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È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.
La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.
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Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.
Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.
Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».
«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.» |
L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».
Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».
Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».
Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.
Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.
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Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.
«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse». |
Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.
Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale
Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com
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