Solo sul mercato africano esistono più di 150 marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti1, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali, e dannosi per la salute. E allorquando un prodotto sparisce dal mercato, perché dichiarato troppo nocivo, subito viene sostituito da rimedi fatti in casa. Spesso definiti “naturali”, non per questo meno tossici.
Il problema non è solo medico e non riguarda solo il continente africano. Un’inchiesta di «Le Monde» del 2008 rivelava una tendenza sempre più diffusa: il desiderio di sbiancarsi la pelle anche da parte delle cittadine francesi di origine africana. E lo storico Pap Ndiaye – che nel 2022 ha assunto l’incarico di ministro dell’educazione nazionale in Francia – sostiene si tratti di un problema tout court, risolvibile solo attraverso una lotta più efficace contro le discriminazioni, le gerarchie sociali e quelle “mélaniques”, basate sulla melanina, ereditate dalla colonizzazione.
Lo studio e la ricerca condotti da Faloppa ripercorrono i tratti salienti della nascita della “necessità” di «sbiancare un etiope» (un moro, un nero, …) da cui deriva direttamente la “volontà” odierna di farlo.
Dal vecchio al nuovo continente, la superiorità della razza bianca è stata sbandierata per e dalla maggior parte della popolazione, da gruppi estremisti quali i membri del Ku Klux Klan ma, paradossalmente, anche da molti afferenti la stessa NAACP (National Association for the Advancement of Coloured People), convinti che i neri non avrebbero mai ottenuto la pienezza dei diritti civili e politici senza modificare le loro abitudini e il loro modo di presentarsi, seguendo i modelli, anche estetici, dei bianchi.
La prima ambizione di un colonizzato è di diventare come il colonizzatore, il quale assurge a modello di riferimento.2 Si tratterebbe di una vera e propria sottomissione psicologica per gli ex colonizzati, che andrebbe superata con un rovesciamento totale non soltanto dei valori ma delle categorie analitiche.3
Ma quando nasce davvero la “necessità” di sbiancare i neri e perché?
«The two pioneers of civilation, Christianity and commerce, should ever be inseparable.»
La civilizzazione e i suoi messaggi sembrano essere indissolubili non soltanto dal commercio ma anche dalla cristianità e dalla missione civilizzatrice di entrambi. È questa la celebre sentenza pronunciata dall’esploratore David Livingstone.4
Il concetto di fondo della sentenza Livingstone sembra aver ispirato diverse campagne pubblicitarie, in particolare quelle di aziende che producevano saponi talmente efficaci da riuscire a sbiancare finanche la pelle di un nero.
La pulizia non era solo un fatto fisico, ma anche e soprattutto – fin dalla prima metà dell’Ottocento – un fatto morale: un sigillo di rettitudine, una benedizione della proprietà domestica e un dovere civile.5 La pulizia era vista come un bene assoluto, usato spesso inconsciamente come una sorta di “scorciatoia simbolica” per una serie di altri “beni” immateriali e valori: dalla rispettabilità pubblica all’ordine domestico, dalla probità economica all’onestà sessuale (la monogamia, ovvero il clean sex).6
La sporcizia, per contro, era vista come un male in sé, specchio e indizio di altri mali, tanto fisici quanto morali. Andava lasciata fuori casa e fuori dalla società, allontanata, negata.
Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppo concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina.
Uno dei feticci nella costruzione della polarizzazione (colonizzatori-civili versus colonizzati incivili da civilizzare) fu il sapone, che negli ultimi decenni del XIX secolo diventò il “talismano della modernizzazione”,7 simbolo e strumento di una vera e propria “tecnologia di purificazione sociale”,8 il “principio della civilizzazione”, dal cui consumo si potevano misurare la ricchezza, il livello di civiltà, la salute e la purezza di un popolo.9
L’uso e il consumo del sapone come di altri prodotti detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da tutti questi aspetti simbolici egregiamente indagati da Faloppa nel libro.
Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine.
Nel 2017 una pubblicità della Dove fu al centro di polemiche: grazie al potere del brand, una ragazza nera si trasformava in una ragazza bianca dai capelli rossi. Per l’azienda si trattava di un omaggio alla diversità, Ma l’effetto sbiancante del docciaschiuma appariva nella migliore delle ipotesi, sottolinea l’autore, un inspiegabile scivolone, nella peggiore un messaggio razzista, neanche tanto velato.
Nel 2011 la stessa azienda aveva lanciato una pubblicità nella quale le immagini di tre ragazze – una riccia e nera, la seconda con i capelli scuri e la pelle olivastra e infine la terza con i capelli biondi e la pelle chiarissima – erano accompagnate dal claim «Prima e dopo».
La ricerca condotta da Faloppa va avanti da oltre venti anni e, naturalmente, non è conclusa. Purtroppo, verrebbe da dire. Perché episodi di discriminazione, di presunta manifesta superiorità da parte dei bianchi sono tutt’ora all’ordine del giorno. Tuttavia ciò che l’autore è riuscito a far emergere e che va a comporre il libro è davvero impressionante, notevole e illuminante.
Molto incisiva anche la parte della dedica iniziale dedicata alle generazioni di domani, alle quali l’autore augura di poter rubricare il libro non tra quelli di attualità bensì di storia, perché razzismo e discriminazione saranno ormai superati.
Il libro
Federico Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.
L’autore
Federico Faloppa: professore di Linguistica e Italian Studies presso l’Università di Reading, in Gran Bretagna. Da oltre venti anni la sua ricerca ruota intorno alla costruzione del “diverso” nelle lingue europee, alla rappresentazione mediatica delle minoranze, alla produzione e circolazione del discorso razzista e discriminante, al rapporto tra lingua e potere, ai discorsi d’odio.
1C. Simon, Un réve de blancheur, in «Le Monde», 29 agosto 2008
2A. Memmi, Portrait du colonisé, portrait du colonisateur, Ed. Buchet/Chastel, Paris, 1957.
4J. P. Nederveen Pieterse, White on Black. Images of Africa and Black in Western Popular Culture, Yale University Press, New Haven-London, 1992. La sentenza di David Livingstone è tratta dalla lecture che l’esploratore tenne a Cambridge il 5 dicembre 1858.
5G. Giuliani, C. Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier, Firenze, 2013.
6A. McClintock, Soft-soaping empire: Commodity racism and imperial advertising, in Aa. Vv., The Gender and Consumer Culture Reader, J.Scalon (a cura di), New York University Press, New York, 2000.
7K. van Dijk, J. G. Taylor (eds), Cleanliness and Culture: Indonesian Histories, Brill, Leiden, 2011.
8A. McClintock, Imperial Leather: Race, Gender and Sexuality in the Colonial Contest, Routledge, London, 1995.
«Mondanità spirituale»: è l’espressione teologica e morale di un peccato che riguarda tutti ma, in particolare, gli uomini di Chiesa. Lo ha descritto per primo dom Vonier, proprio nel libro Lo Spirito e la Sposa.
Papa Francesco, dalla sua prima omelia in poi, ripetutamente ha parlato della mondanità spirituale per una riforma della Chiesa che parta da una conversione proprio di coloro che si sentono già convertiti. Come cattolici, cediamo alla mondanità spirituale tutte le volte che facciamo il bene, rifiutiamo la ricchezza, il lusso e la mondanità materiale, ma lo facciamo per umanitarismo, per moralismo, per una religione dell’uomo che sembra avere accenti nobili, ma che non è la fede in Gesù. Una Chiesa così, secondo papa Francesco, diventa una «una ONG assistenziale» dietro di cui, come insegna dom Vonier, può nascondersi il diavolo.
Si sente spesso ripetere, ai nostri giorni, che il mondo è scristianizzato, che è spento perfino ogni interesse per i problemi religiosi.
Tale affermazione, innegabilmente fondata rispetto all’atteggiamento delle masse, appare invece troppo pessimistica quando si consideri che non poche coscienze, tra le più sensibili, accusano un acuto disagio e, dopo aver sperimentato i frutti desolanti del progressivo distacco da ogni idea del soprannaturale, si affannano a risalire l’abisso scavato da oltre due secoli di cultura laica e di indifferenza religiosa. L’uomo nel quale si affacciano tali istanze, che per dom Vonier è il più delle volte l’uomo di cultura, trova nella realtà viva della propria esistenza l’oggetto immediato di una grave meditazione. Ma egli si volge naturalmente anche ai libri, ai quali domanda una impalcatura logica e teoretica, non tanto per sovrapporla alle proprie esperienze, quanto per convalidare e armonizzare, nel rigore del sistema, i dati dell’intuizione e della propria sensibilità.
Nella religiosità concreta e quotidiana, come anche in quella meditativa ed escatologica, dom Vonier intravede una costante azione, un continuo operare dello Spirito Santo, attraverso cui operano le altre Persone della Santissima Trinità. Un’opera che si vede e quasi si tocca con mano all’interno della Sposa, ovvero della Chiesa, la cui costituzione e vita è avvenuta alla luce dello Spirito. In realtà, quando si sente parlare della Chiesa come della Sposa di Cristo di fatto si pensa a una vaga immagine mistica, senza un preciso corrispondente nella vita reale. Mentre per dom Vonier la Sposa è reale, è concreta, indipendentemente dalle mura che la vanno a comporre e delimitare.
«How could the children of the Bridegroom be sad?»
Come possono i figli della Sposa essere tristi? Si chiede dom Vonier. Chi accoglie dentro di sé la fede in Dio, in Cristo e nello Spirito e la coltiva dentro e insieme alla Sposa non può che essere ottimista. È anche un appello, quello lanciato da dom Vonier, a un superiore ottimismo, rivolto al mondo scettico e rassegnato, alla crisi che lo pervade, all’angoscia degli stessi cristiani che, presi dal comune contagio, hanno finito col perdere di vista le immutabili glorie della Chiesa.
Quando i cattolici dichiarano di essere una Chiesa, si assumono una ben grave responsabilità. È come se un gruppo di persone, costituitesi in una società ben definita e inconfondibile, proclamassero di fronte al mondo intero di formare un’accolta invincibile di eroi, una società che nessuna potenza del mondo potrà distruggere. Agire così, sottolinea dom Vonier, significa assumersi una spaventosa responsabilità: suscitare fermenti, provocare ostilità, attirarsi le più amare critiche, aprire il varco, nel resto dell’umanità, agli attacchi spietati di chi agisce per partito preso. E allora si chiede l’autore: chi non esiterebbe, con aria di trionfo, a denunciare le miserie di una società che si proclama divina?
L’odio nasce nel momento stesso in cui si manifesta il potere o la pretesa del potere. Quando la comune fede in Cristo stringe in vincolo di unità ed anima del suo soffio vitale un gruppo di uomini, allora la benevola tolleranza degli estranei si cambia in feroce ostilità.
Ma questa ostinata determinazione dei cattolici a proclamarsi Chiesa, si è attirata qualcosa di peggio della furia dei persecutori: ha provocato quel grande scandalo, che ha origine dalla evidente constatazione che la società la quale si arroga un carattere divino, appare ben diversa nella sua vita e nelle sue manifestazioni.
Sicuramente, secondo dom Vonier, se il Cristianesimo avesse conservato quella semplicità primitiva, per la quale ognuno è libero di trovare il Cristo seguendo la propria strada, di volgersi a lui secondo l’inclinazione del proprio sentimento, molte miserie dello spirito sarebbero state risparmiate.
Lo Spirito si è incarnato nella Chiesa, così come Cristo si è incarnato nella natura umana. Tuttavia, per dom Vonier, è necessario distinguere fra la santità della Chiesa e la sua innocenza. La santità è l’abbondanza delle opere di carità nella Chiesa, l’innocenza è l’assenza del peccato, o almeno del peccato mortale. La fecondità della Chiesa in ogni genere di opere buone tende a sfuggire agli occhi di molti mentre le colpe, reali o immaginarie, dei membri della Chiesa generano scandali e morbosità.
L’attacco aperto del protestantesimo contro il cattolicesimo conta ormai oltre quattrocento anni; l’assalto della incredulità moderna dura da oltre due secoli. Quest’onda di veleno ha forse contaminato la Chiesa?
Per dom Vonier l’azione missionaria è una via di grande speranza per la Chiesa e per lo Spirito.
L’autore è un teologo e un uomo del suo tempo. Oggi, quella che egli definisce “incredulità moderna” per certo si è estesa e rinforzata ma l’analisi condotta da dom Vonier è molto acuta e attuale. Molto interessante risulta anche la lettura della introduzione dei curatori dell’opera, che aiuta il lettore nella comprensione della reale portata di uno scritto di simil fattura.
Il libro
Dom Anscario Vonier O.S.B., Lo Spirito e la Sposa (Renzo e M. Cecilia Poggi, a cura di), Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2015.
Titolo originale dell’opera: The Spirit and the Bride, Burns Oates&Washbourne Ltd., London 1935.
L’autore
Dom Anscar Vonier O.S.B. (1875-1938): benedettino, poi abate dell’abbazia di Buckfast, considerato tra i maggiori teologi del suo tempo e autore di manuali di vita spirituale.
Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Libreria Editrice Fiorentina per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
Viviamo in un regime customer-centrico, che pone il consumatore al centro del nuovo ecosistema digitale, per due motivi principali: perché esso produce dati che sono sempre più il vero prodotto della nuova economia dell’attenzione; perché grazie a questi dati è possibile conoscere, prevedere e coinvolgere sempre più le scelte del consumatore.
L’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella moda espanderà enormemente il processo di centralizzazione e customizzazione dell’offerta, tanto da coinvolgere anche la parte più ideativa e creativa, che storicamente spettava allo stilista.
Ma tutto questo quali ripercussioni avrà sull’aspetto cognitivo del consumatore?
Agli albori degli anni Settanta, il futurologo Alvin Toffler esordì con il libro Future Shock, nel quale elencava con estrema precisione le principali trasformazioni che la tecnologia avrebbe indotto nella società e nel mercato da lì a pochi anni.
Tra queste aveva già insistito sulla problematica dell’iperscelta per evidenziare come il nuovo capitalismo stesse implementando strategie di offerta altamente complesse e diversificate che sfruttavano l’automazione e rivoluzionavano il rapporto tra aziende e consumatori. Per Barile già allora appariva chiaro il passaggio che dalla microsegmentazione del mercato avrebbe condotto all’integrazione attiva del consumatore nella filiera produttiva, le cui dirette ripercussioni sulla sfera culturale mettevano in discussione le teorizzazioni che invece avevano insistito sulla crescente omogeneizzazione delle pratiche di consumo.
Anche se alcuni aspetti della «profezia» di Toffler erano troppo suggestionati dalla fantascienza, il suo nocciolo sostanziale si è realizzato tanto che oggi, sottolinea Barile, parliamo di un nuovo regime customer-centrico gestito dalle piattaforme digitali.
Tale regime è in qualche modo stato preparato dalla mass customization degli anni Novanta, come momento culminante del cosiddetto postfordismo che ha introdotto innovazioni di tipo tecnico e organizzativo al fine di erogare prodotti e servizi a elevato livello di differenziazione.
Il presupposto decisivo in tale rivoluzione sta nell’esigenza delle aziende di coltivare un concetto olistico di qualità che arriva a coinvolgere la relazione con il consumatore. Questi, infatti, ha dimostrato nel corso degli ultimi decenni una sempre maggiore perizia nelle indicazioni di consumo quando invece tale attività, nel periodo dominante del fordismo-taylorismo, era intesa come passiva e automatica.
Nella produzione di massa la relazione con il cliente – fondata sul suo anonimato – era sacrificata a vantaggio della reperibilità immediata e diffusa dei beni. Nella mass customization, al contrario, ogni transazione rappresenta un accrescimento di conoscenza da parte dell’azienda delle caratteristiche idiografiche del cliente. Un feedback che può essere mediato dal punto vendita oppure disintermediato tramite la rete.
Il principio tramite il quale sono nate le prime strategie di questo genere è quello della modularizzazione, che ha consentito alle aziende di produrre merci sempre più personalizzate. Esso si basa sulla fabbricazione tramite economie di scala di componenti basilari che possono essere riassemblate in modalità differenti per offrire prodotti relativamente diversificati.
Ciò avviene con il supporto decisivo delle tecnologie digitali le quali, precisa l’autore, non sono semplici mass media aggiunti ai media tradizionali quali televisione, radio e cinema.
Il digitale è più di ogni altra cosa un nuovo ambiente capace di inglobare tutti i media precedenti e di riconfigurare le relazioni sociali ed economiche sia in termini quantitativi che, soprattutto, in termini qualitativi.
Il digitale pervade completamente e profondamente ogni ambito della cultura, dell’economia e della creatività contemporanea. Per Barile, nel prossimo futuro, l’uso dei chatbot tenderà a sostituire il rapporto tra brand e consumatore con quello tra sistemi di intelligenza artificiale e assistenti digitali. I chatbot consentono di automatizzare il rapporto con un cliente sempre più profilato. In questo modo aiutano a spostare il focus della moda dallo stile del designer alla performatività del consumatore-utente.
Secondo Luce, nella moda l’intelligenza artificiale può rappresentare una tecnologia «distruptive», nel senso di dirompente, di sostituzione, non solo rispetto ai processi di comunicazione, ma anche con quelli creativi. Come in alcune applicazioni di IBM/Watson e Google che mirano a sostituire il ruolo del progettista proponendo modelli disegnati sulle caratteristiche dei consumatori trasformati in flussi di dati.
Si passa dall’epoca del single channel, ovvero del singolo negozio fisico come unico canale di acquisto dei prodotti moda, a quella del multi-channel in cui si aggiungono nuovi canali di vendita, come l’e-commerce, passando per il cross-channel in cui diversi canali si integrano offrendo all’utente un’esperienza unica, per giungere poi all’omnichannel in cui diversi canali integrati si trasformano in un ambiente che circonda l’utente-generatore di dati.
Il vero problema, sottolinea Barile, che l’omnichannel tenta di risolvere è l’anello mancante tra esperienza online, di cui si sa pressoché tutto, ed esperienza off-line di cui si sa ben poco.
La possibilità di collegare i due livelli offrirebbe alle aziende uno strumento ancor più potente di conoscenza e previsione delle scelte del cliente.
Il futuro del retail è un problema che desta grande interesse non solo dal punto di vista dei brand di moda e delle aziende hi-tech, ma anche da parte delle amministrazioni locali, preoccupate dal processo di desertificazione dei luoghi pubblici, come conseguenza della nuova egemonia commerciale delle piattaforme e ancor più recentemente alla crisi pandemica.
Il case study del concept store di Manhattan, chiamato Story, è particolarmente significativo dell’integrazione tra tecnologie e spazio fisico nel cosiddetto retail esperienziale.
Lo stesso nome gioca semanticamente con i termini store e storytelling, ovvero un luogo fisico allestito per coinvolgere il visitatore in una narrazione composita.
Secondo Rachel Shetchman, sua fondatrice, il negozio del futuro dovrebbe avere un taglio curatoriale capace di coinvolgere l’interesse del cliente, inoltre dovrebbe cambiare ogni 4-8 settimane come se fosse una galleria d’arte, offrendo un’esperienza che permane nella memoria. Infine vendere i propri prodotti. In Story i brand raccontano se stessi a partire dalla loro unicità.
L’utilizzo di tecnologie intelligenti, basate sul machine learning, consente di monitorare il comportamento del consumatore: sistemi di riconoscimento facciale anonimo, emotions tracking, fitting room technologies, mobile identification tracking, RFID, video analytics.
Si tratta di tecnologie innovative che vengono classificate da McStay come «media empatici», ovvero capaci di riconoscere le emozioni umane e di interagire con esse.
Così, dal retail esperienziale descritto da Stephens, si passa a quello «aumentato», che utilizza realtà aumentata e media empatici per potenziare l’esperienza del consumatore.
Il concetto di Metaverso, formulato dalla letteratura Cyberpunk negli anni Novanta, è oggi al centro di un grande interesse da parte di consumatori e aziende per vari motivi:
È un’occasione di rilancio di piattaforme in crisi.
È il collettore di una serie di servizi innovativi e a pagamento come gli NFT e le nuove strategie di gamification.
È il punto di raccordo tra mondo fisico e virtuale che implicherà ulteriori problemi di protezione dei dati personali dei suoi utenti.
Una delle caratteristiche dominanti della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale è l’integrazione dinamica tra la dimensione digitale/virtuale e quella fisica o, per utilizzare le parole di Klaus Schwab, l’interazione tra tre principali megatrend: fisico, digitale, biologico.
Per Barile, una delle tecnologie caratterizzanti la Quarta Rivoluzione Industriale, è la blockchain, nota perlopiù per essere l’infrastruttura tecnologica che dà vita al mercato delle criptovalute.
Essa è in grado di certificare proprietà e autenticità del NFT (Non-Fungible Token), in tal modo conferendo a un mero insieme di dati, generalmente riproducibili, una sorta di unicità. Non vi è quindi, di fatto, alcuna differenza tra la copia e l’originale nell’ambito dei prodotti digitali, se non il codice della Blockchain che ne certifica l’unicità.
Secondo Karinna Grant, cofondatrice di The Dematerialised – piattaforma in cui stanno entrando diversi brand di moda, come Gucci, Prada, Rebecca Minkoff – ci sono sostanzialmente tre modi di utilizzare gli indumenti digitalizzati:
Indossarli tramite Realtà Aumentata.
Vestire i tuoi avatar.
Coniarli come NFT da collezionare e scambiare.
Se la moda attuale insiste principalmente sugli NFT, in futuro la flessibilità del Metaverso mirerà a incorporare e integrare sempre più lo spazio fisico.
Meta in questo caso realizza il sogno iniziale di Zuckerberg, ma lo espande a un livello finora impensato, non solo di sfruttamento della moda virtuale, ma anche di integrazione tra spazio virtuale e fisico, ovvero di ulteriore invasione, sfruttamento e monetizzazione della vita quotidiana dei suoi utenti.
Il dibattito attuale sul Metaverso è molto combattuto ma l’autore ritiene la moda destinata ad approdare definitivamente ad esso, per la sua innata capacità di simulazione e dissimulazione, anche se le modalità con le quali ciò avverrà sono al momento sperimentali e solo parzialmente ipotizzabili.
Del resto la moda ha sempre dimostrato la sua capacità di apprendere e di prendere dai vari strati della società nella quale è presente, come ha ampiamente illustrato Barile nel corso del testo, analizzando, per esempio, i casi rappresentativi della relazione costante tra le forme della moda e quelle dello street style. Nonché l’abilità di adattarsi ai cambiamenti sociali e culturali con estrema facilità e versatilità. Oggi, gran parte della moda e del lusso reinterpretano, citano o semplicemente saccheggiano lo street style. Ma uno street style globalizzato, divenuto ormai logica ed estetica dominante nelle mani dei grandi brand che ha perso molto del suo contenuto originario.
Si chiede Barile quanto etico sia o debba essere l’atteggiamento della moda nei confronti delle cose del mondo e trova per certo solidarietà nel lettore allorquando palesa quanto flebile sia in realtà la volontà di minare la nostra dipendenza cognitiva dall’impero dell’effimero, dalla quintessenza della spettacolarizzazione del corpo nel quotidiano.
Un libro, Dress Coding di Nello Barile, che in realtà ne sembrano dieci, per la vastità degli argomenti trattati e, soprattutto, per la precisione con cui vengono trattati dall’autore, il quale aiuta il lettore nell’esplorazione di un mondo poliedrico che affascina e stordisce, cattura e incanta eppure, al contempo, pone tutti noi difronte alle nostre più grandi debolezze, al nostro “disumanizzarci” scientemente ma con gioia vedendo il nostro avatar tronfio nella sua nuova “skin”.
Il libro
Nello Barile, Dress Coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso, Meltemi Editore, Milano, 2022.
L’autore
Nello Barile: docente di Sociology of Media e Sociologia della moda all’Università IULM di Milano. Autore di monografie, articoli e contributi nazionali e internazionali sui media digitali, sul consumo e sulla comunicazione politica.
È la massimizzazione dei profitti l’obiettivo cui dovrebbero tendere aziende e dirigenti per garantire la sopravvivenza della stessa azienda e servire il benessere non solo dei suoi azionisti ma anche, più in generale, degli stakeholders.
Quando un’impresa ottiene un profitto, di solito ne beneficiano i dipendenti, i partner dell’azienda lungo la catena del valore, le banche, il governo e in definitiva la società nel suo complesso.
Questa è, in sintesi, la tesi sostenuta con passione da Simon e Fiorese. Una determinazione che neanche l’avvento della digitalizzazione sembra poter mettere a rischio. Gli autori si mostrano infatti convinti che, al pari di quanto accaduto per la New Economy, anche la digitalizzazione prima o poi dovrà fare i conti con il profitto.
Circa due decenni dopo lo scoppio della bolla della New Economy, si assiste a una nuova era di euforia in cui l’84 per cento delle aziende che si quotano in borsa non ottengono profitti, ma in alcuni casi godono di valutazioni di mercato ridicolmente alte. Questi sono i reali rischi di sostenibilità temuti ed evidenziati da Simon e Fiorese, non il profitto in sé, se lecito ovviamente, perché esso rappresenta e deve rappresentare il naturale obiettivo di un’azienda sana e prosperosa.
Per le aziende private, non c’è alternativa all’orientamento al profitto. Dopo tutto, nessuna azienda è mai andata in bancarotta per aver guadagnato.
La massimizzazione del profitto – o forse peggio «la massimizzazione del valore per gli azionisti» – è considerata da molti osservatori come la radice di tutti i mali del nostro sistema economico.
Eppure, secondo Simon e Fiorese, nella sua essenza la massimizzazione del profitto è semplicemente l’antitesi dello spreco.
I critici sostengono che la massimizzazione del profitto e del valore per gli azionisti è responsabile dello sfruttamento delle risorse e dei lavoratori, delle disparità di reddito e di patrimonio, della delocalizzazione dei posti di lavoro in paesi a basso salario, del trasferimento delle sedi aziendali in paradisi fiscali e di molti altri abusi.
Ma queste critiche sono, per gli autori, in netto contrasto con le basi teoriche della microeconomia, fermo restando che l’etica è e dovrebbe rimanere la pietra angolare della leadership di lungo termine. Concetto sintetizzato dalle parole del secondo decano della Harvard Business School: «a decent profit decently» (un profitto soddisfacente in modo corretto).
Nella realtà però esistono le zone grigie e allora non ci si può non interrogare su cosa rientra effettivamente nella definizione di decently e cosa no.
Il profitto è la ricompensa che spetta a un’azienda per l’assunzione del rischio imprenditoriale. È ciò che rimane dopo che sono stati pagati gli stipendi, i dipendenti, i fornitori, le banche e altri creditori, oltre alle tasse dovute a governi statali e locali. Il profitto è quindi un residuo legittimo che appartiene solo ed esclusivamente ai proprietari dell’azienda.
Viene da sé comunque che questi imperativi degli autori si riferiscono alle aziende che regolarmente pagano i dipendenti, onorano i propri debiti e versano le tasse e i contributi. Condizione estremamente differente dalle società fittizie che nascondono capitali all’estero, in aree off-shore appositamente per bypassare il fisco.
Vero è anche che una delle leggi fondamentali dell’economia ci dice che profitto e rischio hanno una correlazione positiva. In altre parole, le opportunità di un profitto più elevato comportano un maggior rischio. Si può usare questa legge in una semplice regola pratica per il processo decisionale: per un dato livello di profitto, si dovrebbe scegliere l’alternativa con il rischio più basso. Al contrario, si dovrebbe scegliere l’opzione con il più alto profitto potenziale se i rischi sono uguali. I mercati di capitali però valutano le opportunità di investimento a più alto rischio.
Tutti parlano di un sistema basato sulla meritocrazia ma in realtà vogliono intendere la capacità di fare soldi e di farli fare a loro volta. E chi è esterno a questo meccanismo perverso non può fare a meno di chiedersi se davvero conta solo questo e perché.
Non è solo una questione di soldi. È lo status che risucchia inesorabilmente molti nel «tunnel della dipendenza da lavoro», nel mondo dorato dei bonus milionari, dei viaggi in prima classe e delle vacanze in resort di lusso in località esotiche… un «sistema chiuso che ti allontana ancora di più dalla realtà» e per il quale «vendi l’anima al diavolo. Io l’ho venduta per le ricchezze terrene. In cambio il diavolo ha voluto il mio fallimento morale». Tanti banker nel momento in cui realizzano cosa stanno facendo hanno dei crolli emotivi che cercano di riempire con fiumi di alcol. Ragazzi per la gran parte sotto i trent’anni che non possono parlare tra di loro se non di lavoro, la concorrenza è troppa e la debolezza non è ben vista in quell’ambiente. Non possono parlare con famigliari amici affetti perché chi è estraneo a quel mondo stenta a comprendere e a condividerne le dinamiche. Si ritrovano a vivere le loro interminabili giornate di lavoro in un sistema chiuso dove «l’etica è questa: o sei con noi o contro di noi». Un ambiente “amorale” nel quale lo scopo diffuso è “ingannare” i clienti senza infrangere alcuna legge o norma. Uno dei motti più diffusi tra i banker è “it’s only Opm (Other People’s Money) – è solo denaro altrui”.1
I margini di profitto tendono a essere più bassi nei paesi grandi e viceversa ma, in generale, i margini di profitto netto nei paesi dell’Unione Europea tendono a essere più bassi. Le aliquote fiscali più alte aiutano a spiegare questo fenomeno.
Oltre che da paese a paese, i margini di profitto variano in maniera significativa anche tra i diversi settori industriali. Nelle industrie pro-cicliche – ossia molto legate all’andamento dell’economia in generale – come quella petrolifera e del gas, le fluttuazioni dei prezzi possono avere un forte effetto sui margini di profitto annuali. Al contrario, altri settori come quello farmaceutico, ovvero anti-ciclici, conservano margini elevati sostenuti.
L’industria farmaceutica è seconda, dopo software/entertainment, per margine di profitto.2
I profitti elevati sono moralmente discutibili? Per certo non si può negare che esistono casi delicati e complessi – da un punto di vista etico – soprattutto in settori particolari, tra i quali rientra a pieno titolo l’industria farmaceutica. Farmaci innovativi e salvavita dai costi esorbitanti pongono dure sfide etiche alle aziende e alla società intera.
«Siamo fermamente convinti che le terapie debbano essere pagate in base al loro valore. Siamo determinati a fissare i nostri prezzi secondo questo principio.»3
Si tratta di aziende private. È un loro diritto orientare la politica aziendale al profitto. Ma tutto questo non può non rispolverare l’annosa questione sul concetto di salute pubblica e accessibilità alle cure mediche.
Kymriah, una terapia genetica sviluppata da Novartis, può curare una certa forma di leucemia con una sola iniezione. Negli Stati Uniti, un’applicazione di quel farmaco costa fino a 475mila dollari. Il servizio sanitario britannico ne copre una parte del costo, in determinati casi. In Germania il prezzo è di 320mila euro. Ed è solo uno dei numerosi esempi che si possono riportare e che riguardano tutte le case farmaceutiche, non solo Novartis.
Ovvio che il costo di queste terapie non è dipendente solo dal profitto, in larga parte dal lavoro che ha portato alla sua creazione. Il punto è quanto sia etico che salute e guarigione siano affidate al settore pubblico lecitamente votato al profitto.
Singolare poi, per non dire paradossale, che le industrie farmaceutiche e quelle del tabacco siano così vicine nella classifica dei profitti.
Gli autori sottolineano come la critica all’orientamento al profitto provenga, in gran parte, dagli intellettuali e non solo quelli riconducibili ad ambiti politici di sinistra.
Questi generalmente pensano di essere più intelligenti degli uomini d’affari e, se si prende in considerazione il quoziente intellettivo, questa auto-percezione potrebbe effettivamente essere esatta. Ma guadagnano decisamente di meno e, siccome non imputeranno mai ciò a qualche loro carenza, additano il sistema come responsabile al pari e in correità al comportamento spregiudicato degli stessi uomini d’affari. E anche su questo versante esplorato dagli autori si apre un mondo di interminabili discussioni sul valore da attribuire alla cultura, alla formazione, alle competenze, alla meritocrazia.
«I ricchi sono bravi a guadagnare soldi ma di solito non sono persone decenti (rispettabili).»4
A onor del vero, va ricordato che lo scetticismo verso la filosofia del profitto alberga anche all’interno della stessa comunità degli economisti. Tuttavia gli autori rammentano al lettore che, nel mondo reale, è raro che qualcuno sappia in anticipo quale comportamento consentirà di raggiungere i più alti profitti possibili, o quanto effettivamente alti potrebbero essere i loro utili.
Bisogna infatti sempre tenere presente che un numero considerevole di aziende – presumibilmente più della metà – non genera alcun profitto economico e quindi non recupera i propri costi di capitale.
Nella personale esperienza di Simon e Fiorese, solo pochi imprenditori e manager danno la massima priorità al profitto. A dominare sono invece gli obiettivi di reddito, volume o quota di mercato. Ancora una volta a primeggiare, per orientamento al profitto, sono le aziende farmaceutiche e dell’healthcare in generale.
Sulla questione della discutibilità morale dei profitti gli autori sono perentori: dipende più da come vengono realizzati che dal loro ammontare. Il profitto è il prezzo della sopravvivenza. Se un’azienda non guadagna, prima o poi fallirà.
Simon e Fiorese sono dei tecnici del settori per cui il loro orientamento, anche di scrittura, è economico, non politico né sociale. Tuttavia hanno cercato di mantenere sempre una certa obiettività nell’esporre perlopiù fatti e dati piuttosto che opinioni personali. Molto utile, per i lettori generici, anche la parte iniziale del testo, dove vengono analizzati i vari aspetti della formazione del profitto aziendale e ne vengono indicati anche i copiosi fraintendimenti di senso che si diffondono lungo tutti i canali della comunicazione e dell’informazione.
Un libro la cui tesi si può anche tentare di confutare ma che rimane comunque molto interessante e veritiero.
Il libro
Hermann Simon, Francesco Fiorese, Profitto. Come massimizzarlo per un’impresa e una società davvero sostenibili, Guerini Next, Milano, 2022.
Gli autori
Hermann Simon: fondatori e Honorary Chairman di Simon-Kucher&Partners. Tra i maggiori management thinkers contemporanei, ha insegnato come accademico al MIT, Insead, Harvard, Stanford e London Business School.
Francesco Fiorese: partner dell’ufficio di Milano della Simon-Kucher&Partners. Autore di numerosi articoli e studi dedicati alla strategia e al marketing.
1Joris Luyendijk, Nuotare con gli squali. Il mio viaggio nel mondo dei banchieri, Einaudi, Torino, 2016
2New York University: http://pages.stern.nyu.edu/~adamodar/New_Home_Page/datafile/margin.html
3Jörg Renhardt, presidente del CdA di Novartis, Frankfuerten Allgemeine Zeitung, 17 ottobre 2018
4Rainer Zitelmann, The Rich in Public Opinion, Cato-Institute, Washington, 2020.
Il 13 settembre 2022, Mahsa Amini è stata arrestata a Teheran dalla polizia morale iraniana. Testimoni oculari hanno riferito di violenti percosse subite dalla donna durante il trasferimento nel centro di detenzione. Da dove, poi, sarebbe stata trasportata in ospedale già in stato di coma.
Le autorità hanno sempre negato qualsiasi illecito. Per la morte di Mahsa Amini e dei tanti altri giovani che hanno perso la vita durante o in concomitanza delle manifestazioni di protesta che da quel momento imperversano in Iran.
Si tratta delle manifestazioni più importanti dall’istituzione della Repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli scorsi anni per portata, significato e istanze.
Il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica è stato reso ancora più rigido, rispetto al passato, dal presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi. Un codice di abbigliamento anche per i ragazzi, che possono essere fermati se i capelli sono troppo lunghi e le magliette troppo attillate o con maniche troppo corte.
Ma Farian Sabahi precisa fin da subito che la causa del risentimento di tanti iraniani verso la Repubblica islamica non è l’obbligo del velo di per sé, ma l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente.
Per l’autrice, la violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto, che non ha altra scelta se non la repressione che finisce per allontanare sempre di più i giovani e il popolo in generale.
Le iraniane e gli iraniani scendono in strada, nonostante i rischi, e non solo affinché il velo sia una libera scelta. Contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione galoppante.
Nel settembre 2022 le proteste non hanno un leader e sono prive di coordinamento. E queste, per Sabahi, non sono debolezze ma punti di forza in quanto non essendoci una leadership non la si può decapitare per scoraggiare o sedare le rivolte.
Fin dall’inizio delle proteste, le autorità iraniane accusano l’Occidente di istigare il dissenso. Il presidente Ebrahim Raisi continua a biasimare «i nemici dell’Iran, colpevoli di fomentare le proteste per fermare il progresso del Paese».
Sulla lista nera degli ayatollah e dei pasdaram ci sono Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele: Paesi che hanno tutto l’interesse a un cambio di regime.
Ma, secondo l’acuta analisi di Sabahi, le proteste non andrebbero mai avanti da settimane se non fosse per una profonda insoddisfazione degli iraniani.
L’obiettivo di Raisi sembra essere quello di portare avanti l’adesione dell’Iran alla SCO (Shangai Cooperation Organization), di cui fanno parte Russia, India, Cina e i Paesi dell’Asia Centrale, per rompere l’isolamento dell’Iran dovuto alle sanzioni statunitensi. Un isolamento che ha generato, nel tempo, molta instabilità sociale e politica.
Il 15 novembre 2019, il governo di Hassan Rohani tagliò i sussidi al carburante. Questa decisione era motivata dal fatto che, a causa delle sanzioni internazionali e dell’embargo sul petrolio iraniano, tra il gennaio e l’agosto 2019 le esportazioni in Europa erano crollate del 94% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. In oltre cento città e cittadine iraniane scoppiarono le proteste. Dapprima per motivi economici poi, sottolinea Sabahi, sfociate in ribellione politica contro la leadership religiosa.
Un altro elemento rilevante sullo scenario internazionale, degno di nota per l’autrice, è «il sostegno dei vertici di Teheran alla Russia di Putin in occasione dell’aggressione all’Ucraina».
In più punti del libro, Farian Sabahi tiene a precisare o meglio a smentire quelli che sono i più diffusi luoghi comuni occidentali su Iran e iraniani. Per esempio, il continuare a considerarli arabi quando in realtà sono un popolo indoeuropeo. Oppure ancora nel voler vedere l’Iran come un paese chiuso, isolato e radicale. L’Iran è invece un paese multietnico, multiculturale e multireligioso. Da sempre al centro di tante vie carovaniere: la via della seta, la via delle spezie, la via delle pietre preziose.
Quello che oggi viene definito «mondo iranico» è uno spazio culturale, che va dall’est dell’Iraq all’India del nord, passando per l’Asia centrale. Un mondo difficile da cogliere e per certi versi paradossale.
Sabahi paragona l’Iran a un mosaico: di genti, etnie, lingue e religioni.
Teheran non è né Oriente né Occidente. È il punto d’incontro di civiltà contigue e indipendenti, ma è diversa. Per l’autrice ciò rappresenta l’emblema della schizofrenia culturale degli iraniani. Sospesi, tra Oriente e Occidente.
Teheran è una città con due anime. Una città in cui si vive sospesi. Tra modernità e tradizione. Cittadini di una Repubblica… islamica, di quella che dovrebbe essere una democrazia… religiosa, ma in realtà si tratta di un’oligarchia di ayatollah e pasdaram.
Il non riuscire a inquadrare perfettamente l’Iran a gli iraniani in Occidente dà, per certo, facile adito al proliferare di luoghi comuni e pregiudizi. Etichette facili e spesso errate utili a illudersi di comprendere ciò che in realtà non si capisce.
Situazione simile a quella descritta da Giulietto Chiesa con riguardo alla visione occidentale della Russia e dei russi e alla fobia che ne deriva.1
Farian Sabahi sottolinea il fatto che i quotidiani occidentali parlano spesso delle donne iraniane ma non sempre scrivono, per esempio, che a Teheran il livello di istruzione è tra i più alti dell’Asia. La scuola è gratuita e obbligatoria fino a quattordici anni. I bambini e le bambine vanno a scuola. Il lavoro minorile è vietato. All’università, due matricole su tre sono donne.
Nel 2006 il governo ha imposto le quote azzurre, per dare uguali opportunità ai ragazzi, nelle facoltà di Medicina, Odontoiatria e Farmacia.
Le autorità stanno cercando di imporre la segregazione dei sessi nelle università. Una sgradita novità perché, fin da quando è stata inaugurata l’università di Teheran nel 1937, potevano iscriversi tutti, uomini e donne, e sedersi vicini.
Da ottobre 2012 alle donne è vietato frequentare Ingegneria mineraria all’Università di Teheran. Scienze politiche ed Economia aziendale a Isfahan sono riservate ai maschi. Maschi che, però, a Isfahan, non possono più iscriversi a Storia, Linguistica, Letteratura, Sociologia e Filosofia.
I diritti delle donne sono una battaglia continua, ricorda Sabahi. Le donne iraniane hanno il diritto di voto dal 1963. Ma il diritto di voto non basta a fare una democrazia.
Barometro della democrazia sono, per l’autrice, i diritti delle donne, di coloro che hanno un diverso orientamento sessuale, delle minoranze religiose ed etniche. Una lotta continua.
Parole verissime, quelle di Farian Sabahi. A tutte le latitudini. Valide per tutti i Paesi. Anche per le democrazie occidentali. Perché anche in esse i diritti sono stati conquistati dopo anni di lotte e dure battaglie. A colpi di manifestazioni e proteste. Esattamente come accade in Iran. Come accaduto nei Paesi protagonisti delle recenti Primavere arabe.
I giovani, maschi o femmine che siano, manifestano, protestano, chiedono a gran voce i diritti che sono loro negati o ignorati. E ovunque hanno il diritto e il dovere di farlo. Come le minoranze. Come coloro che hanno un diverso orientamento sessuale. Perché i diritti sono realmente riconosciuti quando vi è la piena libertà di essere se stessi. Di seguire la propria indole e le proprie passioni. Di condurre un’esistenza dignitosa e soddisfacente.
Noi donne di Teheran di Farian Sabahi è una lettura molto interessante, sia nella parte iniziale, laddove l’autrice fa una ricostruzione storica del suo Paese, raccontando la vita reale delle donne e degli uomini di Teheran. Sia nella seconda parte del libro, dove vengono riportate le diverse interviste effettuate da Sabahi a Shirin Ebadi, Nobel per la Pace 2003, che della difesa dei diritti umani ha fatto la sua ragione di essere.
Un libro che svolge una funzione culturale fondamentale: smontare luoghi comuni e pregiudizi. Un lavoro egregio e sempre necessario.
Il libro
Farian Sabahi, Noi donne di Teheran, Jouvence, Mim Edizioni, 2022.
L’autrice
Farian Sabahi: insegna Middle East: History, Religion and Politics alla Bocconi di Milano. Editorialista per il Corriere della Sera, scrive di questioni islamiche per le pagine culturali del Sole24Ore. Autrice di diversi volumi sull’Iran e sullo Yemen.
La malattia mentale è una delle maggiori cause di sofferenza umana. Ma cosa provoca sentimenti intensi nella persona sana o malata? O, più direttamente, cosa sono in realtà quei sentimenti, in senso fisico, fino al livello delle cellule e delle loro connessioni?
Karl Deisseroth racconta casi clinici provenienti dalla sua esperienza di medico di psichiatria d’emergenza e li spiega alla luce di scoperte scientifiche ottenute da tecnologie inedite, che lui stesso a contribuito a sviluppare.
Unendo in un unico racconto le intuizioni provenienti dall’impiego delle tecnologie, le storie dei suoi pazienti e la storia evolutiva dell’umanità, Deisseroth dipana la grande avventura delle emozioni umane.
Proiezioni pone il lettore difronte all’essenziale bisogno di interrogarsi sulla condizione stessa di essere umano, sui sentimenti universali di perdita e dolore che scaturiscono dalle relazioni e sulle fratture profonde dei modi in cui possiamo percepire la realtà.
Per Deisseroth, quando si tratta di descrivere l’esperienza interiore umana, la medicina e la scienza da sole si rivelano inadeguate, e dunque egli racconta alcune delle storie non dal punto di vista di un medico o di uno scienziato ma dalla prospettiva di un paziente. Le tre prospettive insieme riescono a inquadrare lo spazio concettuale necessario.
Ognuna di queste prospettive agisce come una lente, focalizzata in modo diverso sul mistero della mente, fornendo una visione diversa della stessa scena.
Nella malattia psichiatrica, l’organo di per sé non è danneggiato in un modo che si possa vedere. Il problema nasce dal suo processo di comunicazione nascosto. Non c’è niente che possiamo misurare, se non con le parole: la comunicazione del paziente e quella dello psichiatra.
Tuttavia, sottolinea l’autore, per quanto complicato possa sembrare, il cervello umano è solo un ammasso di cellule come ogni altra parte del corpo umano.
Come è stato necessario per il recente avanzamento di altri campi della biologia (come la biologia dello sviluppo, l’immunologia, …), anche per le neuroscienze si sarebbero dovuti trovare nuovi metodi che consentissero una comprensione più profonda, a livello cellulare, del funzionamento di un cervello intatto.
Una delle prime tecnologie poste in essere nel laboratorio guidato da Deisseroth ha affrontato proprio questo limite: riuscire a causare o sopprimere una precisa attivazione in specifiche cellule. E si chiama la metodologia optogenetica.
La scienza, sottolinea nel testo Deisseroth, proprio come le canzoni e la letteratura, è una forma di comunicazione umana, anche se si differenzia per il fatto che inizialmente sembra una conversazione che riguarda soltanto quella parte di esseri umani addestrati ad apprezzarne il pieno significato. Significato che viene dagli esseri umani ai quali gli scienziati immaginano di rivolgersi, con la consapevolezza che queste conversazioni non saranno a senso unico.
Una comunicazione che, esattamente come accade per le canzoni e la letteratura, abbraccia anche un aspetto che alberga appena sotto la superficie: parte di ciò che possiamo essere è essere violenti verso l’altro.
Ci sono molti percorsi che portano alla violenza, con una complessità sociale che è fondamentale capire per Deisseroth. Allorquando la violenza è inflitta su esseri umani da esseri umani senza una ragione evidente, apparentemente come un atto fine a se stesso, non si può non porsi una domanda: siamo per natura buoni di cuore o peccatori originali?
In entrambi i casi l’autore ritiene necessario strutturare le società umane in modo che a nessun individuo venga mai data la totale fiducia né il pieno potere di agire, con controlli a tutti i livelli: personale, istituzionale e governativo.
Alla sociopatia, o all’aggressività, sono stati collegati dei geni specifici, tra cui quelli che codificano per le proteine che elaborano neurotrasmettitori come la serotonina nella sinapsi.
Le moderne neuroscienze hanno iniziato a individuare i circuiti neurali che sottostanno alla violenza diretta verso un altro membro della stessa specie. Il fatto quindi che gli individui possano essere istintivamente e potentemente alterati nella loro espressione della violenza solleva profonde questioni di filosofia morale.
I ricercatori hanno fatto ricorso alla precisione dell’optogenica per bersagliare soltanto le cellule della VMHVL. La stimolazione di queste cellule con la luce ha suscitato una serie frenetica di atti di aggressione violenta.
Ma, precisa Deisseroth, con un impulso elettrico la violenza non può solo essere generata ma anche soppressa.
E sono questi i punti da cui bisogna partire per indagare a fondo il fenomeno certo ma anche e soprattutto per sperare di creare una nuova società, con una cultura della nonviolenza.
Proiezioni è il primo libro di Karl Deisseroth per il grande pubblico. In diversi passaggi infatti può anche sembrare troppo “tecnico” per un lettore generalista ma è grande l’abilità dell’autore di rendere poi complessivamente il libro fruibile, comprensibile e molto interessante per il lettore. Nonché di notevole importanza, per la tematica trattata, di grande impatto e valenza.
Il libro
Karl Deisseroth, Proiezioni. Una storia delle emozioni umane, Bollati Boringhieri, Torino, 2022.
Traduzione di Giuliana Olivero dal titolo originale Projections. A Story of Human Emotions.
L’autore
Karl Deisseroth: professore di Bioingegneria e Psichiatria alla Stanford University, dove insegna e dirige il corso di laurea in Bioingegneria, e cura pazienti con disturbi dell’umore e autismo.
La solitudine è un’assenza di tempo. È questo il concetto alla base delle conferenze tenute tra il 1946 e il 1947 da Emmanuel Levinas, raccolte e ripubblicate lo scorso anno dalla casa editrice Mimesis. Conferenze che avevano lo scopo di mostrare che il tempo non fa parte del modo di essere di un soggetto isolato e solo, ma è la relazione stessa del soggetto con altri. Un invito a superare la definizione della solitudine per mezzo della socialità e la definizione della socialità per mezzo della solitudine.
Gli esseri possono scambiarsi tutto reciprocamente, fuorché l’esistere. In questo senso, essere significa isolarsi per il fatto di esistere.
L’esistere allora rifiuta ogni sorta di rapporto, ogni sorta di molteplicità. Non riguarda nessun altro all’infuori dell’esistente.
La solitudine non appare dunque, nell’analisi di Levinas, come l’isolamento di fatto, né come l’incomunicabilità di un contenuto di coscienza, ma come l’unità indissolubile fra l’esistente e l’atto del suo esistere.
La solitudine sta proprio nel fatto che ci sono esistenti.
Lo studio condotto da Levinas, ormai oltre settant’anni fa, sul tempo e l’Altro per ritrovare se stessi, esistenti fuori dal tempo, è sorprendentemente e straordinariamente attuale e utile.
Concepire una situazione in cui la solitudine è superata significa sondare il principio del legame che unisce l’esistente al suo esistere. Il soggetto è solo perché è uno. È necessario che ci sia una solitudine perché si dia la libertà del cambiamento, il dominio dell’esistente sull’esistere, cioè, in definitiva, perché ci sia l’esistente.
La solitudine non è dunque soltanto disperazione e abbandono, ma anche virilità e fierezza e sovranità. Caratteri questi che l’analisi esistenzialistica della solitudine, condotta esclusivamente in termini di disperazione, è riuscita a cancellare, facendo cadere nella dimenticanza tutti i motivi della letteratura e della psicologia romantica e byroniana che esaltano la solitudine fiera, aristocratica, geniale.
Ma l’identità non è soltanto l’atto di partire da sé, essa è anche un tornare a sé. L’esistente si occupa di sé. L’identità non è una relazione inoffensiva con sé, ma un asservimento a sé; è la necessità di occuparsi di sé.
La sua libertà è immediatamente limitata dalla responsabilità. È questo il grande paradosso: un essere libero è già non più libero perché è responsabile di se stesso. Una responsabilità enorme, che può anche diventare un peso schiacciante. E allora ci si chiede se “fuggire” alla solitudine, intesa come la cura del sé, non rappresenti anche un alleggerimento da questa responsabilità.
Un relazionarsi continuamente con il tempo, con l’Altro, per non prendersi cura di se stessi. Consciamente o inconsciamente. Un discorso che può anche essere ampliato all’intera società degli individui.
Diverse culture predispongono “vie di fuga” come soluzioni indispensabili e salutari all’effetto “gabbia” che ognuna di esse tende a produrre. La megacultura occidentale, identificabile come dell’Antropocene, non solo non ha previsto vie di fuga o alternative a se stessa, ma continua ad avere una visione distorta del mondo.
L’Ekyusi dei BaNande del Nord Kivu – Congo e lo Shabbath degli ebrei sono dei “traumi” che una cultura impone a se stessa, auto-sospensioni mediante le quali una cultura si costringe a “mettere tra parentesi” se stessa e le proprie pretese di dominio. Ciò che manca alla nostra società occidentale è esattamente l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita il male dell’Infinito, è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Le auto-sospensioni traumatiche introducono, nelle culture che le praticano, un forte senso del limite. Le obbligano a ritornare alla natura, fanno vedere loro la fine, fanno accettare l’arresto, fanno incorporare la morte. Ma non è una morte di desolazione, una desertificazione: la morte delle imprese culturali coincide con il riconoscimento dei diritti della natura.1
Nell’analisi della megacultura occidentale si nota il suo distaccamento dalla natura e la paura del suo arresto. Le chiusure o sospensioni ad essa ascrivibili sono periodi di riposo, ferie, vacanze, svago, divertimento… legate comunque all’aspetto economico della cultura occidentale. Invece ciò che viene auspicato è la ricerca di sospensioni o auto-sospensioni che non siano mere pause dalla routine, piuttosto ricerca e cura di se stessi e della natura.
Nella cultura dei nativi americani tutto è sacro, dal ramo dell’albero al sasso, all’acqua, alla Terra e ciò che in essa vive, ovvero tutto. Il rispetto verso se stessi, verso gli antenati, verso la vita passa inesorabilmente attraverso il rispetto per la Terra, per la Grande Madre, la Natura.
Lo scopo della meditazione zen è molto introspettivo: conoscersi di nuovo, riscoprire se stessi al netto degli schemi e delle convenzioni sociali.
L’azione della pratica della meditazione è riscontrabile su più piani:
Fisico
Emozionale
Psicologico
Studi e ricerche scientifiche hanno evidenziato effetti benefici oggettivi quali la diminuzione della frequenza del respiro e della pressione sanguigna, un aumento della funzionalità e flessibilità cognitiva, della stabilità emotiva, e un diffuso senso di benessere.2
Una ricerca introspettiva di se stessi, un voler cercare e trovare il proprio io, in una solitudine che esula dai rimandi negativi e riconduce direttamente all’analisi compiuta da Levinas.
Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?
Sono queste, o similari, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia. Un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi: dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, il lettore viene indotto a osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone la malinconia. La malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone.
La cura per la malinconia è raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.3
Levinas indicava con il termine ipostasi l’evento mediante il quale l’esistente acquisisce il suo esistere.
La solitudine non è un’inquietudine superiore che si manifesta a un essere quando tutti i suoi bisogni sono soddisfatti, ma la “compagna” della sua esistenza quotidiana, assillata dalla materia. E, nella misura in cui le cure materiali scaturiscono dalla stessa ipostasi ed esprimono proprio l’evento della nostra libertà di esistenti, la vita quotidiana, lungi dall’apparire come un tradimento nei confronti del nostro destino metafisico, nasce dalla nostra solitudine, costituisce il compimento stesso della solitudine e il tentativo infinitamente grave di sopperire alla sua miseria profonda.
In sintesi, la vita quotidiana è una mera preoccupazione della salvezza.
Esistere nel mondo significa agire, ma agire in modo tale che in fin dei conti l’azione ha per oggetto la nostra stessa esistenza. Mentre nell’identità pura e semplice dell’ipostasi il soggetto s’invischia in se stesso, nel mondo, invece del ritorno a sé, c’è il rapporto con tutto ciò che è necessario per essere.
Nel relazionarsi con il mondo e con gli altri poi l’autore ha indicato una situazione particolare, a sé stante: la paternità. Una relazione con un estraneo che, pur essendo altri, è me, ovvero la relazione dell’io con un me stesso, che è tuttavia estraneo a me in quanto io non ho mio figlio, io sono in qualche modo mio figlio.
Nella postfazione al libro, Francesca Nodari indica le quattro conferenze di Levinas come una sorta di provocazione e insieme di eventuale risposta alle istanze del presente.
Un presente disorientato, liquido, dominato dal potere tecnico-scientifico, abitato da un crescente logorio del simbolico che rischia di mettere in scacco la possibilità stessa di condividere la condizione umana, teso tra rapporti di superficie e relazioni pure, dominato da un senso diffuso di incertezza e di paura, dal pericoloso virus dell’«adiaforizzazione»4 e insieme attraversato da una vera e propria crisi dell’umanità stessa dell’uomo, che ha trovato il suo acme nell’irruzione di una pandemia planetaria.
Ed è possibile individuare proprio in questo isolamento esperito a livello mondiale il punto di partenza per mostrare l’attualità stringente delle riflessioni levinasiane.
Il lockdown, questa sospensione tanto inattesa quanto destabilizzante, ha paurosamente arrestato gli ingranaggi di una poderosa macchina economica che siamo abituati a pensare non solo come inarrestabile ma anche come universale, come un qualcosa di sacro e di intoccabile.
Virus e confinamenti hanno una lunga storia nell’umanità, anche recente. Ma il coronavirus ha fatto irruzione in un mondo che si riteneva immune da questo tipo di attacchi. Una cultura che ha sempre decantato le infinite meraviglie di un mondo aperto e globalizzato.
Il lockdown ci ha fatto riflettere sul fatto che una società immaginata come un insieme di individui isolati, ciascuno dei quali alla ricerca spasmodica del proprio interesse personale, è un’aberrazione e non un ideale a cui tendere.5
Seguendo le riflessioni di Emmanuel Levinas però si è indotti anche a domandarsi quale mondo possano mai originare degli individui incapaci di prendersi cura di se stessi. In fondo stare bene con se stessi dovrebbe essere il punto di partenza per costruire relazioni con l’Altro e con l’Alterità.
Il tempo e l’Altro di Emmanuel Levinas è un piccolo libro che racchiude in sé un grande sapere.
Il libro
Emmanuel Levinas, Il tempo e l’Altro, Mimesis Edizioni (Milano-Udine), 2021.
Titolo originale: Le temps et l’Autre.
Traduzione e Note di Francesco Paolo Ciglia.
Nuova edizione critica di Francesca Nodari.
L’autore
Emmanuel Levinas: (Kansas, 1906 – Parigi, 1995) è tra i più influenti pensatori del Novecento. Docente alla Scuola Normale Israelita Orientale di Parigi e alle Università di Poitiers, di Paris-Nanterre e alla Sorbona, in cui resta come professore emerito fino al 1979.
1M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, antropocene, rivoluzione, Utet, Milano, 2020.
3R. Burton, L’anatomia della malinconia, Giunti Editore S.p.A./Bompiani, Firenze/Milano, prima edizione settembre 2020.
4Nell’accezione che vi ha dato Zygmunt Bauman ne La società dell’incertezza, ovvero la tendenza a dispensare una buona parte di azioni umane dal giudizio morale e a volte, addirittura, dal significato morale.
Nel XXI secolo l’umanità si è trovata a dover fronteggiare delle sfide epocali, tra le quali spiccano i gravi danni arrecati alla Natura e quella radicale transizione verso una «mutazione antropologica» chiamata rivoluzione digitale. Tali sfide hanno imposto un drastico cambiamento nel modo di percepire la cultura quale vera fonte di progresso. Questa deve infatti essere intesa come una «cultura della complessità», fondata su una sintesi tra approccio umanistico e approccio scientifico e posta al servizio di un umanesimo planetario che, nell’ottica della solidarietà e della sostenibilità, consenta di capire che «noi» precede «io».
Raramente si trova una sintesi nella quarta di copertina che, in poche righe, riesca a racchiudere perfettamente il contenuto e il senso di un libro intero. Il passo del libro qui analizzato ne è un esempio egregio.
Vianello analizza, nella parte iniziale, quella che è stata l’evoluzione dell’uomo dal punto di vista sociale, soffermandosi sul come le migrazioni e le mescolanze abbiamo contribuito in maniera incisiva e determinante nella realizzazione di ciò che è stato il “cammino dell’umanità”.
Le grandi migrazioni e le mescolanze tra popoli divergenti sono state la forza cruciale nella preistoria umana. Perciò le ideologie che cercano di tornare a una mitica purezza sono in aperta contraddizione con la vera scienza.1
Parole che sono anche un invito alla riflessione sulla grande unità della specie umana, pur nella sua diversità genetica e culturale, e a fare piazza pulita dei pregiudizi che ancora albergano in molte menti, perché “le civiltà fioriscono quando si mescolano, deperiscono quando si isolano”.2
L’umanità per sopravvivere ha sempre ricavato dall’ambiente energia e varie materie prime. Ma l’esponenziale incremento nell’uso e nello sfruttamento dei frutti della Natura ha finito con il condizionare l’intero ecosistema. L’Antropocene è una narrazione che descrive l’impatto che le attività umane hanno avuto sul pianeta Terra.
Ci manca un riferimento realistico, ma tuttavia proiettato nel futuro, un obiettivo che possa guidarci verso una condizione di equilibrio: in assenza di tale obiettivo la nostra azione diventa miope, e inevitabilmente produce quella crescita esponenziale che è destinata a sfociare nella rottura dei limiti naturali e nella catastrofe finale.3
Questa grave emergenza non è solo un evento dei nostri giorni. Scandagliando il «tempo profondo» della storia della Terra, come ha fatto Vianello, si scopre che il riscaldamento climatico si è verificato più volte e che è stato responsabile di immani catastrofi. Più volte della scomparsa di molti degli esseri viventi che abitavano il pianeta.
La domanda allora è questa: come possono l’intelligenza, la conoscenza, la cultura, la scienza – di cui l’uomo tanto si vanta di esserne promotore e unico artefice tra gli esseri viventi – essere di aiuto per evitare o almeno limitare la prossima catastrofe?
Gli autori si mostrano fiduciosi che sarà proprio il connubio tra cultura umanistica e scienza a trovare le soluzioni ormai divenute improcrastinabili.
Ma c’è un altro aspetto spesso sottovalutato e che Marzano tratta nella seconda parte del libro: la sfida delle tecnologie digitali.
Recentemente alcuni autori hanno suggerito di sostituire il termine Antropocene con altri che meglio caratterizzerebbero i cambiamenti in corso.4
L’alternativa più condivisa è «Tecnocene»: l’Antropocene sarebbe infatti un sottoinsieme del Tecnocene, dal momento che in futuro gli esseri umani potrebbero estinguersi ma non le macchine da essi create. La tecnologia e il mercato stanno trasformando i nostri corpi e le nostre istituzioni, sottolineando come negli ultimi tre o quattro decenni le «direzioni di vita» (life trajectories) della nostra specie sono stati trasformati da due fattori concorrenti, spesso interdipendenti, la «tecnificazione» (technification) e la «commercializzazione» (marketization) di fasi cruciali della nostra esistenza e di molte dimensioni peculiari dell’uomo.5
Ma davvero la tecnologia è oggi così sconvolgente rispetto al passato? L’uomo si sta davvero avvicinando a un punto di non ritorno in cui gli sarà impossibile controllare lo sviluppo tecnologico?
Buona parte dello sconvolgimento provocato dalla Rivoluzione industriale fu dovuta all’automazione della forza muscolare. La Rivoluzione digitale invece sta automatizzando il lavoro mentale umano. I progressi nell’intelligenza artificiale paiono condurre a una progressiva polverizzazione dell’agentività umana. Sembra proprio che dovremo affrontare un futuro nel quale il controllo sulle società e sulle vite umane sarà sempre più e inesorabilmente ceduto alle tecnologie digitali “con poteri decisionali palesemente superiori”.
Gli uomini, in generale, hanno la tendenza a supporre che le cose continueranno esattamente come adesso. Si tende a sottovalutare la minaccia all’agentività umana –human agency – da parte delle macchine. Questo accade anche perché molte delle odierne intelligenze artificiali non sembrano rappresentare una reale minaccia per il nostro posto di lavoro. Così facendo si ignora però il rapido ritmo di miglioramento che esse hanno in assoluto e in confronto a quello umano. Gli uomini manifestano quindi un pregiudizio verso le capacità delle macchine future e, parallelamente, una visione alterata delle reali abilità umane. Questo biasa favore degli esseri umani é tanto insostenibile quanto il geocentrismo precopernicano.6
È ormai evidente come l’ultima rivoluzione industriale, ovvero la quarta, iniziata con l’avvento dell’Internet delle coseverso la fine degli anni Ottanta, abbia provocato e stia provocando significative trasformazioni sociali. Si tratta, ricorda Marzano, di cambiamenti così veloci e globali che ne rendono gli effetti imprevedibili.
Ray Kurzweil indica il 2045 come l’anno in cui si raggiungerà la singolarità e l’Intelligenza Artificiale supererà gli esseri umani, i quali cesseranno di essere le forme più intelligenti sulla Terra.
Quella attuale è la prima cultura a essere letteralmente «posseduta dalla tecnologia» che ha generato l’idea di vivere un’epoca dove tutto è possibile, e dove ciò che appare impossibile in realtà viene interpretato come non ancora possibile. Tutto ciò che la tecnologia rende possibile si trasforma, nelle nostre società e nelle nostre vite, rapidamente in qualcosa di obbligatorio e non perché ci sia una costrizione fisica ma in quanto questi «possibili» che in linea di principio ci facilitano la vita, scolpiscono il mondo secondo modi e caratteristiche propri.
Il cervello umano viene di continuo equiparato a una «Macchina di Turing», capace di elaborare una quantità enorme di dati e di “trarre conclusioni” a partire dall’utilizzazione degli algoritmi e del programma incorporato, ovvero il software. Ma il cervello umano è altro. Innanzitutto questo è legato e strutturato al corpo che lo contiene e la deterritorializzazione imposta dalla digitalizzazione sta creando una vera e propria distanza fra l’uomo e il mondo, e fra l’uomo e se stesso. Una “deterritorializzazione” che si declina in una «alterazione del cervello e del biologico organico in generale.
L’eccesso di informazione codificata priva di esperienza diretta trasforma gradualmente il cervello in una lastra di gestione di informazioni ma si tratta di informazioni che non modellano il cervello perché non passano per il corpo. In altre parole: l’interscambio con le macchine “macchinizza” l’uomo.7
Viene definito Innovazione Sociale il processo generato dall’applicazione di nuove idee, metodi e processi ai bisogni sociali. Per analogia, l’Innovazione Sociale Digitale (ISD) può essere definita come la capacità di affrontare in modo innovativo le sfide sociali emergenti sfruttando la tecnologia digitale. Negli ultimi anni, l’ISD è cresciuta notevolmente, attirando l’attenzione non solo della società civile, ma anche di politici e organizzazioni pubbliche.8
L’ISD è una delle risposte positive alla quarta rivoluzione industriale. Si pensi ad esempio alla «teleriabilitazione sociale» e al supporto da remoto dei soggetti fragili. Ma bisogna anche analizzare a fondo i modi in cui le nuove tecnologie stanno trasformando il capitalismo.
L’informatica e la robotica stanno rendendo sempre più ridondanti gli attuali posti di lavoro, senza produrne di nuovi, come era avvenuto invece nelle precedenti ondate di automazione. Per contrastare questa situazione, sarebbe opportuno che le forze politiche, principalmente della sinistra, si confrontino e tentino di articolare un’azione comune su quattro questioni fondamentali:
L’automazione completa finalizzata a eliminare ogni forma di lavoro automatizzabile.
La riduzione della settimana lavorativa.
La distribuzione del reddito di base.
Il venir meno dell’etica del lavoro.
La battaglia politica per la piena occupazione dovrebbe essere sostituita dalla battaglia per la piena disoccupazione.9
Si tratta per certo di un paradosso e, al contempo, di una provocazione nei confronti di politiche che privilegiano la difesa degli occupati e poco si preoccupano di coloro che sono esclusi dal mercato del lavoro, in particolare i giovani con bassa qualificazione e le persone che perdono il lavoro ma sono troppo giovani per andare in pensione.
L’obiettivo, ovviamente, è quello di puntare a una più equa ridistribuzione del reddito e a una nuova concezione del lavoro.
Ciò che manca alla nostra civiltà, a questa megacultura occidentale identificabile come dell’Antropocene, è l’idea del limite, del proprio limite. La nostra cultura, così piena di lumi forniti dalla scienza, è priva dell’illuminazione che proviene dalla pratica dell’auto-sospensione, dalla pratica del suo arresto. Questa brama, anche definita «il male dell’infinito» è la fonte dei problemi che affliggono la società moderna: sregolata, anomica, patogena. Siamo talmente intrappolati nelle maglie fitte di questa ipercultura e, come afferma Fred Vargas, non facciamo altro che avanzare alla cieca, inconsapevoli e sprovveduti. Abbiamo costruito un sistema fondato sull’oggi. E allora bisogna chiedersi quale domani potrà mai esserci per una società che non pensa al futuro.10
La tecnologia crea le strutture dell’economia e l’economia media la creazione di nuove tecnologie, e quindi la propria creazione. Ci rammenta De Toni, nel capitolo terzo del libro, che nel breve termine non è visibile questo circolo di tecnologia creato dall’economia che a sua volta crea la tecnologia. L’economia appare fissa quando in realtà non lo è, osservandola in un lasso di tempo sufficientemente lungo.
Abbiamo profondamente alterato il metabolismo del super-organismo biosfera e la principale manifestazione di questa alterazione è la progressiva perdita di biodiversità che è il migliore indicatore della salute degli ecosistemi.11
La minaccia o addirittura l’estinzione di una specie vegetale o animale viene sempre più guardata come ormai un qualcosa di ineluttabile e, tutto sommato, non poi così grave come viene invece segnalato da anni. Addirittura anche l’estinzione di etnie o tribù di esseri umani è una notizia appresa con un certo distacco o proprio con disinteresse. Con l’idea di fondo, magari, che tutte queste specie a noi così diverse, forse, non avevano poi così tanto senso di esistere, canalizzati come siamo ormai in questo flusso di idee e azioni per cui dobbiamo abitare tutti in luoghi simili, cibarci di alimenti standardizzati, divertirci secondo meccanismi consolidati e via discorrendo.
Quanto valore viene realmente attribuito alla biodiversità del pianeta? E a quella umana?
Al momento, sottolinea De Toni, la situazione è quella di una proliferazione di sistemi particolari e una formazione incerta e contraddittoria di un megasistema generale da cui tutti i sistemi particolari pensano di poter attingere senza prendersene la responsabilità.
I vantaggi culturali, sociali, politici, economico-finanziari e soprattutto militari delle società occidentali erano figli del loro privilegio planetario. Oggi questo vantaggio tende ad annullarsi o a relativizzarsi.12
All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa «nuova epoca storica».13
Viene da chiedersi perché e, soprattutto, con quali conseguenze?
Se nel XIX secolo si produsse la Grande divergenza tra Occidente e resto del mondo, la fase nella quale siamo per ora agli inizi, dovrebbe essere pensata, per De Toni, in termini di Grande convergenza.
Sarebbero infatti da imputarsi alla reazione o al mancato adattamento dell’Occidente alle mutate condizioni:
L’attuale disordine economico.
La sclerosi ideologica che accompagna le politiche monetario-finanziarie.
L’indifferenza alla fenomenologia della sempre più vasta crisi ecologica.
Il riproporsi di ipotesi di guerre non più locali.
Le frizioni geopolitiche di grandi dimensioni.
La crisi delle leadership.
Una certa deriva tecno-scientista che si illude di domare la complessità (Natura) piuttosto che adattarsi.
La polarizzazione sociale, ovvero la comparsa di indici di diseguaglianza di altri tempi.
La spinta a semplificare una democrazia ritenuta sempre più un ingombro.
In Europa in particolare poi esiste un dramma di smarrimento specifico poiché sembriamo non sapere più neanche in che forma dovremmo organizzare le nostre società: tornare agli Stati-nazione nati sei secoli fa (Brexit docet) o passare a entità di livello superiore. Fermo restando però, continua De Toni, che non si ha la più pallida idea di come fare per realizzare un’impresa così complessa.
Il vero problema risulta quindi l’essere in uno sfasamento temporale: continuiamo a pensare secondo modi derivati da condizioni precedenti e differenti. Da qui la necessità di far corrispondere un nuovo pensiero complesso alla nuova complessità del mondo. Pensare un nuovo modo di stare al mondo.
Il libro di De Toni, Marzano e Vianello è sicuramente molto interessante, in ogni sua parte. Nel suo saper essere uno sguardo rivolto al passato, per meglio comprendere come si è giunti a questo punto. Come anche il suo saper analizzare e descrivere il presente nell’ottica del futuro, incerto, verso cui ci proiettano indecisione, ritardi, sbagli e manchevolezze di una ipercultura i cui limiti non si possono nascondere oltre. Meglio affrontarli quindi, sfruttando al meglio le conoscenze e il Sapere che proprio essa ha saputo accumulare. Intraprendendo quindi la via che conduce verso un «umanesimo digitale», il cui fondamento risiede nella consapevolezza che tutte le tecnologie, pur nelle entusiastiche prospettive indicate, hanno dei limiti e, soprattutto, non devono essere utilizzate per alimentare la deleteria volontà di potenza.14
Antropocene e le sfide del XXI secolo è un libro che si inserisce a pieno titolo come ottimo tra le pubblicazioni che, coraggiosamente, affrontano l’argomento e le sue numerose problematiche.
Il libro
Alberto Felice De Toni, Gilberto Marzano, Angelo Vianello, Antropocene e le sfide del XXI secolo. Per una società solidale e sostenibile, Meltemi Editore, Milano, 2022.
Gli autori
Alberto Felice De Toni: professore di Ingegneria Economico-Gestionale presso l’Università degli Studi di Udine e direttore scientifico di CUOA Business School.
Gilberto Marzano: direttore del Laboratory of Pedagogical Technologies presso la Rezeke Academy of Technologies (Lettonia), professore presso la Janusz Korczak Pedagogical University di Varsavia (Polonia) e presidente dell’Ecoistituto FVG.
Angelo Vianello: professore emerito di Biochimica Vegetale all’Università degli Studi di Udine.
1D. Reich, Chi siamo e come siamo arrivati qui. Il DNA antico e la nuova scienza del passato dell’umanità, tr. it. di G. Carlotti, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019.
2C. Rovelli, Che cos’è la scienza. La rivoluzione di Anassimandro, Mondadori, Milano, 2011.
3D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens, III, I limiti dello sviluppo, tr. it. Di M. Filippo, Mondadori, Milano, 1972.
4J. Zalasiewict et. al., When did the Anthropocene begin? A mid-twentieth century boundary level is stratigraphically optinal, in «Quaternary International», n° 383, 2015.
5H. Martens, The Technocene: Reflections on Bodies, Minds and Markets, Anthem Press, London, 2018.
6N. Agar, Non essere una macchina. Come restare umani nell’Era digitale, Luiss University Press, Roma, 2020.
7M. Benasayag, Il cervello aumentato l’uomo diminuito, Erickson, Trento, 2016.
8M. Stokes, P. Boeck, T. Baker, What next for digital social innovation, Nesta, UK, 2017.
9N. Srnicek, A. Williams, The Future isn’t Working, in «Juncture» n° 22 (3), 2015.
10M. Aime, A. Favole, F. Remotti, Il mondo che avrete. Virus, Antropocene, Rivoluzione, Utet, Milano, 2020.
11F.M. Butera, Affrontare la complessità. Per governare la transizione ecologica, Edizioni ambiente, San Giuliano Milanese, 2021.
12P. Fagan, Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump, Fazi, Roma, 2017.
13K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.
14J.N. Rumelin, N. Weidenfeld, Umanesimo digitale. Un’etica per l’epoca dell’intelligenza artificiale, Franco Angeli, Milano, 2019.
Cosa ci dice del capitalismo il fatto che abbiamo dei soldi e vogliamo spenderli ma non riusciamo a trovare nulla che valga la pena comprare?
Eula Biss parte dalla narrazione di semplici e ordinari episodi di vita vissuta per elaborare considerazioni di carattere più generale. In procinto di arredare la loro nuova casa, l’autrice e il marito sono in difficoltà perché, pur avendo disponibilità economica, non riescono a trovare oggetti e mobili di qualità. Tutto sembra loro industriale, ordinario, oggettistica in serie ed estremamente commerciale. Nulla su cui valga davvero la pena investire.
Il consumismo, che va a braccetto con il capitalismo, ha trasformato le produzioni e fors’anche le persone, che sembrano divenute ormai solo dei consumatori.
Le cose che abbiamo è uno studio sugli esseri umani come creature economiche, un saggio letterario e politico in cui torna centrale il tema, caro a Biss, dell’essere comunità.
Per Lewis Hyde, il desiderio di consumare è una forma di avidità. Ma i beni di consumo lusingano soltanto questa avidità, non la appagano. Il consumatore di merci è invitato a un pranzo privo di passione, a una consumazione che non conduce né alla sazietà né all’entusiasmo.
Gli ex proprietari della casa acquistata da Biss arrotondavano affittando la proprietà come set pubblicitario. Bisognava solo lasciare l’abitazione per tre giorni e si incassavano 8.000 dollari. La pubblicità è per la Walmart, la corporation che ha fatto la fortuna di quattro delle venti persone più ricche d’America. Eula Biss si meraviglia della proposta, perché loro non posseggono nulla della Walmart ma ciò non ha importanza. I mobili di Walmart saranno trasportati in casa. Le tende Walmart saranno sistemate alle finestre. Delle stampe Walmart appese alle pareti in cornici Walmart. Uno scenografo bianco e un regista bianco si metteranno al lavoro per creare un autentico interno afroamericano. Lo spot, infatti, prevede una nonna afroamericana che prepara un tacchino per le feste, in un classico bungalow di Chicago.
Nell’abitazione accanto alla casa di Biss e ad essa perfettamente uguale, vive una vera nonna afroamericana. Ma sono Eula Biss e suo marito ad essere pagati per far riarredare la loro casa in modo che somigli il più realisticamente possibile a quella reale ma ignorata dei vicini afroamericani.
Secondo Elizabeth Chin, le persone sono alienate in modo così totale e potente da essersi ridotte a oggetti; nel frattempo gli oggetti che producono e quelli che comprano hanno acquisito tutta la vitalità che le persone hanno perduto. Una delle cose principali che ha osservato Marx riguardo al capitalismo, è che induce le persone ad avere relazioni con gli oggetti anziché con le altre persone.
Solo così si può spiegare quanto accade nell’abitazione di Biss, trasformata in un set pubblicitario grazie a oggetti e attori, allo scopo di invogliare all’acquisto e al consumo di oggetti, ignorando le persone e considerandole solo delle creature economiche.
Consumare deriva dal latino consumere, che significa impossessarsi e divorare. Una persona può consumare del cibo o essere consumata dalla rabbia. Nel suo utilizzo più antico, quindi, il consumo implicava sempre distruzione.
Quello che viene distrutto quando pensiamo a noi stessi come meri consumatori, suggerisce David Graeber, è la possibilità di fare qualcosa di produttivo al di fuori del lavoro. Il consumo era già indicato come l’opposto della produzione nell’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Adam Smith.
I Greci non attribuivano al lavoro il valore che gli diamo noi oggi. Il lavoro era per gli schiavi e le donne. Tenevano invece in grande considerazione lo studio. Il tempo libero era quello trascorso a riflettere e interrogarsi. Essere a proprio agio, condurre una vita di studio e contemplazione, significava godere di una vera libertà. Oggi il tempo libero è quello da dedicare al riposo o al divertimento, allo svago. E, in linea di massima, non gli viene riconosciuto molto valore perché non gliene si dà dal punto di vista economico.
Si pensava che la modernizzazione avrebbe riempito il mondo di posti di lavoro. Impieghi standard con salari fissi e benefit. Ma questi lavori ormai sono rarissimi, la gran parte delle persone vive con entrate molto più irregolari.
Eula Biss si chiede se sia la precarietà la condizione caratterizzante i tempi di oggi, ovvero se la nostra epoca è matura per percepire la precarietà.
Interrogativo difficile perché la precarietà è innegabilmente la condizione che rende tutti e ognuno vulnerabile.
Oggi chi può diventare precario? Tutti. Chiunque.
La malattia o la disabilità possono costringere una persona a entrare nel precariato, così come il divorzio, la guerra o un disastro naturale.
Con un esercito di lavoratori instabili, con impieghi incerti, con salari non adeguati, con scarse o inesistenti reti di protezione sociale uno Stato e i suoi cittadini quali certezze e garanzie offrono o hanno circa il proprio futuro?
Davvero tutto questo non interessa fino a quando si riesce a spremere comunque le persone nel loro essere creature economiche che continuano, nonostante tutto, a consumare beni e servizi?
La nostra interpretazione del valore, osserva Mariana Mazzucato, è circolare: i redditi sono giustificati dalla produzione di qualcosa che è di valore. Ma come misuriamo il valore? In base al fatto che produce reddito. E quindi il concetto di reddito non guadagnato scompare. Se riuscissimo a pensare al valore in modo diverso, potremmo modificare il nostro sistema economico in modo che una cosa che ha valore per tutta la società, come il benessere dei nostri figli o la tutela dell’ambiente, avrebbe anche un valore economico.
L’investimento è essenziale, ma bisogna domandarsi su cosa si vuol investire e soprattutto per ottenere cosa.
La lettura del libro di Eula Biss è strana, molto strana. In molti passaggi si ha la percezione di “entrare” nella vita dell’autrice, nella sua intimità familiare e ciò “imbarazza” il lettore. Nel senso che egli non vorrebbe mai ritrovarsi a fare i conti in tasca a Biss o giudicare le sue personali riflessioni. Ma poi, andando avanti con la lettura, si realizza che lo scopo del libro non è indagare la vita dell’autrice o le sue scelte, bensì riflettere sulla società in generale, sulla comunità che va a comporre quella società, sulle scelte economiche e politiche che incidono in maniera diretta e indiretta sulla comunità e sulla società. Ed ecco allora che appare in tutto il suo splendore la grandezza di un libro qual è Le cose che abbiamo.
Il libro
Eula Biss, Le cose che abbiamo. Essere e avere alla fine del capitalismo, Luiss University Press, Roma, 2022.
Traduzione di Chiara Veltri.
Titolo originale: Having and being had, Riverhead Books, Penguin Random House LLC, Stati Uniti d’America, 2020.
L’autrice
Eula Biss: scrittrice americana già docente alla Northwestern University.
L’invasione russa ha sconvolto le reti dell’energia globale, mutato gli equilibri del mondo e accelerato il declino europeo, accrescendo l’instabilità dell’unipolarismo americano opposto alla Cina.
Con la guerra in Ucraina non viene sancito soltanto il ritorno della storia in Europa, ma diventano evidenti i movimenti delle faglie geopolitiche di un mondo ormai in frantumi.
Cosa accadrà adesso?
Per Giulio Sapelli, il dramma della guerra di aggressione russa all’Ucraina non è risolvibile se non trasformando il conflitto militare in competizione economica, come di fatto sta in parte accadendo, cioè mettendo in discussione il dominio del dollaro e indebolendo man mano le ideologie di autosufficienza energetica sia americane che europee.
Insomma, un dramma che prima o poi vedrà tacere le armi, ma che inaugurerà una guerra economica di lunga durata di cui sarà difficile prevedere l’esito, se non si ritorna a una volontà comune di perseguire l’equilibrio anziché il dominio.
Lucio Caracciolo, nella prefazione al libro, afferma di essere pressoché certo che se la guerra non dilagherà oltre i confini dell’ex Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, fra qualche mese, molti di quelli che a gran voce hanno condannato l’aggressione russa a Kiev e invocato più armi per la resistenza contro l’invasore converranno che quel capitolo doloroso dev’essere chiuso nell’unico modo che a loro parrà possibile: voltandosi dall’altra parte.
Ma per la guerra economica ipotizzata da Sapelli faranno o farebbero altrettanto?
Caracciolo sottolinea come, per Sapelli, siamo in un mondo pre-vestfaliano. Torniamo alle guerre di religione o delle ideologie. Contesti nei quali i dati di realtà e la ragione pratica si sfibrano, sopraffatti dalla violenza fisica ed emotiva. I cosiddetti mezzi sociali di comunicazione – trionfo della carenza di socialità – invitano alla fratturazione della ragione e alla guerra come «igiene del mondo». Magari in nome dei diritti umani.
Sapelli legge l’aggressione russa all’Ucraina nel contesto di un sistema internazionale saltato. Irrecuperabile. Perché quando una grande potenza come la Russia decide di opporre la forza dei suoi armamenti all’incedere verso l’emarginazione, tutto diventa possibile. Purtroppo. Anche la guerra mondiale.
La cifra delle competizioni geopolitiche ed economiche attuali è l’impiego della forza non solo da parte dei potenti a danno dei più deboli ma fra le maggiori potenze.
La novità della guerra in Ucraina è qui. Perché di guerra indiretta fra Russia e Stati Uniti si tratta, con la Cina a studiarne preoccupata conseguenze e ripercussioni che potrebbero interrompere il ciclo di sviluppo già incrinato.
Ristabilire un equilibrio di potenza, quindi un ordine internazionale, sarà operazione di lunga lena e purtroppo costosa, non solo in senso economico. E fa benissimo Caracciolo a ricordare anche che a questa deviazione della storia noi italiani, da tempo beatamente accomodati nel nostro fortunatissimo mondo post-storico, siamo impreparati. Ci mancano i mezzi per capire, prima ancora che per agire.
La pressione della Russia verso il Mediterraneo minaccia direttamente il nostro Paese.
Cosa accadrebbe se la guerra portasse alla chiusura del canale di Suez?
Preoccupazioni legittime che valgono, in maniera diversa, per tutti i Paesi d’Europa. La Germania, per esempio, afferma la sua riscoperta della potenza, per la quale le manca però, almeno finora, il requisito primario: il pensiero strategico. Il suo rapporto quasi parentale con la Russia «la costringe a contorcimenti ed errabonde escursioni dall’europeisticamente corretto che ci ricordano la sua strutturale incapacità di essere egemone».
In Russia, dopo gli anni eltsiniani, si è assistito alla rinascita prepotente di un nuovo nazionalismo «grande russo», fondata su un pensiero «nazional-patriottico» e come reazione alla depredazione delle risorse materiali e spirituali da parte «degli spiriti animali del liberalismo capitalistico». Il pensiero «nazional-patriottico», in risposta a questa «tragedia ordoliberista», ha trovato il terreno di coltura propizio.
I suoi ispiratori sono pensatori euroasiatici come Aleksandr Dugin, per il quale la specificità “grande russa” oppone ontologicamente la Russia all’Occidente e rivendica l’Ucraina come sua fonte primigenia.
I «nazional-bolscevichi» alla Eduard Limonov e i «nuovi conservatori» alla Vladislau Surkou teorizzavano e teorizzano la “verticalità del potere”, che si fonda sulla fedeltà alle radici religiose ortodosse e sulla rivendicata potenza della forza delle armi nucleari, ovvero i pilastri di una nuova «Russia Unita» che si avvia a mutare totalmente il volto delle relazioni internazionali.
Per contro, ricorda Sapelli, purtroppo, la linea di condotta delle potenze occidentali, in primis quella degli Usa e della Nato, favorì e favorisce la rinascita di queste tendenze distruttrici. E ciò per l’effetto controintuitivo di quella politica di espansione a est della Nato, che non poteva non provocare il rafforzamento delle tendenze aggressive imperialistiche «grandi russe».
Putin vuole la neutralizzazione dell’Ucraina e la non contendibilità del Mar Nero. Ha quindi bisogno di controllare il Donbass, Odessa e la Crimea.
L’invasione dell’Ucraina non è una mossa avventata: è coerente con una strategia e, per l’autore, se si vuole percorrere la via delle trattative, l’obiettivo della neutralità di Kiev dovrà essergli concesso.
Il rispetto dell’Accordo di Minsk del 2014, che riguardava il cessate il fuoco, il disarmo delle bande armate e la ripresa dei negoziati, sarebbe stato il punto archetipale per riprendere ogni serio rapporto con la Russia.
Dalla fine dell’Unione Sovietica in poi l’Europa ha cercato invece di sradicare le radici europee della Russia, «calpestando accordi, lanciando provocazioni e alimentando il timore dell’isolamento».
Putin ha allora trasformato il conflitto con l’Europa e la Nato sull’Ucraina e la Crimea e sull’Artico in una partita di equilibri globali stando attento al ruolo euroasiatico della Russia nel lungo periodo e, soprattutto, in relazione con il gioco di potenza globale dove l’Europa è solo uno degli scenari.
Inoltre Sapelli ritiene le sanzioni economiche una mossa sbagliata. Per il semplice fatto che, come la storia insegna, producono l’effetto opposto di quello prefisso, ossia rafforzano i regimi invece di indebolirli. Inoltre è innegabile che le sanzioni danneggiano più l’Europa della Russia.
Ogni giorno l’Europa paga a Mosca centinaia e centinaia di milioni di dollari per comprare gas e petrolio. I paesi europei non possono rinunciare alle forniture russe.
Del resto, i rapporti energetici tra Russia e Ucraina sono continuati anche durante il conflitto. Perché devono perentoriamente essere interrotti quelli tra i paesi europei e la stessa Russia?
Questo modo di intendere i rapporti energetici è stato sconvolto dall’invasione proprio perché le politiche di Nato ed Europa sono fondate sull’impiego delle sanzioni. Ma agendo in questo modo, rammenta Sapelli, non si è disinnescato il pericolo più grande evocato dalla guerra di aggressione: il conflitto nucleare. Una minaccia costante da quando si sono abbandonati i trattati di non proliferazione e il rischio di incidenti è altissimo. È in questo contesto che bisogna comprendere che Nato ed Europa hanno sbagliato, includendo troppo rapidamente tra i loro membri le nazioni che confinano con la Russia. Per l’autore, si è trattato di un errore epocale, che ha drammaticamente accentuato il senso di accerchiamento di Mosca. E, così facendo, si è passati da una gestione diplomatica dei rapporti con l’Occidente a quella che Sapelli definisce una «trattativa armata». Ma ormai, naturalmente, tornare indietro è impossibile.
Alla crisi l’America risponde in forma di centralizzazione imperialistica, economica e militare. Raccoglie intorno a sé non solo la Nato, ma anche tutte le nazioni dell’Ue, tanto in merito alle sanzioni quanto sull’armamento dell’Ucraina.
Le sanzioni sono sempre state una costante dell’azione nordamericana: sono state impiegate contro l’Iraq in favore del Kuwait, con Gheddafi in funzione anti-italiana, con Assad in Siria in funzione anti-francese e anti-russa.
Per Sapelli è veramente disarmante che gli Usa pensino di centralizzare in forma asimmetrica le relazioni internazionali ed economiche, e che pensino di farlo continuando a umiliare la Francia dopo la chiusura obbligata del Nord Stream e l’imposizione di comprare il gas liquefatto statunitense – cosa che farà lievitare quanto mai il prezzo di tutti i combustibili fossili a causa delle varie difficoltà tecniche. Per l’autore il disegno degli Stati Uniti per l’Europa è puntare sulle divisioni esistenti tra gli stati membri per determinarne, operando dall’altra parte dell’Atlantico, il destino.
Giulio Sapelli ritiene che il ruolo della Russia sia sempre stato decisivo per la storia europea. Ed è nei confronti di questa che l’Europa deve esprimere la volontà di relazionarsi in forme autonome rispetto agli Usa. Il modo in cui può farlo è stabilire rapporti con Mosca in modalità differenti da quelle statunitensi, cioè non conflittuali, e che consentano di aiutarla a superare la persistente ostilità nei confronti di un Paese senza il quale l’Europa – non l’Ue – non può esistere come potenza mondiale.
Il libro di Sapelli, a tratti, può sembrare dispersivo ma pensarlo è un errore nel quale il lettore è bene non cada. Il racconto di Sapelli in realtà mostra quanto sia fitta, intrecciata e complessa la rete delle relazioni internazionali, della politica estera che segue e ricade al tempo stesso su quella interna, e di quanto delicato sia l’equilibrio tra Stati, prima ancora che tra “potenze”.
Solo riflettendo su tutto ciò si può evitare il ben più grave errore, in cui purtroppo in tanti sono incappati, di pensare che un bel giorno, come un fulmine a ciel sereno, Vladimir Putin si sia alzato e abbia comandato l’invasione dell’Ucraina e che ciò abbia destato stupore e sgomento nel resto del mondo.
Il libro
Giulio Sapelli, Ucraina anno zero. Una guerra tra mondi, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.
Prima edizione: maggio 2022.
Prefazione di Lucio Caracciolo.
L’autore
Giulio Sapelli: Già professore di Storia economica ed Economia politica in Università europee ed americane. Consulente e consigliere di amministrazione in importanti gruppi industriali e finanziari. Premio Fieri 2020 alla carriera. Presidente Fondazione Germozzi di Confartigianato.