cui viene rinvenuto il frate è una messinscena e non sarà la sola su cui il lettore avrà piacere di riflettere pensando alle tante, troppe ipocrisie che reggono istituzioni storiche o religiose e dalle cui “impalcature” facilmente si può “precipitare”, come accade al maestro Buonarroti, e ciò può ben rappresentare l’occasione per la svolta.

Il leutnant Hertenstein de La congiura di San Domenico è meno “lucido” del personaggio narrato dalla Debicke ne La Sentinella del Papa (Todaro Editore, 2013), commette un’imprudenza ma questa volta il legame con Maria non è solo sentimentale o carnale, hanno in comune l’aver vissuto sulla propria pelle una terribile esperienza, figlia di una delle più bieche manifestazioni della malvagità umana.

«Ogni tanto penso che Cristo sia morto invano. Per la nostra salvezza? Nossignore, la nostra gente incensa i tiranni e gli assassini e rincorre i sacrileghi.»

Gli Inquisitori si ergono, dinanzi a Dio e al popolo, a giustizieri e, pur dedicandosi a vizi e malvagità, infliggono violenza invocando la retta via, la parola sacra e il perdono. I sotterranei del convento di San Domenico ricordano le sale degli interrogatori della Brigata Speciale, la polizia segreta del dittatore Francisco Franco, descritte da Mark Oldfield in Quindici cadaveri (Newton Compton, 2013) e allora automaticamente ci si chiede dov’è la differenza. Un convento e un quartier generale che hanno entrambi una stanza della tortura, delle celle per la prigionia degli indiziati, delle sale per gli interrogatori e la “via dell’acqua” che se da un lato può rappresentare una via di fuga sotterranea dall’altro è un utile mezzo per liberarsi di qualunque cosa, soprattutto cadaveri.

Patrizia Debicke van der Noot con La congiura di San Domenico si rivela ancora una volta un’artista della scrittura “storica”. In tutte le 260 pagine che compongono il libro non si trova una frase di troppo. Narrazione asciutta, essenziale, decisa e precisa. Per far immergere il lettore nel contesto storico da lei narrato non le occorre sciorinare quanto appreso e certamente studiato sui fatti e le usanze dell’epoca, essendo sua la capacità di rappresentarlo attraverso la scena, lo sviluppo della vicenda, il linguaggio dei personaggi.

La lettura del libro si rivela piacevole e invoglia chi legge in riflessioni sul passato ma anche sul presente della Chiesa, della religione e della spiritualità; sulla società del 1500 ma anche su quella attuale; sul popolo e su chi lo “governa”; sull’ordinario come sullo “straordinario”.

Patrizia Debicke: Nata a Firenze, vive a Clervaux in Lussemburgo e fa lunghi soggiorni in Italia. Dal 2003 si dedica interamente alla scrittura. Ha scritto romanzi, romanzi gialli, gialli storici, racconti per varie antologie e racconti lunghi pubblicati in formato e-book. È collaboratore editoriale di Delos Book, Mentelocale, MilanoNera, The Blog Around The Corner. Ha tenuto conferenze storiche per il FAI, per gli Istituti Italiani di Cultura di Parigi e Lussemburgo, per l’Università del Lussemburgo, per circoli letterari e workshop di scrittura per scuole medie e superiori.

(fonte: http://www.patriziadebicke.com)

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