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Irma Loredana Galgano

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Guerre selettive, droghe e strategie: “Killer High” di Peter Andreas

02 lunedì Mag 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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droga, guerra, KillerHigh, Meltemi, PeterAndreas, recensione, saggio, storia

«Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe e non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra.» È questo l’assunto da cui parte Peter Andreas per scavare nella Storia umana, quella moderna e contemporanea in particolare, per scoprire il ruolo decisivo che le sostanze psicoattive – pesanti, leggere, lecite, illecite, naturali, sintetiche – hanno e hanno avuto nei conflitti armati. 

Perché se da un lato gli eserciti contemporanei vengono schierati su un numero di fronti sempre maggiore per combattere la droga, dall’altro i soldati combattono sempre più “fatti” di droga, letteralmente.

Molti di coloro a cui è affidato il compito di fare la guerra continueranno a cercare aiuto nelle droghe, che siano prescritte o auto-prescritte, esattamente come è accaduto da… sempre praticamente, come si evince chiaramente e facilmente dalla dettagliata ricostruzione e analisi compiuta da Andreas.

Sono costantemente in aumento le prescrizioni di farmaci che aiutino i soldati ad affrontare le cicatrici fisiche e mentali riportate sul campo di battaglia. Migliaia sono i soldati americani, di ritorno dall’Afghanistan e dall’Iraq, che dipendono da essi.1 Farmaci che contengono oppioidi. 

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, ovvero la somministrazione di sostanze o farmaci psicoattivi fatta in maniera preventiva, ossia per stimolare e migliorare le prestazioni sul campo. Ai classici alcol, tabacco, droghe più o meno leggere, naturali o sintetiche, si affianca un uso sempre più consistente e diffuso dei cosiddetti farmaci antifatica, volti al miglioramento cognitivo e prestazionale dei soldati. 

Un rapporto del laboratorio di ricerca dell’areonautica statunitense suggerisce di costringere i nemici ad attivarsi continuamente senza beneficiare di un sufficiente sonno quotidiano. E, naturalmente, per fare questo bisogna essere in grado di gestire la fatica dei soldati americani.2 Non c’è da stupirsi dunque se diversi Paesi e ricercatori dell’esercito hanno sperimentato metodi per contrastare il sonno. Gran parte delle ricerche si è concentrata sul Modafinil, un farmaco che si ritiene causare meno dipendenza e meno effetti collaterali rispetto alle amfetamine. Già da oltre un decennio, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia distribuiscono compresse di Modafinil ai militari sul campo.3

Per Andreas è certo che l’impulso a dare vantaggi chimici alle truppe proseguirà, in quanto la crescente complessità dei combattimenti e i progressi tecnologici, stando anche alle parole dei ricercatori della MITRE Corporation (incaricata dall’ufficio di ricerca e ingegneria della Difesa del Pentagono), hanno aumentato la necessità di prendere decisioni tattiche rapide a livelli di comando inferiori e hanno quindi diffuso orizzontalmente a più persone la responsabilità di operare delle scelte di indirizzo.4

Ci si può agevolmente attendere che anche ribelli, terroristi e altri attori non statali continuino a ricorrere alle sostanze psicoattive per le stesse ragioni delle controparti statali. Con la grande differenza, però, che non avranno accesso legale alla crescente varietà di opzioni farmacologiche disponibili per gli eserciti contemporanei. 

I resoconti indicano che lo Stato Islamico e Boko Haram hanno regolarmente drogato i bambini soldato prima di impiegarli per attacchi suicidi.5 E sembra sia accaduto lo stesso nel caso di alcuni adolescenti kamikaze in Pakistan.6Tuttavia Andreas sconsiglia di giungere a conclusioni avventate. Pare che per alcuni combattenti basti l’ideologia estremista come stimolante, senza il bisogno di alcun aiuto chimico. 

La piaga della droga, dal punto di sociale e non solo militare, è notevolmente profonda, radicata e diffusa. Molti Stati sembrano aver intrapreso delle vere e proprie guerre contro di essa. Ma per l’autore, quella contro la droga è una guerra altamente selettiva, che evita in tutti i modi di prendere seriamente di mira le case farmaceutiche che hanno pubblicizzato con tanta aggressività prodotti che creano dipendenza.

Verrebbe da aggiungere che gli Stati, Italia compresa, sembrano operare una guerra altrettanto selettiva con riguardo ai prodotti sui quali è apposto il sigillo del Monopolio: alcol e tabacco. E sembra farlo perché, comunque, sono fonte di copiose entrate per le casse sempre piangenti della nazione. Motivo che sembra essere stato alla base di tante operazioni di sfruttamento e commercio delle droghe fin dai tempi degli antichi Romani, in quelle che Andreas definisce «Guerre grazie alla droga», ovvero ai suoi proventi.

Stando ai dati riportati nel Libro Blu 2020 dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, il contributo per l’erario dai tabacchi è stato pari a 14.6 miliardi, mentre quello per energia e alcolici 29.10 miliardi di euro.

Sul sito del Ministero della Salute si legge che in Italia siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93mila morti. L’aggiornamento è del 31 maggio 2021.

Mentre, stando ai dati riportati dall’Istituto Superiore di Sanità e contenuti nel Rapporto 2022, sono 17mila i decessi annuali causati dall’alcool. 

Parafrasando la celebre frase di Charles Tilly («Gli Stati fecero la guerra e la guerra fece gli Stati»), Lessing ritiene che oggi «gli Stati fanno la guerra alla droga e la guerra alla droga fa gli Stati», con dei seri rischi da non sottovalutare.

Uno dei pericoli è che le guerre della droga possano produrre un rafforzamento eccessivo di alcuni attori statali, creando stakeholders consolidati, dotati di autorità e discrezionalità sproporzionate, che si opporranno agli aggiustamenti politici necessari una volta che la violenza legata alla droga sarà diminuita.7

Del problema concreto che provvedimenti emergenziali diventino poi strutturali ne parla anche Barberis allorquando sottolinea la tendenza degli esecutivi di appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto.8

Inoltre, Lessing ricorda che una parte fondamentale e spesso trascurata delle tesi di Charles Tilly è che può essere lo Stato, operando come un racket della protezione, a creare la stessa minaccia alla sicurezza contro cui in seguito fornisce protezione. 

Sebbene non sia quello che Tilly aveva in mente, per Andreas il suo argomento può essere esteso alla guerra alla droga: con l’atto di criminalizzare la droga, lo Stato crea la minaccia, e ciò a sua volta offre allo Stato una ragione per reagire con una guerra alla droga sempre più militarizzata. 

Dall’uso di oppiacei da parte dei soldati al loro impiego come arma o mezzo per il finanziamento, l’oppio e la guerra sono rimasti stretti a lungo in un abbraccio mortale. Il commercio dell’oppio e la costruzione degli Imperi andarono di pari passo nelle potenze occidentali, soprattutto in Gran Bretagna. 

Londra mise il commercio dell’oppio nelle mani della sua Compagnia delle Indie Orientali, che all’inizio deteneva anche il monopolio sull’importazione di tè cinese.

Il tè e l’oppio trasformarono la Compagnia Britannica delle Indie Orientali nella corporation più potente che il mondo abbia mai visto. 

Nella Prima Guerra dell’oppio gli americani restarono a guardare. Al contrario, la Seconda Guerra rimosse ogni argine. 

Il Dipartimento di Stato appoggiò la richiesta del vescovo Brent di indire una Conferenza internazionale per il controllo del traffico dell’oppio, rendendosi conto di come fosse funzionale anche ad altri interessi strategici. In particolare, avrebbe agevolato una maggiore influenza statunitense nel Pacifico, segnatamente alle spese del principale concorrente, la Gran Bretagna, e avrebbe contribuito a rinsaldare i rapporti con il governo cinese, fortemente contrario al commercio dominato dagli inglesi. 

Dopo aver combattuto due guerre dell’oppio internazionali con la Gran Bretagna, la Cina fu consumata da decenni di guerre dell’oppio interne, tra i signori della guerra in lotta tra di loro, nei primi decenni del Novecento. 

Gli sforzi repressivi, nazionali e internazionali, spinsero il business dell’oppio nella clandestinità, anziché al fallimento. Per di più, incentivarono il mercato nero a smerciare derivati più compatti, portatili, occultabili e potenti – prima la morfina e poi l’eroina – anziché l’oppio tradizionale, che è molto più leggero e crea meno dipendenza.9

Oggi la Cina sta diventando un sempre più rilevante esportatore illegale di droghe sintetiche come il Fentanyl – che i distributori mescolano spesso all’eroina – verso i Paesi occidentali.

L’autore sottolinea come anche osservando le contemporanee guerre alla droga si evince chiaramente il loro limite strutturale. I trafficanti eliminati e la droga sequestrata, che gli Stati usano come misura del loro “successo”, sono in realtà facilmente sostituibili. Chiudere le vecchie rotte e togliere di mezzo i trafficanti fa semplicemente emergere nuove rotte e più trafficanti. Oltretutto, ne conseguono lotte per il territorio che possono alimentare ancor di più la violenza che l’invio di militari avrebbe dovuto sedare.

Come nel caso del Messico, dove il bilancio della violenza connessa alla droga si è militarizzata più che mai. Il dispiegamento di soldati per combattere la droga è stata una delle prime cose che ha attratto l’attenzione dell’autore e lo ha invogliato a indagare sempre più a fondo e sempre più a ritroso nel tempo.

Verso la fine di dicembre del 1989, gli Usa lanciarono l’Operazione Giusta Causa, invadendo Panama e arrestando il suo leader, il generale Manuel Noriega, con l’accusa di traffico di cocaina. Negli anni seguenti, la lotta alla cocaina rimpiazzò la lotta al Comunismo come fattore chiave delle relazioni militari di Washington con i suoi vicini meridionali. 

Eppure, mentre negli anni Ottanta i ribelli afghani in lotta contro i sovietici, sostenuti dalla CIA, coltivavano e vendevano l’oppio per finanziare la loro causa, Washington, sulla falsariga delle esperienze nel Sudest asiatico, girava lo sguardo verso un’altra direzione.

Il traffico d’oppio fu ancora una volta il grande vincitore della più importante operazione sotto copertura della CIA dai tempi del Vietnam. 

Per combattere l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, la CIA agì tramite l’Inter Services Intelligence (ISI – i servizi segreti pakistani) a supporto dei signori della guerra afghani, che ricorsero alle armi, alla logistica e alla protezione dell’agenzia per diventare signori della droga di primo piano.10

Le autorità statunitensi anche in questo caso sembravano ben consapevoli della situazione, ma chiusero un occhio in nome di obiettivi geopolitici di più ampio respiro: «Non lasceremo che una piccola cosa come la droga interferisca con la situazione politica – spiegò un funzionario dell’allora amministrazione Reagan – e quando i sovietici se ne andranno e nel Paese non ci saranno soldi, porre fine al traffico di droga non sarà una priorità.»11

Innumerevoli sono gli esempi riportati da Andreas nel testo, contraddizioni tattiche e comportamentali che giungono o risalgono alle Guerre per l’Indipendenza americana e ancor prima alle Guerre di conquista dei Romani. Un elenco infinito di situazioni che potrebbero anche sembrare surreali se non fossero tutte supportate da valide e certificate fonti documentali. Riguardo gli esempi più recenti poi sono o sono stati sotto gli occhi di tutti, per cui non ci sarebbe neanche bisogno di ricorrere a fonti che le attestino. Eppure l’autore lo fa con scrupolo e metodicità. 

Sono per certo argomenti spinosi quelli trattati da Peter Andreas in Killer High, ci vuole una grande conoscenza per parlarne come egli ha fatto. E servono anche tanto coraggio e fors’anche un pizzico di incoscienza perché di sicuro non sono mancati coloro che hanno frainteso l’intento del libro o, peggio, hanno volutamente strumentalizzato il suo scopo.

Personalmente ritengo sia superfluo eppure necessario precisare che mai appare nelle intenzioni dell’autore screditare la figura del soldato o l’istituzione dell’esercito. E ciò, per chi legge il libro dall’inizio alla fine, è cristallino come acqua di sorgente. 

Dal resoconto di Andreas si può dedurre che, in ogni epoca e luogo, i soldati hanno avuto necessità di «incoraggiamenti» e questa altro non è che un’ulteriore conferma dell’assurdità della guerra in generale ma di di quella sul campo in particolare. 

Si può anche supporre e dedurre che questi «incoraggiamenti» di varia natura siano stati strategicamente veicolati e indirizzati per raggiungere scopi e obiettivi altrimenti improponibili. Anche che siano stati oggetto ripetuto di speculazioni. 

Quel che è sicuramente certo è che, leggere Killer High, aiuta a meglio comprendere la Storia sì, ma ancor di più l’attualità e le sue guerre.

Si chiede Andreas cosa accadrebbe se la guerra alla droga dovesse in qualche modo finire. Finirebbe anche la violenza?

Alcuni considerano la dichiarazione di pace come una sorta di bacchetta magica, soprattutto se concerne la legalizzazione della droga. Certo, la legalizzazione priverebbe l’enorme commercio illegale planetario dei suoi profitti gonfiati dal proibizionismo, che alimentano la violenza e finanziano terroristi e insorti. Ma l’autore sottolinea come, con ogni probabilità, i narcotrafficanti in breve tempo diversificherebbero i loro affari e si rivolgerebbero ad altre attività illecite, come fecero i boss mafiosi statunitensi dopo la revoca del proibizionismo dell’alcol. 

Il fascino di un’idea del genere è comprensibile. Eppure Andreas mette in guardia il lettore da un eccesso di elogio riguardo i suoi potenziali effetti pacificatori. Non tutta la violenza è connessa alla droga, perché gli affari vanno ben oltre gli stupefacenti. 

Non bisogna dimenticare che la proibizione della droga e gli elevati volumi del narcotraffico precedono di gran lunga le recenti ondate di violenza. Il che suggerisce che non sono solo il proibizionismo e i flussi di droga in sé a innescare la violenza, ma le modalità specifiche con cui le leggi antidroga vengono applicate o disapplicate. 

E questo solleva l’ardua questione di come la pace possa essere raggiunta facendo a meno della legalizzazione, in base anche al principio avallato dall’autore che il proibizionismo è indispensabile per la guerra alla droga, ma la guerra alla droga non è indispensabile per il proibizionismo. 

Per esempio, invece di persistere nella repressione militarizzata della guerra, il governo messicano potrebbe impegnarsi maggiormente per assegnare la priorità alla limitazione della violenza, più che dei narcotici. 

Bisogna inoltre riconoscere che la guerra stessa può essere pensata come una droga. In fin dei conti, sarà probabilmente la guerra l’abitudine, o la dipendenza, più difficile da sradicare. 

Un mondo senza conflitti sembra purtroppo realistico quanto un mondo senza droga. E per Andreas l’unica cosa che si può prevedere con qualche certezza è che le droghe e la guerra proseguiranno nel loro abbraccio mortale.

Una conclusione che potrà anche sembrare brutale ma che è, purtroppo, molto realistica e ponderata sull’analisi di due millenni di Storia ormai durante i quali questo mortale abbraccio ha cambiato sostanze psicoattive ma non ha cambiato granché i modi, i metodi e gli scopi.

Killer High. Storia della guerra in sei droghe di Peter Andreas è un testo sorprendente perché mai il lettore che si accinge a leggerlo può preventivamente comprendere la reale grandezza del suo contenuto. Un libro necessario.


Il libro

Peter Andreas, Killer high. Storia della guerra in sei droghe, Meltemi Editore, Milano, 2021.

Titolo originale: Killer high. A history of war in six drugs.

Traduzione di Andrea Maffi e Paolo Ortelli.

L’autore

Peter Andreas: politologo e docente di Relazioni internazionali alla Brown University.


1Q. Lawrence, A Growing Number of Veterans Struggles to Quit Powerful Painkillers, All Things Considered, National Public Radio, 10 luglio 2014.

2W. Saletan, The War on Sleep, in “Slate”, 29 maggio 2013.

3Ibidem.

4MITRE Corporation, Human Performance, JSR-07-625, MITRE Corporation, McLean (VA), marzo 2008, https://fas.org/irp/agency/dod/jason/human.pdf

5l. Iaccino, Why Tramandol Is the Suicide Bomber’s Drug of Choice, in “Newsweek”, 13 dicembre 2017.

6I. Firdous, What Goes into te Making of a Cuicide Bomber, in “Express Tribune (Pakistan)”, 20 luglio 2010.

7B. Lessing, Making Peace in Drug Wars: Crackdowns and Cartels in Latin America, Cambridge University Press, Cambridge, 2017.

8M. Barberis, Non c’è sicurezza senza libertà. Il fallimento delle politiche antiterrorismo, Il Mulino, Bologna, 2018.

9J. Marshall, Optium and the Politics of Gangsterism in Nationalist China, 1927-1945, in Bulletin of Concerned Asian Scholars, vol. 8, n° 3, 1976.

10A. McCoy, The Politics oh Heroin: CIA Complicity in the Global Drug Trade, Lawrence Hill Books, Chicago, 2003.

11E. Sciolino, S. Engelberg, Fighting Narcotics: U.S. Is Urged to Shift Tactics, in New York Times, 10 aprile 1988.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Meltemi Editore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Perché proprio questo è il secolo della solitudine?

10 giovedì Mar 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlSaggiatore, Ilsecolodellasolitudine, NoreenaHertz, recensione, saggio

La solitudine non è certo un sentimento che nasce in questo secolo. Ma è in questo periodo storico che abbraccia e viene abbracciata da altri e differenti aspetti della società, originando quella che Noreena Hertz definisce economia della solitudine, nata per sostenere e sfruttare chi si sente solo.

La solitudine che Noreena Hertz racconta non si limita alla frustrazione del desiderio di avere qualcuno vicino, è un male sottile che si è insinuato dentro di noi e ha permeato ogni aspetti della nostra società. È la solitudine strutturale del sistema capitalistico, che ci spinge a pensare solo a noi stessi e a vedere gli altri come concorrenti o nemici. 

È l’isolamento provato dalle persone che si sentono trascurate e tradite dai propri rappresentanti e dalle istituzioni, al punto da lasciarsi sedurre dal richiamo del populismo e degli estremismi politici. 

Una situazione in continua crescita che, a partire dal lockdown da Covid-19 del marzo 2020, non poteva che aggravarsi. 

In tutto il mondo, gli operatori dei numeri telefonici per la salute emotiva hanno riscontrato non solo notevoli picchi nel volume di chiamate durante i giorni di distanziamento sociale forzato, ma anche che un numero significativo di chiamate arrivava da persone che soffrivano la solitudine. 

In Germania, dove a metà marzo le linee di assistenza stavano ricevendo il 50 per cento di chiamate in più del solito, uno psicologo che rispondeva alle chiamate ha notato che la maggior parte di chi chiama aveva più paura della solitudine che di essere contagiato.

Quando la pandemia è iniziata in tantissimi già si sentivano soli.

Tre adulti su cinque negli Usa si consideravano soli. In Europa la situazione era simile: quasi un terzo dei cittadini olandesi ha ammesso di essere solo, uno su dieci profondamente; in Svezia un quarto della popolazione ha detto di essere solo frequentemente; in Svizzera due persone su cinque hanno dichiarato di sentirsi a volte, spesso, o sempre sole; nel Regno Unito il problema era diventato talmente grave che nel 2018 il primo ministro è arrivato al punto di nominare un Ministero della Solitudine.

I dati per l’Asia, l’Australia, il Sud America e l’Africa erano altrettanto preoccupanti. 

Gli anziani sono la categoria a cui siamo portati a pensare per primi quando riflettiamo su chi siano i più soli tra noi. Eppure, in realtà, e forse sorprendentemente, i più soli sono proprio i giovani. 

In quasi tutti i paesi dell’Ocse la percentuale di quindicenni che dicono di sentirsi soli a scuola è aumentata tra il 2003 e il 2015. 

Anche in questo caso è ipotizzabile un incremento a causa del Covid-19. 

Più volte Noreena Hertz sottolinea che non si tratta di una crisi di salute mentale bensì di una crisi che ci sta facendo ammalare fisicamente. 

La solitudine è più dannosa per la salute di quanto non lo sia l’assenza di esercizio fisico, è nociva quanto l’alcolismo e due volte più nociva dell’obesità. 

La solitudine che stiamo vivendo nel ventunesimo secolo copre uno spettro molto più ampio della sua definizione tradizionale. Nell’accezione presa in considerazione dall’autrice, non è solo il sentirsi privi di compagnia o intimità, e nemmeno il sentirsi ignorati, invisibili o trascurati da coloro con i quali si interagiva regolarmente. Si tratta di sentirsi anche senza sostegno e cura da parte dei nostri concittadini, dei datori di lavoro, della comunità, del governo. È l’essere distanti non solo da quelli a cui dovremmo sentirci vicini, ma anche da noi stessi. Non è solo la mancanza di sostegno in un contesto sociale o familiare, ma anche sentirsi politicamente ed economicamente esclusi. Include anche quando ci sentiamo tagliati fuori dal nostro lavoro e dal nostro ambiente lavorativo.

Uno stato non tanto interiore quanto esistenziale: personale, sociale, economico e politico.

Negli anni precedenti la pandemia di coronavirus, due terzi di coloro che vivevano in una democrazia pensavano che il proprio governo non agisse nel loro interesse.

Ma quello che si chiede Noreena Hertz è come si è arrivati a questo punto.

Le cause dell’odierna crisi di solitudine sono varie e numerose. Rientrano gli smartphone e tutti quei dispositivi digitali che ci isolano dal mondo reale ma vanno annoverate per certo le discriminazioni strutturali e istituzionali. Discriminazioni di natura razziale, etnica, xenofoba, sessista, sul lavoro come nella quotidianità. 

I fondamenti ideologici della crisi di solitudine del XXI secolo risalgono, per Hertz, invece agli anni ’80, quando si affermò una forma particolarmente dura del capitalismo: il neoliberismo, un’ideologia con un’enfasi preponderante sulla libertà – di scelta, di mercato, dei governi dall’interferenza dei sindacati. Un’ideologia che premiava una forma idealizzata di autonomia, un governo debole e una mentalità brutalmente competitiva che poneva l’interesse personale al di sopra delle comunità e del bene collettivo. 

In Germania, Regno Unito, Stati Uniti e Canada circa la metà della popolazione pensava fosse così, e molti pensavano che lo Stato fosse così asservito al mercato da non prendersi più cura di loro o da non preoccuparsi più dei loro bisogni. 

In effetti gli enormi interventi che i governi hanno fatto per sostenere i propri cittadini nel corso del 2020 sono stati in netto contrasto con l’etica economica dei quarant’anni precedenti. 

Un ulteriore tema, collegato con il diffuso senso di solitudine attuale, che Hertz analizza in profondità, è il progressivo isolamento dal mondo reale per rifugiarsi nella realtà virtuale della Rete e dei social. Quest’ultimi in particolare trasformano i cittadini in bugiardi sempre più insicuri alla continua ricerca di “mi piace”, follower e prestigio sociale online incoraggiandoli a presentare versioni sempre meno autentiche di se stessi. 

Le vite condivise online sono un’accurata serie di momenti felici e ideali, feste e celebrazioni, spiagge di sabbia bianca e foto di piatti da acquolina in bocca. Il problema è, sottolinea Hertz, che queste versioni ritoccate e filtrate di noi stessi sono troppo spesso estremamente lontane dalla nostra vita reale. 

In un mondo in cui la comunità sembrava sempre più sfuggente, ma il bisogno di appartenenza è rimasto, le imprese sono intervenute per colmare il vuoto. L’economia della solitudine ha iniziato a espandersi – e non solo nella sua forma tecnologica – con gli imprenditori che hanno trovato modi sempre più innovativi per soddisfare il perenne bisogno della gente di ciò che il sociologo del primo Novecento Émile Durkheim chiamava «effervescenza collettiva», ovvero il lieto inebriamento che otteniamo quando facciamo qualcosa con gli altri, di persona (in palestre, club, pub, ritrovi, circoli, sale da ballo, gite, escursioni, sale da gioco…).

Tuttavia, queste innumerevoli attività intraprese per colmare un vuoto esistenziale con il loro inebriamento di certo non possono bastare per sconfiggere l’isolamento, la solitudine di questo millennio. Va precisato forse, a scanso di equivoci, che Hertz non è contraria a questo genere di attività per definizione, bensì allorquando vengono utilizzate per sfruttare il senso di solitudine delle persone per mero scopo di lucro.

Una solitudine che non è certo una forza singolare. Vive all’interno di un ecosistema. Se quindi si vuole fermare la crisi di solitudine necessita un cambiamento sistematico sul piano economico, politico e sociale e, al contempo, prendere atto della responsabilità personale di ognuno. 

Per risolvere il senso di abbandono che in tantissimi provano, non ci si può limitare, per l’autrice, a garantire che tutti i cittadini dispongano di un’efficace rete di protezione sociale, che gli obiettivi di bilancio dei governi siano meglio allineati con il benessere complessivo dei cittadini e che le disuguaglianze strutturali siano affrontate, anche in merito a questioni di razza e di genere. Bisogna anche assicurarsi che le persone siano poi adeguatamente assistite e protette, anche sul luogo di lavoro. 

Per risolvere almeno in parte la crisi di solitudine di questo secolo, quindi, bisogna fare in modo che le persone siano viste e ascoltate. 

Costruire un futuro completamente diverso, in cui riconciliare il capitalismo con la comunità e la compassione, assicurandosi di ascoltare molto di più le persone di qualsiasi estrazione e venga consentito loro di avere una voce, esercitando la comunità in una forma inclusiva e tollerante. 

Più in generale, è necessario un cambio di mentalità. Bisogna ritrasformarsi da consumatori a cittadini, da egoisti ad altruisti, da osservatori indifferenti a partecipanti attivi. 

Per fare questo, spiega Noreena Hertz, è necessario:

  • Cogliere le opportunità di esercitare la nostra capacità di ascolto, sia nel contesto lavorativo che in quello privato e personale.
  • Accettare che a volte ciò che è meglio per il collettivo non coincide con ciò che è nel nostro immediato interesse.
  • Impegnarsi a far sentire la propria voce dove possibile per portare un cambiamento positivo.
  • Impegnarsi nell’esercitare attivamente l’empatia.

Perché più a lungo trascuriamo la nostra responsabilità di prenderci cura l’uno dell’altro, più perderemo la capacità di fare tutte queste cose. E più perderemo la capacità di fare tutte queste cose, meno umana sarà, inevitabilmente, la nostra società. 

L’antidoto al secolo della solitudine, in fin dei conti, può essere solo l’esserci l’uno per l’altro, indipendentemente da chi sia l’altro. 

Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni di Noreena Hertz è un libro molto “crudele”, nel senso che pone il lettore faccia a faccia con scomode verità e con la cruda realtà. Un libro da leggere assolutamente. 

Il libro

Noreena Hertz, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni, Il Saggiatore, Milano, 2021.

Titolo originale: The lonely century. Traduzione di Luigi Muneratto.

L’autrice

Noreena Hertz: Economista e consulente per multinazionali e organizzazioni non governative. Attualmente dirige il Centre for International Business and Management dell’Università di Cambridge.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazio l’Ufficio Stampa de Il Saggiatore per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagine, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Obeya: conoscenza, innovazione, successo”

10 giovedì Feb 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Agile, DevOps, GuerinieAssociati, gueriniNext, GueriniScientifica, lean, Obeya, recensione, saggio, TimWiegel

Gli eventi traumatici degli ultimi mesi, unitamente ai cambiamenti radicali che questi hanno indotto nella vita delle imprese, nel lavoro delle persone, nel ruolo dei leader, evidenziano l’urgenza di individuare e adottare nuovi approcci per guidare un’azienda, sia essa pubblica o privata, verso obiettivi in costante evoluzione e sempre più sfidanti.

Nella prefazione all’edizione italiana del libro di Tim Wiegel, Mariacristina Galgano sottolinea come il testo offra uno strumento potente ai leader delle aziende italiane. Lo strumento si chiama Obeya, messo a punto dalla Toyota nello sviluppo di un progetto di grande complessità: il lancio della Prius, il primo modello ibrido nel mondo dell’automotive. 

Toyota riuscì a sviluppare questa nuova vettura rendendola disponibile sul mercato in metà del tempo solitamente considerato necessario nel settore automotive per il lancio di un nuovo modello. E ciò è stato possibile grazie a Obeya.

L’Obeya cambiò radicalmente il modo di approcciare un obiettivo sfidante, facendo leva su alcuni semplici principi di Visual Management, alcune pratiche virtuose per gestire le informazioni, condurre le riunioni, esercitare il ruolo di leader.

I principi ispiratori dell’Obeya, che derivano dalla filosofia Lean, si possono ritrovare in numerosi approcci oggi molto popolari, come l’Agile. 

Ma, ricorda Mariacristina Galgano, l’aspetto innovativo del libro consiste nel traslocare i potentissimi principi dell’Obeya a uno scopo più largo, rispetto alla loro applicazione originaria, facendoli diventare uno strumento per guidare le persone e per creare nuovi leader. 

Da metodo innovativo per la gestione di progetti complessi a metodo fondamentale per allineare l’azienda intera verso obiettivi sfidanti, per far crescere nuovi leader, generare miglioramento e apprendimento continuo nel processo stesso di realizzazione degli obiettivi. 

Uno strumento per «Servant Leader» che credono nel valore del rispetto per le persone e del lavoro in squadra, ma che hanno anche compreso quanto sia importante applicare con costanza e disciplina alcuni principi semplici, ma indispensabili. 

Tim Wiegel è convinto che si riuscirà a raggiungere gli obiettivi prefissati solo con una leadership coinvolta, coerente e strutturata che si impegni a far crescere i membri dei team e trasformare le persone in un esercito di Miglioramento Continuo. 

In giapponese letteralmente Obeya significa «grande stanza». Funge da punto di incontro in cui i leader e la squadra operativa interagiscono, in modo aperto visibile e rispettoso, cosicché la realizzazione della strategia organizzativa entri a far parte dell’attività quotidiana. Se utilizzata correttamente, aiuta a rimuovere gli ostacoli tipici di un approccio manageriale “tradizionale”, quali ad esempio politiche egocentriche, priorità non chiare, pratiche manageriali inadeguate, disallineamento, mancanza di direzione per squadre autonome. 

Toyota mise in pratica il concetto di Visual Management per il progetto Prius concentrandosi su come sfruttare il metodo migliore per sviluppare un prodotto. Lo strumento Obeya poi è diventato parte integrante del sistema Toyota per tutti i progetti di sviluppo di nuovi veicoli. 

Toyota ha avuto molto successo nel creare un modo sistematico di lavorare, coltivando la sua cultura del Miglioramento Continuo e incoraggiando il rispetto per le persone. Con una crescita lenta ma costante, sono riusciti a conquistare l’industria automobilistica dopo la Seconda guerra mondiale, superando importanti attori globali come General Motors e Volkswagen. 

Oggi il concetto di Obeya viene usato da organizzazioni in tutto il mondo, adottato nella sanità, nell’industria, nei servizi bancari e nei servizi pubblici. Un metodo utilizzato sia in grandi multinazionali che in start-up.

La chiave del successo di Obeya consiste in una rappresentazione visibile e tangibile del sistema di leadership, che risulterebbe altrimenti poco chiaro. L’unico modo per far funzionare tutto questo è assicurarsi che ogni aspetto del sistema dell’organizzazione sia rappresentato da persone disposte a osservare, imparare e agire insieme. Per l’autore, il vero valore di Obeya viene creato attraverso il comportamento e il processo decisionale utilizzato dal team.

La rappresentazione visiva di Obeya è semplicemente un supporto per le abilità cognitive. Quello che più conta è come si agisce sulla base di queste informazioni visive. 

Quello che c’è sulle pareti di una Obeya è il risultato di ciò che il team è disposto ed è in grado di mostrare riguardo al proprio lavoro, sia ai membri del team che al resto dell’organizzazione. 

Nell’Obeya, il sistema così com’è compreso dalla leadership è visivamente rappresentato da tutto ciò che è presente sulla parete. 

In un certo senso, le immagini sulla parete sono gli elementi del sistema che il team ha saputo «scoprire». 

Per Wiegel, per poter gestire il sistema della propria organizzazione ogni elemento dovrebbe essere rappresentato da una persona, la quale ricopre una specifica responsabilità. Quindi, allorquando si mettono insieme i pezzi del puzzle come un sistema, ognuno di questi pezzi deve essere rappresentato da una persona nella stanza. Si vede allora chiaramente come le responsabilità e le decisioni di una persona nella stanza influenzino le altre.

L’ambiguità sulla responsabilità delle performance nel sistema viene così cancellata identificando gli elementi del sistema e il leader rappresentativo e responsabile di ciascun elemento. 

I leader devono lavorare continuamente al proprio sviluppo, ma anche supportare e incoraggiare i membri dei loro team a fare lo stesso. 

Fujio Cho (presidente della Toyota) una volta disse: «Prima costruiamo persone, poi costruiamo automobili».

Una “costruzione” che deve essere continua e costante per essere davvero efficace. Collegando mentori e miglioratori a tutti i livelli dell’organizzazione, emerge una struttura coerente di apprendimento bottom-up e una governance strategica top-down, con un ciclo di feedback che non ha precedenti nei metodi tradizionali di management.

Ma imparare spesso non è parte di una cultura che è stata sviluppata e insegnata per raggiungere gli obiettivi. 

Il Management By Objectives (Mbo) suggerisce di raggiungere il target, ma in questo l’apprendimento tende a rallentare, perché l’atto di apprendere non è immediatamente legato a un obiettivo di risultato aziendale misurabile sul breve termine. 

Il Management Per Obiettivi è considerato la causa di molti persistenti problemi nel mondo di oggi. Problemi dovuti non solo all’inseguimento di obiettivi da parte delle persone, ma anche a come questi obiettivi vengono fissati e gestiti. 

L’apprendimento è al contrario il tema centrale dell’Obeya, il che significa che il Management Per Obiettivi viene sostituito da Miglioramento Continuo delle persone e dei processi. La gestione non dovrà più concentrarsi solo sul risultato ma, piuttosto, guardare al processo che crea il risultato.

Tra gli importanti studiosi del XX secolo che hanno influenzato la filosofia del management, Wiegel ricorda in particolare Peter Drucker e W. Edwards Deming.

Drucker introdusse l’Mbo nel mondo del management. Questo sistema è molto adottato ed è responsabile del modo in cui svolgiamo la contabilità e il reporting nelle attuali società «occidentalizzate». 

L’idea alla base dell’Mbo è che un manager venga valutato in base al risultato del suo lavoro, misurando il raggiungimento degli obiettivi che sono stati assegnati. 

Deming ha svolto un ruolo importante nella promozione del ciclo di Miglioramento Continuo nelle case automobilistiche giapponesi negli anni Cinquanta.

Secondo Deming, ci si dovrebbe concentrare sul processo che porta al raggiungimento degli obiettivi, e qualsiasi obiettivo dovrebbe essere sempre verificato rispetto al valore per i clienti e gli stakeholder.

Mentre il messaggio di Deming non sembrava avere un impatto significativo nelle pratiche di gestione occidentali, ha avuto grande successo in Giappone. 

Studiando il Toyota Production System – la base del Lean – si troveranno forti riferimenti e prove di applicazione pratica della visione di Deming del Miglioramento Continuo. 

Se, quindi, il management per obiettivi viene indicato come la causa di molti persistenti problemi del mondo di oggi si evince chiaramente la necessità, espressa più volte dall’autore, di guardare al lavoro Agile, Lean, DevOps e al metodo Obeya. 

Più volte Mariacristina Galgano insiste sulla necessità di apprendere le nozioni dell’Obeya e quanto il libro di Tim Wiegel sia utile a detto scopo. In effetti, dando anche solo uno sguardo sommario al panorama informativo divulgativo – presente in molte pubblicazioni e online nel web – si ha l’impressione ci sia un certo fraintendimento. Agile, per esempio, viene ricondotto alla forma del lavoro agile, inteso come modalità mista in presenza e da remoto oppure nelle forme precarie alternative (contratti a termine, temporanei, da esterni e via discorrendo). E Lean e Obeya spesso sono identificati come progetti di innovazione riconducibili all’impiego o all’incremento della digitalizzazione. Altre volte queste metodologie vengono indicate come strumenti utili per migliorare la soddisfazione del cliente. Il che, a ben pensarci, non è neanche del tutto errato ma sicuramente molto riduttivo e non concorde con il progetto di più ampio respiro creato da Takeshi Uchiyamada.

Si ritrova in questo tipo di approccio il problema evidenziato da Wiegel, ovvero la difficoltà di comprendere il sistema che è l’organizzazione aziendale o societaria. Ciò che Taleb ha definito «opacità causale»1

Egli spiega che non possiamo sapere esattamente come funzionino i sistemi complessi e come una cosa si mette in relazione con un’altra. Non possiamo prevedere esattamente cosa accadrà se influenziamo un aspetto specifico. A causa del pregiudizio verso la complessità, tendiamo a evitare di affrontarla direttamente. 

Ogni volta che c’è un problema – che per Taleb in realtà è un sintomo – si scatena una vera e propria caccia all’errore e si cerca di attenuarlo con una «pezza» piuttosto che una soluzione effettiva. 

Non vediamo e comprendiamo quello che realmente accade perché non riusciamo a vedere attraverso la complessità del sistema. 

Seguendo il modo di lavorare Lean, la ricerca della causa principale aiuta a mostrare più parti del sistema e a cercare di comprendere il motivo per cui il sistema produce problemi di qualità. Una vola rimossa questa causa alla radice, la qualità aumenta e si previene uno spreco di materiale (prodotti difettosi) e di tempo prezioso. 

L’obiettivo del Visual management è, essenzialmente, quello di soddisfare le nostre capacità visive e cognitive, aiutandoci a vedere l’intero sistema e come sta performando, cercando di evitare pregiudizi. 

Wiegel crede davvero che dirigere con Obeya massimizzi il potenziale umano al fine di aiutare le organizzazioni nel loro cammino, augurandosi che dette organizzazioni si pongano come scopo quello di rendere il mondo almeno in parte migliore. Un augurio che non si può non condividere appieno. 

Il libro

Tim Wiegel, Obeya. Un nuovo modello di leadership per guidare team e aziende verso il successo, Guerini Next, Milano, 2021.

Edizione italiana a cura di Mariacristina Galgano che ha curato anche la traduzione.

Titolo originale: Leading with Obeya.

L’autore

Tim Wiegel: coach specializzato nel metodo Obeya, si occupa di favorire cambiamenti organizzativi, lavorando sull’allineamento tra team e organizzazioni. 

La curatrice

Mariacristina Galgano: AD Gruppo Galgano, responsabile Area Risorse Umane e Galgano Formazione, direttore responsabile di Galgano Informazione.

1Nassim Nicholas Taleb, Antifragile. Prosperare nel disordine, Il Saggiatore, Milano, 2013.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di GueriniNext per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Fabbrica Futuro” di Marco Bentivogli e Diodato Pirone (Egea-UniBocconi, 2019)

“La classe avversa” di Alberto Albertini (Hacca, 2020)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La voce delle donne per sconfiggere la misoginia

15 sabato Gen 2022

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ChiaraFrugoni, Donnemedievali, IlMulino, recensione, saggio

Nella società medievale, guerriera e violenta, la presenza femminile rimane in ombra: le donne, per lo più analfabete e sottomesse, offese e abusate, a volte addirittura considerate specie a parte rispetto agli uomini, come gli animali, non hanno voce.

A meno di non essere obbligate al monastero, dove possono vivere in modo più dignitoso, imparando a leggere e scrivere.

Ma da dove viene tanta misoginia?

Se l’è chiesto anche la professoressa Chiara Frugoni che da anni si dedica allo studio della figura femminile nel medioevo, attraverso la voce delle stesse protagoniste. Una voce non filtrata, come al solito, dallo sguardo e dalla penna di un uomo che toglie la parola alle donne sostituendola con la propria, oppure le immagina e le rappresenta secondo i propri pregiudizi. 

Un passaggio questo molto importante che fa bene l’autrice a sottolineare. Per certo, nella storia ormai millenaria, sono state numerosissime le donne che, con il loro contributo, ne hanno determinato il corso. Ma le loro azioni e parole sono volutamente state celate o mutate oppure, appunto, filtrate dall’operato di uomini solerti e operosi nel fare in modo che esse restassero o ritornassero quanto prima “al loro posto”. Quante volte si è costretti a sentire espressioni come questa ancor oggi, figuriamoci in età medievale!

Un periodo storico che, dal punto di vista culturale, in molte parti del mondo, anche di quel mondo occidentale che tanto si autoproclama civile, non è mai veramente finito.

Una volta affermatosi il celibato dei preti con Gregorio VII, ogni donna è una Eva tentatrice, non compagna dell’uomo ma incarnazione del peccato da cui fuggire. Ricorda Frugoni ai suoi lettori anche il perdurante terrore della Chiesa, giunto fino ai nostri giorni, verso la donna che eserciti funzioni sacerdotali e abbia accesso al sacro. 

Anche la collettività laica intellettuale andò di pari passo: ad esempio attraverso i trattati dei pedagoghi ci si affanna a raccomandare che le donne rimangano analfabete, un modo per negare loro un posto nella società, per mantenerle sottomesse. 

Oggi, in un paese come l’Italia, per fare un esempio, le donne sono molto istruite, spesso più dei coetanei maschi eppure, all’ingresso del mondo lavorativo sembra esserci un filtro che le dimezza e ne riduce drasticamente la percentuale di presenza rispetto agli uomini, soprattutto nei livelli più alti, della sfera pubblica come di quella privata. 

Possibile mai che tutte le competenze acquisite diventino improvvisamente inutili e inutilizzabili? Possibile mai che tante studentesse meritevoli e volenterose perdano poi all’improvviso le capacità organizzative e non riescano ad organizzarsi altrettanto proficuamente nel mondo professionale?

Ovvio che il problema non vada ricercato in questo. E neanche la soluzione.

Per le cinque protagoniste del libro di Chiara Frugoni l’incontro con un uomo non fu felice. Le loro qualità, il loro talento si schiusero in una vita di donne sole. E oggi, si interroga l’autrice, il legame familiare quanto condiziona una donna nella espressione piena dei suoi desideri e delle sue possibilità? Una domanda cui, ovviamente, non prova nemmeno a dare risposta, non nel libro almeno. Spetta a ogni lettrice, a ogni donna, farlo. 

Almeno oggi, nella gran parte dei casi, un uomo e una donna decidono di sposarsi perché si amano. E se i genitori sono felici, molto probabilmente anche i figli lo saranno. 

Ma, sottolinea Frugoni, nulla di tutto questo interessa la Chiesa nell’XI e XII secolo, essendo questa impegnata a incasellare i sentimenti dei coniugi in altrettanti possibili peccati. 

Il matrimonio è presentato come un pericoloso cedimento alla tentazione. In un testo attribuito in passato a san Bernardo, questi paragona una donna sposata a una sirena, tentatrice e ammaliatrice per antonomasia. 

Tutte e tre le religioni monoteiste (ebraica, cristiana e islamica) hanno pesantemente condizionato la vita della donna e, di riflesso, l’immagine che questa si è costruita di se stessa. 

Sono passati secoli, l’organizzazione della società è notevolmente cambiata eppure spesso la donna continua a essere considerata un essere inferiore. Inspiegabilmente.

Oggi le donne che riescono a trasmettere la loro voce non filtrata sono molte di più che in passato, eppure…

Il 6 aprile 2021 il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, e la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, si sono recati ad Ankara per un incontro ufficiale con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Solo che la seduta da regole protocollari, la poltroncina con le bandiere alle spalle, è stata preparata e porta solo a Michel. La notizia e, soprattutto, il video che riprende l’intera scena, sono diventati virali. Si è ipotizzato sui motivi del gesto di Erdogan. Non che conoscendoli la situazione cambi. Tuttavia a stupire di più è stata la non reazione proprio di Michel il quale, in un secondo momento, si è scusato. Ci ha riflettuto oppure è stato indotto a farlo. Non ha capito subito cosa stava accadendo. Va bene. 

Ursula von der Leyen invece lo capisce subito e, pur mostrando tutto il risentimento di questo mondo, mantiene un atteggiamento e un comportamento formali, eleganti, dignitosi e degni della carica che ricopre. Il video e le sue dichiarazioni successive sono di dominio pubblico, ognuno può vederlo e sentirle. Durante il G20 di ottobre 2021 stringerà anche pubblicamente la mano del presidente Erdogan per suggellare il bilaterale. 

A fine novembre 2021 una giornalista è stata molestata mentre lavorava. Le immagini, riprese dal cameraman che la accompagnava, sono diventate subito virali. È seguita denuncia e racconto di altre molestie, verbali e fisiche, subite quella sera da Greta Beccaglia. Il collega in studio, che poi si è scusato, sembra non abbia capito la situazione suggerendole di andare comunque avanti e che tutto fa esperienza. In un secondo momento, dopo, poi… sembra aver capito. 

Uno degli aggressori è stato identificato, interrogato, impalato sui social. Il suo avvocato ha tenuto a precisare che si tratta di un uomo che è sempre stato rispettoso delle donne e padre di una bambina. Si immagina che il suo timore fosse di essere rappresentato come un uomo non “per bene” e di essere assimilato a un delinquente, ovvero una persona che delinque, che viola la legge e commette un reato. Brutta cosa sentirsi braccati, non essere liberi di poter parlare e muoversi senza incontrare e scontrarsi con qualcuno che ti giudica (per l’aspetto, per l’abbigliamento, per il comportamento…) senza magari neanche conoscerti eppure sentirsi libero di dirti o farti qualunque cosa gli passi per la mente in quel momento. Che brutta sensazione davvero!

Gli esempi che si possono citare, purtroppo, sono innumerevoli. Sono stati scelti questi due perché subiti da due donne che hanno dimostrato, a testa alta, di avere una dignità suprema. Hanno affrontato la situazione e fatto sentire la propria voce “non filtrata” anche laddove hanno evitato apposta di parlare. Come le protagoniste medievali del libro di Frugoni, donne emerse da una folla negletta. Personalità eccezionali, capaci di rompere le barriere di un destino rigidamente segnato. Monache e regine, come Radegonda di Poitiers, scrittrici come Christine de Pizan, personaggi leggendari come la papessa Giovanna, figure potenti come Matilde di Canossa, donne comuni ma talentuose come Margherita Datini.

E tutte hanno scontato con la solitudine il coraggio e la determinazione con cui hanno ricercato la piena realizzazione di sé.

Donne medievali di Chiara Frugoni è un’opera monumentale, per contenuti, analisi e competenza. La parte narrativa è supportata da citazioni da fonti bibliografiche come da immagini di miniature, affreschi, ricami… Una narrazione che ripercorre gli stadi e le fasi della sempre troppo diffusa misoginia, a partire proprio dal “peccato originale”. Cosiddetto tale. 

Un libro che è un monumento a nutrire l’intelletto. Di fondamentale valore culturale ed educativo. 


Il libro

Chiara Frugoni, Donne medievali. Sole, indomite, avventurose, Società editrice ilMulino, Bologna, 2021.

L’autrice

Chiara Frugoni: ha insegnato Storia medievale nelle Università di Pisa, Roma e Parigi. Autrice di numerosi saggi, molti dei quali tradotti nelle principali lingue europee, oltre che in giapponese e coreano. 


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società editrice il Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


CONSIGLI DI LETTURA

“Crescere uomini. Le parole dei ragazzi su sessualità, pornografia, sessismo” di Monica Lanfranco (Erickson, 2019)

Superare le disuguaglianze di genere è anche una responsabilità intellettuale. “Disuguaglianze di genere nelle economie in via di sviluppo” di Bina Agarwal (ilMulino, 2021)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

È l’a-legalità il volano per le mafie?

03 lunedì Gen 2022

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Fandango, Lacittaspezzata, LeonardoPalmisano, recensione, saggio

Bari non è una città qualsiasi del Sud. Tra i grandi capoluoghi meridionali, è il solo a non aver mai avuto un univoco centro di potere. È stata spesso divisa da istituzioni e forze sociali difformi e contrastanti: lo Stato e la Chiesa, la magistratura e la mafia, i fascisti e i comunisti, i ricchi e i poveri. Una città divisa, spezzata, lacerata dal profondo e nel profondo. Una città di antinomie e opposizioni, costruita grazie all’apporto di tribù di non baresi, ovvero gente proveniente da fuori che l’ha poi arricchita di fame e di lavoro.

Anche La città spezzata di Leonardo Palmisano è diviso, un libro che si compone di due distinte parti: il positivo e il negativo. Un racconto struggente e nostalgico di un luogo che è anche casa, di rabbia e rimpianto per quello stesso luogo che ai più rimane mistero.

Le parole dell’autore sono al contempo un grido di denuncia e di dolore da parte di un cittadino autoctono che non vuole arrendersi, nonostante tutto, che non può e non deve farlo perché tutti hanno il diritto di vivere una città dove i lati positivi superano e mettono all’angolo quelli negativi. Dove cittadini come lui, che mai si sono tirati indietro dinanzi alla lotta, devono avere il diritto di gioire e godere dei frutti del proprio lavoro. Dove lo Stato e le istituzioni non devono arretrare dinanzi al Male, in ogni sua forma. 

Le due parti del libro, in realtà, quasi convergono. Anche la prima parte, il positivo, in molti punti parla in negativo. Anche i racconti “felici” di Palmisano lasciano l’amaro in bocca. 

Sembra che comunque e nonostante tutto il positivo resti in una zona d’ombra, oppresso da una velatura di negatività. Come se il male annebbi anche quello che di positivo c’era, c’è oppure è rimasto. 

Palmisano racconta della sua Bari, la città che gli dato i natali, che lo ha visto crescere e diventare uomo, scrittore, sociologo, imprenditore. Una città che lui ha sempre osservato e visto cambiare, nella sua solo in apparenza immobilità. 

È un luogo che conosce perché ci abita. Certo. Ma quante persone si soffermano a guardare con attenzione quanto accade intorno a loro? Ad osservare gli umili, i vinti, i dimenticati? A parlare con loro e cercare di capire cosa accade? A denunciare le malefatte di chiunque le abbia commesse? 

Pochi. Pochi. Pochissimi. E non solo a Bari.

Per l’autore Bari sta perdendo tempo senza accorgersene. Verrebbe da aggiungere che si comporta come l’Italia intera. 

Nel welfare, per esempio, che è diventato tutto un gioco di volontariato. La gran parte di coloro che si occupano del sociale sono volontari appunto, ovvero persone che non hanno le competenze necessarie per svolgere quel lavoro. 

Il che non vuole assolutamente essere un attacco alla figura dei volontari. Figurarsi. Loro per certo cercano di fare il meglio. Si tratta piuttosto di una critica al sistema che lascia a volontari impreparati e improvvisati il compito di tappare i buchi, anche profondi, lasciati vuoti dallo Stato e dalle istituzioni. 

Parafrasando un vecchio proverbio che vedrebbe Parigi potenzialmente simile al capoluogo pugliese, si potrebbe affermare che, senza nulla a cambiare, l’Italia sembra già una grande Bari.

Sono tantissimi gli argomenti che Palmisano tratta nel testo, tutti importanti. Si passa dalla cementificazione indiscriminata e dall’abuso edilizio all’inquinamento nelle sue molteplici forme, dalle discariche abusive e dallo smaltimento illecito dei rifiuti ai roghi simili a quelli della Terra dei Fuochi, dal racket e dall’usura alla ludopatia e altre dipendenze (alcool, farmaci, sostanze stupefacenti, droghe), dalla prostituzione allo sfruttamento, anche di minori e immigrati, dalla delinquenza alle organizzazioni di tipo malavitoso.

Perché accade tutto questo? Perché il sistema culturale dominante affonda le proprie radici in una diffusa a-legalità che tende ad auto-giustificare comportamenti collusi, corrotti, omertosi, indifferenti.

Questo sostrato sottoculturale produce una legittimazione costante dei comportamenti mafiosi. Il mondo intellettuale locale, ricorda l’autore, raramente ha preso posizione aperta contro la mafia del territorio. 

Perché è esattamente così che vanno le cose, a Bari come nel resto di Italia, Europa e del mondo. Un conto è parlare astrattamente della delinquenza e della criminalità organizzata. Altro è affrontarla a viso aperto e a muso duro sul campo. 

Sulla prima ipotesi c’è un consenso globale. Sulla seconda decisamente più scarso. 

Alla fine del libro, Palmisano scrive una scarna filmo-bibliografia che egli stesso definisce piccola. È oggettivamente breve, per un testo come il suo. Ma non si tratta del classico elenco di fonti da cui l’autore ha attinto nozioni poi rielaborate, o concetti fondamentali della materia. Piuttosto di una lista di letture e visioni consigliate, per così dire. 

Egli non basa la sua scrittura solo sui dati forniti da fonti scritte, documentali, visive o altro. Si affida, in prevalenza, aquello che i suoi occhi hanno visto e le orecchie sentito. Per le cui informazioni, solo in un secondo momento, cerca i riscontri oggettivi. 

Una scrittura, la sua, che non scivola come un guanto lungo il palmo e il dorso di una mano, no. Piuttosto appare come una grattugia che lacera la buccia agra di un agrume o l’interno dolce di un formaggio. 

È una narrazione che colpisce la sua, un racconto vero, quello di chi vive un luogo marcio dentro e non vuol fingere che così non sia. Cosa che accade spesso, purtroppo. Lo abbiamo visto tante volte e per tanti luoghi d’Italia. Nessuno vuole accettare di vivere in un luogo “mafioso”, pervaso e invaso, intriso di malavita e criminalità organizzata, corruzione, collusione… È un’etichetta che nessuno accetta di veder cucita addosso alla propria casa.

Palmisano è un sociologo. Osserva la realtà che lo circonda non da semplice cittadino ma secondo indicazioni e regole che insegna la sociologia e che sono simili o in comune a quelle dell’antropologia e che diventano metodo.

Osservare la realtà che ci circonda, le persone, le azioni, le parole, i silenzi, le relazioni. Ma, determinante per la riuscita di un’indagine, una ricerca sul campo, un’inchiesta… si rivela essere il non fermarsi mai dinanzi all’ovvio. Andare oltre deve diventare una sorta di imperativo categorico. 

Ed è proprio una ricerca sul campo, quella condotta dall’autore, portata avanti con conoscenza, competenza e metodo in un “campo” che è anche la sua casa. 

A settembre 2018 Leonardo Palmisano riceve minacce di morte, pervenutegli tramite il suo profilo Facebook da parte di soggetti che si sono serviti di profili social risultati poi fake. 

In quei giorni Palmisano aveva firmato diversi articoli, apparsi sul Corriere del mezzogiorno, sui legami tra la mafia garganica e quella nigeriana circa la gestione degli affari illeciti del Nord della Puglia, soprattutto all’interno del ghetto di Borgo Mezzanone. Palmisano è anche Premio Livatino contro le mafie e Colomba d’oro per la Pace.

Il coraggio di andare oltre, di andare avanti, sempre. 

Il libro

Leonardo Palmisano, La città spezzata, Fandango Libri, Roma 2021.

L’autore

Leonardo Palmisano: dirigente d’impresa, scrittore e autore di inchieste.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Fandango Libri per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Donne di mafia. Vittime. Complici. Protagoniste” di Liliana Madeo (Miraggi, 2020)

“Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana” di Marco Omizzolo (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2019)

Non diventeremo onesti per decreto legge: “Guardare la mafia negli occhi” di Elia Minari (Rizzoli, 2017)

L’Italia infuocata dai rifiuti nel libro-confessione di Gaetano Vassallo (Sperling&Kupfer, 2016)


© 2022, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La fede incerta degli italiani oggi

24 venerdì Dic 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FrancoAngeli, Lincertafede, recensione, RobertoCipriani, saggio

Ricorre spesso nel dibattito pubblico il fenomeno del multiculturalismo, conseguenza più o meno diretta di migrazione e immigrazione. Ciò di cui si sente parlare meno sono gli effetti del multiculturalismo sulla fede, sulla religione e, più in generale, sulla spiritualità degli italiani.

In realtà sono tanti i fattori che vanno a incidere su questi aspetti, non da ultimo modernità e consumismo, ma, dall’incontro con altre culture religiose, possiamo comprendere meglio anche il cambiamento in atto della nostra.

Che ruolo occupa la fede nella vita quotidiana degli italiani oggi? Quanto incide sulle scelte degli individui? Quale sarà il futuro delle religioni? Quanto è significativa l’opera di papa Francesco per avvicinare o riavvicinare le persone alla Chiesa?

Nodi problematici trattati e approfonditi nello studio condotto dagli autori, una ricerca sul campo quantitativa e qualitativa, posta in essere un quarto di secolo dopo una prima, svoltasi nel 1994-95.

Il campione statisticamente rappresentativo dell’intera popolazione italiana è costituito da 3238 cittadini di entrambi i sessi, differenti livelli di istruzione e professione. 

Nell’indagine condotta da Roberto Cipriani e Franco Garelli emerge che, su venti, i primi sei concetti più ricorrenti in associazione con la vita quotidiana sono: 

  • Corano
  • Musulmani
  • Cristiano
  • Religiosità
  • Angelo
  • Chiesa

A dimostrazione della netta predominanza dei doveri quotidiani nella religione maomettana. I cattolici italiani che fanno maggiore riferimento alla famiglia, alla quotidianità e alle pratiche religiose sono coloro che si trovano o si ritrovano ad essere nella condizione di disoccupati. 

Ricercare la felicità ed evitare il dolore risultano essere due obiettivi ricorrenti nella concezione diffusa dell’esistenza. 

Solitamente si associa la felicità alla sicurezza, alla ricchezza, al benessere e al piacere, contenuti non sempre ritenuti compatibili con una visione religiosa della realtà. In linea di massima gli intervistati propendono per vedere la felicità come una questione strettamente personale. 

Soprattutto le persone con un elevato titolo di studio tendono a considerare la felicità come un qualcosa di effimero, passeggero, fugace. Si reputa non valga la pena di affannarsi tanto per una cosa che non è durevole e non soddisfa a pieno. 

Se ciò, da una parte, può essere attribuito a una maggiore propensione, delle persone con titoli di studio elevato, alla riflessione e alla ricerca di risposte a quesiti esistenziali, dall’altra può essere interpretata anche dall’angolazione opposta.

Le persone con un titolo di studi inferiore, in genere, vivono una condizione più modesta. Tendenzialmente sono indotti a ritenere che anche solo una posizione economica e sociale migliore possa portare alla felicità. 

È idea molto diffusa che l’interpretazione religiosa della vita non renda particolarmente felici. Sono in pochi quelli che coniugano insieme religiosità e felicità. 

Le cronache quotidiane dei mass media portano all’attenzione del largo pubblico il problema del dolore, della malattia e del rapporto tra vita e morte. Occorre però constatare che non è affatto diffusa una cultura del dolore. A ciò si aggiunge talora una malintesa concezione religiosa del dolore, che viene interpretato come forma di espiazione, purificazione e preparazione alla vita ultraterrena. Tuttavia, ricorda Cipriani, una simile ottica potrebbe contraddire in modo palese gli stessi fondamenti della religione, che in genere non auspica ad alcuno una sofferenza, per quanto finalizzata a raggiungere un obiettivo salvifico post mortem. 

Nello scenario delle situazioni di dolore si è inserito, da qualche decennio a questa parte, il fenomeno non certo nuovo del disagio giovanile che, collegato alla ricerca d’identità e di un’occupazione soddisfacente, ha assunto i caratteri di una vera e propria sofferenza, non solo psicologica ma altresì con effetti somatici e socio-relazionali in genere. 

Va sottolineato poi che una soluzione intravista dai giovani è talvolta la ricerca di gratificazioni e risposte in altre religioni, diverse da quelle più diffuse in Occidente. 

Il sofferente alla fin fine è un cittadino al pari di tutti gli altri. Perciò lotta per il riconoscimento dei suoi diritti, anche in ambito religioso. 

Molto interessanti, ai fini di una riflessione sociologica della contemporaneità, sono anche le impressioni raccolte, nel corso dell’indagine e delle interviste, sul senso dell’esistere, sulla vita e sulla morte.

La constatazione ricorrente è che la morte venga rimossa, messa fra parentesi, sottaciuta. Soprattutto le giovani generazioni vengono allontanate da essa o sono preferibilmente assenti. Al punto da considerarla quasi un’onta, un qualcosa da non va neanche menzionata. Per ogni genere di pratica intervengono dei professionisti, specialisti del settore. La partecipazione sociale è minima, anzi volutamente minimizzata. In definitiva, la morte tende a perdere un suo certo carattere sacro, religioso. E di fronte a essa prevale il disincanto, come affermava Barrau già nel 1994. Blaumer dal canto suo ha parlato di una sorta di burocratizzazione della morte. 

Il problema della morte sembra essere un discorso a parte, che travalica le appartenenze religiose e appaia credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, con una tendenza ampia allo smarrimento e allo sgomento. 

Confrontando i datti attuali con quelli del 1995, gli autori hanno notato un sostenuto aumento dei negazionisti assoluti del post-mortem, passati dal 10.4% al 19.5%. 

Un vero e proprio ribaltone invece si nota allorquando si guarda all’insieme delle opinioni concernenti l’eutanasia. Il 62.7% è favorevole, contraddicendo quindi il magistero cattolico, mentre il 20.4% ne segue i dettami. Nel 1995 i contrari erano il 42.7%.

I dati raccolti sull’eutanasia ricordano quelli sulle unioni civili e sui diritti civili delle persone appartenenti alla comunità LGBT+ e al dibattito pubblico, anche dai toni molto accesi, che è scaturito dal DDL Zan. 

Si ha l’impressione che la società civile vada avanti e segua il suo seppur lento percorso di crescita, mentre istituzioni e comunità religiose tendano a rimanere ancorate a rigide posizioni evidentemente obsolete e fuori tempo.

Se la Chiesa, nello specifico quella cattolica in Italia, riesce in genere a raccogliere un maggior numero di consensi rispetto ad altre istituzioni (politiche, economiche, giuridiche, militari, formative, comunicative…) è però anche da tenere presente che non mancano molteplici riserve e critiche nei suoi confronti. Si può affermare che, per quanti risiedono in Italia, è più la Chiesa cattolica nella fattispecie che non la religione in sé a costituire un problema.

Una Chiesa che si è trovata all’inizio del secolo e del nuovo millennio ad affrontare l’impatto con un’accresciuta presenza di soggetti appartenenti ad altre religioni. Vi è un primo gruppo, più cospicuo, di persone che non hanno difficoltà ad accettare e annettere in senso lato una religione altra alla propria, pur non rinunciando al proprio credo; e un secondo insieme di soggetti che tiene molto di più alla propria fede di appartenenza e muove alcune critiche alle religioni diverse. 

Nella prima serie di attori sociali sembra essere determinante il livello di studio acquisito, dato che un certo numero di laureati si allinea con una visione più inclusivista in materia religiosa. 

Il carattere bonario di papa Francesco attrae, suscita simpatia, crea un legame, facilita l’ascolto, abbatte le distanze e favorisce anche una certa fidelizzazione soprattutto dei credenti e dei praticanti, che lo seguono volentieri anche via radio o televisione. Tuttavia in molti gli rimproverano di avere solo un ruolo di facciata, di copertura. Egli mostrerebbe dunque un volto pacifico, una personalità accondiscendente, una natura non sanzionatoria, ma solo per non mettere in luce le ostilità interne, le fazioni in lotta, i carrierismi e gli arrivismi. Rispetto a tutto ciò, si osserva che il pontefice non è in grado di intervenire e decidere in maniera ampia e definitiva, limitandosi a reprimende solo retoriche, a rimproveri tanto plateali quanto inutili e a parole non seguite da fatti. 

Nelle conclusioni al testo, Roberto Cipriani sottolinea come già da tempo ormai i sociologi della religione hanno discusso la possibilità di prendere in considerazione la spiritualità come una nuova dimensione della religiosità. La tendenza sembrerebbe andare verso nuove forme di religiosità, interiori profonde individuali. Non necessariamente in contrasto con la religione o la religiosità, classicamente intesa. E sarà proprio la categoria dell’incertezza il carattere prevalente di questa nuova religiosità, morbida vaga soft instabile indeterminata, non facilmente accertabile né definibile, se non appunto come incerta fede. 

Un lavoro di indagine sul campo molto accurato e approfondito, quello condotto dal professor Roberto Cipriani con il supporto, per la parte quantitativa della ricerca, dal professor Franco Garelli. Che arricchisce il lettore di una notevole quantità di informazioni, puntuali e precise, su spiritualità e religione certo ma anche sulla socialità e sull’attualità dell’Italia e degli italiani di oggi. 

Il libro

Roberto Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine quanti-qualitativa in Italia, Franco Angeli Edizioni, Milano, Prima Edizione 2020, Ristampa in corso (Novembre 2021).

Prefazione di Enzo Pace.

Nota metodologica di Gianni Losito.

Peer Reviewed Content.

L’autore

Roberto Cipriani: professore emerito di Sociologia all’Università Roma Tre, dove è stato direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione. È stato presidente dell’Associazione italiana di Sociologia, professore di Metodologia qualitativa all’Università di San Paolo (Brasile), di Sociologia qualitativa all’Università federale di Pernambuco (Recife, Brasile), di Metodologia qualitativa all’Università di Buenos Aires, di Scienza della Politica all’Università Laval del Québec.

Autore di numerose pubblicazioni e indagini teoriche ed empiriche.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Simi Comunicazione per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Perché fidarsi della scienza?”

14 domenica Nov 2021

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BollatiBoringhieri, NaomiOreskes, Perchéfidarsidellascienza, recensione, saggio

La scienza ha sempre ragione? No.

E allora perché fidarsi della scienza?

La domanda, soprattutto di recente, in tanti se la sono posta. Molti, purtroppo, hanno trovato una facile risposta avallando le tesi di coloro che Oreskes chiama «mercanti di dubbi». Ovvero coloro i quali portano avanti, con ogni mezzo, la strategia di creare l’impressione che la scienza coinvolta nelle varie questioni sia instabile e che i relativi temi scientifici rimangano giustamente oggetto di contestazione. 

Per farlo si ricorre spesso, anche in Italia accade, all’attacco personale rivolto a scienziati ed esperti, spostando in questo modo in secondo piano la scoperta o il lavoro scientifico. Un lavoro che può non essere perfetto, certo, ma che viene comunque sempre sottoposto a rigide e ripetute revisioni e condiviso all’interno di una comunità, quella scientifica appunto, dove dati, teorie, ipotesi, tesi e conclusioni vengono sviscerate e analizzate, controllate, criticate, condivise o rigettate. Il tutto poi va avanti, in genere, per lunghi e articolati periodi di tempo. 

Ma questo sembra non interessare i mercanti di dubbi, come anche i loro seguaci. A volte basta un commento sarcastico sull’esperto o sullo scienziato che ha avanzato una tesi più o meno distante dal mainstream affinché il tutto diventi e ingeneri solo una gran confusione.

È strumentale, voluto e pianificato: screditare gli scienziati per screditare la scienza. 

Come si può fidarsi di uno scienziato quando si ritiene di averlo facilmente e pubblicamente smentito? Oppure quando viene dimostrato che ha commesso un errore? Che ne ha commessi più d’uno?

Per Naomi Oreskes il problema è di facile soluzione: non bisogna fidarsi. Non bisogna mai fidarsi del singolo scienziato o esperto in maniera incondizionata. Proprio perché può sbagliare, oppure agire per interesse. Può succedere. E allora che fare? Anche per questo serve il curriculum e la valutazione dello stesso, oltre tutti i lavori svolti e i risultati ottenuti. 

Il punto focale è che la fiducia non deve essere riposta negli scienziati presi singolarmente ma nella scienza in quanto processo sociale, proprio perché garantisce il suo consenso solo dopo aver sottoposto le proprie tesi a uno scrutinio rigoroso e plurale. Perché anche nel momento di maggiore diffusione delle tesi più assurde e bizzarre, esisteva ed esiste una comunità scientifica che non offriva e non offre il suo consenso, mettendo in evidenza gli aspetti ideologici e gli interessi nascosti che si celano dietro quei risultati.

Perché dovremmo credere agli scienziati quando i nostri politici non lo fanno? È un altro degli interrogativi ricorrenti. Per rispondere a esso bisogna concentrarsi sui motivi per cui queste diverse categorie (scienziati e politici) svolgono il proprio lavoro, sullo scopo che vogliono raggiungere e gli interessi che devono perseguire. Per Oreskes non bisogna mai controbattere perché così facendo si finisce per ammettere che la contestazione esiste, è reale. Non bisogna mai rispondere al fuoco con il fuoco. Piuttosto spostare i termini del dibattito. E un modo utile per farlo è mettere in luce le motivazioni ideologiche ed economiche che spingono a negare la scienza, per dimostrare che quelle obiezioni non sono scientifiche, ma politiche. 

Più di una volta in Italia, nel corso della pandemia da Covid-19, ci si è trovati difronte all’apparente paradosso della incongruenza tra le conclusioni o le procedure suggerite da medici, virologi, scienziati e comitato tecnico scientifico e quelle che poi in realtà sono state le decisioni prese dai governi, quello precedente presieduto da Giuseppe Conte e quello attuale, presieduto da Mario Draghi. 

Il motivo di fondo alla base della distanza, per molti versi incolmabile, tra le opposte posizioni non è altro che da ricercarsi nel motivo che spinge quelle scelte. 

Ciò però, spesso, ingenera confusione nei cittadini. Come il tanto famigerato Certificato Verde – Green Pass. Che è una misura politica appunto, non un provvedimento sanitario di contenimento del virus. Questo per fare solo uno dei tanti esempi possibili.

La superiore affidabilità delle tesi scientifiche deriva, nella sua visione, dal processo sociale che le produce. Un processo che non è perfetto certo, come non lo è il metodo utilizzato (il metodo scientifico appunto). È necessario invece, sottolinea l’autrice, dare una immagine della scienza come attività comunitaria di esperti, che impiegano metodi diversi per raccogliere evidenza empirica e passano al vaglio le conclusioni che ne traggono. 

Con margini di errore certo, come qualsiasi altra attività umana, ma un’attività portata avanti con determinazione, conoscenza, competenza e abnegazione. Altrimenti non si riuscirebbero a spiegare i progressi, i successi, le scoperte, le invenzioni e le innovazioni… nonostante tutto.

Il libro

Naomi Oreskes, Perché fidarsi della scienza?, Bollati Boringhieri Editore, Torino, 2021.

Titolo originale: Why trust science?, Princeton University Press, Princeton – NJ, 2019.

Traduzione di Bianca Bertola.

L’autrice

Naomi Oreskes insegna Storia della Scienza e Scienze della Terra all’Università di Harvard. 

Ha lavorato come consulente per la United States Environmental Protection Agency e la US National Academy of Sciences. 

È nei consigli di amministrazione del National Center for Science Education e del Climate Science Legal Defense Fund.


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Bollati Boringhieri Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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L’importanza della scienza e della cultura nelle parole di Lucia Votano. “La via della seta. La fisica da Enrico Fermi alla Cina” (Di Renzo Editore, 2017)

Come la scienza combatte la cattiva informazione? Intervista a Dario Bressasini


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“Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti” di Pietro Roberto Goisis

06 mercoledì Ott 2021

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EnricoDamianiEditore, Nellastanzadeisogni, PietroRobertoGoisis, recensione, saggio

L’autore racconta aneddoti, descrive situazioni, analizza accadimenti, sviscerandone i contenuti più profondi, intimi e simbolici. Percorre e ripercorre, insieme al lettore, un lungo percorso che lo ha visto prima figlio e poi padre, studente, tirocinante e terapeuta, medico e paziente egli stesso. 

Racconta molto di se stesso, del suo percorso professionale ma anche della sua vita privata. Come se il libro, in realtà, avesse o dovesse avere, per lui, un effetto “terapeutico”, catartico. 

Tutto sembra avere origine dal luogo in cui si svolgono i colloqui clinici tra lo psicoanalista e il paziente: la stanza. Per Goisis, se non ci fosse non esisterebbe alcun terapeuta e nessun paziente. Al punto che egli ritiene possa essere addirittura magica, «che riesca a tirare fuori il meglio di me, qualcosa che neppure so di possedere, che altrove non saprei trovare, che mi sorprende» (pag. 9). 

La stanza è il luogo fisico e simbolico dove le persone diventano pazienti e chi le ascolta diventa il loro psicoanalista, il medico che deve ascoltare e guarire le fragilità, le paure, i traumi, le incertezze e le insicurezze. E deve farlo secondo una metodologia che, fino a pochi anni fa, era molto rigida, con severe regole di condotta dentro la stanza, dove aveva luogo la terapia, e fuori da essa, dove andava mantenuto il massimo riserbo.

Sono stati gli insegnamenti di Tommaso Senise a far maturare la consapevolezza in Goisis che «nella terapia si può fare tutto, purché si sappia perché lo si fa» (pag. 27). La stanza di Goisis è pet friendly. Gli animali rappresentano anche aspetti interni delle persone che li portano. Risultano quindi funzionali alla terapia. 

È alquanto singolare che nelle scienze che si occupano del comportamento umano si ha la tendenza a isolare l’individuo considerandolo separatamente dalle variabili esterne. Cosa che non accade, per esempio, in etologia, dove lo studio delle relazioni tra animale e ambiente vengono da tempo prese in esame come fattori determinanti. Negli studi sul comportamento patologico, le conseguenze di questo atteggiamento portano a occuparsi principalmente della mente umana come se fosse un’entità indipendente.1 E, nella psicoanalisi, questa entità indipendente viene indagata all’interno della stanza, che diviene la bolla dentro la quale si sviluppa per intero la terapia.

Goisis ha mostrato sempre molta cura e attenzione nel comporre l’universo-stanza dentro cui accoglie i suoi pazienti. Considerando la presenza, in un angolo, di una pianta verde il suo legame con la natura dentro la stanza. Sono stati gli insegnamenti di Nina Coltart a far volgere lo sguardo dei terapisti oltre il perimetro delle mura, allungandolo fino alla natura. Sosteneva ella, infatti, che ogni terapeuta dovrebbe possedere e coltivare un giardino. 

Il lavoro svolto dentro la stanza può essere pensato come il lavoro della capacità di amare, volto a far sentire il paziente importante, compreso e accolto. Un amore che è trascendentale, l’unico contenitore affidabile entro cui potremmo sentire odio, rabbia, disprezzo per periodi di tempo variabili.2

Grande cura bisogna riporre in ogni dettaglio della stanza, perché i dettagli sono il modo di accogliere il paziente ed è proprio dal setting che inizia la cura stessa. Dalla stanza. All’interno della quale il tempo acquista una dimensione nuova, propria. «A volte sembra rallentare o dilatarsi come se assecondasse silenziosamente lo stato d’animo dei miei pazienti, il fluire ora torrenziale ora reticente delle loro parole. È una sensazione piacevole, anche se a volte gestire lo scorrere dei minuti, riportarli all’ordine e chiudere una seduta non è semplice. Del resto, il mio compito è anche questo: tenere la rotta, guidare il flusso dei pensieri, dosare le paure, tenendo però la mano leggera» (pp. 29-30).

Il concetto di tempo è strettamente connesso con la psicoanalisi. Il rapporto tra uomo e tempo è sempre stato difficile e problematico. Sul fronte della clinica, l’analista che segue il metodo indicato da Wilfred R. Bion «senza desiderio e senza memoria» configura il setting come un’isola del tempo. Ma anche il soggetto, all’inizio del trattamento, dovrà rinunciare al controllo del tempo, sia del passato che del futuro. Si può considerare il tempo come una tela su cui ricamiamo le nostre esperienze di vita. Una tela che ci avvolge e ci copre, ma che a volte ci soffoca anche.3

Goisis si dichiara controllore del tempo della seduta di psicoanalisi che si svolge nella sua stanza, ma egli, in realtà, è anche il decisore del tempo verso cui la terapia tende e tenderà.

Fino a non molto tempo fa, lo sguardo del terapeuta era diretto sostanzialmente verso il passato, come causa e antecedente del presente. Di recente, invece, lo sguardo del paziente e dell’analista è rivolto al futuro e le aspettative sono viste come un fattore significativo rispetto a ciò che sta accadendo. Non è l’après-coup o il Nachträglichkeit ciò che improvvisamente conferisce un nuovo significato al passato rendendolo traumatico, ma è quello che non è ancora accaduto, ma è desiderato o temuto, a determinare in parte ciò che sperimentiamo nell’oggi.4

Il passato, il presente, il futuro, le aspettative, le emozioni, le paure, le fobie, i traumi, le speranze: chi si affida al lavoro di uno psicoanalista mette tutto questo e anche oltre sul tavolo, ma, spesso, a farlo è anche lo stesso medico. «Lo psicoanalista non è un muro, non è neppure un orecchio neutro. È una persona che vive di incontri, che deve curare altre persone, ma anche curare se stesso» (pag. 31). 

La regola tradizionale richiede al terapeuta neutralità, astinenza e anonimato. Ma il fenomeno dell’autorivelazione (self-disclosure), ovvero uno svelamento cosciente e voluto, da parte dell’analista, di qualche aspetto di sé al paziente, è entrato sempre più a far parte del linguaggio psicoanalitico. Lo schieramento di studiosi favorevoli o contrari alla self-disclosure è nettamente contrapposto. I primi ne vedono le potenzialità proprio nell’abbandono di un eccesso di neutralità che può addirittura inibire il processo terapeutico e bloccare le libere associazioni del paziente. Per i secondi, invece, l’autorivelazione potrebbe rappresentare una difficoltà controtransferale dell’analista arrivando addirittura, in casi estremi, ad essere espressione di una sua necessità narcisistica di rivelarsi. 

Il transfert riguarda quei sentimenti o pulsioni, positive o negative, che il paziente sviluppa nei confronti del suo analista durante un percorso di psicoanalisi. Inconsciamente, il paziente trasferisce i sentimenti che ha provato o prova per un’altra persona verso il suo analista. Oltre a dover gestire i transfert del paziente, è compito dell’analista anche il non lasciarsi andare al controtransfert. In questo caso è l’analista a proiettare le proprie esperienze sul paziente. 

L’autorivelazione dell’analista può avvenire in vari modi: 

  • Risposte a domande dirette.
  • Comunicazioni spontanee del vissuto controtransferale.
  • Ammissione di propri errori.
  • Narrazione di esperienze personali.

È per certo auspicabile che l’autorivelazione dell’analista sia, in ogni caso, sempre funzionale al paziente e alla terapia. In base anche al principio di Senise, ripreso dallo stesso Goisis, secondo cui l’analista deve ritenersi libero di agire purché sappia sempre ciò che sta facendo. 

Ciò che non andrebbe mai dimenticato è che, alla fin fine, gli psicoanalisti non sono altro che esseri umani, semplicemente. Non custodiscono verità assolute e combattono loro stessi, quotidianamente, con una moltitudine di emozioni al pari dei loro pazienti. Può essere necessario, anche per imparare a essere dei bravi analisti, sottoporsi in prima persona a un percorso di terapia.

Ed è qui che entra in gioco un altro aspetto fondamentale: qual è lo scopo ultimo di una terapia psicoanalitica?

Per Goisis il mero ascolto non può essere indicato come scopo ultimo di una terapia. I pazienti, dal canto loro, si aspettano una soluzione tangibile e concreta ai loro problemi. Lo scopo ultimo di una psicoterapia sembra essere il cambiamento che porta, per il paziente, una maggiore consapevolezza di sé, del proprio essere e dei propri bisogni, nonché del modo di guardare gli altri e il mondo. Lo si potrebbe anche interpretare come una sorta di liberazione da un’oppressione latente o evidente. Un’angoscia che limita e devia il comportamento ordinario e quotidiano.

Il finale del libro spiazza un po’ il lettore. Per la fermezza e l’espressività anche troppo colorita. Discordante per certo dallo stile utilizzato fino a quel punto dall’autore. È un finale anomalo, inaspettato, ma certo non privo di significati e significanti. Rappresenta, in un certo qual modo, la conferma della funzione catartica assunta dalla scrittura, dal libro stesso, per Goisis. Quasi una sorta di psicopterapia della narrazione. Di cui il finale ne rappresenta e al contempo ne descrive e racchiude lo scopo. Il cambiamento, la liberazione dello stesso autore ,per tramite della sua esternazione, dalla sofferenza e dal dolore causati dalla perdita e dalla mancanza di un affetto cui non era pronto a rinunciare. Ecco quindi perché il libro appare, a tutti gli effetti, un percorso di terapia. Un cambiamento. Una catarsi. 

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Bibliografia di riferimento

Pietro Roberto Goisis, Nella stanza dei sogni. Un analista e i suoi pazienti, Enrico Damiani Editore, Brescia, 2020.

L’autore

Pietro Roberto Goisis: medico, psichiatra, psicoanalista. Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, oltre che in Scuole di Specializzazione, Enti pubblici e privati. 

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1Franco Baldoni, Bruno Baldaro, Carlo Ravasini, Il colloquio clinico, in Trombini G. (a cura di), Introduzione alla clinica psicologica, Zanichelli, Bologna, pp. 103-126, 1994.

2Nina Coltart, Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche, Cortina Raffaello, Milano, 2017.

3Miguel Angel Gonzales Torres, Tempo e Psicoanalisi. La dimensione temporale e la sua relazione con il processo psicoanalitico, Rivista Psicoanalitica, 2007, Anno XVIII, n 2, pp. 229-245. Traduzione dallo spagnolo di Daniela De Robertis. 

4Miguel Angel Gonzales Torres, ibidem.

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Enrico Damiani Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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“Blu Stanzessere” di Roberta Zanzonico (Ensemble, 2019)

Melancholica deliria multiformia: “L’anatomia della malinconia” di Robert Burton (Bompiani, 2020)

Il racconto delle occasioni di vita perdute in “Manuale di fisica e buone maniere” di Daniele Germani (D&M, 2016)

Le regole di condotta: il comportamento in pubblico tra impegno e partecipazione. “Il comportamento in pubblico” di Erving Goffman (Einaudi, 2019)

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Nell’era della memoria storica può diventare necessario l’elogio dell’oblio?

30 giovedì Set 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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DavidRieff, Elogiodelloblio, LuissUniversityPress, recensione, saggio

Negli ultimi anni si è assistito a un sempre crescente interesse verso la costituzione di una solida memoria storica, necessaria garanzia di pace in quanto è grazie ad essa che gli uomini possono non solo tramandare usanze e costumi ma anche evitare che tragedie e sciagure, e tutto il male fatto, tornino a ripetersi. 

È questa l’idea che David Rieff sfida apertamente nel libro Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica. Un libro che va letto con molta calma e attenzione, proprio in virtù del fatto che l’autore lo ha scritto con la precipua volontà di sfidare il lettore. Il quale è allora chiamato a non cadere nel tranello delle facili e quasi certamente errate conclusioni. 

Rieff non è contrario alla memoria storica o collettiva, come non è fautore dell’oblio indiscriminato. Il suo pensiero si muove lungo un sentiero tortuoso e accidentato, pieno di insidie e facili fraintendimenti, volto a mantenere o ricercare un equilibrio tra la memoria a ogni costo e la dimenticanza indistinta, soprattutto quando entrambi i fronti divengono strumento di una cultura e di una politica che tentano di strumentalizzarli a proprio vantaggio. A volte riuscendoci anche, purtroppo. 

Nietzsche diceva che «non ci sono fatti, solo interpretazioni», ed è proprio seguendo questa linea che l’autore vuole mettere in guardia il lettore dagli autoinganni e dalle manipolazioni che, spesso, si frappongono tra noi e il ricordo storico. Autoinganni e manipolazioni che contribuiscono a tenere viva la fiamma rovente e distruttiva dell’odio e della vendetta, a volte unici motivi per cui si tende ad esaltare l’importanza del ricordo e della memoria storica. È successo tante volte. Numerosi sono gli esempi riportati da Rieff nel testo. 

Jacques Le Goff riteneva che «la memoria mira a salvare il passato soltanto per servire al presente e al futuro». Ed è da posizioni come queste che, per Rieff, bisogna stare lontani per evitare che, visioni strumentali degli accadimenti del passato, condizionino il presente e il futuro. 

Naturalmente non tutta la storia va dimentica. L’importante è una buona documentazione sulle fonti, sui dati, sulle testimonianze, sulla neutralità e centralità dei fatti. In generale, gli estremismi e le estremizzazioni non sono mai fonte di saggezza. 

Non è solo il troppo oblio quindi a rappresentare un rischio, lo è anche la troppa memoria. E, per Rieff, in questo Ventunesimo secolo, ora che le persone di tutto il mondo, ma soprattutto del Nord del globo, sembrano ossessionate dal culto della memoria, è proprio l’eccesso di memoria che può diventare un rischio. La memoria può essere alleata della giustizia, ma può non esserlo della pace, divenendo al contrario incubatrice di odio e desiderio di vendetta. E, conclude l’autore, quando la memoria collettiva condanna una comunità a sopportare il dolore per le proprie ferite e la rabbia per i torti subiti, non dovrebbe essere onorato il dovere di ricordare, ma quello dell’oblio.

Per certo le tesi avanzate da Rieff nel testo sono una voce fuori dal coro in questo periodo in cui tanto si insiste sulla necessità di creare una solida memoria storica e collettiva che aiuti, soprattutto, a evitare il ripetersi degli errori del passato. Ma non sono in contraddizione con la tendenza generale. Vanno piuttosto intese come un differente modo di affrontare il ricordo, affrancandolo dal livore dell’odio e dalle mistificazioni. E, in quest’ottica, non si può non essere concordi con lui.

Il libro

David Rieff, Elogio dell’oblio. I paradossi della memoria storica, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Gabriella Tonoli. Prefazione di Marta Boneschi. Pagg. 136, €18.00

Originariamente pubblicato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito da Yale University Press con il titolo In praise of forgetting, nel 2016.

L’autore

David Rieff: scrittore e giornalista americano. Esperto di conflitti internazionali, immigrazione e questioni umanitarie, è autore di numerosi libri. 


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Luiss University Press per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

La vera lotta alla mafia passa anche attraverso una memoria storica che racconti la verità. “Le Trattative” di Antonio Ingroia e Pietro Orsatti (Imprimatur, 2018)

Costruire una solida memoria storica dei mali causati dall’odio umano per non dimenticare neanche “Le verità balcaniche” (Andrea Foffano, Kimerik 2018)


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Recensione a “Media digitali e Relazioni internazionali” (Guerini Scientifica, 2021)

29 domenica Ago 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AlessandraMassa, geopolitica, GiuseppeAnzera, GuerinieAssociati, GueriniScientifica, MediadigitalieRelazioniinternazionali, recensione, saggio

La ricerca negli ultimi anni ha guardato a quanto accade quando i conflitti vanno online, ma non sempre si è stati accorti nel valutare le conseguenze della popolarizzazione dei temi e delle forme degli stessi.

Le piattaforme online sono solo un altro spazio da colonizzare nella lotta per la definizione degli immaginari bellici, o sono un nuovo spazio nel quale gli ecosistemi di mediazione influenzano i conflitti stessi?

È a partire da quesiti come questo che gli autori, Giuseppe Anzera e Alessandra Massa, hanno condotto la loro ricerca sui media digitali e il loro rapporto o ingerenza nelle relazioni internazionali. Il cambiamento in atto è sotto gli occhi di tutti. Gli Stati, in breve tempo, sono passati dall’essere soggetti centrali e determinanti nelle questioni belliche e di politica internazionale a poli sparuti in un affollato sistema multicentrico, nel quale convivono e operano vari attori, liberi di operare rispetto alla sovranità nazionale (imprese multinazionali, minoranze etniche, partiti politici transnazionali, organizzazioni non governative internazionali, gruppi terroristici e via discorrendo). E anche laddove gli Stati cercano di intervenire direttamente e ufficialmente, con account e portali istituzionali, in realtà il loro ruolo è sempre mediato dalle regole predefinite e apparentemente universali dei grandi gestori le piattaforme online. 

Queste piattaforme, lontano dall’essere super partes, in realtà esportano modelli economici e politici. Esse non nascono nell’astratto regno di internet, ma risentono del complesso legame con il territorio in cui insistono, «dal quale mutuano non solo l’organizzazione economica, ma anche peculiari valori, come la libertà di espressione, la censura, il peso del potenziale di emancipazione e di autoespressione consentiti ai singoli utenti» (cit. dalla Introduzione al libro). 

Per citare solo uno dei numerosi e interessanti esempi del potere potenziale e reale delle piattaforme online, nel testo si analizza la rappresentazione cartografica del confine tra Russia e Crimea operata dai maggiori gestori di mappe, comeGoogle e Apple. «Questi grandi distributori di servizi online hanno accolto le richieste della Russia in merito all’attribuzione della penisola della Crimea. Così, mentre il mondo politico ancora discute sulla territorialità della Crimea, le piattaforme ragionano con la velocità degli affari, imponendo le loro soluzioni tecnologiche alle diatribe fisiche» (p. 74). Apple Maps mostra le località della Crimea come afferenti la Russia quando si consulta la mappa dal territorio russo mentre se si accede all’applicazione dagli Stati Uniti, gli stessi territori non sono attribuiti ad alcun paese. 

Un problema, quello dei limiti e dei reali confini geopolitici, avanzato e trattato anche da Alfonso Giordano, il quale ha sottolineato come Google alla fine da deciso di mostrare “semplicemente” a ogni Paese l’idea del mondo che esso vuole. Una carta geografica non è una raffigurazione imparziale e scientificamente attendibile di un territorio, piuttosto la rappresentazione di un punto di vista. Per la gran parte è sempre stato così. Oggi, però, con il livello tecnologico raggiunto ci si aspetta una rappresentazione del globo terrestre differente rispetto al passato, allorquando si doveva sottostare all’opinione del cartografo o del suo committente.1

Se la politica internazionale, oggi, si attua anche tramite le piattaforme online, allora queste assumono, in maniera intrinseca, un ruolo politico, poiché è compito loro veicolare e diffondere le informazioni, relative anche a politica internazionale e conflitti. Innegabile che il fine ultimo di queste piattaforme sia il profitto. Ragionevole quindi pensare che la loro gestione non possa corrispondere pedissequamente alla presentabilità pubblica. Ed è in quest’ottica che l’attività di moderazione, operata dalle piattaforme, le individua come strumenti, istituzioni e fenomeni culturali. Il cui potere di influenza si palesa ancor più in caso di malfunzionamento del sistema o diffusione di notizie false, ovvero fake news. 

Gli autori descrivono tutti i potenziali e reali problemi di questo sistema di diffusione delle informazioni, che in parte si affianca mentre in parte va a sostituire il tradizionale metodo di informazione broadcast, ovvero le trasmissioni unidirezionali, senza possibilità di interazione, e lo fanno in maniera molto strutturata, in modo da rimandare al lettore una visione ben ordinata dei vari strati di interesse e azione che vanno a comporre lo scenario entro cui si muove non solo la narrazione comune, ma anche quella politica, internazionale e militare. 

In particolare, la “militarizzazione” degli spazi digitali è per certo un’occasione attraverso la quale eserciti e forze militari possono divulgare le loro narrazioni, coinvolgendo l’opinione pubblica nei racconti sui confronti internazionali, ma gli autori avvertono della necessità di non sottovalutare il potenziale di popolarizzazione e di normalizzazione che potrebbe scaturire dallo stabilire una presenza in spazi di divulgazione e di disintermediazione. Inserire le routine comunicative delle forze armate in contesti diversi potrebbe, infatti, ibridare la loro presenza e sganciarla dagli esclusivi contesti bellici. Le conseguenze di ciò non si conoscono e andrebbero quantomeno monitorate. 

Ecco allora che si presenta uno degli aspetti più cocenti tra quelli trattati nel testo: la responsabilità. A chi spetta la responsabilità di quanto sta accadendo? Alle piattaforme? Agli Stati? Alle reti strutturate di cittadini? Nell’attuale panorama non è ancora ben chiaro anche se è evidente si tratta di una condizione non procrastinabile a lungo. 

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Il Testo

Giuseppe Anzera, Alessandra Massa, Media digitali e Relazioni internazionali. Tecnologie, potere e conflitti nell’era delle piattaforme online, Guerini Scientifica, Milano, 2021. In commercio dal 4 maggio 2021. Libro universitario. Brossura, 172 p., 18,00€.

Gli Autori

Giuseppe Anzera: professore associato di Sociologia dei Fenomeni Politici presso Sapienza Università di Roma, dove insegna Sociologia delle Relazioni Internazionali.

Alessandra Massa: dottore di ricerca in Comunicazione, Ricerca, Innovazione presso Sapienza Università di Roma.

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1Alfonso Giordano, Limiti. Frontiere, confini e lotta per il territorio, Luiss University Press, Roma, 2018, 198 p. 

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini Scientifica per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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LEGGI ANCHE

La conoscenza geografica del territorio ancor più necessaria nell’era della globalizzazione: “Limiti” di Alfonso Giordano (Luiss University Press, 2018)

Stampa di Palazzo e fake news. Fermare gli “Stregoni della notizia”. Intervista a Marcello Foa

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