Le sfide che la contemporaneità pone al futuro prossimo sono segnate dal rapido invecchiamento della popolazione mondiale. I numeri degli anziani e dei grandi anziani stanno inevitabilmente crescendo anche all’interno delle comunità diasporiche. La longevità può essere osservata con sguardo ambivalente: da un lato essa rappresenta la realizzazione di un ideale di lunga vita, mentre dall’altro è foriera di una crisi demografica, che si manifesta attraverso la molteplicità di cure che una popolazione sempre più anziana esige. Il “peso” della cura si riverbera nelle politiche nazionali del welfare e sui dispositivi di solidarietà intergenerazionale sui quali le comunità si fondano, rischiando il collasso del tessuto economico e sociale (M. Scaglioni, F. Diodati, (eds) Antropologia dell’invecchiamento e della cura: prospettive globali, Ledizioni, Milano, 2021).
Ma come vivono i diretti interessati la longevità? Severgnini ha analizzato a fondo l’universo della terza età e lo ha fatto attraverso lo sguardo indagatore della giovinezza mitigato dalla saggezza filosofica. Il risultato è un libro basato sull’imperativo dont’ become an old bore – non diventare un vecchio barbogio. Le regole da seguire sono semplici: «Essere attenti e generosi; coltivare l’ironia, antiruggine dell’anima; farsi venire buone idee, frequentando persone intelligenti e bei luoghi; farsi domande, anche sull’attualità; non rinchiudersi in un tempio domestico regolato da piccole ossessioni; pensare che il mondo non finisce con noi. Farsi una domanda: Quanti anni mi restano? E poi pensare: quegli anni voglio usarli bene».
Per Severgnini alcuni giovani oggi sono annichiliti perché nessuno li ascolta, altri trovano strade e porte chiuse da chi dovrebbe aprirle per loro: «È una buona cosa che alla mia età – ho 68 anni – ci si senta utili e attivi. Ma questo non deve avvenire a spese dei nostri figli e nipoti».
A causa dell’invecchiamento e dei fattori associati si può andare incontro a una mancanza di rinforzi positivi e a un fallimento nella capacità di adattamento per cui i tratti di personalità maladattativi e/o sub-clinici diventano manifesti – per esempio aumenta l’invidia e il senso di grandiosità personale tra i narcisisti di successo come risultato di un pensionamento forzato, oppure si ha un importante declino dell’umore (B. De Sanctis, B. Basile, L’applicazione della schema therapy in terza età, in Cognitivismo clinico, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2020). I giovani di oggi, invece, non soffrono solo di una difficoltà psicologica comune a tutta l’adolescenza, ma anche di una dimensione culturale legata alla cultura del nostro tempo in rapporto al futuro. Quindi c’è una sofferenza doppia, con la seconda più grave della prima (U. Galimberti, intervista a «Il Piccolo», 30 ottobre 2019).
Incrementare la produttività a tutti i costi ci ha portati a un sistema sociale nel quale l’uomo sembra esistere solo in funzione del lavoro e così i giovani che ne sono privi si annichiliscono e gli anziani che ne sono ormai fuori si deprimono e si arrabbiano perché si sentono inutili. Severgnini non ha la presunzione di proporre un modello di vita alternativo ma ha la capacità di suggerire un pensiero alternativo: «siamo esseri umani nel tempo, non pezzi di legno nella corrente».
Il libro
Beppe Severgnini, Socrate, Agata e il futuro. L’arte di invecchiare con filosofia, Rizzoli, Milano, 2025
Articolo pubblicato sul numero di aprile 2025 della Rivista cartacea Leggere:Tutti
Trentasei donne afghane raccontano, in lingua dari, ognuna con parole e stili propri, la loro vita fino alla primavera del 2022, il momento in cui Zainab Entezar, regista e scrittrice afghana, costretta dalla latitanza, chiude le interviste e la raccolta degli scritti delle attiviste. Donne impegnate a dare conto delle loro esistenze e delle loro proteste spinte dall’urgenza di un evento ben preciso: il ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan il 15 agosto 2021, dopo venti anni di presenza occidentale.
A quasi quattro anni dal ritorno dei talebani al potere, la situazione nel paese resta complessa e contraddittoria. L’Afghanistan è tornato a una situazione che presenta molte somiglianze al periodo pre-invasione occidentale. Il movimento islamico fondamentalista, colpito dagli Usa perché accusato di connivenza con Al-Qaida e il suo leader Osama Bin Laden, annunciava poche ore dopo la presa di Kabul la nascita dell’Emirato islamico dell’Afghanistan e il ripristino come legge vigente della Sharïa, nella sua interpretazione più rigida e fondamentalista. Se da un lato i talebani hanno oggi consolidato il loro controllo sul territorio, dall’altro la loro gestione del paese continua a essere segnata da problemi economici, violazioni dei diritti umani e isolamento internazionale. Relativo. Perché, in realtà, Pakistan e Iran hanno ristabilito i contatti con il governo talebano. La Cina poi è stato il primo paese non musulmano a cercare un dialogo con i talebani. Il Qatar ha giocato un ruolo centrale nelle negoziazioni tra i talebani e gli Stati Uniti, mentre la Turchia ha offerto assistenza tecnica e supporto nella gestione dell’aeroporto di Kabul. La Federazione russa, pur non riconoscendo formalmente il governo dell’Emirato, ha ospitato delegazioni talebane e mantenuto contatti regolari, vedendo l’Afghanistan come un punto strategico nella sua politica verso l’Asia centrale.1
Macrory nel 1986 ha prodotto il più puntuale resoconto della peggiore disfatta delle forze britanniche nel XIX secolo, ovvero l’annientamento di un corpo di spedizione inviato a occupare Kabul nel 1839 e massacrato nel corso di una precipitosa ritirata meno di tre anni dopo.2 Molte sono le analogie tra gli eventi del gennaio del 1842 e la fine dei venti anni di guerra in Afghanistan. Ancora una volta, dopo una vittoria sul campo rapida e schiacciante e una lunga occupazione, l’Afghanistan è stato abbandonato in tutta fretta e malamente.3
All’inizio sembrava tutto semplice: abbattere il regime dei talebani, eliminare i militanti di Al-Qaida e i loro campi di addestramento dal paese, catturare o uccidere Osama Bin Laden. Poi si scivola verso obiettivi vaghi, troppo ambiziosi, mai del tutto condivisi tra opinione pubblica, decisori politici e gerarchia militare. Un conto è fare nation building in Germania o in Giappone dopo aver vinto una terribile guerra convenzionale, di cui quei Paesi e la loro gente sapevano di portare la responsabilità maggiore. Tutt’altra cosa ricostruire l’Afghanistan, il cui regime è stato rovesciato nel 2001 per colpe che molti dei suoi abitanti ignoravano e ignorano tuttora, e dove non si è mai riusciti, dopo la “liberazione” dai primi talebani, a formare una classe dirigente adeguata.4
Il 15 agosto 2021 ha segnato il ritorno, per l’ennesima volta in quella terra, della negazione finanche dei più elementari diritti. A tale negazione corrisponde una prassi oppressiva, intimidatoria e violenta di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso. In Fuorché il silenzio trentasei donne ci parlano di questo, di come sono arrivate a quell’agosto 2021, radicando i loro racconti in una realtà storica e sociale che non è separabile dal percorso delle loro vite.
Si stima che l’80% della popolazione afgana sia composta da musulmani sunniti, adepti della scuola di giurisprudenza di Hanafi. Il gruppo etnico dei pashtun è, per la maggior parte, composto da sunniti, a eccezione della tribù pashtun-turi i cui membri sono sciiti. Il resto della popolazione (19%), in particolare il gruppo etnico hazara, professa per lo più la religione musulmana sciita. L’1% della popolazione segue altre religioni. Religione, tradizione e i codici islamici, insieme con le pratiche tradizionali e tribali, svolgono un ruolo fondamentale tanto nella disciplina della condotta personale quanto della risoluzione delle controversie.5
I pashtun sono attualmente, ma anche storicamente, il gruppo etnico politicamente più potente in Afghanistan. Tuttavia, nonostante la loro passata dominazione politica, non hanno mai costituito un gruppo omogeneo e molti sono diventati vittime di oppressione da parte delle élites delle loro stesse comunità. Eppure, nonostante le loro divisioni interne, si sono spesso uniti in un unico fronte quando si è trattato di opporsi a interferenze esterne o poste in essere da elementi non pashtun del governo centrale.6 Sono il gruppo etnico maggioritario in Afghanistan (circa il 42% della popolazione). La struttura sociale dei pashtun si basa sul codice pashtunwali, che è un misto tra un codice tribale d’onore e interpretazioni locali della legge islamica. La risoluzione di dispute e le decisioni prese a livello locale sono affidate al consiglio tribale jirga, mentre la donna è esclusa da qualsiasi questione che non riguardi la vita domestica.
Le altre etnie sono: tagiki, hazara, uzbeki, aimak, turkmeni, baluchi, e altre etnie minoritarie.
I tagiki , secondo gruppo maggioritario del paese, sono molto attivi politicamente. Dal 1992 al 1996 sono stati anche alla guida del governo del paese, in seguito agli accordi di Peshawar. Destituiti allorquando i talebani hanno iniziato la guerra civile. Si sono sempre mostrati contrari alla partecipazione dei talebani ai negoziati di pace, temendo ripercussioni per l’impegno in prima linea svolto contro i medesimi. Timori confermati prima dalle persecuzioni subite durante il governo dei talebani poi dall’uccisione (a settembre 2011) di Burhanuddin Rabbani, ex Presidente, leader del partito Jamiat-e-Islami e Presidente dell’Alto Consiglio per la Pace dell’Afghanistan.
In tutto l’Afghanistan, dopo la ripresa del potere dei talebani nel 2021, le donne hanno reagito alla repressione con un’ondata di proteste, alle quali si è risposto con intimidazioni, violenza, arresti arbitrari, sparizioni forzate e torture fisiche e psicologiche. Le donne arrestate per “corruzione morale” sono sottoposte a isolamento, pestaggio e altre forme di tortura e sono detenute in condizioni inumane, in celle sovraffollate e con poco accesso al cibo, all’acqua e, nei mesi invernali, al riscaldamento.
Obbligo di indossare hijab o burka, chiusura delle scuole secondarie, tutoraggio maschile, accesso ridotto all’università e divieto di accesso a parchi e giardini: questa è la vita delle donne afgane dal ritiro delle forze Nato dal paese. Il regime, che nel momento dell’insediamento aveva cercato di mostrare una faccia moderata, sta portando avanti il proprio progetto a piccoli passi, ma costanti.7
Il filo che lega le trentasei donne del libro è la protesta contro la situazione descritta. Le manifestazioni contro la negazione dei diritti fondamentali e la richiesta di libertà. Le testimonianze raccolte da Zainab Entezar sono, per la maggiore, di donne che nessuno conosceva, ma che hanno compiuto azioni di enorme coraggio, opponendosi alle armi dei talebani per le strade di Kabul, Herat, Mazar-e Sharif. Ognuna arriva a quel 15 agosto da un percorso proprio, da famiglie di diversa estrazione sociale, culturale ed economica. Nessuna è uguale all’altra ma la richiesta di libertà le accomuna indissolubilmente.
La curatrice del libro invita a una lettura senza pregiudizi, ovvero priva della proiezione dei nostri modelli: quello femminista prima di tutto, poi quello culturale e religioso ma, anche, priva di qualsiasi idea rigida di libertà ed emancipazione. Queste donne hanno avuto delle opportunità durante i non meno tragici venti anni di governo filo-occidentale: spesso con fatica, ma molte hanno potuto studiare. Hanno innescato e vissuto di fatto un’occasione di cambiamento all’interno di un sistema tradizionalista di grande rigidità. Ora tutto è stato loro nuovamente sottratto e negato con violenza. Ma quanto avevano sognato e realizzato non può più essere cancellato, né con la paura né con la tortura. Ormai è parte del loro essere.
Turbano i racconti delle violenze, del carcere, della latitanza, delle torture, ma a impressionare più nel profondo è la resistenza di queste donne, la capacità di andare oltre sé stesse per un “bene” che probabilmente non vedranno realizzato ma rispetto al quale sono disposte anche a mettere a rischio la propria vita.
Non c’è condanna per le donne le quali, pur trovandosi nella loro medesima condizione, scelgono il silenzio. C’è invece forte risentimento verso coloro che, stando al sicuro, pretendono di parlare al posto loro, che si appropriano della loro voce in modo strumentale, per ambizione o tornaconto personale.
Le militanti di RAWA – l’Organizzazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane – sono per la gran parte insegnanti. La scuola per le ragazze è il loro campo di battaglia. È questo l’unico canale per raggiungere le donne, parlare con loro, conquistare la loro fiducia. Aprirsi un varco nelle loro vite blindate, far capire che un’altra vita è possibile, che hanno diritti e che possono combattere per realizzarli. RAWA nasce nel 1977, dopo un decennio di libertà, effervescenza intellettuale, nascita di idee e movimenti, soprattutto nelle Università. In quaranta anni hanno sempre combattuto opponendosi ai regimi dell’URSS e all’Armata Rossa, alla guerra e alla violenza dei mujaheddin, al fondamentalismo e alle sue regole, ai talebani e al regime dei signori della guerra e della droga, vetrina dell’occupazione USA-NATO. Affrontare i talebani non è una novità, lo hanno già fatto negli anni Novanta. Forse oggi i talebani sono più forti e più feroci di allora, hanno più alleati. Ma anche le donne lo sono, le giovani donne che hanno creduto e che credono in un altro futuro possibile, e che non si lasceranno “disarmare”.8
Libro
Daniela Meneghini (a cura di), Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane, Jouvence, Sesto San Giovanni (Milano), 2024. Testi raccolti da Zainab Entezar. Rivista da Asef Soltanzadeh. Edizione italiana a cura di Daniela Meneghini.
Titolo originale: Azadi seda-ye zananedarad (The womanly voice of freedom), Bita Book, Danimarca, 2023.
1L’Afghanistan a tre anni dal ritorno dei Talebani, in ISPI – Istituto per gli Studi di Politica internazionale, 15 agosto 2024.
2P. Macrory, Retreat from Kabul: The Catastrophic British Defeat in Afghanistan, 1842, Lyons Press, Essex, Connecticut, 2007 (prima edizione 1986).
3M. Mondini, Ritirata da Kabul. Un’analisi della sconfitta in Afghanistan, in Il Bo-Live – Università di Padova, 7 settembre 2021.
4G. Breccia, Missione fallita, Il Mulino, Bologna, 2020.
5CIA, The World Factbook – Afghantistan, 01 agosto 2017, disponibile dal 28 agosto 2017 all’indirizzo:https://www.cia.gov/library/publications/the-world-factbook/geos/af.html
6Minority Rights Group, Afghanistan Overview, Pashtun, luglio 2018, disponibile in data 17 settembre 2019 all’indirizzo:http://minorityrights.org/minorities/pashtuns/
7S. Carradori, A. Pistolesi, Dossier/Iran, Afghanistan e Golfo: i diritti violati delle donne, in Atlante Guerre, 22 novembre 2022.
8C. Cella, Afghanistan: la guerra delle donne, custodi di dignità e speranza, in NAD – Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, n. 1/2022.
«Quando ho pubblicato la mia prima foto su Instagram, non sapevo che stavo accendendo la scintilla di qualcosa di straordinario. Condividevo scorci di vita, istantanee del mio quotidiano, senza immaginare che dietro ogni like, ogni commento, ci fosse un cuore che batteva all’unisono con il mio. E così, giorno dopo giorno, ho iniziato a percepire la magia di questa connessione: decine, centinaia, migliaia, poi milioni di persone che trovavano ispirazione e conforto nelle mie immagini e parole.»
Con queste parole Elisabetta Galimi introduce il suo libro al lettore, raccontando della sua avventura si Instagram iniziata per caso. Un percorso non privo di ostacoli ma costellato di dubbi, critiche e momenti di incertezza.
L’avvento dei social network ha creato effetti concreti sul modo di sentire e di pensare degli utenti, che finiscono per modificare le loro pratiche di interazione sociale usuali. È cambiato il rapporto con sé stessi e soprattutto con gli altri, più diretto ma molto più mediato. Le nuove tecnologie ci consentono di incontrare molte persone ma tendono a togliere il sapore, la genuinità, l’originalità e la freschezza alla relazione interpersonale vera e propria. Ci danno maggiori possibilità di partecipare alla vita sociale condividendo anche luoghi virtuali, ma non è detto che questa partecipazione sia poi effettiva. Internet può rappresentare un mezzo per fuggire dalla realtà quotidiana e rifugiarsi in un mondo illusorio e gratificante, in cui l’elemento virtuale permette di superare le difficoltà che possono caratterizzare le interazioni reali.1
Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione rappresentano tecnologie del sé corporeo e mentale che modificano le pratiche e i contesti attraverso i quali l’essere umano dà forma a sé stesso e costruisce il proprio sapere. Facebook, per esempio, è diventato nell’infosfera – lo spazio globale nel quale si scambiano informazioni – la metafora stessa del sapere inteso come rete di informazioni e conoscenze interconnesse, condivise ed elaborate dalle persone in forma sociale e comunitaria. Il condividere il proprio sapere, le proprie informazioni, opinioni e conoscenze attraverso i social network chiama il singolo a una responsabilità del proprio sé sociale.2
Elisabetta Galimi ha percepito fin dal suo esordio su Instagram il peso della responsabilità per la condivisione social di istantanee della sua esistenza. Emulazione, condizionamento e fraintendimenti sono all’ordine del giorno e in progressivo aumento con l’incremento dei followers. Eppure non è di questo che ha voluto parlare nel suo libro, piuttosto dei risvolti positivi di questa esperienza, dando così origine a una vera e propria guida per diventare influencer di Instagram partendo da zero.
I dati di fatto sono impressionanti. Secondo le ricerche di Marketing Hub, a livello globale, l’influencer marketing vale 21 miliardi di dollari. Le aziende utilizzano in misura sempre crescente questa forma di comunicazione e sponsorizzazione dei propri prodotti perché i consumatori ci credono e la amano. Gli utilizzatori dei social media danno più retta agli influencer che ai giornalisti. Alcuni sono convinti che i brand siano più in condizione dei Governi di risolvere problemi sociali. Diventare influencer oggi è il sogno di molti, giovani e meno giovani.3
Il motivo per cui Galimi ha deciso di scrivere il successo a portata di like è proprio insito in questo comune e diffuso desiderio di diventare influencer, ovvero per rispondere in maniera corale alle tante richieste di informazione e suggerimenti che la stessa riceve via social.
«Molti non capiscono che dietro ogni profilo di successo esiste un mondo, sconosciuto ai più, composto da procedure che spaziano dalla scelta dell’outfit alla location dove realizzare i contenuti, dallo studio di strategie comunicative e di marketing, mirate alla costruzione di una solida community, all’analisi attiva e costante dei trend e dei mercati, al fine di stare il più possibile al passo coi tempi. Pensa che per costruire un Reel di nemmeno un minuto, o anche solo per scattare una semplice fotografia da condividere come Post, la media di tempo di realizzazione si aggira intorno alle cinque ore.»
Eppure, in base ai risultati dello studio di Maximilian Beichert, dietro il marketing digitale non vi è solo il lavoro di preparazione ma anche il potere nascosto che lega influencer, politica e brand. Nel panorama del marketing digitale, pochi fenomeni hanno dimostrato la stessa capacità di modellare opinioni e spostare l’ago della bilancia dell’informazione pubblica come l’influencer marketing. Se un tempo questo strumento era appannaggio esclusivo delle aziende, oggi rappresenta un’arma fondamentale anche per le campagne politiche, come dimostrato dall’ascesa del movimento Make America Great Again e dall’uso strategico dell’influencer marketing da parte di Donald Trump.4 La Generazione Z, e non solo essa, si affida sempre più ai social per documentarsi anche su salute, benessere e medicina. Questo fenomeno porta con sé vantaggi e sfide: se da un lato gli influencer possono sensibilizzare e avvicinare i giovani a tematiche di interesse sanitario, dall’altro la disinformazione può avere un impatto negativo sulla salute pubblica.5
Il libro di Elisabetta Galimi non affronta, se non marginalmente, questa tipologia di problematiche, soffermandosi invece maggiormente sugli aspetti tecnico-pratici del lavoro di influencer e sul marketing a esso correlato, osservando il tutto sia dal punto di vista dei potenziali “influenzatori” che da quello di aziende e brand.
Il libro
Elisabetta Galimi con Alessandro Lucino, Il successo a portata di like. Strategie e suggerimenti per guadagnare si Instagram partendo da zero, Sonda Edizioni, Milano, 2024.
1S. Soderini, Lo sviluppo dei social network: fenomeno di socializzazione o alienazione?, in State of Mind di inTHERAPY, 23 novembre 2015.
2E. Isidori, Quando l’educazione è nella rete: per una pedagogia del social networking, in MeTis – Mondi educativi. Temi, indagini, suggestioni – 10 gennaio 2020.
3E. Sassoon, Influencer marketing, e oltre, in Harvard Business Review – Italia, maggio 2024.
4B. Orlando, Influencer, politica e brand: il potere nascosto dietro il marketing digitale, in UniBocconi.it, 24 febbraio 2025.
5#Formazione Mangiagalli Journal Club 2025, Social, influencer e informazione scientifica per la Generazione Z, in policlinico.mi.it, 20 gennaio 2025.
I nostri antenati amavano e desideravano come noi? È possibile educare all’amore del bene e del vero, per aprirsi alla fiducia e alla speranza, mentre si sgretola il tessuto della vita sociale? Sono alcuni degli interrogativi affrontati in un decalogo di saggi sui molteplici e camaleontici volti della passione: dalle attrazioni fatali ai legami morbosi, dal qualunquismo erotico al sesso mercenario, dall’immaturità affettiva alla violenza di genere. Un’indagine che dal passato arriva al presente e quasi lo travalica verso il futuro.
«Non fu l’amore, no. Furono i sensi curiosi di noi, nati pel culto del sogno… E l’atto rapido, inconsulto, ci parve fonte di misteri immensi.»1
Il libro si apre al lettore con questa citazione di Gozzano che davvero sembra racchiudere l’essenza dell’indagine compiuta dall’autore, presentata come istantanee dei migliori e dei peggiori profili dei sensi e dei sentimenti, talora brutali e criminali, eppure vagheggiati e romanzati nel nome di forti emozioni e debolezze comportamentali.
Nessuno come Guido Gozzano ha saputo sedurre e cancellare le tracce della seduzione, stare tra il racconto e la sua negazione, fra gli entusiasmi globali del liberty e il miraggio della libertà, alla fine dei primi dieci anni del secolo, quando tutto pareva possibile.2
«Attrazioni, passioni, legami sottopongono la fragile tela affettiva a tensioni estreme, col rischio di logorarla o lacerarla; solo un’attenta educazione sentimentale può insegnare l’arte di mediare tra poli opposti, di scendere e salire a occhi chiusi la rapida scala della fisicità e della spiritualità, avendo a cuore l’integrità della persona.»
È questo il consiglio iniziale di Morretta, che sembra far appello alla bontà, da sempre vagheggiata, dell’animo umano. Ma poi ecco che l’autore riporta il lettore alla realtà. Con una brutale quanto veritiera citazione di Orazio: «Anche se la scacci col forcone, la natura torna a presentarsi».3 Quasi a voler ricordare a gran voce che la passione e il desiderio non sono solo positività e beneficio e che, spesso, diventano profondità buio mistero inquietudine malvagità.
Esiste un connubio complesso tra il narcisismo e i disturbi sessuali. Due aspetti psicologici che spesso si sovrappongono e interagiscono tra loro. Il narcisista, inconsapevole di cercare la soddisfazione sessuale solo per se stesso, senza preoccuparsi del piacere dell’altro partner, può rivelarsi egoista dominante e incapace di ascoltare i desideri e le esigenze altrui. Mette spesso in atto anche in campo sessuale una strategia tipica, in cui il sesso viene usato come strumento di manipolazione emotiva e di controllo sull’altro.4 Morretta parte proprio da una critica puntuale sui modelli dominanti che sviliscono la sfera intima con narcisismo esasperato e aggressività per iniziare il suo viaggio attraverso tematiche che spaziano dalle attrazioni fatali ai legami morbosi, dall’immaturità affettiva al disagio giovanile. Un percorso che fa un largo uso di citazioni di scrittori poeti antropologi filosofi e psicoanalisti , quasi a voler dimostrare l’utilità degli studi umanistici nella comprensione della cultura e della stessa società all’interno delle quali questi comportamenti maturano e si sviluppano.
Non bisogna però incorrere nell’errore di pensare che solo questi comportamenti “estremi” siano un problema. Morretta sottolinea fin dalle prime pagine del libro quanto, in realtà, ciò rappresenti solo la punta di un iceberg in continua espansione. L’uomo si sa è un animale gregario e collettivo, per evitare il senso di prigionia della solitudine si aggrappa all’adesione corporea e verbale ai molti tra cui vive, «mimetismo di sopravvivenza e travestimento difensivo creano tuttora le condizioni per una normalità “apparente”, auspicata e premiata dai modelli del momento». Perciò il “diploma di abilitazione al sesso” si esibisce in società e online con pose ammiccanti o allusive, dicendo o tacendo i medesimi contenuti dei tempi della censura del discorso pubblico. I sentimenti alti non eliminano o neutralizzano quelli bassi, chiunque resta capace di provare e desiderare il peggio nonostante l’elevazione morale cui tende.
Elemento fomentatore di angosce e paure ancestrali, proteiforme ma onnipresente, fenomenicamente accidentale ma noumenicamente strutturale, a cui possiamo ribellarci e contro cui possiamo lottare, ma che non riusciremo mai a sconfiggere definitivamente, il male (nelle sue molteplici figure) costituisce già da sempre l’elemento propulsore non solo di ogni tentativo magico o tecnico-scientifico di controllo della natura, ma altresì di ogni meditazione e invocazione religiosa, nonché di ogni interrogare e pensare filosofico.
Certo è che l’uomo non solo è spesso preda di un’incredibile brama di distruzione, ma si compiace altresì intimamente dell’altrui sofferenza.
Adam Smith e Immanuel Kant hanno offerto dei significativi spunti di riflessione individuando nell’autoinganno una manifestazione del male legata all’affermazione egoistica dell’amore di sé.5
Per Smith, l’autoinganno è l’origine di metà dei turbamenti della vita umana: impedisce di giudicare con imparzialità la nostra condotta, distorce la visione morale di noi stessi e influenza negativamente la capacità di deliberazione e di giudizio.6
L’ampia disponibilità di conoscenze storiche e scientifiche sembrano proprio non bastare, sottolinea l’autore con una velata amarezza, anzi soccombono sotto il peso dei luoghi comuni che fanno del sesso e del sentimentalismo beni rifugio esenti da nocività e negano la necessità di cautele pratiche e concettuali. Per le devianze come anche per le malattie sessualmente trasmissibili, troppo spesso sottovalutate o, addirittura, sconosciute. E allora Morretta si chiede, e bisognerebbe farlo tutti, se non stiamo facendo passi da gigante ma all’incontrario, a ritroso verso una società sempre più brutale, violenta e aggressiva. Fragile. Impreparata.
Il libro
Mattia Morretta, Non fu l’amore. I nuovi volti della passione, Gruppo Editoriale Viator, Milano, 2024
4E. Stopani, Narcisismo e sessualità: una complessa relazione bidirezionale, IPSCO – Istituto di Psicologia e Psicoterapia Comportamentale e Cognitiva: https://www.ipsico.it/news/narcisismo-e-sessualita-una-complessa-relazione-bidirezionale/
5R. Garaventa, O. Brino, (a cura di) Il male e le sue forme. Riconsiderazioni moderne e contemporanee di un problema antico, Mimesis, Sesto San Giovanni (Mi), 2017.
Quotidiani e riviste sono stati lo strumento principale di chi – come l’autore – si è formato nel Novecento, in assetti analogici, e non è semplice per quelle generazioni confrontarsi con la metamorfosi del giornalismo, viverla e comprenderla in tutta la sua radicalità. Capire sino in fondo quanto la rivoluzione digitale sia stata un vero cambio di paradigma. Il cuore del sistema oggi è la rete. Il giornalismo in generale per cui anche quello culturale è una sorta di ecosistema in cui c’è uno scontro continuo tra giornalisti lettori spettatori e ascoltatori, con quest’ultimi che da almeno un ventennio sono sempre più produttori di notizie. La sfera pubblica è sempre più densa, i media sempre più partecipativi. Chi produce e immette notizie anche culturali nella rete cerca il coinvolgimento dell’utente, la costruzione di comunità, la fidelizzazione di clienti. Per Zanchini quello che è cambiato è il concetto di cultura. Di conseguenza anche quello di giornalismo culturale.
Il concetto di cultura è cambiato soprattutto nel secondo dopoguerra, andando a interessare attività umane che solo qualche anno prima non venivano ritenute legittimate a far parte della famiglia dell’arte in senso tradizionale. Per il sistema mediatico ciò ha significato una crescita quasi esponenziale degli spazi dedicati alle attività che occupano appunto gli esseri umani nel tempo libero, e ai protagonisti di questi universi.
La rivoluzione digitale, con la diffusione pervasiva di internet e delle sue innumerevoli applicazioni, ha prodotto profondi cambiamenti non solo nelle nostre abitudini quotidiane e nei più disparati comportamenti individuali e collettivi, ma anche nel campo della cultura, in ragione dell’uso ormai comune delle tecnologie anche per la produzione e la trasmissione del sapere. È facile osservare come i media digitali non sono solo strumenti grazie ai quali comunicare, informarsi, entrare in relazione con gli altri e intrattenersi. Il modo in cui vengono svolte queste attività determina anche, assieme a tutte le molteplici esperienze della vita, l’organizzazione stessa delle strutture percettive e cognitive attraverso le quali vengono elaborate le rappresentazioni mentali.
Molti studi hanno messo in luce come, con la diffusione del web, si rafforzano le capacità individuali di scansione veloce e di selezione, mentre si indeboliscono quelle di attenzione, concentrazione e riflessione, elaborazione logica, attitudine critica, legate precipuamente alla lettura sui mezzi di stampa.
Quando i messaggi passano attraverso lo schermo, inevitabilmente gli elementi emotivi hanno la meglio su quellicognitivi, la reazione immediata come riflesso condizionato (dunque come pregiudizio) ha il sopravvento sulla riflessione mediata di tipo intellettuale (il giudizio), la percezione del reale come istante presente (affermazione del sé) prende il posto della elaborazione del proprio essere nel tempo (responsabilità verso gli altri). In sintesi, nelle nuove forme digitali di fruizione culturale – che dovrebbero sancire il passaggio da una “intelligenza sequenziale” a una modalità percettiva e conoscitiva basata sulla simultaneità e l’ipertestualità1 – sembra affermarsi il primato dell’interruzione rispetto alla concentrazione, della frammentazione rispetto alla continuità, del tempo presente e non della temporalità sedimentata, dell’attualità sull’esperienza. Non si tratta di un semplice cambiamento dei consumi culturali, dunque, bensì dello stile conoscitivo stesso, della tecnica della conoscenza.2
Eppure, sottolinea Zanchini, la frammentazione delle informazioni e la rifeudalizzazione dei saperi erano i due timori principali sino a qualche anno fa. Oggi le preoccupazioni sembrano orientarsi verso i rischi di strapotere dei grandi players globali. Google, Amazon e Meta sono diventati fra i grandi mediatori dell’informazione culturale, con una funzione non dissimile a quella che svolgevano un tempo le poche riviste e i giornali.
I supporti tradizionali per produrre conservare trasmettere ed elaborare il sapere risultano progressivamente soppiantati dai nuovi dispositivi digitali, secondo un processo che si accompagna alla crescente disaffezione nei confronti della lettura tradizionale. Con ciò cambiano anche le risorse stesse della cultura: ora i testi diventano “aperti”, cioè non più completi e definitivamente compiuti, protetti, vincolati a una inequivocabile imputazione di responsabilità dell’autore, bensì continuamente soggetti a possibili integrazioni, revisioni, manipolazioni. Il che implica una metamorfosi del concetto stesso di autore, che ora diviene plurimo e anonimo.
C’è da aggiungere che tendenzialmente all’ubiquità dei media digitali corrisponde la prassi del “nomadismo” mediatico: si può saltare da un mezzo all’altro con grande fluidità, i canali di accesso risultano moltiplicati, si afferma uno schema di esplorazione conoscitiva “per deriva”, in cui la gerarchizzazione delle fonti appare superata, perché conta più il gioco di rimandi, così come la prassi dell’autoassemblaggio delle nozioni mette in crisi la tradizionale autorevolezza dell’autore. Questa tendenza rende sempre più marginale la funzione di “filtro” delle informazioni e delle nozioni svolta dalle aziende editoriali e dalle istituzioni culturali. Fino ad arrivare alla possibilità – complici gli algoritmi di Google – di costruirsi un percorso talmente personale da rendere i media non delle finestre da cui affacciarsi sul mondo, bensì degli specchi in cui ammirare un paesaggio fatto a propria immagine, in cui sono riflesse solo notizie e nozioni che si adeguano alle nostre convinzioni e aspettative, sancendo così il trionfo dell’autoreferenzialità.3
Zanchini sottolinea come oggi, negli ambienti della cybercultura, lettori ascoltatori scrittori giornalisti editori podcaster e influencer non ricoprano più ruoli definiti e circoscritti. Tutto è diventato più fluido, permeabile, sinergico, collaborativo, tra online e offline si assiste non alla semplice sostituzione di un sistema culturale con un altro, quanto alla compresenza di più poli.
Il giornalismo culturale a opera degli intellettuali diviene un luogo di osservazione non secondario per cogliere gli snodi che caratterizzano l’articolato rapporto fra approfondimento scientifico ed esigenze divulgative. Ogni mezzo di comunicazione, anziché essere neutro, riflette i caratteri del sistema dei media nel quale ha origine, implica un proprio linguaggio, particolari strategie stilistiche, gabbie retoriche che hanno molto a che fare con la resa comunicativa dei contenuti. La forma-giornale, in particolare, per le esigenze mediali e di stile che la caratterizzano, rappresenta un prodotto estremamente complesso. Il giornalismo culturale rappresenta una sfida per gli intellettuali che abbracciano questa pratica, che porta a offrire al mondo la propria riflessione e che impone, per questo, un’interrogazione sul senso profondo del proprio lavoro, sulla funzione che può svolgere, sugli effettivi stimoli che può fornire alla produzione culturale in senso ampio. Si tratta non solo di un esercizio di stile, ma di un esercizio di pensiero che rimanda alla valenza etica del lavoro dell’intellettuale, qualificandolo come mestiere concreto in grado di suscitare interesse e motivo di crescita per un pubblico vasto.4
Ed è esattamente su queste tematiche che Giorgio Zanchini ne La cultura nei media invita alla riflessione per un sistema che ormai si articola quasi indistintamente tra l’online e l’offline ma che va, in ogni caso, a incidere sulla formazione culturale e sociale delle persone e, di rimando, sul loro essere cittadini di un mondo che, per quanto sembra spostarsi sempre più nel virtuale, rimane comunque concreto e reale.
Il libro
Giorgio Zanchini, La cultura nei media. Dalla carta stampata alla frammentazione digitale, Carocci Editore, Roma, 2024.
1R. Simone, Presi nella rete. La mente si tempi del web, Garzanti, Milano, 2012.
2M. Valerii, M, Conti Nibali, L. Lapenna, G. Addonisio, La trasmissione della cultura nell’era digitale. Rapporto finale, Censis/Treccani, Roma, 2015.
4G. Mazzoli, Il giornalismo culturale di Carlo Bo. Il mestiere di intellettuale fra critica e divulgazione, su Journals UniUrb, Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Urbino, 2005.
Il fenomeno urbano ha caratterizzato l’età contemporanea ed è tratto distintivo del XXI secolo, definito appuntoil secolo delle città.
All’inizio del XXI secolo il processo di globalizzazione sembrava destinato a ineluttabili avanzamenti, generalmente valutati in modo positivo, con un contestuale “ridimensionamento” del ruolo degli Stati nazionali a favore delle forze dinamiche del mercato e delle istituzioni sovranazionali, lasciando spazio anche a un nuovo protagonismo delle città. Quanto accaduto negli ultimi anni (la pandemia e i suoi effetti, la guerra russo-ucraina, le tragiche vicende del Medio Oriente) ha invece rilanciato il peso e l’importanza degli Stati come fondamentali, ancorché esclusivi, attori, nel bene e nel male, delle politiche. Ciò nondimeno le città continuano a essere spazio privilegiato per progettare e attuare strategie in grado di farci almeno avvicinare agli obiettivi di sviluppo sostenibile indicati nell’Agenda 2030 delle Nazioni unite.
Oggi viviamo nel secolo delle città e dovremmo di conseguenza aggiornare le nostre mappe mentali. La realtà sta cambiando rapidamente mentre noi siamo fermi a una lettura Stato-centrica delle relazioni internazionali. Con la Pace di Westfalia del 1648, le città sono state espulse dal nostro orizzonte intellettuale dopo che per secoli erano state il fulcro della vita globale. Oggi esse tornano a guadagnare centralità, ma noi fatichiamo a prenderne atto perché ragioniamo ancora in termini westfaliani. Oggi alcune delle nostre attività più importanti hanno luogo nelle città, tuttavia noi vediamo solo gli Stati come attori della politica globale. Eppure la politica internazionale è fortemente influenzata da un numero crescente di città sempre più attive nello scacchiere globale. Città che sviluppano reti di gemellaggi e progetti, condividono informazioni, firmano accordi di cooperazione, contribuiscono a plasmare politiche nazionali e internazionali, forniscono aiuti allo sviluppo e assistenza ai rifugiati, competono nel marketing territoriale attraverso forme di cooperazione decentralizzata.
Le città fanno oggi quello che i “comuni” erano soliti fare secoli fa: cooperano ma allo stesso tempo danno vita a una forte dinamica competitiva. Per questa ragione, se vogliamo comprendere davvero le dinamiche socio-politiche planetarie, dobbiamo avere due mappe mentali in testa, una Stato-centrica e una non-Stato-centrica.1
Vi sono almeno due logiche diverse dietro l’attuale attenzione al ruolo dei centri urbani. In primo luogo, la logica dell’efficienza e dell’efficacia: un’abile governance urbana è vista – in particolare da sindaci animati da determinazione personale – come lo strumento più adatto per raggiungere una qualche efficacia al livello sociale in ragione dei suoi caratteri di immediatezza esecutiva e prossimità ai cittadini. Poi c’è la logica della democrazia: una buona governance urbana è vista come lo strumento più adeguato per implementare l’ideale democratico; gli enti locali diventano un mezzo per raggiungere l’empowerment delle comunità e l’auto-determinazione democratica. La diplomazia della città, in qualche modo, connette direttamente i cittadini locali con le vicende globali, contribuendo a superare i deficit democratici a livello internazionale.2
Città come Los Angeles, Londra e Tokyo hanno un ruolo di guida economica e identitaria sia per se stesse sia per i Paesi che rappresentano. L’Italia è un Paese fondato sulle città e la nostra storia – dall’epoca dei comuni alle istanze autonomiste odierne – ci ricorda quanto l’attaccamento alla comunità locale sia spesso più forte del legame con lo stato centrale. Ma oggi l’avvento delle megacity impone un cambiamento di politica che ci consenta di superare la frammentarietà e riuscire a giocare con successo un ruolo di rilievo nel “secolo delle città”. In questa prospettiva un’ispirazione per l’Italia può venire da Milano, ritenuta in questi anni un modello dalle più autorevoli agenzie internazionali, dalle aziende, dai turisti, dai milanesi.3
Nel testo le città sono indicate come reti di flussi lungo cui si muovono merci, persone e capitali. Centri direzionali dell’economia mondiale, luoghi e mercati essenziali, centri dell’innovazione e della ricerca.
L’evoluzione della città si manifesta attraverso un percorso nella direzione di un sistema insediativo sempre più complesso e comprensivo, verso un sistema interagente di funzioni di varia natura e rango, un prodotto di intelligenze collettive e un incrocio di flussi globali e locali: la stessa natura collettiva della città si ribella con vigore alla monofunzionalità, al consumo di suolo come paradigma e alla solidità come configurazione identitaria. Nella società liquida, alla città rigidamente divisa per parti e per funzioni, alla città per recinti, si sostituisce la “città molteplice”, non solo multifunzionale al suo interno, ma anche nodo complesso di un’armatura planetaria di città in cui si intrecciano numerose reti locali e globali. Con il rischio però che l’esito, piuttosto che una identità molteplice e ricca, sia quello di una perdita di identità alla rincorsa perenne di modelli eteroprodotti. All’emergere delle molteplicità deve corrispondere un incremento della responsabilità, traducibile in un triplice impegno: verso l’ambiente, verso l’identità culturale e verso la cooperazione.4
Le città appaiono solitamente inserite dentro il “sistema paese”, ne condizionano le dinamiche e da queste sono condizionate. La crisi persistente ha aumentato la povertà, ne ha generato forme nuove, ha acuito le disuguaglianze: si tratta di fenomeni che si concentrano in particolare nelle aree urbane che divengono dunque lo spazio decisivo per l’attivazione di politiche atte a fronteggiare tali emergenze. Ma gli autori sottolineano che, oltre a mitigare gli effetti negativi della crisi sul piano sociale, le città sono chiamate a essere driver di sviluppo. Nell’età della quarta rivoluzione industriale le città sono interessate, o almeno dovrebbero esserne campo di applicazione, da politiche volte a renderle più green e smart.
Non è sempre facile capire cosa si intenda esattamente per smart cityanche perché, man mano che il concetto originario veniva esteso per rispondere alle critiche, l’espressione ha assunto un senso onnicomprensivo: si è passati da un significato che considerava “intelligente” una città in cui era forte e pervasivo il ruolo delle tecnologie a una città la cui intelligenza è multidimensionale e si basa soprattutto sull’intelligenza dei suoi abitanti. Insomma, alla fine, una delle tante parole-ombrello che contengono poco o troppo, alla fine piene di vuoto. I termini sostenibilità e resilienza, tra gli altri, soffrono di questo stesso rischio: se tendono ad allargare il loro ambito, perdono di precisione e di rilevanza, si annacquano. Non è possibile pensare a città intelligenti (smart cities) che non siano in primo luogo città sane (healthy cities), anche se è vero che l’uso delle nuove tecnologie può dare impulso fondamentale per ripensare e realizzare la qualità della vita urbana. Ma soprattutto non si può immagina una “città sana” che non stia dentro un “territorio intelligente”, ovvero un territorio che sappia ricomporre la frattura città/campagna dotando tutte le sue parti di un’elevata qualità ambientale e paesaggistica e di infrastrutture e reti che ne garantiscano le funzionalità.5
Unosmart landè un ambito territoriale nel quale attraverso politiche diffuse e condivise si aumenta la competitività e l’attrattività del territorio, con un’attenzione particolare alla coesione sociale, alla diffusione della conoscenza, alla crescita creativa, all’accessibilità e alla libertà di movimento, alla fruibilità ambientale e alla qualità del paesaggio e della vita dei cittadini.6 La smartnesssi concretizza in una più accentuata digitalizzazione del sistema economico e della pubblica amministrazione. Nel testo si pongono al riguardo questioni rilevanti inerenti ai temi delle piattaforme, della loro non frammentazione e del loro controllo, che rimandano tanto a delicati equilibri tra soggetti pubblici diversi quanto al rapporto tra attori pubblici e gruppi privati. Un invito a riflettere sull’insieme di relazioni bidirezionali tra città (o enti locali), Stato e mercato.
Il libro
Marco Doria, Filippo Pizzolato, Adriana Vigneri, (a cura di) Il protagonismo delle città. Crisi, sfide e opportunità nella transizione, Il Mulino, Bologna, 2024.
La redazione del volume è stata curata da Alessandra Miraglia.
1R. Marchetti, Il secolo delle città. Perché i nuovi centri urbani sono i luoghi più adatti per accogliere le sfide del futuro, Luiss Open, 16 aprile 2021.
3G. Sala, Milano e il secolo delle città, La Nave di Teseo, Milano, 2018.
4M. Carta, Dalla Carta di Machu Picchu all’agenda per le città del XXI secolo, in A.I. Lima (a cura di), Per un’architettura come ecologia umana. Studiosi a confronto, Jaca Book, Milano, 2010.
5F. Angelucci (a cura di), Smartness e healthiness per la transizione verso la resilienza. Orizzonti di ricerca interdisciplinare sulla città e il territorio, Franco Angeli, Milano, 2018.
6A. Bonomi, R. Masiero, Dalla smart city alla smart land, Marsilio, Venezia, 2014.
I testi coloniali e postcoloniali non ci raccontano la storia dello sviluppo ineguale del mondo. Quest’ultima andrebbe riportata alla luce scavando tra le pieghe della storia ufficiale, alla scoperta di quelli che Bhabha definisce i veri luoghi della cultura, nel tentativo di riscrivere la storia della modernità da una prospettiva non eurocentrica.
La metafora dei nostri tempi è il voler situare il problema della cultura nel regno dell’oltre. La nostra esistenza attuale è contrassegnata da un oscuro istinto di sopravvivenza, dalla sensazione di vivere ai confini del presente: per descrivere questa sensazione niente è più adatto di quei termini mutevoli, attuali ma controversi, che hanno il prefisso “post”: postmodernismo, postcolonialismo, postfemminismo. Questo “oltre” tuttavia non è né un nuovo orizzonte, né un volersi lasciare alle spalle il passato. In esso si avverte un turbamento, un senso di disorientamento nella direzione da prendere, un moto esplorativo inquieto.
Teoricamente innovativo, e politicamente essenziale, è il bisogno di pensare al di là delle tradizionali narrazioni relative a soggettività originarie e aurorali, focalizzandosi invece su quei momenti o processi che si producono negli interstizi, nell’articolarsi delle differenze culturali. Questi spazi “inter-medi” costituiscono, per Bhabha, il terreno per l’elaborazione di strategie del sé – come singoli o gruppo – che danno il via a nuovi segni di identità e luoghi innovativi in cui sviluppare la collaborazione e la contestazione nell’atto stesso in cui si definisce l’idea di società. È negli interstizi – emersi dal sovrapporsi e dal succedersi delle differenze – che vengono negoziate le esperienze intersoggettive e collettive di appartenenza a una nazione, di interesse della comunità o di valore culturale. La rappresentazione della differenza non deve essere letta come il riflesso di tratti etnici o culturali già dati e fissati nelle tavole della tradizione; al contrario, l’articolazione sociale della differenza, dal punto di vista della minoranza, è una negoziazione complessa e continua che punta a conferire autorità a ibridi culturali nati in momenti di trasformazione storica.
La demografia del nuovo internazionalismo è la storia della migrazione postcoloniale, della narrazione di una diaspora culturale e politica, degli enormi spostamenti sociali di comunità contadine e aborigene, della poetica dell’esilio, della prosa spietata di rifugiati politici ed economici. È in questo senso che il confine diventa ciò che a partire da cui una cosa inizia la sua essenza, con un moto non dissimile da quello dell’ambivalente, nomade articolazione dell’oltre. La condizione postcoloniale è un salutare monito sui rapporti ancora “neo-coloniali” che si sono riprodotti nel “nuovo” ordine mondiale e con la divisione del lavoro su scala plurinazionale: questa prospettiva consente di rendere più autentiche le storie di sfruttamento e l’evolversi di strategie di resistenza. Al di là di questo, comunque, la critica postcoloniale si fa testimone di quei paesi e comunità – nel Nord e nel Sud, urbani e rurali – che si sono costituiti, per così dire, in condizioni altre dalla modernità. Queste culture, espressione di una contro-modernità postcoloniale possono condizionare la modernità, introducendovi discontinuità o antagonismi e resistendo alle sue tecnologie oppressive e assimilazioniste, ma possono anche sviluppare l’ibridità culturale insita nella loro condizione di frontiera, per tradurre e dunque ri-scrivere l’immaginario sociale sia della metropoli che della modernità.
Homi K. Bhabha si rivolge all’Occidente, lo analizza, propone modalità nuove di lettura del presente e del passato, ma è un post-colonialista e il suo lavoro è influenzato dal poststrutturalismo di Jacques Derrida, Jacques Lacan e Michel Foucault. Per noi occidentali il Metodo cartesiano rappresenta un approccio mentale scontato nell’argomentazione (dal formulare un concetto, giustificarlo, dimostrarne l’utilità, accettare solo le evidenze, scomporre un problema, ordinare per importanza, enumerare e revisionare), per l’autore invece fondamentale diventa l’interstizio, l’ibridazione e il “terzo spazio”. Egli ritiene che la produzione culturale è maggiore quando è anche più ambivalente. Bhabha ritiene che tutto il senso dell’appartenenza a una nazione sia costruito discorsivamente, cioè narrativizzato. Descrivendo l’incontro tra due culture, spesso violento, fa notare la nascita di strategie narrative in cui l’incontro non “somma”, ma crea scompiglio nella conoscenza. Si crea un “terzo spazio”, un luogo teorico e simbolico dove gli antagonismi tra dominatori e dominati si annullano nel concetto di ibridità culturale, che include le differenze e rappresenta il presupposto per un incontro costruttivo tra culture senza più gerarchie imposte. Luogo in cui il potere coloniale non viene sostituito da una primitiva e autentica cultura del luogo, ma un territorio che rimescola entrambe le visioni unilaterali che si fronteggiano.
Oriente/Occidente, nativo/emigrante, colonizzato/colonizzatore, bianco/nero scompaiono dall’orizzonte della discussione, la differenza culturale non è immutabile, né si può tornare indietro nel tempo. Popoli coloniali, postcoloniali, migranti, minoranze, genti erranti sono il segno di un confine in continuo movimento che sposta le frontiere della nazione moderna. Cambia anche il rapporto spazio e storia: il primo non è entità inerte che esiste prima e oltre lo storia, è terreno mobile e conflittuale che frammenta e disloca la linearità temporale. Tentare di liberarsi dall’oppressione facendo appello alla propria identità oppositiva non fa che raddoppiarla. Il passato e il luogo delle origini non forniscono più autonomia culturale e il discorso multiculturale può rivelarsi esso stesso una gabbia.1
Homi K. Bhabha riflette sulle diverse posizioni dei soggetti costretti a spostarsi dal loro ambito socioculturale a un altro. Per questi soggetti viene a crearsi una situazione di spazi inter-medi (in-between) ovvero uno spazio personale che si situa tra quello del collettivo di partenza e quello del collettivo di arrivo. Gli spazi inter-medi implicano una negoziazione continua e la creazione di “ibridità culturali”.
Oltre al posizionamento culturale del soggetto, la negoziazione si realizza attraverso un concreto referente mentale, spazio-temporale, in cui si contestualizza non solo la lingua, ma più in generale la performance culturale. Per produrre significato nella comunicazione tra un soggetto parlante e il suo interlocutore le loro posizioni devono incontrarsi in un luogo enunciativo di mediazione, il “terzo spazio”.2
Il Ventesimo secolo è stato lo scenario di profonde e multiformi trasformazioni nella totalità del globo, di carattere politico culturale economico e sociale, verificatisi con una rapidità senza precedenti nella storia del mondo. In questo contesto è necessario riconoscere l’importanza della decolonizzazione di Africa e Asia come momento rilevante dal punto di vista geopolitico, dal momento che segnala un drastico mutamento nello scenario internazionale: la liberazione di più della metà della popolazione mondiale dal dominio diretto dei paesi europei e la diaspora dei popoli di questi luoghi sviluppatasi lungo flussi migratori che riproducevano le rotte coloniali e le conseguenze ancora sconosciute dei fenomeni che emergevano nel periodo definito “postcoloniale”. Il “post” del postcoloniale non significa, in termini assoluti, una rottura con il periodo precedente, quello coloniale, e neppure un suo superamento, dal momento che la fine del colonialismo in quanto relazione politica non comportò la fine del colonialismo inteso come relazione sociale, mentalità e forma di sociabilità autoritaria e discriminante.3
L’accezione fondativa degli studi postcoloniali presuppone una revisione critica del passato considerato nei termini della modernità occidentale e la sua identificazione con un presente ancora permeato da una serie di narrative pratiche rappresentazioni e relazioni politiche che confluiscono nella perpetuazione della distribuzione asimmetrica del potere e della ricchezza a livello globale.4
La critica postcoloniale testimonia delle diseguali e inaspettate forze di rappresentazione culturale che agiscono nel contesto dell’autorità politica e sociale in seno al moderno ordine mondiale. Le prospettive postcoloniali emergono dalla testimonianza coloniale dei paesi del Terzo Mondo e dal discorso di “minoranze” tutte interne alle divisioni geopolitiche fra Est e Ovest, Nord e Sud del mondo, per poi disturbare quei discorsi ideologici della modernità che tentano di assegnare una normalità “egemonica” allo sviluppo diseguale e alle vicende differenti – ma spesso penalizzanti – di nazioni, razze, comunità, popoli. L’approccio postcoloniale formula le proprie revisioni critiche sui temi della differenza culturale, dell’autorità sociale e della discriminazione politica per mettere in luce i momenti antagonistici e ambivalenti nell’ambito delle “razionalizzazioni” della modernità.
Per ricostruire il discorso della differenza culturale, allora, non basta solo un mutamento dei contenuti e dei simboli della cultura; è completamente inutile, infatti, situarsi nell’identico lasso di tempo della rappresentazione, ed è invece necessaria, per Bhabha, una revisione radicale della temporalità sociale in cui possono essere scritte le storie che stanno venendo alla luce, accanto a una riformulazione de “segno” in cui possono essere in-scritte le identità culturali.
Il libro
Homi K. Bhabha, I luoghi della cultura. Postcolonialismo e modernità occidentale, Meltemi Editore, Milano, 2024.
Traduzione di Antonio Perri.
Titolo originale: The location of culture (1994).
1BoCulture, Migrazioni, diritti, sopravvivenza: il ruolo delle discipline umanistiche, Convegno-incontro con Homi K. Bhabha, Università di Padova, Padova, 6 giugno 2018.
2H. Nohe, Diventare estranea e marginale. Rappresentazioni e autorappresentazioni del soggetto migrante in Fra-intendimenti (2010) di Kaha Mohamed Aden, apropos – Perspektiven auf die Romania, 5/2020.
3B. Santos, Do Pós-Moderno ao Pós Colonial. E para além de um e outro, Centro de Estudos Socials, Universidade de Coimbra, Coimbra, 2004.
4A. M. Elibio Júnior, C. S. Di Manno De Almeida, Epistemologie del Sud: il postcolonialismo e lo studio delle relazioni internazionali, in Diacronie, n°20, 4/2014.
Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Meltemi per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, www.pixabay.com
Ottantatré raccomandazioni per districarsi nel sempre più complesso mondo del food. Un universo che tende di giorno in giorno ad allontanarsi dalla sua funzione primordiale di “nutrimento per l’organismo” e acquisire tra le più svariate connotazioni che spaziano dallo stile di vita al food porn. La casa editrice Adelphi ripropone, in una veste molto attualizzata, il manuale di Michael Pollan uscito nel 2009 e ripubblicato nel 2011. Un libro inserito nei “fuori collana” ma che sembra davvero anche fuori dal tempo e da qualsiasi tentativo di inquadramento.
Manuale dell’onnivoro è con ogni probabilità una provocazione, la contro-narrazione del delirio alimentare in cui l’umanità, o almeno gran parte di essa, sembra essere precipitata da anni ormai. Ed è anche un palese invito alle origini, al passato, al consumo del vero cibo, quello che va a male perché è “vivo”. Per Pollan l’umanità si è cibata bene per secoli senza avere nozione alcuna dei componenti, buoni o cattivi che siano, degli alimenti e, soprattutto, senza avere la minima idea di chi o casa fosse il nutrizionista. Ovviamente queste affermazioni sono delle iperboli ma nascondono un fondo di grandi verità e certezze.
Nel corso dell’evoluzione la componente edonica nei confronti del cibo ha aiutato l’essere umano ad assicurarsi un adeguato apporto alimentare. Se per l’uomo preistorico l’esperienza della nutrizione garantiva la sopravvivenza, attualmente non è più così. Per una buona parte della popolazione globale almeno. Oggigiorno gli esseri umani si trovano davanti a una tale sovrabbondanza di cibo che l’esperienza edonica rischia di diventare addirittura un pericolo per la salute.
In generale l’atto di ingerire alimenti è regolato da una serie di meccanismi dell’organismo, che emettono dei segnali diretti al cervello al fine di indicargli che l’equilibrio energetico, di cui prima era carente, è stato recuperato e tale fenomeno è chiamato “alimentazione omeostatica”. In altri termini, è possibile definire questo fenomeno come quell’alimentazione che risponde alla necessità primaria di preservare l’equilibrio energetico. Ciononostante l’ingestione di alimenti non è motivata esclusivamente dalla necessità di ottenere questo equilibrio energetico, ma la capacità dei cibi di generare piacere induce a mangiare comunque, a prescindere dalla sazietà. Questa è la componente edonica dell’alimentazione che non risponde ai segnali della sazietà. Essa è presente fin dall’inizio del processo, insieme con quella omeostatica.
Il piacere del cibo è un meccanismo complesso che coinvolge tanti stimoli sensoriali come il gusto, l’olfatto, il tatto e la vista. L’area del cervello maggiormente coinvolta nella rappresentazione cerebrale del valore dei diversi tipi di alimenti e legata al maggior desiderio di consumo di cibo è la corteccia orbitofrontale. Quando ci si trova di fronte a un alimento e se questo è gradito, il cervello e soprattutto la parte della corteccia orbitofrontale fa sì che si produca il desiderio di consumarlo, generando un rinforzo positivo. Nel contempo si attiva anche l’amigdala che fa ricordare quanto ci piace quel cibo. Lo stesso, ma in funzione avversa, accade con un cibo non gradito. I prodotti alimentari ad alta palatabilità agiscono come uno stimolo gratificante nel sistema di ricompensa, dovuto all’aumento di dopamina nel nucleus accumbens che induce alla ripetizione dell’azione del comportamento. Oggigiorno le industrie alimentari, mosse dall’obiettivo di vendere il più possibile, lanciano sul mercato prodotti molto gratificanti e pronti per il consumo e quindi sempre più appetitosi e palatabili.
Gran parte del piacere gastronomico è dovuto a illusioni cognitive. Ogni dettaglio apparentemente banale può far cambiare la percezione e la valutazione di un cibo.1
Come mai accaduto prima, negli ultimi anni si sta assistendo a una abbondanza inverosimile di trasmissioni di cucina, di ricette, di gare culinarie ma anche di reality, con specifici format lifestyle e makeover. Nella società occidentale contemporanea, dove la maggior parte delle persone è costantemente a dieta, si sta diffondendo una vera e propria ossessione per la cucina, per gli stili alimentari, per le ricette, in generale per tutto ciò che ruota intorno al cibo.
Qual è il posto del food porn in una società neoliberale in cui la responsabilizzazione individuale ha prodotto il discorso sull’anoressia e in cui al venire meno del welfare state il corpo magro e la dieta diventano sinonimi di moralità e buona cittadinanza? Il food porn è il piacere voyeristico del cibo, un edonismo mentale che si nutre del piacere dell’attesa piuttosto che dell’esperienza del godimento. Il proliferare di format di cucina, di gare culinarie o di esperienze alimentari estreme è parte del food porn. Così come il successo di trasmissioni sulla preparazione di dolci ipercalorici – che attraverso il “cake design” diventano opere d’arte – è legato a un edonismo mentale ormai piegato sull’estetizzazione del piacere.
La diffusione del food porn è connessa alla foodie culture, una sottocultura che si costruisce intorno al gusto. Per i foodies, seguaci dellafoodie culture, lo stile alimentare è parte significativa della propria rappresentazione identitaria.2
Le categorie alimentari codificano, e quindi strutturano, gli avvenimenti sociali, mangiare è un’attività rituale e le categorie alimentari costituiscono un sistema di demarcazione sociale: la struttura prevedibile di ogni pasto crea una disciplina che elimina la potenziale confusione. Il pasto è perciò un microcosmo di più ampie strutture sociali e definizioni di barriere: se il cibo è trattato come un codice, il messaggio che esso mette in codice si troverà nello schema di rapporti sociali che vengono espressi. Il messaggio riguarda diversi gradi di gerarchia, inclusione ed esclusione, confini e transizioni attraverso i confini.3
Cibo, cultura ed educazione sono manifestazione di una qualità di vita che comunicano la diversità tra gli uomini di ogni cultura, paese, territorio. L’alimentarsi porta con sé uno specifico patrimonio di conoscenze che si è costruito nel corso degli anni e dei secoli e che è trasmesso di generazione in generazione con i racconti degli anziani, con i libri di storia, con i miti e con le pratiche religiose. Le pietanze che mangiamo nel nostro vivere sono strumento di comunicazione, di relazione e di identità. Lo stretto legame tra cibo e famiglia non rappresenta solo una modalità con cui si verifica la trasmissione dei valori, ma è inoltre uno strumento di socializzazione. È con un’educazione alimentare valida che sviluppiamo nei giovani la coscienza della nostra vita nutritiva. Il confronto tra passato e presente è molto importante per sviluppare un corretto legame intergenerazionale.4
Per Pollan non bisogna mangiare nulla che una bisnonna non avrebbe mai mangiato. Anche questa, ovviamente, suona come una provocazione, o meglio un invito a soffermarsi di più nella valutazione della reale qualità e provenienza del cibo. Tutto questo perché, nonostante il grande bagaglio scientifico o pseudoscientifico accumulato in anni recenti, ancora non sappiamo cosa effettivamente sia meglio mangiare.
È da ritenere che il cibarsi abbia una funzione che oltrepassa il mantenimento nutritivo, ma diviene un’espressione comportamentale di un vivere culturale e sociale. Ogni atto legato al cibo, anche il più semplice e quotidiano, porta con sé una storia ed esprime una cultura complessa. Nello scegliere ciò che mangiamo subiamo spesso pressioni sociali, culturali e, anche inconsapevolmente, ci facciamo guidare dalla pubblicità. Il modo di nutrirsi è collegato anche alle possibilità economiche sia individuali che del luogo in cui si abita. Per esempio, le ristrettezze economiche che, anche in Italia, stanno interessando sempre più le persone, non hanno provocato una riduzione del cibo assunto, bensì una netta variazione delle abitudini alimentari che sembrano essere decisamente peggiorate a livello qualitativo.5
Michael Pollan basa la costruzione delle sue raccomandazioni su due assunti principali: il primo riguarda le persone che seguono la cosiddetta dieta occidentale (molti cibi lavorati, carne, molti grassi e zuccheri aggiunti, molti cereali raffinati, molto di tutto tranne frutta, verdura e cereali integrali). Costoro invariabilmente soffrono di un alto tasso delle cosiddette malattie occidentali: obesità, diabete di tipo 2, disturbi cardiovascolari, cancro; il secondo riguarda le persone che seguono una delle varie diete tradizionali e che, in genere, non soffrono di queste malattie croniche.
Tuttavia, piuttosto che lavorare alle modifiche della dieta occidentale si cerca di individuare quali siano o possano essere le singole sostanze dannose (ossidanti, grassi saturi, carboidrati, glutine, zuccheri aggiunti, e via discorrendo). E tutto questo viene fatto, secondo l’analisi dell’autore, in modo che le industrie alimentari possano apportare solo lievi modifiche ai loro prodotti, lasciando inalterata la dieta nel suo complesso, o in modo che le industrie farmaceutiche possano ideare e smerciare antidoti risolutori. La dieta occidentale è un affare. Più il cibo è lavorato, più diventa lucroso.
Il manuale di Michael Pollan è stato pubblicato per la prima volta nel 2009. Quanta strada è stata fatta da allora? Quanto è realmente aumentata la consapevolezza nei confronti della nutrizione?
In media, il 59% degli adulti e il 28% dei bambini e degli adolescenti in Unione Europea sono in sovrappeso. La maggior parte della popolazione non raggiunge i livelli di attività fisica raccomandati (150 minuti a settimana). I livelli di coinvolgimento più bassi si registrano in Portogallo, Cipro, Germania, Malta e Italia. L’alimentazione degli europei sta passando a una dieta di tipo occidentale, con un elevato consumo di zucchero e sale, associato a una dieta di scarsa qualità. L’educazione alimentare è obbligatoria nel curriculum nazionale per le scuole primarie e/o secondarie di 18 paesi UE (Austria, Bulgaria, Croazia, Cipro, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Grecia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Portogallo, Slovacchia, Svezia). In Italia l’educazione alimentare non è obbligatoria.6
Ecco perché i libri come Manuale dell’onnivoro, che sono al contempo delle provocazioni e dei moniti, risultano essere assolutamente necessari ancora oggi.
Il libro
Michael Pollan, Manuale dell’onnivoro, Adelphi Edizioni, Milano, 2024.
Illustrazioni di Maira Kalman.
Traduzione di Livia Signorini.
Titolo originale: Food Rules An Eater’s Manual (2009).
1G. Cesarini Argiroffo, Il rapporto uomo-cibo, in Neuroscienze, 30 aprile 2019.
2L. Stagi, Food Porn. L’ossessione per il cibo in TV e nei social media, EGEA, Milano, 2016.
3M. Douglas, Antropologia e simbolismo. Religione, cibo e denaro nella vita sociale, Il Mulino, Bologna, 1985.
4B. Bertocci, P. Cavallero, Il cibo: uno strumento per socializzare le generazioni, in Turismo e Psicologia – Rivista interdisciplinare di studi, ricerche e formazione, Padova University press, Padova, 10 (2), 2017.
6M. Antonelli, Report L’Europa e il cibo. Garantire benefici sull’ambiente, sulla salute e sulla società per la transizione globale, Barilla Center for Food & Nutrition Foundation, Autunno 2020.
Il romanzo risponde all’appello del reale – l’appello rivolto a chiunque si trovi confrontato all’esperienza dell’impossibile, allo strazio del desiderio e del lutto. Succede in quel momento qualcosa che chiede di essere detto e che non può esserlo se non nella lingua del romanzo, perché è la sola a restare fedele alla vertigine che si apre allora nel tessuto del senso, nella rete delle apparenze, per lasciare che vi si intraveda lo scintillio di una minuscola rivelazione. È questo il realismo del romanzo che proviene dall’esistenza vissuta e da cui si deduce una verità, dato che il lavoro dello scrittore consiste nel riprenderla senza sosta, nel tornare incessantemente verso di lei.
Visto che risponde all’appello del reale, che scaturisce dall’impossibile e che un protocollo di questo genere esige l’esperienza che gli dia senso e lo giustifichi, il romanzo si scrive sempre in prima persona singolare, ma l’io di cui rende conto è esattamente il contrario di quello su cui poggia il principio opposto dell’impresa autobiografica: non presuppone alcuna identità personale da esprimere positivamente ma conduce verso l’orizzonte estatico in cui il soggetto si compie negativamente nel faccia a faccia con l’impossibile. Colui che scrive la sua vita si sdoppia e diventa per sé stesso un altro, una figura fittizia di cui il romanzo dice le avventure e le trasformazioni. Per questo non è necessario dedurre il romanzo dalla realtà dalla quale peraltro proviene ma che esso soprattutto restituisce alla sua verità inventata. Troppo spesso ricondotta a un neonaturalismo dell’intimo, la nozione di autofiction deve essere superata al fine di restituire al “romanzo dell’io” la sua vera dimensione.
Ogni testo è in costante interazione col lettore, senza lettori il testo è incompleto e l’atto creativo un atto imperfetto. Il lettore mette in moto la “macchina pigra” che è il testo e procede per “sentieri narrativi” che l’autore ha o non ha definito, come in un bosco dove ogni strada è nuova.1 Il lettore compie delle scelte perché costituisce la trama stessa del tessuto narrativo. L’autore, a sua volta, ha operato progressivamente una “fuga” dalle sue narrazioni, una fuga che al principio si configura come evoluzione, trasformazione. Si è trasformato, da creatore di personaggi, in personaggio egli stesso grazie alla narrazione in prima persona.2 È questo il caso de La familia de Pascual Duarte di Camilo José Cela, pubblicato nel 1941, il primo romanzo significativo del panorama letterario del dopoguerra spagnolo. Fin dalle prime pagine il libro si presenta “votato” alla verosimiglianza e al rispetto del patto letterario: i sentieri sono perfettamente tracciati dall’autore, impegnato a mettere in atto le strategie narrative che il lettore riconosce. Sottolinea Cela che i punti cardine assolutamente da perseguire sono: sincerità, verità, lealtà, chiarezza.3
Il romanzo della seconda decade del post-dopoguerra mostra già i segni di un graduale allontanamento dell’autore dalla creatura narrativa.
Da una parte ci sono gli autori che inventano le storie, la cui abilità consiste nel congegnarle bene, scriverle in buona lingua, dopo averle affidate a personaggi accattivanti e persuasivi, non senza aver dosato con sapienza i sentimenti. Dall’altro lato ci sono gli autori che non scrivono storie ma vita, quella di cui loro stessi sono i protagonisti, e nel farlo scoprono che il romanzo, la finzione narrativa che nasce dal racconto di certe esperienze, è l’unico luogo in cui l’io esiste. L’alternativa è tra una narrativa di consumo e un romanzo del reale. La forma narrativa che rende possibile l’esistenza di un romanzo contemporaneo, al di là e separatamente da quello commerciale, è la scrittura dell’io. Se realismo è resoconto minuzioso della realtà, del suo possibile, romanzo del reale al contrario è quello che mira a dire, del reale, l’impossibile.
Chiunque racconti la propria vita, inevitabilmente, dandole forma di racconto, la trasforma in finzione. Poiché la verità ha struttura di finzione, la finzione deve raddoppiarsi, diventare finzione di sé stessa, se vuole sperare di ricondurre autore e lettore verso il luogo eventuale della verità.4
La possibilità odierna di vita per un genere come quello del romanzo, infinitamente e reiteratamente dato per morto, risiede per Philip Forest nella sua capacità di farsi scrittura per l’esperienza estrema, quella cui è legata la nostra vera vita, emotiva e intellettuale, ma che il discorso sociale non integra per la sua scomodità. L’esperienza estrema è la parte maledetta delle nostre vite, tutto ciò per cui l’universo della ragione vacilla e viene meno: il riso, l’ebrezza, l’efferatezza erotica o mistica, il male, infine la morte.
Filosoficamente parlando, la verità risiede nell’accordo tra il linguaggio e il reale. Se il reale, come afferma Lacan, si presenta come impossibile, cercare il vero – questo il romanzo per Forest dovrebbe fare – consiste nel cercare l’impossibile, l’insostenibile, il limite, il momento in cui il senso viene meno. Il romanzo risponde al reale, ma risponde anche del reale, attraverso lo smantellamento dell’identità in quanto certezza, esso si fa testimoniale. Rende conto di ciò che avviene nelle sue dinamiche interne e di rapporto con l’esperienza vissuta, in modo tale che lo scandalo, l’osceno, l’indicibile ne siano salvaguardati, e non cada nell’oblio ciò che essa rappresenta. Nasce con Forest un nouvel engagementper il terzo millennio, che sdogana il sentimento, il pathos, forma moderna di un osceno che il puritanesimo contemporaneo si rifiuta di considerare.5
Foscolo ha sempre avuto una visione austera e appassionata del mondo, che non è retto dalla Provvidenza bensì dalla forza, tuttavia l’amore, la libertà, la giustizia non vi sono del tutto impossibili (altrimenti la società tutta intera si disfacerebbe), e si può anche mostrare come operano e dove. Senza mai ammettere esplicitamente di averli imitati, Foscolo riconosce in Nouvelle Héloïse (Jean-Jacques Rousseau) e Werther (Johann Wolfgang von Goethe) i capostipiti di un filone narrativo contemporaneo cui anche lui si è ispirato. Per lui l’opera d’arte non è una totalità autosufficiente, retta da leggi immanenti, un sistema simbolico, come avevano iniziato a teorizzare in Germania, intorno al 1875 Moritz e Goethe. Essa è piuttosto la rappresentazione di un “fatto”, di un “vero”, cioè di una storia, di una serie di eventi fra loro connessi che un primo scrittore ha colto nella sua verità e da cui gli autori successivi, i suoi imitatori, non potranno più dipartirsi. Due scrittori, pur trattando lo stesso argomento, lo possono svolgere in modo diverso, e con diverso successo, uno per esempio sorpassando gli altri nel grado di “realtà” che conferisce ai suoi personaggi, un altro invece rendendosi meritevole per il grado di bellezza ideale che ha infuso in essi. Foscolo rimane dunque fedele a una concezione classicista della letteratura, che gli permette fra l’altro di distinguere l’invenzione di un particolare contenuto narrativo dal grado di perfezione raggiunto nella sua rappresentazione.6
Il novel nasce in Inghilterra come reazione al fantastico dei romanzi cavallereschi e all’eroico dei romanzi eroici, specialmente francesi, del Seicento: dai generi precedenti, dotti o popolari che siano, dalle novelle, dal romanzo picaresco, dal saggio di costume, dalle biografie dei criminali, il novel assorbe soltanto ciò che non sia eroico né fantastico, tutto ciò che abbia almeno parvenza di verità. E il rifiuto dell’eroico e del fantastico porta con sé il rifiuto dello stile pseudoepico e pseudopoetico, roboante e ornato. Il che significa un mutamento di gusto nei lettori, e viene naturale attribuirlo al mutamento sociale avvenuto in Inghilterra con la rivoluzione del 1688 e la presa di potere della borghesia. Quel predominio di classe non durò e con esso cadde anche il predominio di gusto. I puritani borghesi e aristocratici per le loro ore d’ozio non vogliono più romanzi cavallereschi, come non vogliono più né drammi eroici né commedie immorali. Bisognava quindi istruirli offrendo testi loro graditi: romanzi che possano dare l’illusione di verità. Ovvero il novel.
Oltre al realismo, il romanzo del Settecento inglese ha, infatti, un suo fine educativo. Puritanesimo e borghesismo si mescolano. O meglio, l’istruzione che il romanzo del Settecento dà dipende da un’interpretazione borghese del puritanesimo.7
Il puritanesimo come costante culturale, come indispensabile anello di congiunzione tra espressione letteraria del Seicento e del Settecento, si muove tra le due personalità complesse e prolifiche di Milton e Defoe, per andare poi a compiersi, e per il momento a esaurirsi, in Richardson. Milton è innanzitutto e principalmente l’esempio morale, la manifestazione vivente di come sia possibile per una coscienza puritana, preoccupata in primo e fondamentale luogo di tenersi lontana dalla menzogna, esprimersi nelle forme letterarie più raffinate che la tradizione europea abbia elaborato, senza con ciò venir meno al proprio rigore e alla propria onestà.
La letteratura moderna è ricca di utopie in cui l’autore di volta in volta proietta le sue speranze e i suoi progetti per una convivenza umana più giusta e più civile. Anche Defoe, erede al tempo stesso della tradizione puritana e degli esperimenti coloniali inglesi, ne propone una nella seconda parte del Robinson Crusoe, le Farther Adventures. L’interesse di questa utopia non sta tanto nelle soluzioni trovate, ma soprattutto nel fatto che egli arriva a configurarla per gradi, quando è posto dinanzi alla necessità di descrivere la vita che si svolge sull’isola dopo che essa ha cominciato a popolarsi. L’originalità di Defoe sta nell’aver introdotto la dimensione del tempo nell’utopia. Farther Adventures si caratterizza come una “utopia narrativa”. Il divenire di questa colonia modello non solo permette una costruzione progressivamente aderente alle mutate esigenze dei suoi abitanti, ma anche porta a una definizione e a un progressivo sviluppo del loro mondo morale e psicologico, trasformandoli da strumenti di un esperimento sociale in veri e propri personaggi narrativi.8
Nella visione di Forest, questa è la morale del romanzo moderno: presuppone che rispondendo al reale, non rinunci a rispondere anche di lui, a farsene garante in modo che, attraverso le finzioni che costruisce, il romanzo ci faccia comunicare ancora con la parte ormai sottrattaci delle nostre vite, ci trasformi nei testimoni di un’esperienza che ha fatto di noi quello che siamo e che la scrittura, inevitabilmente colpevole, non può tradurre se non a condizione di tradirla. E se il romanzo, in tali condizioni, diventa in effetti il luogo in cui è sospeso qualunque giudizio morale, questa formula, ben lungi dal significare una qualunque resa al nichilismo, deve essere capita come invito a un movimento singolare in direzione dell’assoluto di una verità nella quale risiede l’esclusiva e sufficiente possibilità dell’impegno letterario, a sua volta diretto verso l’orizzonte perpetuo di un eventuale giorno successivo. Potrebbe sembrare una tesi priva di qualsivoglia ambizione e originalità, invece rivendica di non essere altro che la ripresa di una certa concezione della letteratura, accontentandosi di ricordarla in tempi di unanime oblio, di generale degenerazione.
Il libro è una visione polemica dello stato attuale di una letteratura post-moderna dalla quale la nozione di reale viene censurata due volte. Da un altro, il neo-naturalismo (che domina nelle forme egemoniche del romanzo commerciale e della world-fiction) sfugge al reale pretendendo di poter offrire del mondo una rappresentazione positiva dalla quale si trova a essere evinta qualunque riflessione del testo su sé stesso e sull’impossibile da cui procede. Dall’altro, il neo-formalismo (che tutta una parte di creazione romanzesca e poetica attuale rivendica), coerente con un’estetica della simulazione e del virtuale, congeda quello stesso reale in nome di una concezione della letteratura distaccata dal mondo, che si autocompiace e si presenta come un esercizio ludico e ironico che basta a sé stesso. Il romanzo del reale non costituisce quindi in alcun modo una sorta di “nuovo romanzo” che la letteratura attuale dovrebbe inventare per sostituirsi alle forme fossili della creazione e aggiungere un capitolo molto contingente alla storia delle avanguardie. All’opposto, il romanzo del reale aspira semplicemente all’espressione costante di una verità intonsa dell’esperienza letteraria quale essa appare delineata dalle grandi opere del passato e sempre attiva oggi nel romanzo vivo.
La tesi di Forest è questa: la possibilità romanzesca dipende dalla capacità che ha il testo di rispondere all’appello inaudito del reale. È doveroso distinguere da una parte il reale, spazio di negatività da cui il testo procede e verso il quale avanza, dall’altra, la realtà, trappola che il realismo sostituisce al reale per sbarrarne l’accesso, impedirne l’esperienza. La realtàcome brutto romanzo che si sostituisce al sentimento proprio della nostra esistenza. La realtà: sedimentazione di sogni fatti da altri, pesante accumulo di finzioni fossili.
Il realismo romanzesco, in effetti (in quanto finzione immaginaria, oggi affiancata se non sostituita dal cinema), è ciò che programma il modo in cui noi pensiamo la nostra esistenza, lo schema che determina la possibilità dei nostri pensieri, dei nostri gesti, delle nostre emozioni apparentemente più intime o più singolari. In altre parole, sono i romanzi a insegnarci che cosa può essere la realtà, sono loro a modellare la forma del verosimile ai nostri occhi, a determinare i ruoli stereotipati che potremo interpretare credendo di viverli, a concepire gli intrighi intercambiabili di cui avremo l’illusione che costituiscono il corso uguale a nessun altro della nostra storia personale più segreta. Così, per l’autore, ciò che viene fatto passare per realtà e che, inizialmente, accettiamo come tale, non è mai altro che finzione. Per cui il romanzo che egli costruisce è la finzione della finzione, che è la realtà e che, annullandola tramite questo raddoppiamento, consente di giungere a quel punto di reale nel quale esso si rinnova e attraverso il quale ci comunica il senso vero della nostra vita.
Il libro
Philippe Forest, Il romanzo, il reale e altri saggi, Rosenberg & Sellier, Torino, 2024.
Traduzione di Gabriella Bosco.
Titolo originale: Le roman, le réel et autres essais.
1U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani, Milano, 1994.
2J.M. Castellet, L’ora del lettore, Einaudi, Torino, 1962.
3R. Pignataro, La fuga dell’Io narrativo nel romanzo del dopoguerra spagnolo, in L’analisi linguistica e letteraria, Anno XXII – 1-2/2014, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 2014.
4G. Bosco, Nella vertigine dell’identità, in Il romanzo, il real e altri saggi.
6E. Neppi, Le origini del romanzo “moderno” secondo Foscolo: la Julie, il Werther e… Jacopo Ortis, in C. Berra, P. Borsa, G. Ravera (a cura di), Foscolo critico – XV Convegno internazionale di Letteratura italiana “Gennaro Barbarisi”, Quaderno di Gargnano – Università degli Studi di Milano, 2012.
7S. Baldi, Letteratura inglese – Romanzi inglesi del Settecento, in C. Guerrieri Crocetti, C. Pellegrini, Storia delle letterature moderne d’Europa e d’America, Vallardi, Milano, 1958.
8ML. Bignami, Daniel Dedoe, Dal saggio al romanzo, La Nuova Italia – Pubblicazioni della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, Firenze, 1984.
Una delle qualità fondamentali della lingua e dello stile di Leopardi è senza dubbio la varietà. Una varietà linguistica e stilistica che è in primo luogo il riflesso della varietà di generi letterari che egli ha sperimentato: dalla lirica suprema dei Canti alla poesia narrativa e corrosiva dei Paralipomeni, dalla prosa fantastica e metafisica delle Operette a quella monolitica ed “europea” dei Pensieri, fino all’Epistolario e lo Zibaldone. Esperimenti che hanno avuto la forza di innovare in profondità, talora dalle fondamenta, il modo di fare letteratura in Italia e fuori da essa.
«La lingua italiana è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue, non avendo presso che alcuna relazione scambievole.»1
Leopardi era consapevole dello stretto rapporto che lega la lingua alla cultura e alla nazione: «La storia di ciascuna lingua è la storia di quelli che la parlarono o la parlano, e la storia delle lingue è la storia della mente umana».2 Ma nel momento in cui egli sposta il problema teorico della lingua a quello dei parlanti e alla storia delle idee veicolate appunto tramite la lingua s’imbatte nella dicotomia categoriale insita nella prospettiva sociolinguistica di ogni idioma: da una parte il punto di vista che privilegia l’uniformità e l’omogeneità e dall’altra quello che sottolinea la varietà e la molteplicità. Il prevalere di una delle caratteristiche sull’altra è strettamente connesso al tipo di organizzazione sociale di cui la lingua è uno strumento comunicazionale.3
In Italia, l’assenza di unità della nazione ha affidato un ruolo fondamentale, nella omogeneità normativa linguistica, al primato artistico e letterario svolto tra il quattordicesimo e il sedicesimo secolo da Firenze e dalla Toscana. Ma questa omogeneità, secondo Leopardi, sarebbe «cosa ridicola che in un paese privo affatto di unità, e dove nessuna città, nessuna provincia sovrasta all’altra, si voglia introdurre questa tirannia nella lingua».4 In comune con Manzoni eglilamenta la mancanza di un’unità nazionale e di una capitale che possa aver favorito la standardizzazione della lingua ma, a differenza dello scrittore lombardo, non accetta come soluzione linguistica unificante quella di «risciacquar i panni in Arno», scelta adottata da Manzoni a partire dal 1827. In qualche modo Leopardi anticipa il concetto di sistema, che è alla base del Cours de linguistique générale di De Saussure, quando affronta la dinamica che ogni poeta dovrebbe tener presente tra adozione di una lingua “comune e nazionale” e riutilizzo di forme antiche che favoriscono nel lettore l’accesso all’evocazione del passato e la proiezione nell’immaginario.5
Nell’ottica di Leopardi, tutto ciò che è umano ha a che fare in qualche modo con la lingua: letteratura, politica, storia nazionale, sistema delle idee.6 Per il poeta recanatese la lingua andrebbe a incidere anche sulla memoria.
«La poca memoria de’ bambini e de’ fanciulli, che si conosce anche dalla dimenticanza in cui tutti siamo de’ primi avvenimenti della nostra vita, e giù giù proporzionatamente e gradatamente, non potrebbe attribuirsi (almeno in gran parte) alla mancanza di linguaggio ne’ bambini, e alla imperfezione e scarsezza di esso ne’ fanciulli?»7
La parola costituisce l’uomo, ma costituisce l’uomo perché essa crea il mondo nel quale vive e opera l’uomo. La parola, intesa come capacità di dare un nome alle cose, di verbalizzare le esperienze presenti, di ricordare quelle passate, di progettarne altre e, infine, di fare una serie di operazioni con esse, come operazioni di selezione e di combinazione di parole, creando nuovi significati. Privo della parola, l’uomo non avrebbe mai potuto intendere e volere una qualunque cosa, avere memoria e ricordare eventi passati, programmare la sua esistenza e progettare il futuro. Non si sarebbe mai neanche posto tutti questi interrogativi.8
Leopardi ha speso “la favola della vita” a ragionare sulla natura, sull’uomo, sulle letterature e sulle lingue, e lo ha fatto nel solo modo possibile: attraverso le parole.
Il panorama della situazione linguistica e culturale dell’Italia della Restaurazione è caratterizzato dal problema della costruzione di una lingua nazionale moderna che non aveva ancora trovato una soluzione soddisfacente, e dalla scissione tra lingua parlata e scritta. In questo contesto egli assume una posizione originale, dettata dal suo personale modo di considerare le lingue, alternativa sia al purismo che ai suoi detrattori. Mancando letteratura, la lingua è rimasta quella illustre del tempo antico, che non è idonea a esprimere nuove idee. Per uscire da questa situazione, Leopardi propone in un certo senso di rimettere in cammino la lingua italiana, di ridarle nuova linfa culturale e vigore, tenendo conto però della sua ricca, variegata e inestimabile storia.9
Un letterato di primo Ottocento aveva a disposizione una quantità di varianti fonologiche e morfologiche davvero notevole. Se questa spiccata varietà di forme – nei secoli precedenti era ancora maggiore, mentre oggi è ridottissima – per uno scrittore come Manzoni, sensibile alla funzione sociale del linguaggio, poteva persino rappresentare un ostacolo al processo di unificazione linguistica ancora di là da venire, era invece linfa vitale per alimentare l’impegno creativo di un autore come Leopardi, costantemente alla ricerca di forme di lingua e di stile sempre diverse, che potessero esprimere tutta la varietà del suo “pensiero in movimento”.10
In realtà, sottolinea Ricci, non sempre la scelta tra un’opzione e l’altra era in effetti libera: spesso era invece condizionata da fattori legati al tipo di testo che si stava scrivendo oppure alle caratteristiche di un certo genere di scrittura. Però è innegabile che avere a disposizione due o più alternative per uno stesso referente moltiplica le soluzioni in relazione sia alla variatio lessicale sia alla metrica.
L’aggettivo solitario viene utilizzato da Leopardi in due titoli (La vita solitaria e Il passero solitario) e in altre dieci occasioni. Accanto a esso, il poeta si serve anche dei più lirici ermo, romito e solingo. La scelta è dipesa, di volta in volta, dalla varia modulazione sia delle implicazioni metriche (si va dalle due sillabe di ermo che, iniziando in vocale, può legarsi in sinalefe anche con la parola precedente, alle quattro di solitario) sia delle distribuzioni interne al singolo canto o al libro intero.
Quando il poeta, per esprimere la stessa cosa, ha a disposizione due o più risorse lessicali, la sua opzione sarà dettata dal livello stilistico del componimento. Nei Canti incontriamo otto volte un verbo di uso comune come prendere, mentre solo due volte il più familiare pigliare e sempre in contesti stilisticamente umili: nella prima lassa della Quiete (caratterizzata da “modestia di registro”).11 Anche quando Leopardi ricorre a un accostamento non inedito, la pregnanza e la “leopardianità” dell’attributo rendono quell’accostamento nuovo e originale. È stato preso in esame il celeberrimo “lenta ginestra” dell’attacco dell’ultima strofa della canzone: «E tu, lenta ginestra, / Che di selve odorate / Queste campagne dispogliate adorni».12 La ginestra leopardiana, stante la condizione di pieghevolezza, diventa un’allegoria di chi non si oppone alla sua sorte con vano orgoglio o con vili lamenti, ma accetta la legge della natura e la propria morte con consapevolezza e dignità.13
La ricerca di un adeguato strumento linguistico è collegata sempre alla scelta dei contenuti da esprimere, ai sistemi di idee che le parole rappresentano e fanno circolare. La posizione di Leopardi è piuttosto isolata nel dibattito del tempo dove, dopo l’esperienza riformatrice, la discussione sulla questione della lingua tendeva a ripresentarsi solo come ricerca linguistica fine a sé stessa, sterile e inutile, o come espressione retorica priva dello spessore culturale e molto distante, quindi, dai modelli di eloquenza che erano operanti a metà Settecento. Il dissenso che egli manifesta nei confronti della cultura del tempo è molto forte: «Tutte le opere letterarie italiane d’oggidì sono inanimate, esangui, senza moto, senza calore, senza vita».14 La mancanza di una lingua e di una società moderna in Italia dipende dalla mancanza di una nazione, dalla sua nullità politica e militare, dal fatto che è priva di una capitale, una letteratura, un teatro, una conversazione sociale, cioè di quelle istituzioni che assicurano una uniformità di opinioni e di costumi che è poi alla base della coesione sociale.15
La diagnosi di Leopardi della società italiana e delle forze politiche e culturali che governano l’opinione pubblica ricalca quel nesso tra letteratura e lingua, collegato a sua volta a quello, altrettanto centrale, tra nazione e lingua, e che si risolve nella reciproca determinazione fra condizioni linguistiche, condizioni politiche e forme della produzione culturale, il cui intreccio può ricordare l’impostazione che Gramsci avrebbe considerato molto tempo dopo la questione della lingua.16 Sul fatto che Leopardi cercasse consapevolmente e tenacemente la propria lingua poetica non c’è dubbio. La ricerca di lingua e di stile è orgogliosamente dichiarata nelle Annotazioni alle dieci canzoni. Le fittissime pagine delle annotazioni linguistiche sono un duello col Vocabolario della Crusca e coi reali o supposti critici puristi, volto a denunciare le lacune di quel dizionario e a integrarle coi testi canonici, a dimostrare la propria ortodossia alla tradizione sancita da quel dizionario stesso e insieme ad affermare la propria libertà e creatività.17 I grandi poeti sono anche grandi architetti.18Leopardi architetto si vede sia nelle microstrutture (disposizione delle parole o vari fenomeni microsintattici) sia nelle macrostrutture (dalla creazione della singola strofa o del singolo periodo alla composizione dell’intero testo). E allora, come evidenzia Ricci, al pari di una partitura musicale, le poesie e le prose leopardiane si configurano in una poliedrica varietà di soluzioni, dove costanti e varianti vengono intessute e dosate per inseguire, di volta in volta, la lingua e lo stile che Leopardi riteneva più adatti alle cose da dire.
Il libro
Alessio Ricci, La lingua di Leopardi, Società Editrice Il Mulino, Bologna, 2024.
8R. Pititto, Processi linguistici e processi cognitivi. Verso una teoria della mente, Unina – Università degli Studi di Napoli, 2004.
9A. Prato, Il rapporto tra linguaggio e società nella filosofia di Leopardi, in Natura Società Letteratura, Atti del XXII Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti, Bologna, 2018.
10S. Solmi, La vita e il pensiero di leopardi, in G. Pacchiano (a cura di), Studi leopardiani, Adelphi, Milano, 1987.
11P.V. Mengaldo, Leopardi antiromantico. E altri saggi sui Canti, Il Mulino, Bologna, 2012.
12G. Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto.
13P.V. Mengaldo, L’epistolario di Nievo: un’analisi linguistica, Il Mulino, Bologna, 2006.