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Irma Loredana Galgano

Irma Loredana Galgano

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Quanto incide la scuola su crescita ed economia?

08 lunedì Feb 2021

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IlMulino, Nellospecchiodellascuola, PatrizioBianchi, recensione, saggio

L’Italia è il paese d’Europa con i più bassi livelli di istruzione, i più alti tassi di dispersione scolastica e il più alto numero di NEET. L’Italia è anche il paese che è cresciuto meno negli ultimi venti anni e si è presentato all’appuntamento con la pandemia con un tasso di crescita annuale dello 0,3 per cento su base nazionale.

Ragioni per cui, per Patrizio Bianchi, un ritorno alla normalità pre-covid non può e non deve più bastare. 

«non possiamo accontentarci di tornare alla situazione precedente, ma diviene ormai indifferibile avviare una vera fase costituente per la scuola, per aprire una nuova stagione in cui la scuola torni a essere, o meglio divenga, il motore di una crescita di un paese che da troppo tempo è bloccato.»

Sottolinea Bianchi nel testo come, mentre a livello internazionale si veniva delineando un profondo cambiamento strutturale, che ha aperto la via a una nuova economia basata sulla digitalizzazione della produzione e degli scambi, il nostro paese sprofondava nella crisi fiscale dello Stato, con un deficit e un debito il cui peso sottraeva risorse a educazione e ricerca e, quindi, a quell’innovazione necessaria per capire e affrontare la trasformazione dell’economia e della società.

È in questa fase che emerge con forza il bisogno di nuove competenze, nuove abilità, nuove capacità critiche per comprendere questi straordinari processi di riorganizzazione dell’economia e della società e, nel contempo, di nuove modalità di organizzazione dei processi educativi non solo per i ragazzi ma anche per gli stessi adulti. 

La nuova scuola quindi deve predisporre competenze e abilità rivolte a comprendere queste nuove realtà complesse e a predisporre le persone ad affrontare un cambiamento continuo. Il rischio, ribadisce chiaramente Bianchi, è che la pandemia diventi la coperta sotto la quale nascondere tutti i problemi accumulati nel tempo, problemi e inefficienze che hanno ostacolato la possibilità di cogliere i vantaggi offerti dalle nuove tecnologie. 

L’Unione europea aveva considerato come obiettivo fondamentale per una «società della conoscenza» la presenza di almeno il 40 per cento di giovani fra i 30 e i 34 anni laureato. Nel 2019, in Italia, la quota di giovani laureati non cresce e rimane bloccata al 27,6 per cento, ovvero sotto di quasi 13 punti percentuali rispetto all’obiettivo fissato. L’Unione europea ha già superato questo traguardo mentre l’Italia resta indietro ed è avanti solo alla Romania. 

Valori molto bassi e assolutamente inaccettabili si riscontrano anche nel momento delicatissimo della transizione dalla scuola al lavoro. 

Sottolinea inoltre Patrizio Bianchi il fatto che il livello di istruzione degli emigranti odierni è molto più alto di coloro che rimangono in Italia, tanto che il tasso di emigrazione è doppio fra i laureati e i diplomati rispetto a chi non ha un titolo di studio, evidenziando come la nuova emigrazione italiana dreni soprattutto fra coloro che hanno le competenze più necessarie per lo sviluppo. 

Alto permane ancora, purtroppo, il tasso di dispersione scolastica. Anche se diminuito nel tempo, rimane – 13,3 per cento – tuttavia al di sopra del limite fissato come obiettivo dall’Unione europea (10 per cento entro il 2020). Va inoltre sottolineato che questo è il tasso di dispersione esplicito, ovvero quello visibile e numerabile. Bisogna considerare anche la dispersione implicita, ovvero coloro i quali, pur conseguendo un titolo o un diploma, egualmente non possiedono le competenze adeguate. 

Il 19 giugno 2020 la Commissione europea pubblica il Digital Economy and Society Index (DESI) ovvero l’indice composto che misura le capacità e le competenze di cui dispone un paese in ambito digitale.

Se nella connettività l’Italia si colloca appena sotto la media europea, è proprio nella disponibilità di competenze e capitale umano adeguato che risulta definitivamente ultima fra i paesi europei. 

E quindi, per Bianchi, non è casuale che il nostro paese, con i più bassi tassi d’istruzione d’Europa, sia anche il paese che negli ultimi venti anni, ovvero gli anni dell’economia della conoscenza, è quello cresciuto meno di tutti. 

Fonte: Commissione europea – www.ec.europa.eu

Mentre in Germania si affrontavano crisi e rilancio dell’economia investendo in educazione, in Italia si effettuavano tagli proprio all’istruzione, oltre che a sanità e welfare. Ed è in questi tagli che si colloca, per l’autore, la radice del ritardo italiano. 

La riduzione della spesa per l’educazione proprio nel momento del rilancio e del passaggio alla digitalizzazione, ha inciso sullo sviluppo delle tecnologie e soprattutto sulle competenze.

Non si tratta quindi, sottolinea Bianchi, di ritrovare la quotidianità della scuola dopo la sospensione dovuta alla pandemia, ma di ridisegnare una scuola che sia fattore di sviluppo per l’intero paese. 

Una nuova scuola i cui ambiti di competenza possono essere sintetizzati con l’acronimo CAMPUS (Computer/Coding, Arte, Musica, Polis, Sport), a sottolineare come la nuova scuola debba essere un  campo in cui allenarsi insieme a una vita in cui l’obiettivo fondamentale sia costruire comunità solidali e coese. 

L’idea alla base dei Patti educativi di comunità, indicati nel Rapporto conclusivo come la via maestra da seguire, è quella di aprire alla scuola reali spazi di arricchimento formativo e rendere la comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attivazione alla legge sull’autonomia. Cruciale diventa anche il rapporto con l’università e i centri di ricerca, che devono avere la possibilità di costruire relazioni più strette con la scuola. 

Migliorare le conoscenze e le competenze nelle materie scientifico-tecnologiche, cioè STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). 

Smetterla di inseguire l’alternanza scuola/lavoro ma andare verso forme di integrazione in cui reciprocamente le imprese, le scuole, gli enti di ricerca si rendano fra loro complementari. 

Sono già numerose le iniziative indicate come «scuola-fuori-dalla-scuola» ma, affinché il cambiamento abbia senso, bisogna ci sia una loro diffusione capillare. 

È necessaria anche una rivalutazione della figura dell’insegnate e della sua centralità nell’educazione e formazione degli alunni come un loro adulto di riferimento. 

Così è riemerso anche il tema da tempo rinviato dell’adeguamento del numero dei docenti e del personale tecnico. Anche una volta però, sottolinea amaramente Patrizio Bianchi, una materia, che avrebbe dovuto essere il centro di una programmazione di lungo periodo, è stata affrontata in termini emergenziali. 

Molte delle proposte avanzate dal Comitato sono state poi adottate dall’amministrazione in diversi decreti successivi. Tuttavia, l’aver scelto di attivare di volta in volta i diversi provvedimenti ha fatto venir meno la visione complessiva. 

È questo quindi il momento di scegliere se attuare un vero cambiamento oppure lasciare che questa diventi l’ennesima occasione perduta. 

La pubblicazione del libro di Patrizio Bianchi con ilMulino a ottobre 2020, a tre mesi dalla consegna del Rapporto finale della Commissione da lui coordinata, libro nel quale elenca le medesime criticità e propone le stesse soluzioni indicate nel suddetto rapporto, e soprattutto il modo in cui li espone, lascia sottintendere al lettore che il treno del cambiamento, ahinoi, potrebbe essere già passato e che, ancora una volta, l’Italia si è fatta trovare impreparata, o distratta.

Bibliografia di riferimento

Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, ilMulino, Bologna, 2020

L’autore

Patrizio Bianchi: Professore di Economia all’Università di Ferrara, rettore e docente per la Cattedra UNESCO in Educazione, crescita e uguaglianza, assessore alla regione Emilia-Romagna a Scuola, educazione, università, ricerca, formazione e lavoro. Coordinatore del Comitato per il rilancio della scuola dopo la COVID-19.

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Articolo disponibile anche qui

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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa delle Edizioni del Mulino per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com

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LEGGI ANCHE

Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018)

“Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)

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© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

È tempo di “Riscrivere l’economia europea”

02 martedì Feb 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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economia, Europa, IlSaggiatore, JosephStiglitz, Occidente, recensione, Riscrivereleconomiaeuropea, saggio

Bassi livelli di crescita, aumento della disuguaglianza, crescente insicurezza economica per vasti settori: sono solo alcune delle conseguenze dei problemi che non potranno mai essere risolti con piccoli cambiamenti politici. Per migliorare i risultati dell’economia e creare un benessere condiviso occorre riscrivere le regole dell’economia europea, intese nel senso più ampio, che comprende anche le politiche di fondo per il governo dell’Unione europea.

Dopo aver analizzato a fondo i problemi dell’economia statunitense, Joseph Stiglitz, in collaborazione con Carter Dougherty e la Foundation For European Progressive Studies, indirizza la sua ricerca verso l’economia europea e i suoi difetti sistemici, dovuti a errori strutturali ma anche al fatto che, ormai, la visione dei fondatori risale a oltre sessanta anni fa. Servono nuove istituzioni e nuove regole di governo dell’economia e della politica, che a loro volta devono basarsi su nuove idee.

Stiglitz, come anche gli altri economisti che hanno condotto l’indagine, si rivela fin da subito consapevole di quanto possa essere in realtà complesso apportare cambiamenti radicali al quadro economico di base, pertanto si è preferito concentrare l’attenzione su ciò che è realmente possibile fare pur mantenendo pressoché invariati i vincoli attuali imposti dall’Unione a se stessa come ai singoli paesi membri.

Un aspetto peculiare dell’economia europea è il modello sociale, il cosiddetto welfare state. Quest’ultimo ha pagato, nei vari paesi europei, un prezzo altissimo all’austerità, proprio in una fase in cui l’Europa avrebbe dovuto invece rinnovarlo e incrementarlo per renderlo adeguato alle realtà economiche del Ventunesimo secolo.

Oggi i cittadini europei hanno, rispetto a prima della crisi del 2008, meno possibilità di lavorare, istruirsi, curarsi e andare in pensione, e in alcuni paesi queste possibilità sono scese a livelli decisamente inaccettabili.

Gli autori affermano che la gran parte dei risultati deludenti dell’Unione europea sia riconducibile al quadro di politica macroeconomica. E i risultati, particolarmente deludenti, dell’Eurozona dipendono in parte proprio dalla sua struttura.

L‘euro ha eliminato i principali meccanismi correttivi, amplificando così le conseguenze di eventi come la crisi finanziaria del 2008 e provocando la successiva crisi del debito sovrano.

L’economia europea ha evidenziato anche un altro problema, ancor più preoccupante: i benefici di quel poco di crescita che c’è stato sono andati in gran parte a chi stava già meglio di tutti gli altri.

Le regole e le regolamentazioni economiche europee risalgono agli anni Novanta, che era decisamente un momento di trionfalismo capitalista. Però sostenere che a far crollare i regimi autoritari, da Varsavia a Bucarest fino a Mosca, sia stata l’economia di mercato significa travisare la storia: quel crollo fu il risultato del fallimento di un sistema comunista profondamente sbagliato, spinto sull’orlo del precipizio dalla determinazione americana nella corsa al riarmo tecnologico e dall’anelito umano alla libertà.

Se l’Eurozona fosse stata creata pochi anni dopo, allorquando le economie dell’est asiatico furono investite da una serie di shock economici, i rischi di quella formula, per Stiglitz e colleghi, sarebbero stati molto più evidenti.

Quei paesi non erano riusciti a evitare una crisi grave pur avendo rispettato alla lettera le stesse ricette macroeconomiche di contenimento del disavanzo, del debito e dell’inflazione confluite nei vincoli dell’Unione europea. Ma anche i precedenti successi di quei paesi per gli autori vanno interpretati come una smentita del credo ultracapitalista. Per anni, infatti, i loro altissimi tassi di crescita erano stati favoriti da un interventismo pubblico ben più sistematico di quello consentito dalle regole europee.

Molti europei guardavano con ammirazione all’aumento del Pil americano, ma trascuravano il ristagno, anzi il calo in termini reali, del reddito di larghe fette della popolazione statunitense, e ignoravano sia la precarietà dei redditi, sia la mediocrità dei servizi sanitari, che si rifletteva in un’aspettativa di vita inferiore a quella di tutti gli altri paesi sviluppati.

Con ogni probabilità, se le regole fossero state scritte dopo la crisi e la recessione, i loro estensori sarebbero stati ben più scettici sulla capacità dei mercati – soprattutto finanziari – di funzionare da soli.

Tutte le crisi prima o poi passano, ma, nel valutare un sistema economico, ciò che conta non è che la crisi sia finita o semplicemente superata, bensì il tempo impiegato per arrivare a una completa ripresa, le sofferenze inflitte ai cittadini, e la durata delle stesse, e la vulnerabilità del sistema a un’altra crisi.

In Europa le conseguenze della crisi finanziaria e della recessione sono state inutilmente gravi, lunghe e dolorose. Il divario tra la condizione attuale dell’economia e quella in cui si sarebbe trovata in assenza di crisi si misura ormai in trilioni di euro. E ancora oggi, oltre un decennio dopo lo scoppio della crisi, la crescita rimane incerta.

I problemi di fondo della struttura economica e del quadro delle politiche europee sono ancora gli stessi che hanno condotto alla crisi, e ciò rende l’Europa vulnerabile a una nuova crisi.

Le sfide da affrontare sono, in sintesi:

  • Scelte di politica economica (politica macroeconomica, politica monetaria, investimenti pubblici).
  • Regolamentazione dei mercati (riforme della corporate governance, dei mercati finanziari, della proprietà intellettuale, della concorrenza e del fisco).
  • Creazione di uno Stato sociale all’altezza del Ventunesimo secolo.
  • Definizione concordata di nuove regole globali che gestiscano meglio la globalizzazione, in modo da non aggravare i problemi di disuguaglianza.

L’Europa ha la tendenza a orientarsi verso i paesi maggiori eppure per Stiglitz, a volte, sono i paesi minori a creare modelli esportabili. Per esempio, il Portogallo ha dimostrato che la strada giusta è la crescita non l’austerità.

All’epoca in cui fu sottoscritto il Patto di Stabilità e Crescita, il mondo era appena uscito da una fase di inflazione galoppante. Ma oggi il problema non è più l’inflazione ma la disoccupazione. Per offrire lavoro a tutti occorre abbandonare l’austerità, correggere il disallineamento dei tassi di cambio in modo da renderli più equi ed efficienti e investire di più e con intelligenza.

Si può fare di meglio anche restando nell’ambito del Patto di Stabilità e crescita. Un paese può ad esempio rispettare il quadro di bilancio in pareggio (o il deficit entro il tre per cento) e contemporaneamente aumentare sia le tasse che le spese, in modo da stimolare l’economia. Ovvero impiegare il cosiddetto moltiplicatore di bilancio in pareggio. Va da sé però che bisogna scegliere con oculatezza le voci giuste, sia per le entrate che per le uscite.

Attualmente una delle economie ritenute più forti e stabili, all’intero dell’Unione, è quella tedesca. Tuttavia, ricordano gli autori, anche la Germania ha interesse ad abbandonare il proprio modello economico fondato sulle esportazioni se si guarda al medio periodo.

Man mano che le imprese cinesi impareranno a fabbricare, e non più acquistare, beni strumentali (soprattutto macchine industriali), questa vorace domanda si trasformerà in concorrenza per l’industria tedesca. Per cui, un maggior dinamismo della domanda interna e un’economia europea in buona salute possono aiutare la Germania ad attutire lo shock inevitabile che l’attende.

La politica monetaria è un altro grande strumento da cui partire per riscrivere l’economia europea.

L’Unione ha concepito la Bce per affrontare un problema del passato (l’inflazione) senza darle flessibilità sufficiente per affrontare i problemi del Ventunesimo secolo (occupazione e stagnazione).

La principale riforma della Bce dovrebbe prevedere l’estensione del suo mandato a un obiettivo di occupazione, basandosi su idee che potrebbero dare alla stessa e alle politiche monetarie europee quella flessibilità di cui c’è estremo bisogno:

  • Usare i margini di discrezionalità consentiti da Maastrich.
  • Fare riferimento all’inflazione di fondo.
  • Spostare l’attenzione sui rischi di inflazione troppo bassa e di deflazione.
  • Riorganizzare il programma di ricerca della Bce.
  • Definire obiettivi d’inflazione simmetrici, o addirittura sbilanciati verso la prevenzione della deflazione, poiché le fasi di alta disoccupazione sono associate a pressioni deflazionistiche.
  • Utilizzare vigilanza e regolamentazione bancaria per promuovere crescita e stabilità, incentivando gli investimenti produttivi e scoraggiando i rischi speculativi.
  • Gestire la vigilanza in modo da non accentuare la contrazione dell’economia.
  • Favorire il credito alle piccole imprese.
  • Accrescere il controllo del Parlamento europeo.
  • Accrescere l’efficacia di vigilanza del Consiglio europeo.
  • Accrescere la trasparenza.

(l’elenco è solo a titolo esemplificativo e non riporta in maniera esaustiva tutte le proposte discusse nel testo)

Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità) del 2012 è apparso come il primo approccio verso un cambio di rotta delle direttive economiche europee. Attualmente ritenuto in grado di gestire la crisi di un paese minore ma molto al di sotto di ciò che sarebbe necessario per affrontare una crisi bancaria in un paese maggiore. Oggi, chiedere assistenza sul Mes significa sottoporsi formalmente alla supervisione della troika per tutta la durata della crisi. Per ricevere assistenza i paesi devono accettare specifiche regole di bilancio e diverse modifiche alle proprie politiche.

Durante una videoconferemza organizzata dal think tank europeo Feps, Joseph Stiglitz ha parlato della necessità di prestiti e sovvenzioni da parte dell’Europa ai paesi membri, degli eurobond nel breve periodo, in quanto molti paesi hanno un livello di debito troppo alto per riuscire a reperire autonomamente le risorse necessarie, mentre per il lungo periodo auspica una maggiore tassazione comune dell’Unione europea (web tax, carbon tax, corporate tax).

E, all’interno del Feps Covid Response Papers nuomero dieci di ottobre 2020, Stiglitz parla in dettaglio della situazione attuale con commenti ai provvedimenti presi e quelli calendarizzati nonché dei vari scenari possibili.

Bibliografia di riferimento

Joseph E. Stiglitz, Riscrivere l’economia europea. Le regole del futuro dell’Unione, con Carter Dougherty e Foundation For European Progressive Studies, ilSaggiatore, Milano, 2020.

Titolo originale: Rewriting the rules of european economy.

Traduzione di Marco Cupellaro.

Joseph E. Stiglitz: capo economista e senior fellow del Roosevelt Institute, Premio Nobel per l’Economia 2001.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa de ilSaggiatore Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Promuovere la crescita delle economie in via di sviluppo attraverso la conoscenza. L’analisi di Stiglitz e Greenwald in “Creare una società dell’apprendimento” (Einaudi, 2018) 

“Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020) 

La lotta per salvare la classe media è la nostra lotta? “Questa lotta è la nostra lotta” di Elizabeth Warren (Garzanti, 2020) 

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale 


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Melancholica deliria multiformia: “L’anatomia della malinconia” di Robert Burton

25 lunedì Gen 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Bompiani, Giunti, Lanatomiadellamalinconia, recensione, RobertBurton, saggio

Come si fa a sconfiggere la malinconia? Essere malinconici equivale a essere folli? Bisogna guarire il corpo o la mente? O entrambi?

Sono queste, o simili, le domande che deve essersi posto Robert Burton quattrocento anni or sono, allorquando iniziò la stesura del suo trattato sulla malinconia.

Burton iniziò la scrittura del testo nel 1620 e la portò avanti, praticamente, fino a che la sua vita non ebbe fine.

Come sottolinea Luca Manini, nella sua introduzione al libro, L’anatomia della malinconia doveva essere, nelle intenzioni dell’autore, una vera e propria cura, una sorta di trattato medico della guarigione.

Accostarsi al libro di Burton significa, per il lettore, avvicinarsi a un’opera che è anche un mondo, che racchiude in sé cielo terra e inferi. Lo trasporta dall’armonia delle sfere celesti sino agli abissi dell’inferno, facendogli osservare il caos che domina il mondo terreno. Ed è in questo caos che si insinua e s’impone, per Burton, la malinconia, questa afflizione dell’animo.

Robert Burton, con L’anatomia della malinconia, ha assunto il compito di studiare la malinconia allo scopo di indicare le possibili cure, e lo ha fatto seguendo uno schema preciso, che trova la sua origine nei principi medici enunciati nell’antichità da Ippocrate e da Galeno:

  1. Analisi sistematica delle cause e dei sintomi.
  2. Esposizione della diagnosi.
  3. Somministrazione della cura.

Il lettore però non deve aspettarsi, nel leggere l’opera di Burton, una trattazione che sia unica e uniforme, piuttosto egli troverà una scrittura ben rappresentativa della natura varia delle manifestazioni dello stato malinconico. Deve quindi il lettore, come scrive lo stesso autore nelle conclusioni dell’opera, attendersi di ridere e di piangere e deve essere, al contempo, sarcastico e comprensivo.

Robert Burton presenta se stesso come una persona malinconica e con questo attiva due distinti processi: da una parte, procede a una identificazione con il lettore malinconico e, dall’altra, assume la possibilità di parlare come auctoritas, ponendosi alla pari con le autorità passate e presenti con le quali puntella ogni pagina della sua opera.

Così come duplice è anche lo scopo ch’egli vuol raggiungere: curare gli altri e curare se stesso, usando la scrittura per sé a scopo terapeutico e destinando agli altri la lettura.

D’altronde duplice è, per Burton, anche la natura stessa della malinconia, poiché essa può essere un sentire di dolce struggimento, ma può anche essere il genio malvagio, che porta sofferenza e tormento spirituale.

La malinconia, che Burton assimila a una delle infinite forme della pazzia, è qualcosa di più di un semplice stato di alterazione mentale e/o fisica.

Secondo le teorie mediche dell’antichità, ancora seguite quando Burton scrisse L’anatomia della malinconia, la salute di corpo e mente era il risultato dell’equilibrio tra i quattro umori che costituiscono l’essere umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera.

Nel momento in cui questo precario equilibrio si spezza, ecco insorgere la malattia, la quale dunque può essere indicata come uno squilibrio tra gli umori, nel segno dell’eccesso o del difetto.

La salute poteva essere riacquistata solo ricomponendo questo equilibrio. Tuttavia Burton vede la malinconia talmente diffusa in tutti da farsi cifra del mondo, causa e motore primi dell’agire umano, degli umani comportamenti al punto che essi sono sorretti non dalla sapienza o dalla ragione bensì dall’irragionevolezza e dall’irrazionalità; dalla vanità che nega la visione di ciò che è vero e reale; dalla mancanza di una virtù che dia alle cose il loro giusto peso e valore; da uno squilibrio che è alterazione, cecità, deformazione, mutilazione.

Ed è proprio la consapevolezza di questo tormento universale che spinge Burton a scrivere L’anatomia della malinconia.

L’autore vuole condurre i suoi lettori nei gironi infernali della malinconia, per indicare loro una via d’uscita dal labirinto di male che la malinconia è, perché la malinconia assume mille forme diverse, tante quante sono le persone. E così li trascina, i lettori, in un flusso ininterrotto di parole citazioni immagini storie personaggi esempi… al punto che per Manini si potrebbe porre a epigrafe dell’opera una delle tante citazioni che lo stesso Burton riporta: melancholica deliria multiformia. Sono parole che hanno in sé il tema del libro, il disordine della mente che delira e la molteplicità.

Ciò che Burton mette in scena nella sua opera è l’uomo dinanzi al mistero delle cose; è l’anelito di conoscenza; l’ansia di investigare. E, nella commedia/tragedia che è la vita umana, egli raffigura, insieme, la possibilità di conoscere e l’impossibilità di farlo fino in fondo, la vastità e il limite, la chiarezza e l’opacità.

Nel momento in cui Burton avoca a sé una conoscenza precisa di ogni singolo aspetto del cosmo, si appella a una serie infinita di auctoritates le quali, a ben vedere, si contraddicono a vicenda. Così egli prima le mette in discussione, poi addirittura le nega.

Per Manini sembra quasi che Burton lanci delle vere e proprie sfide ai lettori, alla loro intelligenza, alla capacità di discernimento, spronandoli così al confronto, come lui stesso fa, e alla riflessione.

Il suo è il metodo di chi non smette mai di porsi domande, che lascia sempre degli spazi aperti alla ricerca nuova. Un invito forse che egli fa al lettore, a non lasciarsi mai pienamente soddisfare da una teoria o da un’altra, a essere sempre aperti a nuove interpretazioni, nuove proposte.

Ma come si riesce a tornare all’armonia? Come si vince lo stato universale della malinconia?

Due sono i rimedi principe che Burton suggerisce a conclusione della propria opera:

  1. Evitare l’ozio. Tenersi sempre fisicamente e mentalmente impegnati.
  2. Pregare.

Somma cura è, per la malinconia, raggiungere il summum bonum che, secondo Epicuro e Seneca, è la tranquillità della mente e dell’animo. Per sconfiggere questo male, o malessere che sia, la disperazione deve essere volta in speranza di rigenerazione.

In diversi punti del testo ma, in particolare nelle conclusioni, Robert Burton si rivolge direttamente al lettore, lo coinvolge in qualità di agente attivo della propria guarigione dalla malinconia, gli ricorda il legame indissolubile tra mente e corpo.

Ma ciò che colpisce delle parole dell’autore è l’umiltà che egli prova dinanzi al lettore, il timore e, al contempo, la consapevolezza di essersi messo allo scoperto scrivendo il libro e, di conseguenza, esposto alla critica. Teme che alcuni passaggi del testo possano essere poco apprezzati, perché troppo satirici e pieni di amarezza, oppure perché troppo comici o scritti con troppa leggerezza.

Si mostra consapevole di eventuali errori e sviste e non esita a imputarle alla mancanza di revisione. Avrebbe dovuto leggere, rileggere, correggere ed emendare ma non lo ha fatto: non ne ho avuto l’agio o il tempo, non avevo né amanuenses né assistenti.

L’anatomia della malinconia è un’opera monumentale, e non solo per la sua grandezza fisica – essendo composta infatti da oltre tremila pagine. È un viaggio nella cultura seicentesca. È un’opera che potrebbe continuare all’infinito, è un trattato medico ma anche un manuale di anatomia e fisiologia, un trattato filosofico ma anche una sorta di antologia della poesia europea, un atlante geografico e un testo di storia antica e moderna, un trattato di astrologia e astronomia ma anche un libello satirico.

Un libro che si può leggere come un viaggio verso un rinnovato ordine, verso una luce nuova; come una lotta per riconquistare ciò che si è perduto, riformando e rifondando il mondo. E se diamo per certo l’assunto di Burton secondo cui il mondo intero è malinconico (se non addirittura pazzo), allora, sottolinea Manini, tutte le persone potranno trovare qualcosa che, ne L’anatomia della malinconia, possa parlare a loro, essere loro di aiuto e di conforto.

Burton stesso scrive che trova conforto nel pensare le critiche varie come i palati: tanti saranno quelli che lo criticheranno almeno quanti quelli che lo apprezzeranno. Nella sua opera sarà talmente vasta e varia la mole di informazioni che il lettore, anche contemporaneo, troverà che questo equilibrio sarà per certo mantenuto.


Bibliografia di riferimento

Robert Burton, L’anatonia della malinconia, Giunti Editore S.p.A./Bompiani, Firenze/Milano, prima edizione settembre 2020.

Titolo originale: The anatomy of melancholy – volumi I, II, III, originally published by Oxford University press, 1989, 1990, 1994.

Traduzione e note Luca Manini.

Introduzioni di Luca Manini, Amneris Roselli, Yves Hersant.

Traduzione delle citazioni latine e revisione generale di Amneris Roselli.

Testo in inglese a cura di Thomas C. Faulkner, Nicolas K. Kiessling, Rhonda L. Blair.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giunti Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


LEGGI ANCHE

“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)  

“Resti tra noi. Etnografia di un manicomio criminale” di Luigigiovanni Quarta (Meltemi, 2019) 


© 2021, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Teoria e pratica del lavoro sociale: “Intercultura e social work”

17 domenica Gen 2021

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CentroStudiErickson, ElenaCabiati, Interculturaesocialwork, recensione, saggio

Arthur Schopenhauer affermava che ogni uomo confonde i limiti del suo campo visivo con i confini del mondo, è ciò induce a considerare il proprio mondo e la propria cultura come gli unici possibili e plausibili. A pensare il proprio gruppo di appartenenza come il centro di ogni cosa. A valutare e classificare gli altri in rapporto a esso.

Atteggiamento che Claude Lévi-Strauss e Bronislaw Malinowski definirono, intorno alla metà del secolo scorso, etnocentrismo, ovvero porre la propria cultura al centro dell’universo. Un pensiero che Elena Cabiati ritiene essereimponente e che, nella sua apparente banalità e immediatezza, può pervadere anche le pratiche di social work diventando l’espressione invisibile e gentile, più tollerabile e meno feroce, del razzismo.

Cabiati sottolinea come sia fondamentale, per un assistente sociale o un educatore, accogliere l’idea che, nei colloqui, andranno a interagire non solo con l’uomo, la donna o la famiglia che avranno di fronte ma anche con i loro rispettivi mondi micro-culturali composti da più voci interiori. Per cui, diventa difficile, seppur non impossibile, pensare a un assistente sociale o a un educatore convinto della supremazia della propria cultura. Peggio ancora immaginarlo intento a persuadere una famiglia ad adottare abitudini, stili di vita, norme sociali o credenze proprie della cultura di maggioranza poiché apertamente convinto che sia la migliore.

L’immagine di un operatore sociale etnocentrico è quella di un professionista culturalmente monolitico, con entrambi i piedi saldamente piantati nei propri valori, con radici immobilizzate nelle proprie concezioni e nelle esperienze che compongono la sua cultura. Per l’autrice, le radici non sono negative in quanto tali, bisogna però riuscire a muoversi.Quella mobilità necessaria per incontrare, accogliere e comprendere la differenza, per potersi decentrare, secondo il metodo degli shock culturali di Cohen – Emerique. La mobilità dalla propria visione del mondo non è la rinuncia o l’abbandono di questa. Per un operatore sociale è importante essere mobile per poter guardare aldilà dei propri confini senza doverli perdere.

Il social work implica una relazione etica con l’Alterità e una capacità di riconoscere e rispettare le componenti di differenza, non necessariamente derivanti dall’incontro con persone immigrate provenienti da Paesi lontani. Si pensi all’incontro tra un assistente sociale e una persona senza fissa dimora, analfabeta, tossicodipendente, affetta da malattia cronica, disabile, in stato di detenzione… Gli operatori sociali possono percepirsi distanti, con uno stile di vita, una cultura e dei valori diversi anche verso coloro che hanno un buon livello socio-economico, una prestigiosa occupazione o un alto grado di istruzione, e che tuttavia, per qualche motivo, sono diventati loro utenti.

Ricorda Cabiati che il social work, sia nella declinazione professionale che in quella accademica, è sempre una disciplina di frontiera dinamicamente protesa verso altri mondi. Una relazione tra self and other che nel pensiero filosofico di Lévinas è sempre inevitabilmente distante per via del fatto che l’Altro è quello che io non sono.

Nell’incontro con persone afferenti a minoranze etniche vi possono essere complicazioni extra derivanti dal dover fare i conti con l’idea che forse non possiamo sopportare troppa diversità.

Diversi studiosi hanno affermato che le relazioni di aiuto con persone e famiglie di minoranza etnica possono divenire per i professionisti fonte di disagio, se non di veri e propri shock culturali o intercultural misunderstandings, ossia incomprensioni interculturali. Elena Cabiati afferma di essere concorde con Badwall nel pensare che, mentre li vivono, gli operatori sociali non riescono a essere empatici, centrati sull’utenza e riflessivi. Eppure è necessario pensare ai social work come professionisti, ma anche volontari, che non incontrano cittadini che hanno un’origine diversa di per sé, piuttosto persone, gruppi e comunità di minoranza etnica che vivono particolari stati di sofferenza e disagio.

Se social worker e utenti, imprigionati nei loro ruoli distinti, sostituiscono al riconoscimento una Mutual tollerance, ossia semplicemente si tollerano reciprocamente, può rivelarsi insufficiente per una relazione di comprensione e aiuto, pur essendo talvolta un primo importante passo. Mary Richmond sosteneva la necessità di portare nel cuore l’intima convinzione del valore infinito rappresentato dalla nostra caratteristica comune, quella di essere uomini.

L’idea che un operatore sociale ha del proprio interlocutore condiziona profondamente il modo in cui si relaziona a lui, sia per rispondere alla richiesta di aiuto, che per esprimere la propria capacità aiutante. Nessun assistente sociale riuscirà a essere di aiuto a una persona in difficoltà se i principi di rispetto, valore e dignità, enunciati a livello astratto, non trovano una congruente espressione nella pratica reale. Per Elena Cabiati non può esserci aiuto efficace finché non ci riconosce diversi ma di egual valore.

Ciò, naturalmente, vale anche al contrario. Non è solo colui che chiede aiuto ad aver bisogno di essere riconosciuto come persona nella sua differenza, unicità e valore. Anche un professionista o un volontario ha bisogno di riconoscimento per poter al meglio esprimere la propria attitudine all’aiuto. Uno dei due è coinvolto nella vita dell’altro per aiutarlo. Entrambi per aiutarsi reciprocamente, secondo il metodo Relazionale del lavoro sociale.

In ottica interculturale, lo stile relazionale non opprime il sentimento di sapere dei diretti interessati e non pone la competenza metodologica dei professionisti in balìa delle differenze interculturali. Esso si basa, come ricorda Elena Cabiati, sull’assunto che bisogna comprendere gli utenti di culture diverse prima che le diverse culture degli utenti. Distinzione sottile dal punto di vista linguistico ma sostanziale da quello metodologico.

Piuttosto che concentrarsi sulla conoscenza delle differenze astratte e provare a raggiungere l’elusivo, come teorizzato da Saunders, gli assistenti sociali devono concentrarsi sull’ascolto critico attivo e attentivo delle persone per farsi aiutare da quest’ultime nel comprendere quali aspetti delle loro vite sociali e culturali sono importanti per loro, come hanno evidenziato anche gli studi di Hollinsworth.

I social worker non devono guardare al mappamondo e pensare alle attribuzioni schematiche compatibili con la categoria di riferimento per individuare i tratti culturali delle persone. Devono invece fare affidamento sulla possibilità di chiedere aiuto al proprio assistito, mettendo in pratica il concetto di reciprocità nel lavoro sociale, come individuato da Folgheraiter.

Ritiene egli che nessun antropologo può essere così avvantaggiato nel conoscere un’altra cultura quanto un operatore sociale o terapeuta che accosti una vita sradicata e scossa. La stessa Cabiati riprende le teorizzazioni di Benhabib per delineare una efficace linea di azione. Per comprendere qual è la cultura della persona che deve aiutare, un operatore sociale deve iniziare dal presente. È importante riservare un alto grado di attenzione a ciò che le persone direttamente esprimono, nell’idea che è possibile venire a conoscenza dell’identità culturale altrui attraverso le narrazioni con cui questi identifica se stesso.

Non si tratta di ignorare la provenienza e la storia pregresse delle persone, mette in guardia l’autrice, bensì di non ancorarle staticamente a esse.

Senza dubbio la dimensione culturale può influenzare le scelte delle persone che incontra, talvolta anche inconsapevolmente, ma non è possibile pensare di immobilizzare la loro capacità d’azione entro uno scenario prospettico che è predeterminato nell’appartenenza a un’area geografica del mondo.

Sul concetto di cultura Elena Cabiati sottolinea l’importanza di cinque idee base che aiutano nella comprensione:

  • La geografia non determina la cultura.
  • La costituzione biologica non forma la cultura.
  • Ogni cultura è multiculturale.
  • Le culture si evolvono.
  • Tutti gli esseri umani sono inclini a difendere la propria cultura.

La cultura presenta infatti una dimensione intersoggettiva, ossia riguarda più soggetti e le relazioni tra essi. Per ciascuna delle parti, la cultura espressa è frutto delle esperienze e delle relazioni con i rispettivi altri significativi; persone che, a vario titolo, hanno contribuito e contribuiscono alla definizione delle scelte e alla costruzione delle attribuzioni di significato. L’autrice evidenzia in diversi punti del testo la necessità, in relazione alle finalità di aiuto degli interventi di un operatore sociale, di considerare la cultura nella sua componente intersoggettiva.

Come sottolinea Fabio Folgheraiter nella prefazione al testo, il lavoro sociale possiede in essenza una profonda matrice interculturale. Non si potrebbe immaginare tale pratica professionale al di fuori di una logica interculturale. Dover costruire ponti di umanità (connessioni emozionali forti) a fronte di estraneazioni psichiche di tali dimensioni, richiede agli operatori sociali non solo il loro tradizionale inossidabile spirito di abnegazione, ma anche un bagaglio davvero profondo di conoscenza scientifica.

E l’opera di Elena Cabiati risponde proprio a questa esigenza in area italiana, essendo il primo manuale sistematico che indaga il complesso rapporto tra antropologia delle culture umane e pratiche del social work. Nonostante il ragionamento e la letteratura sul lavoro sociale siano tutt’ora scarni, sia dal punto di vista della ricerca, sia per ciò che concerne la pratica operativa e la formazione degli operatori sociali, le organizzazioni di welfare devono rispondere ai rapidi cambiamenti demografici della popolazione che accede ai Servizi, e devono farlo, spesso, senza una preparazione adeguata né particolari aiuti strutturali.

Bibliografia di riferimento

Elena Cabiati, Intercultura e social work. Teoria e metodo per le relazioni di aiuto, Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2020.

Prefazione di Fabio Folgheraiter.

L’autrice

Elena Cabiati è assistente sociale, ricercatrice del centro di ricerca Relational Social Work, docente di social work interculturale e di metodologia del servizio civile presso l’Università Cattolica di Milano e di Brescia.


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“Lezioni per il futuro” di Ivan Krastev (Mondadori, 2020)

28 sabato Nov 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IvanKrastev, Lezioniperilfuturo, Mondadori, recensione, saggio

Una pandemia a livello globale non può non lasciare segni indelebili, non può non costringere governi e cittadini a ripensare alcuni comportamenti. L’emergenza sanitaria in atto sarà fonte, per Ivan Krastev, di almeno sette grandi lezioni per il futuro.

Se da un lato, la prima lezione sarà una rinnovata fiducia nei governi, cui si chiederà sempre maggiore aiuto e sostegno, dall’altro, ovvero la seconda lezione, sarà un ritorno di interesse verso i confini, più marcati e bene definiti, tra i vari Stati con l’intento di tenere fuori e lontano da essi tutto quello che è indesiderato, i virus per primi. Ciò è emerso fin da subito, allorquando si è iniziato a chiudere prima i confini tra gli Stati, poi le regioni all’interno di ogni nazione con lo scopo precipuo di suddividere i territori in compartimenti a tenuta stagna che limitassero circolazione e diffusione del virus.Questo rafforzerà di sicuro il nazionalismo di ognuno ma, si interroga Krastev, cosa accadrà a livello etnico e sociale? Non basterà di certo erigere muri tra stati perché il pericolo viene dalle persone, e non da persone estranee, straniere. No, il “pericolo” è ovunque. Si dovranno erigere muri anche tra le persone? E quali saranno le conseguenze di queste scelte?

Il tema sociale verrà ripreso da Krastev anche nella sesta lezione, centrata sul conflitto generazionale scaturito dalla Covid-19. Contrariamente ad altre problematiche quali clima, lavoro e futuro, questa volta sono gli anziani i più a rischio, vulnerabili e sensibili. Come sta reagendo la società giovane a questa loro difficoltà? L’essere tutti vulnerabili, anche se in maniera differente, contribuirà a ristabilire una sorta di equilibrio esistenziale e sociale?

La terza lezione descritta da Krastev sembra in realtà più una speranza. Ritiene infatti l’autore che la pandemia riuscirà a far ritrovare una più che rinnovata fiducia negli esperti, duramente scalfita negli ultimi tempi a causa della crisi finanziaria prima e di quella umanitaria dopo e su cui i politici populisti hanno calcato molto la mano allo scopo di rinsaldare il malcontento e la sfiducia verso gli esperti e la comunità scientifica in generale per vedere invece rafforzata la fiducia verso se stessi.

In Stati dove si vedrà rinnovato l’interesse per i confini e dove ci si guarderà l’un l’altro con sospetto essendo tutti dei potenziali untori, Krastev teme possa germogliare la passione verso forme di governo autoritarie, capaci di mettere in atto misure più restrittive ma, proprio per questo, più efficaci per contrastare l’epidemia. Ed ecco allora che la quarta lezione invita il lettore a pensare al giorno successivo la crisi, allorquando con ogni probabilità la Cina apparirà come un vincitore e gli stati del blocco occidentale dei perdenti. Perché più impreparati ma anche perché i loro governi hanno dimostrato di avere molto meno polso. Il fascino dell’autoritarismo è un rischio concreto che di certo non va sottovalutato. L’autore infatti invita a una accurata riflessione in merito.

La quinta lezione è strettamente interconnessa alla quarta, solo che osserva il fenomeno con gli occhi di chi in questi lunghi mesi le decisioni le ha prese e non subite.

Nei periodi in cui gli attacchi terroristici sono stati più pressanti per l’occidente, i governi hanno tentato in ogni modo di trasmettere un messaggio che infondesse nei cittadini tranquillità, per evitare panico, caos e, soprattutto, che a causa della paura cambiassero le proprie abitudini magari rinchiudendosi in casa, emarginandosi ed auto-isolandosi. A causa della pandemia i governi hanno dovuto fare l’esatto contrario, ovvero infondere timore per scoraggiare i cittadini a uscire di casa, invogliandoli al contrario a rimanere dentro il più possibile. Il successo dei governi in questo caso, per Krastev, dipende molto dalla loro capacità di “spaventare” la gente e convincerla a rimanere a casa. Tanto più riusciranno a far entrare nel panico la gente tanto prima riusciranno a contenere la pandemia. Il tutto affiancato da cambiamenti radicali nel proprio modo di vivere che, presumibilmente, dovranno protrarsi anche dopo l’emergenza sanitaria.

L’ultima lezione è una finestra sul futuro appena socchiusa, dalla quale l’autore tenta di mostrare al lettore un qualcosa che però ancora non può essere in alcun modo identificabile. Quali saranno le ripercussioni concrete su politica, società ed economia infatti è davvero troppo presto per raccontarlo o scriverlo in un libro.

A conclusione del testo, Krastev rimanda alle parole di José Saramago nel romanzo Cecità: secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono.

La “perdita della vista” è una costante in ogni epidemia, ci sentiamo ciechi perché non l’avevamo vista arrivare e non abbiamo capito quanto stava accadendo intorno a noi. Per assurdo, anche la seconda ondata sembra aver colto tutti di sorpresa.

Per Saramago, le epidemie non trasformano la società, al contrario ci aiutano a vederle per quello che sono veramente. Èquindi doveroso e necessario riflettere accuratamente su ciò che abbiamo visto in tutti questi mesi.

Le lezioni di Ivan Krastev sembrano non voler presuntuosamente insegnare nulla ad alcuno, piuttosto invogliare a una riflessione generalizzata e collettiva su società, governi ed economie, sul presente e, sopratutto, sul futuro. E farlo in maniera ponderata. E seria.

L’autore non punta il dito e non cerca facili bersagli da incolpare, sembra solo intenzionato a capire. A meglio comprendere e, ove possibile, migliorare.

In un vortice mediatico dove tutti sembrano avere, a parole, la soluzione per qualsiasi problema, il libro di Krastev si distingue proprio per l’umiltà narrativa dell’autore e la sua capacità di mantenere lucidità ed equilibrio nonostante discorra di argomenti che interessano tutti, compreso se stesso.


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“L’impero irresistibile”: gli Usa di Trump e la fine del dominio americano

22 domenica Nov 2020

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Einaudi, Limperoirresistibile, recensione, saggio, VictoriaDeGrazia

Almeno per la Cina, il presidente Donald Trump è un regalo che non smette di dare soddisfazioni. Sono queste le parole usate da Minxin Pei per introdurre la sua analisi sui rapporti Cina-Usa e sulle ripercussioni di scelte e azioni dei rispettivi governanti, riportata da Internazionale. Tutto il caos ingenerato dalle parole del presidente Trump e dagli scontri sull’esito delle elezioni sono infatti una vera e propria manna per la propaganda cinese.

Ciò, unitamente alle politiche ostili portate avanti in questi anni dal governo americano, non faranno altro che aumentare consenso e popolarità di quello cinese, servendo inoltre a smussare toni e azioni di tradizionali alleati i quali, al grido “prima gli Stati Uniti”, hanno trovato davvero difficile perseverare nella costruzione di un’ampia coalizione che potesse, in qualche modo, contrastare la Cina.

E così, ancora una volta, potrebbero essere stati gli stessi americani, questa volta per tramite del loro presidente, la causa dell’insorgere di incomprensioni, risentimenti e atteggiamenti ostili a livello internazionale. Sono in tanti a guardare e sperare che l’elezione del democratico Biden possa servire anche a scongiurare e mitigare accadimenti di questo tipo.

Sulla scia degli attacchi che Al Qaeda sferrò agli Stati Uniti l’11 settembre 2001, gli esperti di marketing promisero di rivedere la cattiva immagine dell’Impero del Mercato. Gli strateghi della comunicazione si misero al lavoro: il terrorismo islamico era forse la conseguenza di qualche incomprensione di base degli argomenti americani? Forse la “macchina del marketing globale” che aveva pubblicizzato le abitudini e i prodotti tipici dello stile di vita americano aveva in qualche modo alimentato un profondo fraintendimento dei valori positivi inerenti alla cultura materiale occidentale?

Una politica all’insegna del “Prima l’America” in effetti era dagli anni di inizio Millennio che non si sentiva, allorquando la Guerra Globale al Terrore scatenata dagli americani si sarebbe trasformata in una di quelle guerre infinite che hanno luogo nel momento in cui i grandi imperi combattono contro il proprio declino, provocando il caos.

E questo, nell’analisi di Victoria De Grazia, è segno inequivocabile della caduta del “grande impero del mercato”, ovvero dell’America che, con la sua democrazia degli affari, ha assunto per decenni la guida della lotta per la conquista del mondo con mezzi pacifici. 

«Fate in modo che le vostre idee e la vostra fantasia si diffondano per il mondo intero e, forti della convinzione che gli Americani siano chiamati a portare libertà, giustizia e umanità ovunque vadano, andate all’estero a vendere beni che giovino alla comodità e alla felicità degli altri popoli, convertendoli ai principi sui quali si fonda l’America»

(presidente Thomas Woodrow Wilson, Detroit 10 luglio 1916)

Come sottolinea più volte nel testo De Grazia, nel suo discorso pubblico, il presidente Wilson pose l’accento su quegli scaltri accorgimenti, su quella comunicazione seduttiva, su quella empatia calcolata che solitamente si identificano con la società dei consumi. Facendo in questo modo propria una nozione squisitamente statunitense della democrazia, quella che si potrebbe definire “democrazia del riconoscimento”, bassata su un minimo di elementi comuni, come indossare la stessa maglietta o le stesse scarpe da ginnastica, oppure ancora le stesse marche.

Un’immagine da esportare calcolata fin nei minimi dettagli. E, quando questa immagine vacilla o risulta essere distorta rispetto alle intenzioni, prontamente si cerca di correre ai ripari.

Il 2 ottobre del 2001, l’amministrazione Bush assegnò a Charlotte Beers, celebrata nel mondo delle relazioni pubbliche come la regina del branding, una nuova carica all’interno del dipartimento di Stato, nominandola sottosegretario per la Diplomazia pubblica e le Relazioni pubbliche. Nel marzo 2003, quando l’amministrazione Bush mosse guerra all’Iraq, Beers rassegnò le dimissioni per motivi di salute. Testimoniando davanti alla Commissione relazioni estere del Senato una settimana prima di dimettersi, concluse: Il divario tra ciò che siamo, ciò che vorremmo apparire e ciò che gli altri vedono in noi è spaventosamente grande.

Fino agli anni Novanta, il progresso della cultura americana del consumo, nel bene e nel male, è sembrato davvero il filo conduttore del progresso globale. Era una forza rivoluzionaria, dotata di invenzioni sociali e di un messaggio sul diritto al benessere efficaci quanto una rivoluzione politica nello scegliere i vecchi legami. Tuttavia, una rivoluzione non è permanente per natura, cambia rotta, si esaurisce. Oppure i principi e le istituzioni che difende si diffondono tanto da non essere più identificati con i promotori originali. Entrano in gioco nuove forze. Accade che le soluzioni del passato si trasformano in problemi del presente.

Anche se forse gli Stati Uniti sono ancora la forza più dinamica che sospinge l’attuale cultura del consumo globale, per certo non esercitano più un’influenza tecnologica tale da monopolizzare le innovazioni né nella produzione né nel consumo. E questo giustifica molte delle preoccupazioni commerciali del presidente Trump. E urlare il primato americano a gran voce non poteva di certo bastare a celare il bluff, esattamente come, agli inizi del nuovo millennio, le iniziative intraprese dal governo per assumere la gestione delle vendite avevano finito per rivelare che l’arte di vendere era diventata non uno strumento dell’arte di governare, bensì un suo surrogato e l’inquietante vetrina dove era esposta la politica dell’Impero, con la sua bellicosità globale.

Allora, tra le incertezze dell’opinione pubblica globale, le aziende statunitensi non sapevano più se fosse proficuo o meno associare la vendita dei propri prodotti alla vendita dell’immagine della nazione americana. E, ora che le multinazionali si sono globalizzate, nulla impedisce ai pionieri del multinazionalismo di cadere vittime dei predatori globali.

Potrà Biden rappresentare una efficace rete di sicurezza per l’immagine, prima ancora dell’operatività, del vecchio irresistibile Impero americano del Mercato?

Bibliografia di riferimento

Victoria De Grazia, L’impero irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Giulio Einaudi Editore, Torino 2006 e 2020.

Titolo originale: Irresistible empire. America’s advance through twentieth-century europe.

Edizione italiana tradotta da Andrea Mazza e Luca Lamberti.

Victoria De Grazia insegna Storia europea alla Columbia University di New York. Sull’Italia del Novecento ha pubblicato Consenso e cultura di massa nell’Italia fascista (1981) e Le donne nel regime fascista (1993). Con Sergio Luzzato ha curato il Dizionario del fascismo (2002).


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Giulio Einaudi Editore per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” di Shoshana Zuboff (Luiss University Press, 2019)

08 domenica Nov 2020

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Ilcapitalismodellasorveglianza, LuissUniversityPress, recensione, saggio, ShoshanaZuboff

«Il capitalismo si evolve in risposta ai bisogni delle persone in un tempo e in un luogo determinati»

È questo uno dei concetti base da cui Shoshana Zuboff fa partire la sua analisi a tutto tondo dell’attuale evoluzione del capitalismo, una forma di mercato inimmaginabile fuori dal contesto digitale ma che non coincide con esso. Il capitalismo della sorveglianza infatti non è una tecnologia, è una logica che permea la tecnologia e la trasforma in azione.

Il messaggio delle aziende del capitalismo della sorveglianza non è molto dissimile da quello che veniva celebrato nel motto, ricordato dall’autrice, della Esposizione universale di Chicago del 1933: La scienza trova, l’industria applica, l’uomo si adatta.

Il capitalismo della sorveglianza si appropria dell’esperienza umana usandola come materia prima da trasformare in dati sui comportamenti. I capitalisti della sorveglianza hanno scoperto e sfruttato che i dati predittivi si ottengono intervenendo attivamente sui comportamenti delle persone, consigliandole o persuadendole ad assumere quelli che generano maggiore profitto.

Il capitalismo industriale era spinto dalla continua crescita dei mezzi di produzione, gli operatori di quello della sorveglianza sono costretti ad accrescere continuamente i mezzi per la modifica dei comportamenti e il loro potere strumentalizzante.

Per Shoshana Zuboff, il capitalismo della sorveglianza rimanda alla vecchia immagine di Karl Marx del capitalismo come un vampiro che si ciba di lavoro. Solo che non è più il lavoro il cibo dei capitalisti, lo è ogni aspetto della vita umana.

I prodotti e i servizi del capitalismo della sorveglianza non sono oggetto di uno scambio di beni. Non pongono un rapporto di reciprocità costruttivo tra produttore e consumatore. Sono, al contrario, esche che attirano gli utenti in operazioni nelle quali le loro esperienze personali vengono estratte e impacchettate per gli scopi di altre persone.

Come le civiltà industriali hanno potuto prosperare a discapito della natura e ora minacciano di distruggere la Terra, così una civiltà dell’informazione segnata dal capitalismo della sorveglianza e dal nuovo potere strumentalizzante prospererà a discapito della natura umana e minaccerà di distruggerla.

Nel capitalismo della sorveglianza, i mezzi di produzione sono al servizio dei mezzi di modifica del comportamento. Il vero potere infatti risiede nella capacità di modificare le azioni in tempo reale nel mondo reale.

Come tutti i capitalisti, anche quelli della sorveglianza vogliono una libertà senza limiti. La concorrenza tra capitalisti della sorveglianza li spinge alla ricerca della totalità. La totalità dell’informazione si avvicina alla certezza, e pertanto a esiti sicuri. Il capitalismo della sorveglianza, pertanto, mette la certezza al posto del mistero, e la renderizzazione in primo piano, al pari della modifica del comportamento e della previsione al posto del vecchio schema insondabile. Si tratta di un’inversione fondamentale dell’ideale classico secondo cui il mercato era intrinsecamente inconoscibile.

Il capitalismo della sorveglianza spinge le persone verso una forma nuova di collettivismo, nel quale è il mercato e non lo Stato a detenere conoscenza e libertà.

Come i manager del primo Ventesimo secolo appresero che per gestire i sistemi gerarchici delle grandi aziende dovevano assumere un “punto di vista amministrativo”, così i sommi sacerdoti applicano l’arte dell’indifferenza radicale, un modello di conoscenza profondamente asociale. Grazie all’indifferenza radicale, essi giudicano i contenuti in base a volume, varietà e profondità del surplus, con criteri anonimi quali clic, like e durate, senza curarsi del fatto evidente che ogni situazione ha un significato diverso.

Sottolinea quindi Shoshana Zuboff come il capitalismo della sorveglianza, appropriandosi di libertà e conoscenza, distaccandosi dalle persone, con le sue ambizioni collettiviste e la sua indifferenza radicale, spinge in realtà verso una società nella quale il capitalismo non è sottoposto a istituzioni politiche o economiche inclusive.

L’autrice elenca il parere di numerosi studiosi i quali parlano di recessione democratica e disgregazione delle democrazie occidentali, un tempo ritenute al sicuro da minacce. La portata e la natura di tali minacce non è ben definita, ma è evidente la saudade causata dai rapidi cambiamenti sociali e la sensazione che le nuove generazioni si troveranno a dover affrontare sempre maggiori difficoltà. Come preoccupante è l’indebolimento dell’amore per la democrazia negli Stati Uniti e in molti Paesi europei.

Il capitalismo della sorveglianza è entrato in scena quando la democrazia era già in difficoltà, ed è cresciuto grazie alle cure del neoliberismo, che chiedendo sempre maggiore libertà lo allontanava dalle vite delle persone. I capitalisti della sorveglianza hanno capito ben presto come approfittare della situazione, e hanno svuotato di forza e significato la democrazia. Malgrado le sue promesse democratiche, ha dato vita a un’Età dell’oro segnata da grandi diseguaglianze economiche e a nuove forme di esclusione imprevedibili, separando chi regola gli altri e chi viene regolato.

Shoshana Zuboff auspica che in ogni società democratica il dibattito e il contesto garantito dalle istituzioni ancora solide possa orientare l’opinione pubblica contro forme inattese di oppressione e ingiustizia, per mostrare la strada a leggi e giurisprudenza. È proprio in questa società dell’informazione che le notizie devono essere o diventare una risorsa non per capitalisti e capitalismo della sorveglianza, bensì per gli stessi cittadini e costituire la nuova potente “arma” in difesa didiritti, libertà e conoscenza nonché della democrazia.

È un libro impegnativo, Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff, che “costringe” il lettore a pensare e ripensare forme e atteggiamenti oramai considerati fin troppo naturali per poterli analizzare sotto la giusta prospettiva. Eppure necessario per non smarrire quell’imprescindibile desiderio di conoscenza e libertà che deve caratterizzare ogni cittadino e cittadina, non solo del mondo democratico occidentale.

Bibliografia di riferimento

Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. Traduzione di Paolo Bassotti. Titolo originale: The Age of Surveillance Capitalism. The Fight for a Human Future at the New Frontier of Power, Public Affairs, Stati Uniti d’America, 2019


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“Il capitalismo oggi e la sua incidenza su popoli ed economie” 

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“Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922” (Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 2020)

18 domenica Ott 2020

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DavidBidussa, FondazioneGiangiacomoFeltrinelli, GiuliaAlbanese, JacopoPerazzoli, politica, recensione, saggio, Siamostatifascisti

Per riuscire a comprendere fino in fondo cosa è stato il fascismo in Italia è necessario studiare, analizzare, comprendere l’humus politico e sociale nel quale esso ha avuto origine, quella “nuova stagione politica” che ha avuto inizio prima della Grande Guerra, prima della costituzione del Partito fascista, prima del consolidamento della “dittatura a viso aperto”.

Studiare quella che Philippe Burrin ha definito la “preistoria” del fascismo e farlo per mezzo di un’indagine che evidenzi non le differenze bensì le analogie, volta cioè a mettere a fuoco i molti volti di una “famiglia politica” di cui il fascismo italiano è parte.

Ed è esattamente ciò che hanno fatto Giulia Albanese, David Bidussa e Jacopo Perazzoli nel saggio Siamo stati fascisti, composto a partire dalle testimonianze scritte dirette di personaggi protagonisti del tempo e legate insieme dai contributi introduttivi degli stessi autori.

Scritti di Pascoli, Papini, Tolomei, Salvemini, Tamaro, Nenni… e dello stesso Mussolini inducono il lettore a riflettere sul periodo storico oggetto di indagine, sulla mentalità del tempo, sulle idee politiche ma anche sulle azioni poste in essere, sul malessere diffuso e il malcontento generale della popolazione. Focalizzano l’attenzione sulle rivolte e le ribellioni, sulle repressioni, tentate o poste in essere, e sulle azioni intraprese o auspicate.

Il quadro che emerge dalla lettura del testo è uno spaccato dell’Italia di inizio Novecento, la narrazione che di essa si faceva e l’immaginario intorno al quale il fascismo ha rafforzato le sue basi.

Un immaginario costruito in risposta a un rinnovamento profondo del rapporto tra società e istituzioni. Un primo aspetto di questa trasformazione coincide con la progressiva sfiducia nei confronti della democrazia come luogo e come pratica di cittadinanza. Un secondo aspetto, legato al primo, è conseguenza del processo di democratizzazione giunto a un punto di svolta con la Prima guerra mondiale e con il varo del suffragio universale maschile. Un terzo aspetto è raffigurato dal ruolo di costruzione dell’opinione e del discorso antiparlamentare e antidemocratico che assumono e svolgono le avanguardie artistiche e culturali nell’Italia giolittiana.

Molto interessante risulta l’indagine condotta da Giulia Albanese volta al racconto di come il fascismo abbia determinato e cambiato la vita della minoranza socialista costretta all’esilio, interno o esterno, all’adattamento oppure alla rivoluzione. Una storia che si lega a quella, più generale, della trasformazione degli italiani da afascisti o antifascisti a fascisti.

Sottolinea infatti Albanese che, se la maggior parte degli italiani si adeguò progressivamente al fascismo, in gradi e con modalità diverse, o evitò di guardare in faccia ai vinti del fascismo, il fascismo agì però in maniera profonda nella comunità socialista (o comunista) – e in un pezzo del mondo popolare – disarticolandoli grazie ai bandi che colpirono capi lega e singoli esponenti.

L’intervento di Jacopo Perazzoli è focalizzato su quello che doveva essere lo stato d’animo degli italiani nel decennio compreso tra il 1911 e il 1921, cittadini di uno stato che, seppur annoverato tra i vincitori, era uscito decisamente sconfitto e provato dal Primo conflitto mondiale. Difficoltà che andavano a sommarsi a un quadro generale già gravato da profondi squilibri interni (sviluppo industriale non sistemico, alta disoccupazione, gestione latifondista delle terre da coltivare…).

D’altra parte, evidenzia Perazzoli, fu proprio il conflitto a trasfigurare la società italiana che, a guerra conclusa, ambiva a divenire protagonista, superando le rigidità di uno Stato, plasmato dalla classe dirigente liberale a partire dal 1861, incapace di includerla appieno nei suoi meccanismi e nei suoi processi decisionali.

L’attivismo dei ceti popolari si risolse in una risposta da parte della classe dirigente non declinabile in senso forzatamente reazionario; essa cercò di dare soluzioni a quelle inquietudini, a quelle insoddisfazioni, non ricorrendo alla democrazia parlamentare, bensì all’uomo forte, l’unico capace, per lo meno secondo i sostenitori di questa tesi, a dare ordine e speranza al Paese, così da trasformare l’«italietta liberale» in una potenza globale.

David Bidussa riprende le considerazioni di George L. Mosse su quel “nuovo” modo di fare politica di cui il fascismo fu iniziatore. Una politica che si riconosce per il fatto che segna un passaggio: più importante della parola scritta è la parola parlata. Più precisamente: la parola gridata, o forse ancora più precisamente la parola amplificata. Quel linguaggio ha molti autori, vive di molte fonti e del loro intreccio, e si forma nel corso della crisi italiana che non coincide con la guerra o con i turbamenti successivi, no è un qualcosa di precedente, che nasce prima, come ampiamente illustrato nel testo.

Lo scopo del libro è un invito a riflettere sul fatto che quello del fascismo non è ovviamente una parentesi o una deviazione. Ma non è, neppure, un luogo di per sé irripetibile, con forme rinnovate, nella storia italiana.

Bibliografia di riferimento

Giulia Albanese, David Bidussa, Jacopo Perazzoli, Siamo stati fascisti. Il laboratorio dell’antidemocrazia in Italia 1900-1922, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2020


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli per la disponibilità e il materiale


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

“Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio” di Franco Garelli (ilMulino, 2020)

25 venerdì Set 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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FrancoGarelli, Gentedipocafede, IlMulino, recensione, saggio

Cosa è cambiato nella religiosità e, soprattutto, nella spiritualità degli italiani del nuovo millennio? Quanto contano oggi i valori di fede ed etica? Il multiculturalismo ha inciso anche sugli aspetti più intimi della spiritualità?
Questi e tanti altri interrogativi trovano una valida ed esaustiva risposta nel saggio pubblicato dalla Società Editrice ilMulino Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio. Un testo nel quale il professor Franco Garelli raccoglie e analizza i risultati di un’ampia indagine, quantitativa e qualitativa, su religiosità e spiritualità oggi in Italia. Uno studio accurato che riporta al lettore un dettagliato resoconto e una approfondita analisi della società italiana, indagata attraverso la spiritualità e la religiosità ma elaborata nel suo vivere “civile” e quotidiano.

«Viviamo in un’epoca che coltiva un’idea debole e plurale della verità:

la religione non fa eccezione.»

Franco Garelli è stato ordinario di Sociologia dei processi culturali e di Sociologia delle religioni all’Università di Torino ed è membro dell’International Society for the Sociology of Religion. Ha svolto l’indagine con il supporto dell’Apsor (Associazione piemontese di sociologia delle religioni), dell’Ipsos, dell’Università di Torino, della Cei.
Uno studio che si rivela fin da subito interessante per il lettore. Per la capacità di aver abbracciato, inglobato e indagato tutti, o quasi, i temi di fede, spiritualità, etica e bioetica i quali, spesso, sono al centro del dibattito pubblico ma solo perché riferiti o conseguenza di eclatanti fatti di cronaca. Nel libro di Garelli invece, sono sviscerati con occhio critico sì ma obiettivo e, dalla attenta lettura dei dati e delle riflessioni riportate, il lettore riesce davvero a prendere coscienza di dove stanno andando Italia e italiani in questo Terzo Millennio ormai rodato.

Da alcuni anni a questa parte, l’Italia religiosa è in grande movimento: per la crescita dell’ateismo e dell’agnosticismo tra i giovani, per l’aumento di fedi diverse da quelle della tradizione, per la ricorrente domanda di forme nuove o alternative di spiritualità.
A farne le spese sembra essere “quel cattolicesimo che per molto tempo ha rappresentato la cultura comune della nazione, ma che appare in difficoltà a raccordarsi con la coscienza moderna, nonostante la presenza a Roma di papa Francesco”.
In Italia non sta avvenendo quello che alcuni definiscono rottura silenziosa della tradizione religiosa, cosa che starebbe accadendo in altri paesi del Centro-Nord Europa, tuttavia “su tutto il discorso c’è un warning generazionale, che getta una luce sinistra sulle sorti del cristianesimo, ma fors’anche sul futuro della religione”.
Gli indici di religiosità presentano un andamento a scalare direttamente proporzionale al diminuire dell’età.

Inoltre, tutti oggi – credenti e non credenti – interpretano e vivono la loro condizione in modo più libero e aperto rispetto al passato. “È il lato soggettivo della vita umana che prende il sopravvento anche sulle questioni religiose e informa il modo in cui le persone si definiscono e percepiscono in questa sfera della vita”.

Oltre ad essere più incerto, il credente di oggi sembra anche più solitario. Affronta in solitudine le vicende della vita, ma anche le sfide che l’epoca attuale pone alla fede religiosa.
Sfide che derivano, ad esempio, dal contatto con quanti professano altre fedi o credono laicamente. Oppure dalla difficoltà di orientarsi in una sfera etica e bioetica in continua evoluzione. Oppure ancora dal vivere in un mondo globale, “ricco di inquietudini e paure, di disuguaglianze e di squilibri, di spettacoli del dolore”.

Garelli ricorda ai lettori che, fin dagli anni della contestazione – ’68 e dintorni – , alcuni studiosi evocano l’idea che nella chiesa “sia in atto uno scisma sommerso”, per la distanza di molti cattolici dalla dottrina ufficiale nella sfera dei comportamenti sessuali e famigliari. Ora l’autore si domanda se si stia delineando uno scisma analogo attinente la dottrina sociale della chiesa.

Al di là del differente giudizio sul pluralismo religioso, che si snoda tra coloro che quasi auspicano un allineamento al “mondo globale” e chi, invece, si dichiara preoccupato per l’aumento di “simboli religiosi che modificano il paesaggio abituale e sfidano le certezze consolidate”, si osserva negli italiani una preoccupazione diffusa: “la difficoltà di far convivere nella stessa società gruppi che esprimono credenze e culture diverse, portatori di domande – religiose e sociali – non facilmente componibili in un quadro unitario”.
Le riserve maggiori sono rivolte all’islam e quello con i musulmani “resta un rapporto scomodo”, perché sovente connesso al discusso fenomeno dell’immigrazione nonché per le tensioni che accompagnano la presenza dell’islam in tutto l’Occidente.
Diverso approccio invece si denota nei confronti del cristianesimo ortodosso e delle fedi orientali, verso le quali si ritiene svilupparsi un interesse culturale e spirituale che tende ad arricchire la nazione.

Pur non mettendo in discussione l’idea di una “verità religiosa”, si attenua, rispetto al passato, la convinzione che vi sia una verità assoluta, custodita da una sola confessione religiosa, mentre tutte le altre sarebbero portatrici di mezze verità o di verità parziali o false, in un contesto in cui molti ritengono che tutte le religioni esprimano delle verità importanti per la condizione umana, e che ognuna di esse offra un percorso di avvicinamento a quella “verità ultima che tutti ci sovrasta”.

In poco più di due decenni, il gruppo dei non credenti è aumentato di circa un terzo, a fronte di una riduzione di circa l’8% dei credenti. I più coinvolti nel fenomeno dell’ateismo sono i giovani. Inoltre, la non credenza aumenta anche in maniera inversamente proporzionale al livello di scolarizzazione, passando da un 13% per le persone con licenza elementare o prive di titolo, a un 35% per i laureati.
I maggiori ostacoli al credere derivano, per atei e agnostici, dalla presenza del male nel mondo e dal dissidio tra scienza e fede, ragione e religione.

Una parte dei “senza religione” sembra farsi carico di una particolare missione: “contrastare la pretesa della chiesa di rappresentare i sentimenti più autentici della popolazione”, ovvero uscire dall’equivoco di identificare l’Italia tout court con l’Italia cattolica e rivendicare pari dignità di considerazione sia per le idee dei credenti sia per quelle dei non credenti.
E ciò, specificatamente, sulle questioni calde oggi al centro del dibattito pubblico: i temi di vita, famiglia, bioetica, gender, diritti degli omosessuali, laicità dello stato…

Oltre il 70% degli italiani condanna, almeno come dichiarazione di principio: evasione, sfruttamento della manodopera, lavoro nero, favoritismi, assenteismo, infrazioni e via discorrendo. Una percentuale che però scende notevolmente tra i 18-34enni, tra i quali vi è una più elevata percentuale di accettazione di tali comportamenti che dovrebbero essere anomali. E stupisce un ulteriore gruppo sociale per cui risulta egualmente difficile l’accettazione e il rispetto delle regole base della convivenza civile: i divorziati e separati.
In situazioni di forte disagio, sia esso generazionale o personale, sembra quindi svilupparsi una maggiore sfiducia istituzionale e marginalizzazione che porta a una disaffezione rispetto alle regole e a minori aspettative e speranze per il futuro, nonché alla rarefazione della volontà di impegnarsi per la realizzazione di progetti e per il raggiungimento di obiettivi.

Negli ultimi decenni si è sensibilmente ridotto lo stigma nazionale nei confronti della pratica dell’omosessualità e si è anche attenuato il giudizio negativo sul consumo delle droghe leggere.
Ieri come oggi, invece, è rimasto pressoché invariato il numero di italiani (circa un quinto) che negano la liceità dell’aborto.
Largo consenso riscuotono le pratiche della riproduzione assistita, sia omologa che eterologa, mentre dividono ancora l’utero in affitto, la maternità oltre l’età feconda, gli esperimenti su embrioni umani a fini terapeutici e gli interventi sulle cellule umane per determinare alcune caratteristiche (statura, colore degli occhi…) su cui si registra il dissenso dei due terzi degli italiani.

Garelli sottolinea che non tutti gli aderenti alle principali fedi si comportano e la pensano allo stesso modo ma ciò è ancora più vero all’interno dell’appartenenza cattolica, differenze di “stile religioso” che delineano diversi e plurimi modi di interpretare l’identità cristiana o cattolica.
Inoltre, va ricordato, che da società a monopolio cattolico l’Italia si sta trasformando in una società permeata dalla varietà di fedi.
Il pluralismo culturale e religioso, non dovuto meramente al fenomeno migratorio, sembra porre ai credenti di ogni fede “una sfida più sottile e destabilizzante di quella della secolarizzazione”. Una sfida che introduce nella mente degli individui l’idea che vi sono diversi modi di credere – e di rispondere ai quesiti dell’esistenza -, che ogni società e cultura ha le sue forme del sacro, che è difficile ritenere vi sia un’unica fede depositaria della “verità”.

Il confronto con la diversità religiosa rende dunque più incerto e precario il credere di molti, mette in discussione la fede abituale, erode l’assunto (comune a molte religioni) che vi sia una forma superiore di conoscenza, che esista una “verità cognitiva e normativa assoluta”.
Circa metà della popolazione italiana si riconosce nell’idea – assai enfatizzata nell’attuale clima politico – che la presenza di fedi e culture diverse da quelle della tradizione costituisca una minaccia per l’identità culturale, a dire il vero già un po’ incerta, della nazione. L’altra metà invece ritiene sia o possa rappresentare una fonte di arricchimento culturale.
Pressoché universale è la condanna dell’estremismo religioso, che in tanti riconducono direttamente alla radicalizzazione e al terrorismo di matrice islamica. Altri, invece, si soffermano a pensarlo come esistente o possibile per qualsiasi fede religiosa, riportando l’attenzione, per esempio, “ai guasti provocati dalle crociate”.

Concludendo si può affermare con Garelli che questa è un’epoca che, anche nel campo religioso, è più segnata da flussi che da blocchi, caratterizzata da una ricerca di senso ondivaga, che si spinge sovente oltre i confini e fatica a riconoscersi nelle definizioni convenzionali.
Incerto e solitario, il credente di oggi sembra affidarsi a “un Dio più sperato che creduto”.
La poca fede, la fede debole può anche rappresentare, secondo Garelli, un tratto che accomuna i credenti di ogni confessione religiosa, che “esprime la perenne difficoltà della condizione umana a rapportarsi con un grande messaggio religioso”. Un tratto comune che, forse, potrebbe anche arrivare a diventare un tratto caratteristico e caratterizzante delle nuove forme, ora embrionali, di società multietniche, multiculturali e plurireligiose.

Bibliografia di riferimento

Franco Garelli, Gente di poca fede. Il sentimento religioso nell’Italia incerta di Dio, ilMulino, Bologna, 2020


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale


Disclosure: Credit per la prima immagine www.pixabay.com


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La lotta per salvare la classe media è la nostra lotta? “Questa lotta è la nostra lotta” di Elizabeth Warren (Garzanti, 2020)

31 lunedì Ago 2020

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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ElizabethWarren, Garzanti, Questalottaelanostralotta, recensione, saggio

Per Elizabeth Warren, l’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Utilizzando tutti i mezzi possibili: politiche fiscali, investimenti nell’istruzione pubblica, nuove infrastrutture, sostegno alla ricerca, regole di protezione per i consumatori e gli investitori, leggi antitrust.

Ma ora tutta le gente è, giustamente, preoccupata. Preoccupata e arrabbiata. Giustamente.

Lo è perché, nonostante si ammazzi di lavoro, non vede praticamente crescere il proprio reddito. Perché le spese per la casa e l’assistenza sanitaria erodono quasi completamente il suo bilancio. Perché pagare l’asilo o l’università dei figli è diventato impossibile. Perché gli accordi commerciali sembrano creare posti di lavoro e opportunità per la manodopera in altre parti mondo, lasciando le fabbriche in territorio americano abbandonate. Perché i giovani sono strozzati dai prestiti studenteschi, la forza lavoro è fortemente indebitata e per gli anziani la sicurezza sociale non riesce a coprire le spese della vita di tutti i giorni.

L’attuale situazione sta impoverendo sempre più il ceto medio e distruggendo la democrazia. Una condizione che risulta essere molto simile a quanto sta accadendo in altri paesi occidentali, Italia compresa, ovvero in tutte o quasi le potenze del vecchio mondo.

Warren sottolinea come i meccanismi di questa democrazia così duramente conquistata e infinitamente preziosa sono stati in realtà fortemente alterati.

Il sistema oggi funziona ancora bene per chi si trova ai vertici. Per ogni azienda abbastanza grande da assumere un esercito di lobbisti e avvocati. Per ogni miliardario che in proporzione paga meno tasse rispetto a un semplice dipendente. Per tutti coloro che hanno abbastanza soldi per comprare favori a Washington.

Si tratta di un tipo di corruzione molto più insidioso e pericoloso di quella “tradizionale”, vecchio stile, con bustarelle piene di denaro contante, perché sta trasformando il governo in uno strumento nelle mani di quanti già possiedono ricchezze e influenze.

L’autrice elenca tutta una serie di dati su cui è bene riflettere:

  • Più del 70% degli americani crede che gli studenti dovrebbero avere accesso all’istruzione senza doversi indebitare.
  • Quasi tre quarti degli americani sono a favore di un ampliamento della previdenza sociale.
  • Due terzi degli americani sono a favore dell’avvento del salario minimo federale.
  • Tre quarti degli americani vogliono che il governo federale aumenti la spesa per le infrastrutture.
  • Un numero di americani pari al doppio degli elettori di Trump vorrebbe salvaguardare e rafforzare l’Ufficio per la tutela finanziaria dei consumatori.

E sembra avere ben chiaro in mente anche il modo con cui riuscire ad ottenere tutto ciò: aumentando le tasse di chi sta ai vertici.

Il punto però è che ciò è quello in cui crede la grande maggioranza degli americani: democratici, repubblicani, indipendenti, libertari, vegetariani… E ognuno di questi gruppi è convinto che saranno i rispettivi leader ed esponenti politici a perseguire gli obiettivi una volta raggiunti i palazzi del potere.

Nel 2016, è la stessa Warren ad ammetterlo nel testo, proprio mentre montavano tutte queste preoccupazioni e questa rabbia, arrivò un imbonitore che fece grandi promesse. Un uomo che giurava avrebbe bonificato la palude della politica.Un uomo a cui hanno creduto tanti americani. Un uomo che è diventato Presidente degli Stati Uniti d’America.

Quello che vogliono gli americani è chiaro. Su chi hanno puntato per ottenerlo nel 2016 anche. La domanda è su chi cadrà la scelta alle prossime imminenti elezioni presidenziali. 

Nel saggio Elizabeth Warren racconta numerosi aneddoti e testimonianze che ha personalmente raccolto nel mondo del ceto medio americano. Storie anche molto tristi di persone che hanno perso il lavoro, la casa, la stabilità, la sicurezza, la possibilità di studiare, la speranza in un futuro migliore. Storie vere senza ombra di dubbio alcuno. Storie più diffuse di quanto normalmente si pensi, anche.

Ma la gente si compone, in America come altrove, in maniera molto variegata. Magari non le persone intervistate dall’autrice ma altre, con storie simili, potrebbero anche appoggiare quelle idee e quelle scelte che per Warren sono inconcepibili, e magari arrivare davvero a pensare che un muro lungo il confine messicano avrebbe risolto chissà quanti e quali problemi. E forse, nonostante tutto, lo pensano ancora.

È successo anche altrove. È successo anche in Italia.

Il 20 gennaio 2017 a Washington l’autrice narra di essere rimasta molto turbata da uno striscione tenuto da alcuni manifestanti. Un rettangolo di stoffa su cui figuravano grandi e poche lettere, un’unica parola scritta tutta in maiuscolo: FASCISTA.

Warren afferma di aver già sentito usare quella parola quando era solo una bambina, una parola che era un’offesa. Ma che quel giorno le risuonò nella mente in maniera differente, per certo più incisiva.

Ci sono posti che invece quella parola la conoscono bene, ne conoscono gli effetti, eppure sembra che, proprio in quei luoghi, l’accezione negativa non sia più tanto tale.

In Europa, in molte parti di essa, sembra quasi che si guardi a quel periodo con nostalgia e a farlo non sono sette o gruppi segreti, è la gente, la stessa di cui racconta anche la Warren, quella arrabbiata e preoccupata, giustamente, per il proprio futuro. Molto arrabbiata e molto preoccupata e, forse, proprio per questo facilmente permeabile dalle idee di coloro che mostrano loro i “reali” colpevoli della triste situazione in cui versano.

Ma la soluzione non è mai così semplice, e più i problemi sono grandi più il percorso da compiere è lungo e difficile. Ed è esattamente questo che vuol fare Elizabeth Warren: perseverare, resistere, insistere, lottare, ogni giorno, e farlo per il dono sorprendente che abbiamo ereditato dalle generazioni di americani che ci hanno preceduto: la nostra democrazia.

Perseverare, resistere, insistere, lottare.

Un libro, Questa lotta è nostra lotta di Elizabeth Warren che è un manifesto per i diritti umani e civili dei lavoratori americani, che dovrebbe essere sottoscritto dai lavoratori di ogni parte del mondo.


Bibliografia di riferimento

Elizabeth Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020.

Traduzione dall’inglese di Paolo Lucca.

Titolo originale dell’opera This fight is our fight. The battle to save America’s middle class

L’autore

Elizabeth Warren ha insegnato diritto commerciale presso l’Università di Harvard prima di essere eletta senatrice del Massachusetts e candidata alle primarie del partito democratico per le elezioni presidenziali degli Stati Uniti.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Garzanti Editore per la disponibilità e il materiale

Credits: Per le immagini eccetto la copertina www.pixabay.com


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© 2020, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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