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Irma Loredana Galgano

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Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

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Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

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Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

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Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il giornalismo d’inchiesta: aspetti e conseguenze. Intervista a Stefano Santachiara

05 venerdì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, StefanoSantachiara, WMI

Stefano Santachiara. Il giornalismo d’inchiesta: aspetti tecnici e conseguenze.

Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta e corrispondente del «Fatto Quotidiano», dopo I panni sporchi della sinistra (Chiarelettere, 2013), scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti, ha pubblicato Calcio, carogne e gattopardi, un’indagine su come il controllo sociale sia gestito dal potere attraverso il calcio, autoprodotto e distribuito dalla piattaforma YouCanPrint, disponibile sia in versione cartacea che digitale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sugli aspetti tecnici del suo lavoro ma abbiamo anche voluto affrontare il discorso delle conseguenze, spesso spiacevoli, della professione di reporter.

Essere un giornalista significa raccontare i fatti, essere un giornalista d’inchiesta invece ha un significato molto diverso. Ricerca, analisi, descrizione sono i passaggi perentori da seguire per condurre un’inchiesta. A tutti gli effetti il tuo lavoro somiglia più a quello investigativo che giornalistico in senso stretto.

Sì, fare inchiesta significa non accontentarsi della verità superficiale, delle prime dichiarazioni e documenti che ti arrivano sul tavolo.

Non metterei però dei paletti rigidi tra l’inchiesta e le altre categorie. Non solo il cronista di giudiziaria e il nerista, ma anche il notista politico e il responsabile della cultura di un quotidiano o un periodico possono sviluppare vere e proprie inchieste, anche se il tempo e lo spazio sono sempre più circoscritti. Ognuno di noi si evolve sulle basi del proprio background, delle nuove sperimentazioni e dei principi di deontologia e onestà intellettuale che dovrebbe preservare.

A volte il giornalista d’inchiesta svolge un lavoro parallelo e di supporto all’apparato investigativo, può capitare che per intuizione, capacità logico-deduttiva, rapporti stretti con gli inquirenti, scopra materiale scottante di rilievo penale. Ma bisogna sempre fare molta attenzione, dopo le prime risultanze occorre procedere al fact checking: incrociare i dati acquisiti con nuovi documenti e testimonianze per verificare i riscontri. È fondamentale non lasciarsi influenzare dalle tesi che si sono costruite, rimettendo qualora fosse necessario tutto in discussione con il fine della sola ricerca della verità, che significa sviluppare l’inchiesta giornalistica nella massima correttezza ed equidistanza lasciando parlare i fatti.

Cosa ti ha spinto nella direzione del giornalismo d’inchiesta?

Non saprei fornire un’unica motivazione, le nostre scelte sono il risultato di predisposizioni naturali, insegnamenti che riceviamo in famiglia, a scuola, consigli di colleghi e amici, avvenimenti più o meno imprevedibili che troviamo lungo il cammino. A volte prima, a volte poi, scopriamo qual è la nostra passione e credo sia giusto, malgrado tutte le difficoltà, cercare di farla coincidere con il proprio mestiere.

Ricordo un episodio avvenuto al liceo: il professore di Lettere, Alberto Ricchetti, motivò il doppio voto che mi aveva dato, 4 e 10, apparentemente incomprensibile, scrivendo: ‘Sei fuori tema oppure, se è come penso, sei un giornalista’. Nel compito avevo parlato della guerra civile in Yugoslavia, non accontentandomi di attingere dalle cronache embedded, scrivendo dunque che in ogni conflitto esistono interessi economici e geopolitici diversi e che la pulizia etnica non era prerogativa soltanto dei miliziani del presidente Milosevic ma anche dei fascisti croati Ustascia contro i cittadini serbi residenti nella regione della Krajina.

In quegli anni, come tanti coetanei, scoprii la passione civile nel biennio di Mani Pulite, la rabbia impotente per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

La molla decisiva però, quella che mi fece “sentire” le parole del maestro di liceo, fu la visione casuale de Il muro di gomma di Marco Risi, il film sull’inchiesta giornalistica che cercò di far luce sulla strage di Ustica e i depistaggi di Stato. Di lì a poco iniziai a collaborare per la Gazzetta di Modena e in particolare di Reggio Emilia, dove la curiosità e la pratica sul campo furono alimentate dagli insegnamenti della mia caposervizio Luisa Gabbi.

Quali requisiti tecnici deve contenere un articolo o un reportage d’inchiesta?

Le informazioni fondamentali che devono essere fornite al lettore, possibilmente già in forma sintetica nell’attacco di ogni pezzo, rispondono alla regola di stampo anglosassone delle cinque W: who, what, where, when, why. Una volta spiegati gli elementi essenziali, l’approfondimento di una particolare circostanza o aspetto è naturalmente soggettivo.

Cito un esempio che vale per il reportage del videomaker come per l’estensore di un articolo di cronaca. Il 26 luglio 2006 la mia regione si risvegliò bruscamente dopo un attentato di ‘ndrangheta che distrusse l’Agenzia delle Entrate di Sassuolo. L’Emilia credeva di avere gli anticorpi adatti a respingere le infiltrazioni mafiose, invece presenti come in ogni zona dove il benessere diffuso è occasione di riciclaggio per le cosche, che stringono rapporti con pezzi di economia e politica. Allora lavoravo per Modena Radiocity e la mattina appresi la notizia durante il consueto “giro di cronaca” che consisteva, anche in radio come nei giornali, nel chiamare numeri concordati di vigili del Fuoco, polizia e carabinieri per sapere cos’era accaduto nella notte. Si trattò di un attacco allo Stato in controtendenza rispetto alla strategia della sommersione tipica delle mafie al Centro-Nord. Per fortuna non ci furono vittime ma quando arrivai sul posto vidi uno scenario di guerra, gli uffici erano stati sventrati con un chilo di pentrite, esplosivo cinque volte più potente del tritolo. L’Agenzia era stata punita dalla cosca degli Arena perché aveva scoperto una frode fiscale che nascondeva un giro di riciclaggio tra Svizzera, motor valley e il paradiso fiscale delle Isole Vergini. Tra le macerie fumanti intervistai il direttore percependo il suo terrore. La mattina stessa il boss crotonese l’aveva chiamato per dirsi “a disposizione per ricomprare macchinari”. Quel racconto passò quasi in diretta sulle frequenze della radio, nei mesi seguenti continuai a occuparmi del caso raccogliendo nuove testimonianze, recuperando documenti, scavando a ritroso su flussi di denaro e legami tra i soggetti coinvolti. I collegamenti mi hanno condotto sino a Roma, all’inchiesta del pm della Dda capitolina Giancarlo Capaldo sul riciclaggio di Telekom-Sparkle che vide ancora protagonisti gli affiliati alla cosca Arena, alcuni dei quali si erano occupati di far eleggere il senatore Nicola di Girolamo del Pdl tramite brogli organizzati presso emigrati in Germania. Già, proprio la nazione della strage di Duisburg, dove le penetrazioni della ‘ndrangheta sono state raccontate praticamente in solitudine dalla massima esperta di mafie tedesca, la giornalista e scrittrice Petra Reski.

È fuor di dubbio un mestiere complesso il tuo, spesso difficile, con dei risvolti duri come le implicazioni giudiziarie che possono seguire a un’inchiesta. Come vivi questi momenti?

A quale caso in particolare di riferisci?

Sicuramente quello più noto è il “Sacco di Serramazzoni, primo caso di rapporti tra ‘Ndrangheta e Pd di governo al Nord” che tu raccontasti nel 2011 e che fu poi oggetto della trasmissione Report. Per la partecipazione al programma di Rai3 una coop ti ha chiesto un risarcimento danni di circa 1 milione di euro, una causa definita “intimidatoria” da Ossigeno, Articolo 21, sindacato e Ordine dei giornalisti…

Tutti quanti, compresa la conduttrice Milena Gabanelli, abbiamo rifiutato la proposta di mediazione pre-processuale prevista dalla legge perché riteniamo di aver esposto in modo continente fatti documentati e di rilievo pubblico. La sola differenza, a parte il fatto che il mio breve intervento ha riguardato la lettura di visure camerali e la conferma dell’esistenza di un procedimento penale, è che la Rai tutela i propri giornalisti mentre il giornalista freelance o precario che viene colpito nel “limbo” di un passaggio televisivo deve arrangiarsi da solo. Per fortuna ho trovato un avvocato di grandi qualità professionali e umane come Fausto Gianelli, responsabile del Forum Giuristi democratici e già legale dei ragazzi pestati dalla polizia durante il G8 di Genova. Gianelli si era subito accorto che si trattava di una causa mirata a imbavagliare la stampa scomoda con fini pedagogici: colpire il giornalista che osa toccare certi sepolcri imbiancati per educarne altri cento che eventualmente volessero fare altrettanto.

Sei stato chiamato in giudizio per altre cause simili? Come affronti questo aspetto del tuo lavoro?

Di querele in vent’anni ne ho ricevute diverse ma sono state tutte archiviate o definite in udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere. Le ho sempre affrontate serenamente, nel merito, perché consapevole di aver lavorato in modo corretto e per quanto riguarda l’aspetto economico l’editore, come da prassi, assicurava la tutela legale.

Ora invece mi trovo costretto a pagare un avvocato per un processo ‘kafkiano’. Si tratta di una querela per diffamazione per un articolo pubblicato nel 2010 su «L’Informazione» di Modena relativo a dissidi tra un ufficiale dell’Accademia militare e l’ex moglie. La querela è stata riesumata proprio appena dopo il fallimento del giornale, nel luglio 2013, ed è stata sospinta da mani sapienti fino al processo malgrado l’articoletto in questione fosse senza firma e senza sigla. Dunque non solo non vi è uno straccio d’indizio sulla paternità ma, ancora più assurdo, il dibattimento che dovrò sostenere riguarda un articolo in cui non sono identificabili i protagonisti, ma proprio nel modo più assoluto: non ci sono i nomi, le iniziali, le età, le residenze del co-querelato, l’ufficiale, e della querelante, l’ex moglie, di cui non si conosce neppure il lavoro e la nazionalità. Ho solo saputo, a margine dell’udienza preliminare, che si tratta di una persona con precedenti penali. Dunque: o siamo in presenza dell’invenzione di un nuovo reato e non ci hanno avvertito, la “diffamazione senza il diffamato”, o evidentemente qualcuno ha del tempo da perdere e del denaro da farmi perdere.

Quale consiglio senti di dare a chi vuole intraprendere questo mestiere?

Il consiglio è sempre di provarci. Purtroppo il mercato è saturo e soffre come gli altri settori della crisi economica e della destrutturazione dei diritti del lavoro. Ma nonostante tutti i problemi, le minacce, le cause, gli ostacoli professionali che colpiscono i giornalisti veri, sono sempre più persuaso che si debbano seguire le proprie passioni e ciò che si sente giusto.

So che non ti piace parlare di quello a cui stai lavorando e allora per concludere ti chiedo se mai ti sei pentito delle scelte fatte in passato…

Errori ne ho fatti certamente ma pentito no, rifarei lo stesso percorso.

Intervista pubblicata sul numero 41 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Intervista a Stefano Santachiara per “Calcio, carogne e gattopardi”

19 sabato Lug 2014

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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CalcioCarogneGattopardi, intervista, saggio, StefanoSantachiara

unnamedDopo I panni sporchi della sinistra (Chiarelettere, 2013), scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti,  Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta e corrispondente del Fatto Quotidiano, ha appena pubblicato, per il momento unicamente in ebook, Calcio, carogne e gattopardi, (Google Play e Amazon, 2014) un’indagine che scava su come il controllo sociale sia gestito dal potere attraverso il calcio. L’ha intervistato in esclusiva per noi Irma Loredana Galgano.

Ti sei premurato di scriverlo già nella prefazione che questo saggio non ha lo scopo di attaccare tout court il calcio, soprattutto nella parte relativa all’essere uno sport e come tale fondamentalmente educativo oltre che utile dal punto di vista fisico. Ma il calcio di cui si sente parlare quotidianamente non ha proprio nulla o quasi a che vedere con lo sport educativo e salutare.

Per preservare il calcio giocato non si può più ignorare l’uso e l’abuso che ne fa il potere: gli affari della Fifa e delle televisioni, dei grandi brand e dei campioni, i cui stipendi sono cresciuti più del 450% in 10 anni, sono uno schiaffo alla miseria e un danno alla collettività. Non solo per i tifosi consumatori e per lo Stato, che spende 45 milioni di euro in 12 mesi per garantire la sicurezza negli stadi e spalma per 23 anni i debiti col fisco dei club in rosso, sempre più spesso nelle mani delle banche. Ci sono profonde ragioni di immagine, consenso popolare e dunque di rapporti che il mondo del calcio garantisce in ambito finanziario, istituzionale, geopolitico. Cosa c’entra tutto questo con la magia della partita che si reinventa in eterno, quella dei campi di provincia dove si alimenta la forza inclusiva e la creatività poetica?

«Violenza degli ultras» e «Pervasività delle mafie». Eventi anche recenti hanno riportato in auge quella che è stata definita “trattativa stadio-mafia”. La «violenza degli ultras» ha una funzione sociale che per assurdo serve a mantenere l’ordine stabilito. Serve anche a consentire la «pervasività delle mafie»?

L’estrema destra è da tempo egemone nelle curve. Ha creato una struttura organizzata in cui la violenza preordinata è analoga ai raid a freddo dei black bloc infiltrati nelle manifestazioni di piazza. Il legame tra ultras e criminalità organizzata, come dimostrano le indagini della magistratura, non è infrequente. Il noto caso di Genny ‘a carogna’, capo ultrà napoletano e figlio di un boss del clan Misso che concede il permesso allo Stato di disputare la finale di Coppa Italia, dopo gli scontri che sono costati la vita a Ciro Esposito, è solo la punta di un iceberg. Lo studioso Antonio Nicaso, tra i maggiori esperti di mafie a livello mondiale, ha svelato in un’intervista esclusiva le trame occulte delle cosche che sono arrivate a controllare una trentina di società. Gli scopi sono quelli tradizionali, ossia la diversificazione del riciclaggio di denaro sporco, ma anche di legittimazione popolare tramite le strette di mano allo stadio e la visibilità televisiva. Gli scandali degli inchini ai boss durante le processioni di Oppido Mamertina e San Procopio ne sono l’ennesima conferma: le mafie, come ha spiegato Nicaso, acquisiscono il consenso non solo nell’economia, ma anche nella politica e negli ambienti religiosi. Per contrastare questa realtà inquietante sarebbero necessarie un’aggressione più efficace dei patrimoni mafiosi e un’opera di prevenzione culturale nei settori giovanili dove anche i genitori, con i baciamano ai boss, non sono esenti da colpe. Sul fronte delle società calcistiche servirebbero un monitoraggio più attento dei bilanci e delle transazioni estere, nonché punizioni severe delle pratiche corruttive dilaganti. La realtà ormai supera la fantasia: una cricca di slavi comprava decine di partite dei campionati di mezza Europa per alimentare dorate scommesse clandestine, un’agenzia di Singapore è riuscita a manipolare arbitraggi delle amichevoli prima del mondiale in Sudafrica, l’ex funzionario della Fifa Mohamed bin Hammam è accusato di aver corrotto alcuni colleghi per pilotare l’assegnazione dei mondiali del 2022 al Qatar.

Nella tua opera definisci anche “maschilismo ambientale” quello del mondo del calcio…

Il sistema è oggettivamente omertoso, basti pensare all’omofobia e alla denuncia dell’allenatore Zeman, caduta nel vuoto, sull’uso del doping per “polli da allevamento”. Alle donne sono preclusi ruoli dirigenziali e tecnici di primo piano mentre il calcio femminile, su cui pesano pregiudizi sessisti, è ignorato da istituzioni e media. Eppure basterebbe seguire l’esempio di alcune nazioni come la Francia, che ha affiliato le squadre femminili ai club maschili, agevolandone la promozione. Comunque il calcio non è un’enclave regredita ma parte integrante di una società patriarcale ad alta ingerenza clericale nella quale, malgrado le donne ottengano risultati mediamente migliori nelle università e nel mondo del lavoro, non raggiungono i vertici di imprese e politica.

Il calcio è diventato ormai una potentissima “arma di distrazione di massa” impiegata indistintamente da tutti i governanti e il “tifo” assume sempre più i connotati di una malattia peggiore di quella di cui è omonimo. Senza dover arrivare ai circoli più estremisti, anche per strada, davanti ai bar, innumerevoli sono gli scontri tra tifosi che si lasciano facilmente “distrarre” pensando che sia importante un attacco, un goal, un rigore… che sia determinante il risultato di una partita. Ma determinante per chi? Basterebbe fermarsi un attimo a riflettere per realizzare che nella vita delle persone, dei cittadini di ogni luogo non cambia proprio nulla e che se il calcio è veramente uno sport allora per “spirito sportivo” bisogna accettare col sorriso anche la sconfitta. Ma non è questo a muovere le redini…

In alcuni momenti storici cruciali il calcio è servito a legittimare feroci dittature, pensiamo ai mondiali della vergogna in Argentina del 1978 e due anni dopo al Mundialito, trasmesso da Canale 5 in Italia dall’Uruguay, un paese nelle mani di una giunta militare che ospitava Licio Gelli. Anche nelle democrazie occidentali il gioco più amato del mondo ha avuto un ruolo significativo. Sin dalla nascita del football, ai tempi della rivoluzione industriale inglese, il capitalismo ne promosse la diffusione per ridimensionare i conflitti sociali che si erano accesi nelle fabbriche, traslandoli in rivalità sportive e campanilistiche. Assieme ad autorevoli sociologi abbiamo ripercorso le origini, le ragioni e gli effetti di questo fenomeno di massa, unico nel suo genere perché coinvolge miliardi di persone in modo interclassista: dai manager della City ai minatori belgi, dagli impiegati di Tokyo alle favelas brasiliane. Si tratta di un esercito di elettori la cui coscienza e partecipazione democratica, in costante calo, è fondamentale.

In tempi recenti l’arma di distrazione di massa si è sviluppata mediante il combinato disposto tra la gaudente pubblicità, nella quale i campioni sono ricercati testimonial, i media generalisti capaci di inculcare modelli diseducativi, e il calcio parlato tra veline, sondaggi e polemiche artefatte. In questo ambito ci furono degli antesignani, naturalmente inascoltati: se Luigi Tenco e Pierpaolo Pasolini si occuparono in prevalenza degli aspetti strutturali del marketing e della disinformazione televisiva, Rino Gaetano cantava gli intrecci tra football, politica, potere economico e mediatico. Giorgio Gaber ne “La presa del potere” del 1972 prefigurava l’avvento dei tecnocrati mentre “la gente parlava di calcio nei bar”. Gli opinion maker di oggi, invece, estrapolano dall’immenso patrimonio di Gaber la strofa “qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona” per appiattire la figura del segretario del Pci alla sola questione morale, occultandone la lotta contro l’ingiustizia sociale.

Terremoto in Irpinia del 1980 e Diego Armando Maradona. Si pensa di parlare di argomenti talmente distanti l’uno dall’altro che non si incontreranno mai, invece…

Alcuni eventi apparentemente sono privi di relazione se non vengono inseriti nel contesto storico attraverso i movimenti della società e le reazioni dei padroni del vapore. Il Napoli di Ferlaino a trazione democristiana, con l’acquisto di Maradona grazie all’intercessione del potente Vincenzo Scotti e alle banche, ha adempiuto a un compito di controllo sociale. Se la vittoria del Mundial in Spagna e l’apertura ai campioni stranieri cancellarono la cancrena emersa nel primo scandalo del calcioscommesse del 1980, l’euforia collettiva per le vittorie del Napoli ha contribuito al mantenimento dello status quo rispetto al pericolo dell’unico partito comunista d’occidente ancora forte malgrado l’isolamento internazionale, le Brigate rosse e l’infinita strategia della tensione. In altre parole le magie di Dieguito hanno fatto dimenticare la malagestione della ricostruzione dopo il terremoto e l’espansione della camorra, che trasse beneficio anche dai legami di Maradona col clan Giuliano di Forcella.

C’è un legame tra il calcio e chi detiene le redini del Paese?

Se osserviamo il calcio come una mappa vediamo che da Torino, vera capitale, detta legge l’onnipotente Juventus degli Agnelli, a Roma, dove vi era la longa manus di Andreotti e del banchiere Geronzi, a Milano il petroliere Moratti. Nel 1993 il presidente del Milan Silvio Berlusconi, reduce da trionfi calcistici italiani e internazionali, è stato individuato dai poteri forti come l’uomo di rottura per traghettare il Paese dalla Prima alla Seconda Repubblica che stava nascendo sotto i colpi delle stragi terroristico-mafiose e Mani Pulite. Il piduista Berlusconi ha sbarrato la strada alla coalizione dei Progressisti di Occhetto, una sinistra che non era ancora stata rieducata all’atlantismo, al liberismo, alle privatizzazioni di reti strategiche nazionali, alle tecnocrazie che hanno svuotato le sovranità economiche nazionali: l’involuzione etica e culturale arriverà con i governi Prodi e il Partito democratico. Matteo Renzi, epitaffio della sinistra, è sostenuto dagli stessi poteri forti che avevano supportato Berlusconi: i conservatori americani, la grande finanza, il Vaticano, con l’aggiunta degli stessi berlusconiani. Renzi è il premier più calcistico della storia: usa gerghi da bar dell’oratorio per raggiungere un ampio target elettorale, inoltre durante la sua ascesa si è fatto amico e ha sfruttato la popolarità di Cesare Prandelli. Il commissario tecnico della Nazionale, rassicurante e post democristiano, ha seguito l’esempio rinnovatore varando persino un codice etico, da lui stesso contravvenuto quando ha convocato in Brasile Chiellini nonostante fosse squalificato per una brutta gomitata durante Juve-Roma. Prandelli è intervenuto a “gamba tesa” in favore di Renzi più volte a cominciare dalla sua partecipazione alla Leopolda: in pochi hanno ricordato la valenza che hanno avuto i suoi endorsement alla vigilia delle ultime Europee e prima ancora durante le primarie del Pd. D’altronde i distratti giornali nostrani non si erano accorti neppure della presenza alla Leopolda di Micheal Leeden, noto stratega dei servizi segreti americani legato alla destra repubblicana. Prandelli è finito ad allenare in Turchia perché il carrozzone del calcio, nonostante tutto ancora imprevedibile nei risultati sul campo, alterna rapidamente gli attori funzionali al sistema. Renzi, invece, resta in modo pianificato nei minimi dettagli un uomo solo al comando, forte di una maggioranza parlamentare larghissima e dei media stesi a tappeto che ne rilanciano promesse e alibi.

http://liberidiscrivereblog.wordpress.com/2014/07/18/un-intervista-con-stefano-santachiara-a-cura-di-irma-loredana-galgano/

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