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Irma Loredana Galgano

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Patrizia Debicke, Figlia di re: un matrimonio per l’Italia

24 venerdì Mag 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AliRibelliEdizioni, Figliadire, PatriziaDebicke, recensione, romanzo, romanzostorico

Figlia di re è il nuovo romanzo storico di Patrizia Debicke la quale indaga, questa volta, sulla figura emblematica di Maria Clotilde di Savoia, le cui nozze si trasformano in un fil rouge per raccontare la storia franco-italiana dal luglio 1859 al gennaio 1861. La regina del Cinquecento sembra quindi aver abbandonato, o messo temporaneamente da parte, la narrazione acuta e attenta dei personaggi di quell’epoca per addentrarsi in un periodo storico più vicino al nostro. Anche se, a voler essere sinceri, Debicke riesce, per entrambi i periodi storici, a ingenerare interessanti spunti di riflessione per il lettore che gli permettono, indagando il passato, di comprendere il presente. 

Il lasso temporale preso in considerazione dall’autrice è denso di accadimenti e di cambiamenti epocali per la Francia, il Regno di Sardegna, la penisola italica, l’Europa, l’Africa e l’America, che vedeva Nordisti e Sudisti impegnati nella guerra di successione. Un frangente di tempo i cui eventi hanno segnato il destino di interi continenti. Che poi è esattamente quello che sta accadendo anche oggi. 

Come per gli altri suoi precedenti romanzi storici, Patrizia Debicke non si dilunga in resoconti storici, spiegazioni o introduzioni al periodo storico, bensì entra fin da subito nel vivo della narrazione e lascia che sia la sua storia a raccontare quella generale. Il lettore si sente così immediatamente coinvolto nelle vicende narrate perché entra subito nelle vite dei protagonisti e, tramite il loro vivere, scopre gli accadimenti politici, gli eventi storici, gli sviluppi privati e pubblici della vicenda. Una tecnica narrativa che ha sempre funzionato e che funziona anche in questa nuova produzione.

Il libro parte dagli accordi stipulati tra Cavour e Napoleone III a Plombières. Accordi politico-militari che si intrecciano con quelli dinastici ed ecco che entra in gioco la giovanissima Clotilde, data in sposa a un uomo già adulto. Un uomo sconosciuto che diventerà a breve suo marito. E che si aspetta dalla ragazza un erede quanto prima. Nulla di così sconvolgente, per le usanze dell’epoca. Neanche per la stessa Maria Clotilde che accetta il suo nuovo ruolo vivendone appieno gioie e dolori. Leggere le vicende della figlia di Vittorio Emanuele II ricorda al lettore quanto quel periodo storico sia al contempo vicino e lontano, quanto è accaduto da allora e quanto, invece, è rimasto fermo come immobile e impassibile. Accordi, intrighi, strategie, tattiche che il passar del tempo non hanno per nulla scalfito, forse rinvigorito, alimentato. 

Il ritmo della narrazione è molto incalzante, Debicke aggiunge dettagli, retroscena, colpi di scena, particolari e dettagli ma la lettura non diventa mai confusionaria o confusa. Il suo è uno stile di scrittura che riesce a raccontare il passato, con il suo carico di usanze e tradizioni, senza mai appesantire la lettura stessa. 

È evidente che dietro un libro come Figlia di re c’è un lungo e certosino lavoro di indagine, studio e ricerca. Un impegno e una capacità che consentono a Patrizia Debicke di narrare complessi periodi storici come fossero semplici racconti e singole vicende come fossero accadimenti epocali e dare a entrambi una tale dignità da far concretizzare nel lettore la certezza di avere tra le mani un grande romanzo. 

Il libro

Patrizia Debicke van der Noot, Figlia di re: un matrimonio per l’Italia, Ali Ribelli Edizioni, Gaeta, 2024


Articolo pubblicato su LuciaLibri.it


Disclosure: Per l’immagine in evidenza credits www.pixabay.com


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© 2024, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Congiura e passione ne “L’eredità medicea” di Patrizia Debicke

15 domenica Gen 2023

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LEreditàMedicea, PatriziaDebicke, recensione, romanzo, romanzostorico, Tea

Un’inconsapevole vittima che perisce sotto gli sferzanti colpi inferti dalle ree mani degli assassini, convinti di essere i dominatori del gioco e ignari di essere anch’essi pedine di un gioco assai più grande e crudele.

È con questa scena che si apre il libro di Patrizia Debicke L’eredità medicea, un romanzo storico ambientato nella Firenze di inizio Cinquecento. Un periodo storico molto controverso e ricco di numerosi eventi per molti versi contraddittori, inquietanti e illuminati al contempo. Un’epoca che l’autrice ha indagato a fondo, studiandone i principali esponenti e traslandoli nel suo libro evidenziandone gli aspetti più utili per la narrazione di una vicenda intricata e intrigante, ricca di colpi scena e di colpi bassi. 

Riesce, l’autrice, a far immergere il lettore in un tempo orami lontano fin dalle prime battute, grazie all’uso di uno stile narrativo incalzante ma chiaro, e uno stile di scrittura analiticamente studiato per richiamare l’epoca storica e i suoi costumi senza appesantire o intralciare la lettura stessa, che rimane scorrevole e gradevole. 

L’eredità medicea racconta dell’assassinio di Alessandro de’ Medici, della nomina del suo successore Cosimo, delle indagini per smascherare l’esecutore del delitto e soprattutto per trovare il mandante, ma offre anche, grazie all’abilità descrittiva che è propria dell’autrice, uno sguardo d’insieme sulla vita degli uomini e delle donne di quel periodo storico, il corteggiamento e gli amori, ufficiali o clandestini, gli accordi e gli affari, le eredità da dirimere e dietro ogni cosa gli intrighi e le congiure che scorrono attraverso le stanze di palazzi e castelli, ben celati come i numerosi passaggi segreti propri di queste architetture.

Investigazioni basate sull’intuito, sul sospetto e su qualche rara testimonianza diretta o indiretta in un tempo in cui non esistevano supporti tecnici, tecnologici o scientifici e bisognava affidarsi al proprio fiuto, alle parole di qualche informatore, testimone, spia o traditore. Un mondo che appare completamente diverso da quello attuale. Altri aspetti invece sembrano proprio non essere cambiati e li ritroviamo ancor oggi. Per esempio: l’ingerenza della Chiesanegli affari dello Stato, nelle contese dinastiche, nella vita civile della popolazione e di chi la governa, negli intrighi di palazzo, ricatti e delitti. E l’atteggiamento di nobili e amministratori che hanno una considerazione del popolo che di certo non li nobilita.

L’autrice si sofferma più volte nella descrizione dettagliata e minuziosa, anche anatomica, dei protagonisti e la sottolineatura della loro prestanza fisica, la virilità, la forza di valorosi condottieri, uomini forti e determinati. Descrizioni che ne enfatizzano le caratteristiche generali e accentuano l’aspetto deciso e perentorio del loro essere e del loro volere. Uomini blasonati, avvezzi al comando, alla servitù e ai privilegi.

Il Cinquecento raccontato da Patrizia Debicke è il mondo visto dall’aristocrazia, dai principi, dai cardinali, dai pontefici. Nel quale i componenti tutti i livelli inferiori della popolazione vivono le loro esistenze, quando va bene, di riflesso, quando va male, in condizione di completa precarietà e abbandono. 

L’eredità medicea è un romanzo storico di genere giallo ma è anche un libro grazie al quale la Debicke invita il lettore a riflessioni forti, a volte amare sulla società, sulla sua stratificazione e sull’importanza o meno della spiritualità. Elementi tutti che rendono il libro una validissima lettura. 


Il libro

Patrizia Debicke van der Noot, L’eredità medicea, TEA, Milano, 2022.

Prima edizione: Parallelo45Edizioni, novembre 2015.

L’autrice

Patrizia Debicke van der Noot: autrice di romanzi storici e thriller.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia Patrizia Debicke van Der Noot per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com



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“La congiura delle passioni” di Pietro De Sarlo (Altrimedia Edizioni, 2021)

26 lunedì Lug 2021

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Altrimedia, Lacongiuradellepassioni, PietrodeSarlo, recensione, romanzo, romanzostorico

«Capire la Storia e le regioni del Sud è indispensabile per la costruzione di uno Stato realmente Unitario con pieni diritti e dignità per tutti i territori e le persone che ci vivono e che ancora non c’è. Ed è importante soprattutto se una nuova costruzione, quella europea, procede ripetendo spesso, mutatis mutandis, gli stessi errori di quella dell’Italia unita»

È con queste esatte parole che Pietro De Sarlo spiega, nell’appendice del libro, ai suoi lettori il motivo per cui ha ritenuto doveroso e necessario scrivere La congiura delle passioni. Un romanzo nel quale realtà storica e immaginazione si intrecciano originando una fitta trama. La narrazione passa, ripetutamente, dal particolare al globale e viceversa. Le storie di ordinaria vita quotidiana dei protagonisti sono modellate dalle vicende che hanno fatto da preludio al Risorgimento italiano. Grandi accadimenti che hanno finito per condizionare, a volte indirettamente, anche l’esistenza di residenti piccoli e in apparenza ameni borghi incastonati lungo la dorsale appenninica.

Fin dalle prime pagine di questa nuova opera narrativa di De Sarlo, si denota una migliorata capacità descrittiva che rende subito comprensiva e accattivante la scena al lettore, il quale si sente come immerso e rapito nell’ambiente sapientemente descritto. I personaggi sono ben caratterizzati e rappresentano il perfetto trait d’union tra la loro personale storia e quell’Italia intera. 

Ritornano, anche in questo nuovo romanzo, i riferimenti alla magia e alla scaramanzia a cui Pietro De Sarlo aveva già abituato i suoi lettori. Non che al giorno d’oggi queste credenze siano scomparse o anomale, ma nel contesto storico e ambientale de La congiura delle passioni risultano più armonizzate nelle vicende narrate. 

«Non sono uno storico ma per scrivere questo libro mi sono avvalso del lavoro di storici e di documenti originali dell’epoca cercando di immaginare come fosse la vita delle famiglie, delle comunità e delle persone in uno dei borghi montani di Basilicata in quel periodo.»

Monte Saraceno è un toponimo di fantasia ma potrebbe benissimo essere uno qualsiasi dei tanti paesi dislocati sull’Appennino lucano. Le dettagliate descrizioni delle vie, dei palazzi, delle abitazioni, finanche dei panorami lasciano intendere che De Sarlo si sia ispirato a un luogo a lui particolarmente caro, o, quantomeno, abbia assemblato elementi di diverse località e li abbia fatti tutti confluire nel suo luogo ideale.

È vero quanto egli stesso scrive: De Sarlo non è uno storico di professione. Infatti il suo libro non è un saggio in senso stretto né un’opera accademica o scientifica. È un romanzo storico nel quale egli ha sintetizzato le sue conoscenze, quanto appreso dalle ricerche bibliografiche preliminari alla stesura del testo, le sue personali idee sull’Italia di allora e quella di oggi e ha fuso il tutto intrecciandolo con le vicende di fantasia vissute dai protagonisti del libro. Guardandola in quest’ottica, è un’operazione ben riuscita. La scrittura è scorrevole, la storia ben costruita, il finale interessante. Il libro, nel suo complesso, con le dovute differenze, risulta essere molto più vicino a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa che a un saggio storico o d’inchiesta. 

Cambia, naturalmente, il punto di vista dell’autore, in quanto La congiura delle passioni è opera di un uomo del XXI secolo che guarda al passato, all’era risorgimentale, a quanto accaduto in quei territori che poi sono diventati l’Italia ma guarda anche all’Europa, politicamente intesa e confluita nell’Unione Europea. De Sarlo non si è limitato a scrivere ciò che già conosceva dei luoghi di Basilicata, oppure le mere suggestioni della sua fantasia, no egli ha svolto un preventivo lavoro di indagine documentale e bibliografica anche da testi molto validi, riportato per esteso alla fine del libro, e questo è per certo positivo. Naturalmente ha poi rielaborato molte delle informazioni apprese per meglio adattarle alla storia narrata, senza comunque mai stravolgerle del tutto. 

Il Risorgimento italiano è uno dei periodi storici più dibattuti, non certo privo di contraddizioni e opposizioni. Sicuramente una fase che merita approfondimenti e analisi, veritieri e imparziali. Gli strumenti per una corretta conoscenza oggi di certo non mancano eppure, spesso, sembra che, al pari di tanti altri argomenti e aspetti seri, si preferisca scadere in aride polemiche che non aiutano la ricerca della verità, piuttosto la ostacolano. 

Frederick Douglass, tra i più noti attivisti dei movimenti per i diritti degli afroamericani del finire del XIX secolo, sosteneva che il suo ruolo fosse quello di raccontare la storia dello schiavo perché, per i vincitori, i narratori non erano mai mancati. E non sono mai mancati. Neanche per il Risorgimento italiano. Ben vengano quindi anche i narratori dei “non vincitori” italiani perché anche se la verità si trovasse non da una parte né dall’altra ma nel mezzo è sempre e comunque meglio conoscerla che ignorarla. 

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Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“La vera storia di Martia Basile” di Maurizio Ponticello (Mondadori, 2020)

16 lunedì Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LaverastoriadiMartiaBasile, MaurizioPonticello, Mondadori, recensione, romanzo, romanzostorico

Durante il lockdown, un lasso temporale relativamente breve compreso tra i mesi di marzo e aprile 2020, solo in Italia sono state 5.031 le telefonate valide al numero di emergenza per vittime di violenza di genere, il 1522. L’Istat ha calcolato che si tratta del 73 per cento in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Le campagne di sensibilizzazione si moltiplicano a vista d’occhio e, parzialmente, si registrano sviluppi positivi, soprattutto nell’aumento del numero di denunce.

A guardali in assoluto questi dati lasciano molto perplessi. Ma lo stupore maggiore si prova nel momento in cui li si confronta con il passato, allorquando bisogna affermare che, tutto sommato, la condizione femminile nella società ha fatto passi da gigante. Anche se ovviamente tanto ancora c’è da fare.

Il punto però è che quello che a noi sembra assurdo in realtà è già un miglioramento. E questo è davvero difficile da concepire.

Non sono lontani i giorni in cui in Italia era legale il delitto d’onore, in cui il figlio maschio era l’unico e solo erede, in cui l’istruzione femminile era pressoché assente, in cui esisteva una netta distinzione tra i doveri femminili e quelli maschili… Purtroppo non è raro dover ascoltare ancor oggi visioni ancorate a detti pregiudizi ma il punto è un altro. È necessario e doveroso cambiare il paradigma culturale che fa della differenza di genere una questione di potere, di prestigio, di potenza, supponenza, supremazia e forza fisica e per fare ciò bisogna anche imparare dagli errori del passato.

«All’immenso coraggio delle donne»

È con queste parole che si apre al lettore il libro di Maurizio Ponticello che narra La vera storia di Martia Basile, una donna, poco più di una bambina in realtà, la cui vita è segnata da decisioni prese da un padre e un marito che neanche per un solo istante l’hanno considerata come persona. È una storia tragica e crudele quella di Martia Basile e, purtroppo, non è così rara come si vorrebbe credere, neanche al giorno d’oggi.

La vicenda di Martia Basile si presta particolarmente al racconto narrativo ma non è certo solo per questo che il romanzo di Maurizio Ponticello colpisce il lettore. È il taglio che l’autore ha scelto di dare all’intera vicenda, è il registro narrativo da lui accuratamente scelto che rendono il libro un ottimo romanzo moderno.

Nel racconto di Ponticello si fondono la Napoli e l’Italia intera di oggi con quella del passato, quel mai abbastanza lontano Seicento durante il quale bastava un nonnulla per bandire una donna e tacciarla come strega, per incolpare qualcuno di eresia, per ripudiare una donna che non aveva partorito figli maschi e giustiziarla pubblicamente allorquando tentasse di rifarsi una vita.

A lungo si è discusso sulla reale esistenza o meno di Martia Basile. L’autore dissipa ogni dubbio e, con la sua consueta precisione, racconta vicende di una Napoli antica i cui odori ancora si percepiscono tra gli stretti vicoli che rigano il centro storico e lo definiscono, pezzo dopo pezzo, come il reticolo di una carta geografica. Si scoprono curiosando tra i polverosi scaffali di archivi e biblioteche di cui Ponticello si dimostra sempre avido conoscitore e intenditore. Si animano in quei personaggi senza tempo, proprio come la città che ha dato loro i natali.

In più occasioni Maurizio Ponticello ha dato prova della sua capacità di ricerca e documentazione, della sua abilità nel cimentarsi in minuziose e dettagliate ricerche sul campo e da fonti documentali, elaborando poi il suo resoconto in libri la cui lettura risultasse sempre scorrevole e leggera per il lettore, ma questa volta sembra davvero che sia riuscito a superare se stesso nel modo in cui ha saputo raccontare una storia così potente e complessa e farlo in una maniera davvero eccezionale.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa della Mondadori Editore e l’autore per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Il complotto Toscanini” di Filippo Iannarone (Piemme, 2018)

18 sabato Apr 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FilippoIannarone, IlcomplottoToscanini, Italia, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone, edito da Piemme in prima edizione a gennaio 2018, si apre al lettore con una citazione di Lucio Anneo Seneca.
«Non osiamo molte cose non perché sono difficili, ma molte cose sono difficili perché non osiamo».
E l’autore, in questo libro, ha osato molto. Un esempio ben costruito e ben riuscito di come i fatti storici reali diventino poi, grazie alla fantasia e all’immaginazione, un canovaccio che rappresenta solo la base di partenza e, al contempo, una piccola parte seppur non marginale, della storia presentata al lettore.

Iannarone, attraverso la descrizione dei ricordi dei protagonisti o degli accadimenti della storia narrata, racconta i sentimenti, le emozioni, le sensazioni, le speranze e le paure non di un gruppo o di una generazione, bensì di un’intera nazione.
Dopo gli orrori del conflitto, le atrocità della guerra, i combattimenti, i bombardamenti, la distruzione, le rovine… l’Italia sembra risorgere. E per tutti si profila non il desiderio di ricostruire il vecchio, il passato, ma di creare davvero un Paese nuovo, sotto l’egida del grande rinnovamento chiamato Repubblica.
Anche se l’ombra del male, della sofferenza, del dolore e della morte non abbandona nessuno di quelli che l’hanno guardata dritta negli occhi. Il male del conflitto, della guerra, del fanatismo, dell’estremismo, del fascismo e del nazismo.

Notevole anche il modo in cui l’autore riesce a descrivere il profondo rapporto che unisce i protagonisti, Luigi e Iolanda. Un legame che si è creato cercando di strapparlo al buio della vita che finisce. Un’esistenza, quella di Luigi, che è rinata giorno dopo giorno accanto a quella donna che poi sarebbe diventata sua moglie. Ad unirli l’amore, certo, ma anche la passione, il coraggio, gli ideali e gli intenti comuni. Elementi tutti che hanno contribuito a saldare un rapporto nel quale entrambi si vedono e si rispecchiano perfettamente.
Grande l’abilità narrativa di Iannarone nel comunicare al lettore questi sentimenti forti, intensi, lasciandoli trasparire da pochi piccoli gesti e parole legati, tra l’altro, alla “banale” quotidianità.

«La costruzione della comunicazione di buone notizie è ancor più importante in democrazia» perché «la percezione da parte della gente comune di vivere in un paese normale ci permetterebbe di avere meno problemi di ordine pubblico, di disperdere questa continua incitazione al conflitto sia da destra sia da sinistra». Iannarone centra un nodo dolente della democrazia, di tutte le democrazie occidentali, le quali hanno saputo costruire un’immagine mediatica di se stesse basata sulla libertà di pensiero e di idee e sulla libera circolazione delle stesse. Al contempo, hanno sempre puntato su una comunicazione che indichi la propaganda come un qualcosa che non appartiene alla democrazia bensì ai regimi dittatoriali.
Le democrazie in effetti non impongono se stesse, regalano invece una bella, positiva e propositiva immagine di sé.

Riesce l’autore a descrivere e trasmettere al lettore la società italiana degli anni Trenta, come anche di quella dell’immediato dopoguerra, sul finire degli anni Quaranta. Esemplare il modo in cui riesce a cogliere e descrivere anche le minime sfumature comportamentali rispetto ai suddetti periodi, i quali, seppur non lontani sulla linea del tempo, lo sono stati molto invece per tutto il resto. Egual ragionamento vale per i rapporti di genere e di classe. Leggendo Il complotto Toscanini si realizza quanto in effetti il mondo sia cambiato e quanto, invece, sia rimasto invariato o addirittura peggiorato.

Il rapporto tra Luigi e Iolanda, quello professionale molto rigido e gerarchico, la società italiana e le sue classi. I ruoli sociali e famigliari degli uomini e delle donne. Il che non vuol significare che le donne non lavorassero anche fuori di casa, allora come adesso. Vi era solo una più netta e definita distinzione tra i generi che al giorno d’oggi sembra essere stata colmata solamente in apparenza. In realtà si intravede solo una gran confusione, un’illusione di progresso e di parità. Una zona grigia che troppo spesso produce ombre deformi e pericolose.

L’emancipazione femminile di cui tanto si narra deve, per essere cosa seria e concreta, passare necessariamente attraverso la parità, l’eguaglianza e il rispetto reciproco di diritti e doveri. Altrimenti è una farsa. E, purtroppo, è quello a cui sembra di assistere quotidianamente. Come per la comunicazione anche per i diritti civili le battaglie come i traguardi sono tutt’altro che lontani ricordi da poter archiviare.

Ottima la struttura narrativa del libro. Una solida “impalcatura”che regge bene l’intreccio sviluppato lungo una doppia linea temporale. Il presente e il passato che si avvicendano nei vari capitoli che vanno a comporre il testo ma che si intersecano di continuo nel racconto, nello svolgersi delle vicende e nella narrazione dei ricordi o dei pensieri.

Dalla lettura del testo si evince chiaramente il dettagliato lavoro di ricerca preventivo eseguito da Iannarone, il quale deve essersi accuratamente documentato non solo sulla storiografia dell’epoca nella quale ha deciso di ambientare la sua storia, ma anche sui costumi e le abitudini del tempo. I protagonisti infatti vestono, parlano e hanno delle movenze che li identificano perfettamente nel periodo considerato.

Grazie a una cura particolare per i dettagli, a “pause narrative” nelle quali il colonnello Luigi Mari e il suo assistente, il tenente Vinicio Barbetti, fanno il punto della situazione e di quanto scoperto, alle analisi e ai racconti storico-letterari del colonnello o dei suoi intervistati, l’autore riesce a rendere famigliare per il lettore l’intera vicenda, pur nella sua complessità, i tanti personaggi e anche l’ambiente.

Nei ringraziamenti Iannarone sottolinea come lo abbia aiutato la grande passione per la musica e questo sarà certamente vero. Ma deve essergli occorso uno studio profondo e articolato per ricostruire nel suo libro ambienti e accadimenti cui è impossibile abbia presenziato. Ciò che i suoi occhi non hanno visto direttamente, la sua mente ha fatto propri grazie a un minuzioso processo di immedesimazione che poi deve aver trasferito al protagonista, Luigi Mari.

La storia raccontata ne Il complotto Toscanini è un’indagine investigativa indiretta, ovvero condotta da persone diverse dagli inquirenti incaricati ufficialmente, e posticipata nel tempo. Molti anni dopo l’omicidio. Il punto di partenza è una verifica su una celebrità, il maestro Toscanini, al fine di meglio valutare la sua candidatura a senatore a vita.
Nonostante questo, nulla manca al libro rispetto un più classico poliziesco. Piuttosto molto altro si ritrova nel testo di Iannarone.

Informazioni storiche, artistiche, letterarie che arricchiscono la narrazione senza appesantirla e, al contempo, dilatano il lavoro di indagine. Del tutto compatibile con il carattere peculiare dell’investigazione, non ufficiale appunto e non finalizzata a scovare il colpevole e assicurarlo alla giustizia.

Un testo molto valido, Il complotto Toscanini di Filippo Iannarone. Un’ottima opera letteraria che merita senz’altro di essere letta anche come punto di riferimento e apprendimento.


Articolo originale qui



Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“L’oro dei Medici” di Patrizia Debicke Van der Noot (Tea, 2018)

16 sabato Mar 2019

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LorodeiMedici, PatriziaDebicke, recensione, romanzo, romanzostorico, Tea, WMI

L’oro dei Medici, pubblicato con Tea, è un romanzo storico che Patrizia Debicke sceglie di ambientare, almeno in parte, a bordo di una nave, nella fattispecie un’imbarcazione della flotta granducale, da guerra.
Un rischio e un ulteriore livello di difficoltà. Una sfida che l’autrice sembra aver voluto lanciare a se stessa. Il linguaggio e la parlata propri del Cinquecento in un contesto ancor più arduo.
Il lavoro di documentazione che certamente la Debicke ha fatto, unitamente a un’attenta verifica, hanno comunque dato buoni frutti.
Il linguaggio, seppur preciso e tecnico, non risulta ostico o stucchevole. È attento, elaborato, ma fluido e scorre bene come l’intera vicenda narrata.

Persiste anche in questo lavoro letterario la descrizione dettagliata e minuziosa, anche anatomica, dei protagonisti e la sottolineatura della loro prestanza fisica, la virilità, la forza di valorosi condottieri, uomini forti e determinati. Descrizioni che ne enfatizzano le caratteristiche generali e accentuano l’aspetto deciso e perentorio del loro essere e del loro volere. Uomini blasonati, avvezzi al comando, alla servitù e ai privilegi.

La Debicke ha studiato molto e in maniera approfondita il periodo in cui ha deciso di ambientare i suoi romanzi storici. Leggendo i libri di colei che più volte e a buon diritto è stata indicata come “la signora del Cinquecento”, traspare l’impegno profuso e la cura per ogni dettaglio, che sia di interesse storico artistico architettonico o linguistico.
Eppure riesce l’autrice, nei suoi libri e attraverso le sue storie, ad attualizzare, per così dire, le vicende come anche i protagonisti i quali, pur essendo perfettamente inseriti nel contesto storico di riferimento, sembrano avere sempre un qualcosa che li avvicina e li accomuna agli uomini e alle donne, ai governanti e alla popolazione, ai benestanti come agli indigenti di oggi.

Il Cinquecento raccontato ne L’oro dei Medici, come anche negli altri romanzi di Patrizia Debicke, è un mondo, il mondo visto dall’aristocrazia, dai principi, dai cardinali, dai pontefici. Nel quale i componenti tutti i livelli inferiori della popolazione vivono le loro esistenze, quando va bene, di riflesso, quando va male, in condizione di completa precarietà e abbandono.
D’altronde è esattamente questo il mondo cinquecentesco che è passato alla Storia attraverso libri, scritti e opere d’arte. Fu solo a cavallo tra 1500 e 1600 infatti che Annibale Carracci, per fare un esempio, compì la sua grande e personale rivoluzione nella pittura: la rappresentazione della vita quotidiana di bassa estrazione come opera d’arte. Il suo Bottega del macellaio è tra le opere più famose al riguardo. Ancor più audace, controversa ed estrema la rivoluzione portata avanti da Michelangelo Merisi, ovvero Caravaggio.

Questa volta la Debicke ha scelto come protagonista un personaggio che è anche un cliché: Don Giovanni. Il suo appartiene alla famiglia de’ Medici, figlio naturale di Cosimo I ed Eleonora Albizzi, legittimato per volere del padre. Un vero Don Giovanni di nome e di fatto. Ma l’autrice è riuscita a renderlo di gran lunga più interessante raccontando di un uomo e delle sue “conquiste” amorose certo ma anche dei suoi principi, dei sentimenti, del coraggio e del rispetto che si conquista con l’onore e il valore e non solo e non tanto con il denaro e i titoli nobiliari.

L’utilizzo di figure retoriche e la ricercatezza di termini e linguaggio fanno sì che la Debicke regali al lettore “immagini di parole” molto suggestive. Per riportare alcuni esempi: «Ma il sole, coi connotati dell’inverno che incombeva, mostrava gran fretta di coricarsi nel letto di nuvole basse, arrossate, che sfioravano il mare» oppure «il grande portone della Canaviglia si spalancò, prontamente vorace, ad accogliere il ritorno di Don Giovanni».
Patrizia Debicke racconta, di fantasia certo seppur con incredibile verosimiglianza, gli intrighi, i complotti, gli inganni, i tradimenti posti in essere, per posizione privilegi e denaro, da aristocratici, nobili, condottieri, notabili e prelati. Lotte di potere quasi sempre intestine o afferenti a qualcuno facente parte della Curia romana. Una Chiesa di preghiera e potere che ancora oggi sembra aver conservato le sue peculiari tipicità.

Un libro scritto nell’era di internet e della comunicazione ultra-veloce e che sembra trasportare il lettore in un mondo quasi surreale, dove il tempo si misura con le clessidre, le notizie viaggiano attraverso lettere e missive sigillate e consegnate a mano. Un mondo diverso, antico eppure, per certi versi, così ancora tristemente attuale.

L’oro dei Medici di Patrizia Debicke, pubblicato in seconda edizione digitale da Tea a maggio 2018, è una lettura senz’altro consigliata.


Recensione apparsa sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte 



Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa di Tea e AnnaMaria Riva – Comunicazione e Promozione per la segnalazione, la disponibilità e il materiale.


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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“A bon droit” di Luciana Benotto (La Vita Felice, 2017)

22 venerdì Giu 2018

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Abondroit, LaVitaFelice, LucianaBenotto, recensione, romanzo, romanzostorico

C’è una condizione essenziale per scrivere un buon romanzo storico: la passione per la Storia. Qualità che di certo non manca a Luciana Benotto, la quale a novembre 2017 è ritornata in libreria con A bon droit. Il piacere della vendetta, edito sempre con La Vita Felice, come il suo precedente lavoro, Il Duca e il Cortigiano, imprese d’arme e d’amore. Una conoscenza dettagliata del periodo storico, dei personaggi che sono poi diventati i protagonisti del romanzo, un grande amore per i luoghi e le opere, sia pittoriche che architettoniche, sono lo sfondo e, al contempo, lo scheletro portante del libro della Benotto.

Il Rinascimento italiano visto attraverso gli occhi avidi della vendetta, i fasti del lusso e del potere minati da tensioni, intrighi, tradimenti… il tutto tenuto insieme da uno stile narrativo minuzioso che a volte sembra perdersi nei dettagli pur non cedendo mai alla monotonia o alla fastidiosa ripetizione.
Un tuffo in un passato che è più che mai presente, nelle vicende riscontrabili ancora come nei luoghi. Apprendere e immaginare i palazzi e le tenute com’erano un tempo invoglia il lettore a conoscerle e scoprire come sono oggi diventate. Luoghi che la Benotto deve conoscere a fondo, e amare.

Ci sono emozioni, sensazioni che la mera fantasia non può rimandare al lettore attraverso le sole parole scritte e poi lette, è lo scrittore che deve vivere o “appropriarsi” di determinati sentimenti e metterli nero su bianco come se fossero i propri. Solo in questo modo il lettore li ritroverà, leggendoli, e li farà a sua volta propri. Luciana Benotto riesce molto bene in questo al punto che, a tratti, i suoi personaggi diventano quasi comparse del discorso, o meglio del dialogo che lei stessa intrattiene coi suoi lettori.

Una lettura per certo consigliata agli amanti del romanzo storico, A bon droit di Luciana Benotto, e anche a coloro che amano “il piacere della vendetta”.

LUCIANA BENOTTO: laureata in Lettere Moderne, insegna in una scuola superiore. Ha collaborato a rubriche di Cultura per diverse testate, anche nazionali. I suoi scritti sono stati selezionati come finalisti a numerosi concorsi letterari. Ha scritto diversi romanzi e racconti. Organizza, con l’associazione culturale equiLibri, eventi letterari e artistici.


Source: Si ringrazia l’autrice, Luciana Benotto, per la disponibilità e il materiale.


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Quando l’intreccio di un libro è quello di vite vere. “Il bambino del treno” di Paolo Casadio (Piemme, 2018)

13 martedì Feb 2018

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Ilbambinodeltreno, PaoloCasadio, Piemme, recensione, romanzo, romanzostorico

Uscito in prima edizione con la casa editrice Piemme il 23 gennaio 2018, a ridosso della Giornata della Memoria, Il bambino del treno di Paolo Casadio non è un libro sui peccati o sulle colpe bensì un resoconto sui fatti, sulle testimonianze, sui ricordi che devono anche essere un monito. Non è un libro, l’ennesimo, sulla deportazione degli ebrei ma un’opera letteraria sull’umanità e anche, purtroppo, sulla sovente disumanità degli stessi umani.

Il casellante Giovanni Tini è tra i vincitori del concorso da capostazione, dopo essersi finalmente iscritto al PNF. Un’adesione tardiva, provocata più dal desiderio di migliorare lo stipendio che di condividere ideali. Ma l’avanzamento ottenuto ha il sapore della beffa, come l’uomo comprende nell’istante in cui giunge alla stazione di Fornello, nel giugno 1935, insieme alla moglie incinta e a un cane d’incerta razza; perché attorno ai binari e all’edificio che sarà biglietteria e casa non c’è nulla. Mulattiere, montagne, torrenti, castagneti e rari edifici di arenaria sperduti in quella valle appenninica: questo è ciò che il destino ha in serbo per lui. Tre mesi più tardi, in quella stessa stazione, nasce Romeo, l’unico figlio di Giovanni e Lucia, e quel luogo che ai coniugi Tini pareva così sperduto e solitario si riempie di vita. Romeo cresce così, gli orari scanditi dai radi passaggi dei convogli, i ritmi immutabili delle stagioni, i giochi con il cane Pipito, l’antica lentezza di un paese che il mondo e le nuove leggi che lo governano sembrano aver dimenticato. Una sera del dicembre 1943, però, tutto cambia, e la vita che Giovanni, Lucia e Romeo hanno conosciuto e amato viene spazzata via. Quando un convoglio diverso dagli altri cancella l’isolamento. Trasporta uomini, donne, bambini, ed è diretto in Germania. Per Giovanni è lo scontro con le scelte che ha fatto, forse con troppa leggerezza, le cui conseguenze non ha mai voluto guardare da vicino. Per Romeo è l’incontro con una realtà di cui non è in grado di concepire l’esistenza. Per entrambi, quell’unico treno tra i molti che hanno visto passare segnerà un punto di non ritorno.

La scrittura di Casadio è molto poetica, melodiosa, risuona in chi legge anche a voce bassa e ricorda quasi una lieve musica di sottofondo alle scene di vita di Giovannino, di sua moglie Lucia e del loro bambino Romeo.
Una scrittura che riesce a strappare anche qualche sorriso al lettore. Come per l’apprendimento vorace del piccolo Romeo dalle pagine del «Carlino», che riportano enfaticamente quanto sta accadendo in Europa alla vigilia dell’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale. Un bambino alla soglia dell’età scolare che si rivolge così al padre e agli altri commensali: «stasera sgavazziamo. Mangiamo la carcassa del coniglio che ci fa orgasmo».
Uno stile melodioso quindi ma che a tratti appare proprio canzonatorio. Come quando sembra voler farsi burla degli stessi pensieri di Giovannino, il quale tenta di nascondere finanche a se stesso i reali motivi che lo hanno spinto ad accettare quel trasferimento che suona troppo come un esilio, un avanzamento di carriera che sembra quasi una punizione per il ritardo all’adesione al partito. Una punizione che può rappresentare la salvezza, dal medesimo partito. Ma poi bisogna fare i conti con il destino…

«E il capostazione ebbe la percezione nuova che la valle del Muccione stesse divenendo una specie d’ospizio per sconfitti, un luogo separato dal mondo dove si condensavano i relitti umani, e il pensiero gli regalò attimi d’autentica, inattesa commozione.»

In chi legge si forma l’immagine di un microcosmo ricreato da Giovannino dove i “relitti umani” in realtà sono coloro che si sentono ‘diversi dentro’ come lui stesso del resto, come sua moglie, anche se non se lo sono mai detto, e come il loro bambino. Un po’ consapevolmente e un po’ no ha accettato questo esilio volontario lontano dai centri del regime nella speranza di esserne appunto quanto più isolato possibile. Una lontananza che si evidenzia anche nello scarso interesse mostrato verso i diplomi, le medaglie, i riconoscimenti, i premi e ogni genere di cose intraprese dal regime per lodare e premiare i cittadini che si fossero distinti, ma in realtà poste in essere per alimentare il forte attaccamento alla patria, al senso del dovere e alle regole, necessario per avere una sudditanza omologata alla perfezione.
E mette una gran tristezza notare l’impiego ripetuto di questi “contentini” anche da parte di quei governi e quelle istituzioni che si professano altro, nate proprio come antitetiche al fascismo e ai regimi dittatoriali in generale.

«I privilegi fanno le differenze, e le differenze costruiscono le distanze.»

Casadio ripropone ne Il ragazzo del treno anche l’immagine ormai lontana di tanti italiani che «s’imbarcavano per l’impero», ovvero cercavano sollievo alle sofferenze, agli stenti e alla fame chiedendo di poter lasciare la patria in cambio di un appezzamento e una nuova vita in Etiopia. Ecco forse la vera colonizzazione italiana. Ed ecco ancora come la Storia ritorna e si ripete nelle tante famiglie africane, anche etiopi, che compiono il viaggio inverso ma motivate dalle medesime ragioni.

Il libro di Paolo Casadio non è un testo proclama contro il fascismo, è il racconto di vita delle persone che subiscono, loro malgrado, le ripercussioni dei regimi dittatoriali, che lasciano poco o per nulla spazio alla libertà, che ognuno dovrebbe avere, di scegliere.
Ed è così che la storia di Giovannino, Lucia e Romeo potrebbe essere quello che è, ovvero il racconto di una famiglia italiana che tardivamente ha aderito al partito, oppure altro. La narrazione delle vicende di una qualsiasi famiglia in una qualunque località del mondo, vittima innocente e passiva di scelte non proprie, di decisioni insindacabili, di politiche inamovibili, di una società nella quale il bisogno (di nutrirsi, di dare sostentamento alla propria famiglia, …) “costringe” al compromesso e alla rinuncia dei propri ideali. All’annientamento della persona in favore della crescita del popolo, all’interno del quale non c’è spazio per l’estro e per il diverso, additati seduta stante come una minaccia. Perché il diverso può creare un diversivo, rompere l’equilibrio e mostrare a tutti un qualcosa che invece deve essere occultato. La crescita nella diversità. Il progresso e l’evoluzione nella cultura e nella conoscenza.

«Divieto di vivere, ecco il fine, l’obiettivo» dei prevaricatori e i genitori, a qualunque parte o fazione appartengano, si ritrovano tutti a compiere i medesimi gesti protettivi rivolti ai propri figli, nel momento in cui per loro si teme. Ed è proprio in questi gesti, come in quelli privi di pregiudizio dei bambini, che bisognerebbe cercare il seme dell’uguaglianza e farlo germogliare ovunque e per chiunque.
Riesce Casadio, ne Il bambino del treno, a far trapelare profonde riflessioni come questa senza il bisogno di manifestarle apertamente. Sono i piccoli gesti, egregiamente riprodotti dalla scrittura, a parlare per loro.

Si ha quasi l’impressione, leggendo il romanzo di Casadio, di avere tra le mani o davanti agli occhi un libro d’altri tempi, un racconto nel quale la storia e i suoi protagonisti viaggiano a rallentatore, o meglio a un ritmo più lento di quello che la frenesia odierna impone. Un tempo in cui un semplice gesto, anche solo uno sguardo era importante. E diventava una svolta oppure un ricordo.

Il bambino del treno di Paolo Casadio è un libro che fa commuovere il lettore. Dopo avergli strappato diversi sorrisi lo aspetta al varco con un finale che umanamente non può lasciare indifferenti. Ma ciò che maggiormente colpisce è il senso stesso del libro, che in parte traspare nel testo e per il resto è ben spiegato dallo stesso autore nella nota conclusiva che precede i ringraziamenti. E non è affatto scontato. E questo forse è il motivo per cui il libro non può che essere “giudicato” positivamente anche da chi magari si era intestardito nel volerlo per forza considerare l’ennesimo racconto sui deportati ebrei ad Auschwitz. C’è anche questo nel romanzo di Casadio ma unitamente a molto altro ancora.

È un intreccio, questo forse il termine più adatto a riassumere l’essenza del libro. Un intreccio di vite, di esistenze, di ricordi… di destini. Un libro da leggere, valido e necessario.

Paolo Casadio: Nato a Ravenna nel 1955, s’interessa da anni alla lingua, ai racconti e alla storia della sua terra. Esordisce come coautore con il romanzo Alan Sagrot (Il Maestrale, 2012). La quarta estate, pubblicata da Piemme, ambientato a Marina di Ravenna nel 1943, il suo primo romanzo come autore singolo, ha riscosso grande successo di critica ed è stato insignito di numerosi premi: premio “Ravenna e le sue pagine 2015”, premio “Il Delfino – Marina di Pisa 2015”, premio letterario internazionale “Montefiore 2015”, premio speciale opera prima “Cinque Terre-Golfo dei Poeti 2016”, premio della giuria al concorso internazionale “Città di Pontremoli 2016”, premio speciale “Cattolica 2016”, premio letterario “Massarosa” per opera prima, Contropremio “Carver” 2017, Premio “Francesco Serantini” 2017.


Source: Si ringrazia Fiammetta Biancatelli della Walkabout Literary Agency per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Copyright prima immagine: URBEX – La stazione di Fornello; seconda immagine: EVENTBRITE – PhotoWalk alla scoperta della vecchia miniera di Fornello.


Articolo originale qui


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Il volto inedito e gli amori impossibili degli ‘ospitalieri’ di Malta ne “La carezza del cavaliere” di Paolo Gambi

24 mercoledì Gen 2018

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Lacarezzadelcavaliere, ordinemondiale, PaoloGambi, recensione, romanzo, romanzostorico

Seconda prova narrativa per l’eclettico e spumeggiante Paolo Gambi. La carezza del cavaliere, un romance storico auto-prodotto, racconta al lettore le vicende e le vicissitudini di un nobile cavaliere sempre in bilico tra la vita reale e quella impostagli dall’Ordine. Un muro, neanche troppo invisibile, che separa i due mondi come il grande portone in legno divide e isola la sua lussuosa e silenziosa dimora dal circo frenetico della capitale appena fuori di esso. Un miscuglio di emozioni e sensazioni, esperienze e rimorsi che hanno contribuito a delineare i contorni di un’amara esistenza vista oramai dallo stesso Bertrando come «un enorme peccato. Un lunghissimo peccato d’omissione».

Rispettare tutte le regole imposte dall’Ordine e dal rango hanno costretto il protagonista a una vera e propria “omissione di vita” che lui stesso rimette al suo confessore-confidente in un momento, della sua lunga esistenza, in cui inizia a prevalere il senso di inquietudine e insofferenza per le briglie che lo hanno frenato, nella vita come nell’amore.

L’autore porta i suoi lettori, o meglio la loro fantasia, dentro i palazzi più antichi e aristocratici della capitale. Un mondo ai più sconosciuto, fatto di cerimoniali, pompa magna, etichetta e dressage, titoli nobiliari e un grande grandissimo vuoto… esistenziale, determinato perlopiù dall’essere ‘costretti’ a vivere una vita dentro una bolla che, per quanto dorata e luccicante possa essere, facilmente tende a diventare una prigione e una condanna.

Lo stile narrativo di Gambi è lento, modellato quasi a seguire il passo del venerando protagonista. Analitico e descrittivo ma mai eccessivamente pomposo o stucchevole. Spiccano le stoccate ironiche e satiriche che alleggeriscono di molto la lettura del testo e strappano ripetuti sorrisi in chi legge.

La carezza del cavaliere ricorda, per certi versi, una ‘crociata‘ contro le ipocrisie, una battaglia che troppo spesso assume i contorni semiseri di un’avventura donchisciottesca. Una vita di rinunce e regole per distinguersi da chi in fondo è molto più simile di quanto si pensi, in un mondo dove l’ossessione del distinguersi diventa, alla fin fine, omologazione allo stato puro.


«matrone romane a passeggio per dimenticare la propria infanzia a Frascati; squali dei palazzi con sguardi affilati dalla coscienza delle proprie malefatte, ma ammantati di perfette giacche e cravatte. Il tutto sotto lo sguardo attento della Malavita che governa la città»


Un libro, La carezza del cavaliere di Paolo Gambi, che si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura interessante a, al contempo, leggera e divertente.


Source: Si ringrazia l’autore per la disponibilità e il materiale


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Un viaggio nella Letteratura tra miti e leggende in “Morfisa o l’acqua che dorme” di Antonella Cilento (Mondadori, 2018)

23 martedì Gen 2018

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AntonellaCilento, Mondadori, Morfisaolacquachedorme, recensione, romanzo, romanzostorico


Fresco di stampa per Mondadori il nuovo romanzo di Antonella Cilento, Morfisa o l’acqua che dorme, si apre al lettore con tre intense citazioni d’autore. Lente e profonde, come il testo stesso della Cilento.

Uno stile narrativo, quello dell’autrice, molto più vicino, per indole e carattere, agli scrittori citati (Montero, Tomasi di Lampedusa, Croce) che agli scrittori, o meglio ai narratori di oggi.

Leggere le storie della Cilento è un’immersione, ogni volta sempre più intensa, nella Letteratura con l’iniziale maiuscola. Quell’universo che ha appassionato tanti lettori e tanti critici, di ogni epoca ed età. Libri che sono mondi da esplorare. Personaggi che sono guide, esempi, eroine ed eroi, paria e rinnegati… ma sempre e comunque interessanti. Illuminanti. Personaggi che sono, anche, animali bizzarri, strambi, nani e gobbi e popolano tutti la città senza tempo dove l’autrice è nata e lavora.

Una città, Napoli, nella quale sacro e profano si mescolano da sempre in un fluido inscindibile che travolge mito e realtà e rende unica la città, i suoi abitanti e la loro storia.

Tra miti e mitologia, personaggi strambi e animali bizzarri, vicende del presente e del passato trovano spazio, nel testo della Cilento, anche scene che rimandano al teatro popolare che ha contribuito a creare la storia e la cultura della città partenopea. Sceneggiate come quella di Nennella che rifiuta di sposare l’uomo per lei scelto dal padre. Un “buon partito” che lei rinnega perché nzevuso. Ma Egidio, accecato dai denari del promesso sposo questa puzza proprio non la sente, fiutando solo il profumo di un matrimonio che sarebbe l’unione di sua figlia con «una miniera d’oro». Scene che rimandano al teatro di Scarpetta e De Filippo, un genere tanto popolare quanto amato, nel suo amaro realismo.

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Una vera e propria magia che scaturisce dall’incontro e dalla fusione degli opposti, il serio e il faceto, il sacro e il profano, il mare e la montagna vulcano di nome Vesuvio che guarda tutti e sembra minacciarli col suo sguardo di fuoco. Uno sguardo immutato nei secoli. Un legame che ha reso immortale questa cultura. La medesima dalla quale la Cilento attinge con bramosia informazioni e spunti di riflessione. In questo testo preferendo il periodo, come lei stessa sottolinea, di una Napoli senza dominatoriné conquistatori. Il Ducato, noto ai più come bizantino ma «di fatto indipendente». Una scelta che la Cilento motiva come un sogno di lunga data ma che per realizzarsi necessitava forse di tutto il tempo intercorso. Tempo che l’autrice ha impiegato a documentarsi e istruirsi. E si ritrova tutta la sua meticolosa ricerca nel testo, nelle descrizioni, nelle narrazioni.

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Non è mai facile, e forse neanche necessario, inquadrare le storie e la scrittura della Cilento. Del resto, per sua stessa ammissione, non hanno mai un rigido percorso prestabilito. Si plasmano a seconda delle notizie, delle informazioni, delle esperienze, delle conoscenze che l’autrice assorbe e studia, modellando poi, pagina dopo pagina, intreccio, personaggi e stile narrativo. Il tutto tenuto assieme forse più che dal narrato, proprio dal linguaggio che sale e scende a seconda dei personaggi e delle scene, come il cavo d’acciaio che segue e al contempo trattiene trapezisti e acrobati.

 

Un libro che entusiasma il lettore sia quando il linguaggio è aulico sia quando ricorda la vulgata dei vichi e dei vasci. Un testo, Morfisa o l’acqua che dorme che certo non può essere inteso come romanzo commerciale e che forse proprio per questo è meritevole di una larghissima diffusione.


Per la prima foto, copyright: Théo Roland.


Articolo originale qui

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