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Irma Loredana Galgano

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“Jihadisti d’Italia” di Renzo Guolo (Guerini e Associati, 2018)

28 giovedì Giu 2018

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GuerinieAssociati, JihadistidItalia, paura, recensione, RenzoGuolo, saggio, terrore, Terrorismo

Dopo aver analizzato il fenomeno degli jihadisti in Europa ne L’ultima utopia, pubblicato sempre con Guerini e Associati, Renzo Guolo decide di indagare a fondo sulla radicalizzazione islamista nel nostro Paese e scrive Jihadisti d’Italia, uscito in prima edizione a maggio 2018.

Nel saggio precedente Guolo si interrogava sulle cause politiche, culturali, religiose che avessero potuto in qualche modo incidere nella scelta di radicalizzazione di tanti giovani europei. Ora, questo genere di analisi, viene applicata al territorio italiano e ai suoi giovani abitanti.
Negli ultimi anni cittadini italiani, o residenti nel nostro Paese, hanno imboccato la via della radicalizzazione islamista. «Tra loro, circa un centinaio hanno combattuto in Siria e Iraq, nelle fila dell’Isis o di gruppi legati ad Al Qaeda».
Guolo ricerca a fondo le motivazioni alla base di queste estreme scelte di radicalizzazione.

Si tratta di immigrati di prima o seconda generazione ma anche di italiani autoctoni. Di uomini come di donne. Di residenti nelle periferie delle grandi città o in piccoli centri abitati. Lavoratori o inoccupati. Delinquenti o incensurati. A unirli sono poche caratteristiche, «in linea con altre esperienze europee»: l’età, in quanto si tratta quasi sempre di giovani o addirittura giovanissimi, e l’essere musulmani sunniti.

Attraverso l’esplorazione del fenomeno della radicalizzazione di matrice islamista, Guolo riesce anche a osservare il «profondo mutamento sociale indotto dai processi di globalizzazione nella nostra società». La comprensione del fenomeno della radicalizzazione consente quindi una più vasta conoscenza anche delle trasformazioni che investono e hanno investito la società italiana, al pari di quella europea, come dei conflitti che la attraversano e la caratterizzano: il ritorno all’ideologia, la ricerca d’identità, lo spazio pubblico delle religioni, le forme di disagio e le rivolte giovanili, l’impatto dei flussi globali sulle comunità locali, la risposta delle istituzioni e della politica, la xenofobia, le nuove forme di organizzazione socio-religiosa dell’islam.

Il fulcro del lavoro di ricerca e analisi di Renzo Guolo sembra centrato sulla dimensione soggettiva della scelta di radicalizzarsi da parte di soggetti giovani, oltre naturalmente il quadro politico e culturale all’interno del quale dette decisioni prendono forma. La violenza, il terrorismo, il terrore sono lontani, nella prospettiva di indagine di Guolo. È frutto certamente di una scelta, o di una necessità, la volontà di limitare il campo d’indagine.

Viene analizzato da Guolo anche il “ritardo” tutto italiano, rispetto agli altri Paesi europei, nella “produzione” di giovani jihadisti ma, soprattutto, le ragioni per le quali «questo gap potrebbe venire, drammaticamente, colmato nei prossimi anni».
Alla fine del 2017 i potenziali jihadisti interni o foreign fighters erano 129. L’immigrazione relativamente recente, limitato effetto banlieue, assenza quasi totale di poli di radicalizzazione, assenza di un gruppo etno-religioso predominante, associazionismo islamico non radicale, lavoro di investigazione e intelligence: sono questi i molteplici fattori che hanno consentito il ritardo italiano, «calcolabile sui tre/cinque anni», rispetto agli altri Paesi europei.

Un ritardo che però, avverte Guolo, non è destinato a protrarsi a lungo, sia per le tensioni sociali legate all’immigrazione, che sono destinate a crescere, sia per «la diffusa presenza, nel panorama politico nazionale, di forze palesemente xenofobe e islamofobe».

Se da una parte è difficile prevedere gli sviluppi «delle future dinamiche generazionali», largamente influenzate da fattori legati al proprio tempo, Guolo ipotizza che solo «attive politiche di integrazione, capaci di attenuare i richiami delle sirene islamiste radicali nei confronti di quanti si sentono per vari motivi esclusi o ostili, possano rafforzare efficacemente la sicurezza collettiva».

Un libro, Jihadisti d’Italia di Renzo Guolo, che si inserisce nel dibattito-focolaio mai sopito su Isis e terrorismo islamista analizzando un aspetto peculiare delle società del ventunesimo secolo in netta trasformazione e in evidente contrapposizione a quelle precedenti e, fors’anche, a quelle future dal punto di vista non soltanto economico e politico ma, soprattutto, sociale culturale ideologico e religioso. Società che come mai prima d’ora sono interdipendenti le une dalle altre, nelle quali soprattutto gli aspetti negativi e le degenerazioni ricadono scambievolmente e a notevole velocità. Ragioni per cui, come sottolinea lo stesso autore, non si può ipotizzare di studiare fenomeni e soluzioni senza allargare lo sguardo oltre i propri confini. Necessita sempre e comunque uno sguardo globale per problemi e fenomeni che sono innegabilmente globali.

Disclosure: Fonte biografia autore www.treccani.it


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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016) 


 

© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Derive del terrorismo e dell’antiterrorismo in “Non c’è sicurezza senza libertà” di Mauro Barberis (ilMulino, 2018)

31 giovedì Mag 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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IlMulino, MauroBarberis, Noncesicurezzasenzaliberta, paura, recensione, saggio, terrore, Terrorismo

Il saggio del professor Barberis si apre con una citazione di Edward Snowden che in parte anticipa il fulcro centrale del discorso portato avanti dal filosofo e per il resto rende perfettamente l’idea di cosa il lettore deve aspettarsi inoltrandosi tra le righe del libro Non c’è sicurezza senza libertà, edito quest’anno da ilMulino: «Il terrorismo è solo un pretesto».

In Putinofobia (Piemme, 2016), Giulietto Chiesa afferma che, mentre il terrore rosso operante nell’ex Impero Sovietico fosse un nemico vero dell’Occidente, il terrore verde, ovvero quello di matrice islamista, sia in realtà una mera invenzione dello stesso Occidente. Non è l’unico saggista ad affermare una cosa del genere ma bisogna stare bene attenti al significato di queste parole.

Lo stesso Barberis, che in Non c’è sicurezza senza libertà più volte si avvicina alla linea tracciata anche da Chiesa, risulta essere ben lontano dall’affermare che il terrorismo islamista non esiste, letteralmente parlando. È ovvio che gli jihadisti esistono, come pure i foreign fighter. Naturale che gli attacchi terroristici nelle città dell’Occidente ci sono stati, come pure le vittime… quello su cui Barberis, Chiesa, Luizard e altri studiosi invitano a riflettere sono le dinamiche che hanno dato origine a detta forma di terrorismo e le conseguenze, durature seppur non immediate e dirette, di questi attacchi al cuore e ai simboli della civiltà occidentale.

Pierre-Jean Luizard, storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique a Parigi, in La trappola Daesh (Rosenberg&Sellier, 2016) afferma che l’unica strada indicata come percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica sia la sconfitta militare del Califfato. È una storia già nota, quella che raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basti ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre del 2001, alle guerre e alle invasioni che ne sono derivate, alla uccisione di Osama bin Laden e all’affermazione dell’avvenuta sconfitta di Al-Qã’ida.

Il terrorismo islamista si è presentato più forte e organizzato di prima ed è tornato prepotentemente e più volte a bussare alle porte degli stati occidentali, mietendo vittime e democrazia. Esatto, perché è proprio da questo punto che parte la dettagliata analisi del fenomeno portata avanti da Mauro Barberis. Sentirsi o essere al sicuro non significa necessariamente sentirsi o essere liberi. Spesso i valori di sicurezza e libertà, «lungi dell’essere solidali, confliggono». E allora non si può non chiedersi, insieme all’autore, a quanta libertà personale abbia dovuto rinunciare ogni occidentale in seguito non solo e non tanto alle minacce terroristiche quanto alle misure restrittive e limitative intraprese dai vari governi, Stati Uniti in primis.

Conta poco che un 11 settembre sia oggi, con tutti i controlli aerei posti in essere, irripetibile. Autorità e apparati conservano i poteri e le risorse loro attribuiti per prevenire la replica. Da eventi come l’11 settembre, o da noi in Italia i terremoti, si sta «sviluppando una sorta di capitalismo della catastrofe» che ruota intorno al concetto di “sicurezza sociale” che non è mai stata un ostacolo allo sviluppo del mercato «come crede la gran parte dei neoliberisti contemporanei, ma una sua condizione necessaria».

Più volte citato dallo stesso Barberis, Michel Foucault sosteneva che la seconda conseguenza del liberismo, e dell’arte liberale di governare, è la formidabile estensione delle procedure di controllo, di costrizione e di contrappeso delle libertà. L’allerta seguita agli attacchi terroristici in territorio occidentale ha innalzato notevolmente l’asticella dei controlli e delle limitazioni della privacy di ognuno. Ma quanto in realtà queste misure possono o incidono sul reale rischio di nuovi attentati? Barberis afferma che la quasi totalità delle misure antiterrorismo è inadeguata, non necessaria e sproporzionata. Perché viene posta in essere comunque?

I limiti militari e tattici del nuovo terrorismo sono stati più volte dimostrati sul campo di battaglia. La vera forza dei terroristi risiede nell’eco mediatica che le loro “gesta” riscontrano sui media e nella Rete. Se le loro azioni, al pari delle minacce e dei video propagandistici, non ricevessero l’attenzione mediatica che invece trovano in tutto il mondo ormai il loro “potere” e la conseguente efficacia ne sarebbero inevitabilmente compromessi. Mauro Barberis sottolinea come ciò sia vero anche per le misure e le reazioni antiterroristiche dei governi, i quali sembrano affidarsi sempre più spesso alla tattica della politica-spettacolo, dove tutto viene “spettacolarizzato” al fine di ottenere il consenso del pubblico, ovvero dei cittadini. Tattiche che possono risultare affini, almeno per quel che concerne l’esagerazione o, se si preferisce, l’estremizzazione.

Battere così tanto sul concetto di sicurezza può anche sembrare un modo per stimolare e, al contempo, far leva sulla paura. Una persona che ha paura è decisamente molto più remissiva. In nome della sicurezza di tutti si può anche arrivare ad accettare passivamente limitazioni della propria libertà personale purché ciò sia utile a sconfiggere il pericoloso nemico che motiva i provvedimenti di urgenza intrapresi dai vari stati. Provvedimenti che poi si trasformano da eccezione a regola.

Riscontrabile, ad esempio, nella tendenza degli esecutivi ad appropriarsi della legislazione in tempo di guerra tramite la decretazione d’urgenza. Poi le guerre finiscono ma i governi, compreso quello italiano che ufficialmente non entra in guerra da settant’anni, continuano a legiferare per decreto. Quanti decreti vengono approvati? Qual è la loro reale emergenza? A legiferare non è preposto il Parlamento?

Quesiti doverosi su argomenti complessi è vero ma molto attuali. Situazioni e decisioni da cui derivano le sorti di interi popoli e nazioni. Tematiche di cui, a volte, spaventa il sentirne parlare o leggere perché, più o meno consciamente, si teme la scoperta di un ordine inverso delle cose, delle azioni e, soprattutto, delle motivazioni che hanno preceduto e determinato le scelte, di governi e terroristi. Eppure, alla fine, risulta sempre positivo lo studio e l’approfondimento di questi temi.

Non c’è sicurezza senza libertà di Mauro Barberis si presenta al lettore come una sistematica analisi di concetti, nozioni, dati, diritti e violazione degli stessi che ruota intorno a due termini affatto scontati: sicurezza e libertà. Un libro che appare moderato anche nelle tesi “estreme” più volte espresse, le quali vanno assimilate e maturate prima di essere frettolosamente giudicate o mal-interpretate.

Una interpretazione che deve essere portata avanti con una grande onestà intellettuale, la medesima che Barberis chiede abbiano sempre i “produttori” culturali, prima ancora dei politici e dei governanti. Avallando così l’ipotesi e la speranza che un’informazione e una educazione “libere” possano essere le migliori apripista per i cambiamenti di cui il mondo ha bisogno. Cambiamenti che potranno e dovranno per forza venire dalla cultura, in particolare dai libri, vero punto di forza nel giudizio dell’autore, il quale attribuisce loro una potenza talmente intensa da essere, a volte, una vera e propria catarsi.

Una lettura forse impegnativa Non c’è sicurezza senza libertà di Barberis, soprattutto nell’excursus storico-politico e nell’analisi dettagliata di dati e provvedimenti governativi, ma di sicuro interessante e, per molti versi, illuminate. Assolutamente consigliata.


Articolo originale qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Società Editrice ilMulino per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte trama libro e biografia autore quarta di copertina


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Guerre dichiarate e guerre segrete. Analisi geostrategica della guerra delle informazioni combattuta nel conflitto civile siriano

17 sabato Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli, Recensioni

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AndreaFoffano, articolo, BanaAlabed, CaroMondo, GiuliettoChiesa, LatrappolaDaesh, monocolooccidentale, Occidente, paura, Piemme, PierreJeanLuizard, Putinofobia, recensione, RosenbergSellier, saggio, Siria, Solfanelli, terrore, Terrorismo, tre60

I governi di tutto il mondo basano le proprie decisioni sui rapporti informativi dei servizi di intelligence, strutture di sicurezza cui spetta il compito di reperire tutte le informazioni possibili necessarie alle autorità per compiere le proprie scelte e prendere le relative decisioni. Un potere enorme racchiuso nelle mani di una rete di persone pressoché invisibili, ma che esistono e agiscono, anche se all’ombra di governi e istituzioni, determinandone però la linea e le iniziative. Andrea Foffano, docente di sicurezza e intelligence presso ASCE e ANVU-ISOPOL, sottolinea come alcune notizie di carattere internazionale sono in grado di poter stabilire l’andamento politico, sociale ed economico di un’intera comunità nazionale. Anche laddove queste informazioni fossero volutamente forzate o addirittura falsate. Infatti, uno dei principi cardine dell’attività d’intelligence, svolta da tutti i servizi di informazione del mondo, non è altro che l’imperativo: usa tutto e tutti per raggiungere i tuoi scopi.
Quali sono allora gli scopi dei servizi di intelligence e quali quelli degli stati per cui lavorano?

Per esemplificare il lavoro svolto da servizi segreti e governi Foffano analizza il conflitto civile siriano partendo da quanto accaduto due anni prima l’inizio della guerra. Ovvero allorquando nel tratto di mare compreso tra l’Iran e la penisola del Qatar, fu scoperto uno dei più grandi giacimenti energetici di gas naturale, usufruibile da entrambi i Paesi. La Siria, al cui governo si trovavano gli Alauiti del Presidente Bashar al-Assad, fedeli alleati degli Sciiti iraniani, negò il consenso al transito delle strutture di trasporto sul proprio territorio nazionale per la Qatar-Turkey pipeline, che avrebbe dovuto collegare l’Europa con il Qatar. Mentre diede il proprio consenso per il passaggio dell’Islamic pipeline progettato dall’Iran. Washington decise di intervenire in difesa dei propri alleati (Qatar e Arabia Saudita) e iniziò a sostenere militarmente le fazioni ribelli che, dopo l’avvento della Primavera Araba in Siria, avevano iniziato a opporsi al regime di Assad. Parallelamente, l’Arabia Saudita iniziò a finanziare in modo massiccio molti dei gruppi terroristici e jihadisti che si opponevano allo stesso regime.

Secondo quanto riportato in un’inchiesta del NewYork Times, l’Arabia Saudita avrebbe finanziato la guerra segreta della CIA in maniera continua e massiccia, si parla di circa un miliardo di dollari da parte degli Stati Uniti e svariati miliardi di dollari provenienti da ricchi e anonimi finanziatori sauditi. Un servizio segreto estero che fornisce sistemi d’arma di ultima generazione a gruppi ribelli divenuti poi estremisti, jihadisti, terroristi è di sicuro una scomoda verità. Modi di agire che ricordano molto, forse troppo, la guerra russa in Afghanistan, con gli americani intenti a sostenere militarmente i Talebani e i Mujaheddin. Americani e sauditi, con il sostegno fondamentale del Pakistan e dei pashtun della zona tribale, avevano creato a Peshàwar il più grande centro jihadista del mondo. Come ricorda Pierre-Jean Luizard, storico e direttore del Centre national de la recherche scientifique, del tempo in cui gli jihadisti erano i nostri eroi che combattevano contro l’Impero del Male, e solo in un secondo momento si trasformarono in barbari che avevano portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Per Luizard, il regime siriano ha avuto sempre alcuni difetti agli occhi degli occidentali. In primis per il diniego a una pace con Israele che non prevedesse la restituzione del Golan, occupato dall’esercito ebraico nel 1967. Continua ad avere ottimi rapporti con Mosca, alleato della repubblica sciita dell’Iran e a sostenere militarmente gli Hezbollah, l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006. Appartiene a quell’asse della resistenza che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo. Insomma, il nemico perfetto che ha fatto della Siria il terreno ideale per una guerra santa.

Secondo Joshua Landis, uno dei massimi esperti mondiali della politica siriana, circa il 60-80% delle armi che gli Stati Uniti hanno introdotto nel paese sono finiti nelle mani di gruppi terroristici jihadisti riconducibili ad al-Qaeda. Ma se a qualcuno venisse in mente di trovare le prove per accusare gli Stati Uniti di fomentare la guerra in Medio Oriente, avverte Foffano, sappia che andrà incontro a un fallimento certo. Il conflitto in atto in Siria appartiene a una nuova tipologia di guerra: quella per procura, nella quale gli attori in campo mascherano il proprio intervento tramite il sostegno, più o meno indiretto, ad una delle parti in causa. Scontri nei quali il secondo livello, ovvero la guerra delle informazioni, risulta alla fin fine più potente e pericoloso del primo, gli scontri armati sul campo. Almeno per gli Stati che non risultano in apparenza coinvolti direttamente nello scontro perché per quelli direttamente chiamati in causa e soprattutto per le popolazioni ad essi afferenti la situazione naturalmente cambia e anche di molto.

Bana Alabed, la ragazzina che ha fatto conoscere il dolore dei cittadini di Aleppo a tutto il mondo attraverso i suoi tweet inviati ai presidenti di tutte le maggiori potenze mondiali, si chiede come le persone possano essere così crudeli da far diventare, per un bambino, nessun posto sicuro e dedica il libro che racchiude la sua storia a tutti i bambini che soffrono a causa di una guerra, per dire loro che non sono soli, purtroppo. In tanti, in troppi soffrono e subiscono le conseguenze di scelte non proprie, non volute e non condivise in nome di una pace che stenta ad arrivare e a causa di interessi che raramente coincidono con quelli di interi popoli e troppo spesso invece con quelli elitari di ristrette cerchie e categorie di persone.

 

Quei terroristi che in altri scenari operativi sparsi per il mondo gli Stati Uniti stavano combattendo, a prezzo di numerose vittime fra i soldati dell’esercito americano e della coalizione internazionale, anche come conseguenza dell’intervento, diretto o indiretto che sia, degli stessi nel conflitto civile rischiavano di prendere il potere in Siria e allora lo Stato Maggiore decise di servirsi dei servizi segreti di intelligence per passare informazioni militari alle forze armate delle altre nazioni impegnate nel conflitto. Con la certezza che i servizi segreti di Assad avrebbero intercettato il movimento di dati e utilizzato il tutto nella lotta contro gli jihadisti. I cablo del Dipartimento di Stato americano, resi pubblici nel corso degli anni da Wikileaks, avrebbero gettato un fascio di luce su un retroscena assai torbido e buio.

Un rischio enorme quindi quello corso dagli americani. Non si può non chiedersi il perché reale del continuo e persistente intervento degli Stati Uniti in Medio Oriente o in qualsiasi altra parte del mondo si prospetti o si profili una qualsivoglia instabilità. Al termine della cosiddetta Guerra Fredda, gli Stati Uniti sono diventati l’unico polo dominante schierato in campo geopolitico mondiale. L’America è una di quelle nazioni, insieme a tante altre del cosiddetto Occidente, ad aver improntato il proprio sistema economico sulla competitività: non riescono a trovare una sicura e certa stabilità interna, senza ricorrere a nuovi mercati e ad altrettanti investimenti. Lo slogan del ventennio era: “Chi si ferma è perduto!”. Ecco, mai parole furono più adatte a descrivere la situazione di alcune potenze mondiali a ridosso del ventunesimo secolo.

Gli attacchi dell’11 settembre 2001, da questo punto di vista, sono stati un avvenimento strategicamente molto importante. Hanno decretato l’inizio della «guerra al terrore» che ha significato l’invasione dell’Afghanistan, la guerra ai Talebani, l’invasione dell’Iraq, gli interventi in Libia e in Siria. Operazioni nelle quali ogni mossa è politica, è dettata da convenienze economiche e risponde sempre a chiare regole sociali. Giulietto Chiesa, giornalista e politico italiano, considera il terrorismo islamico un prodotto diretto dell’azione coordinata degli occidentali che usa semplicemente i terroristi, che pure esistono, come manodopera che spesso non riesce a capire neanche per chi sta lavorando. L’Occidente ha sempre avuto bisogno di un nemico. L’Unione Sovietica del ventesimo secolo era perfetta in questo senso. Ma, una volta abbattuto il Comunismo sovietico, l’Occidente si è ritrovato senza un nemico da combattere. Senza nemici e con un nuovo gigantesco alleato e vassallo non è riuscito a spiegare al mondo intero come mai l’economia mondiale andava comunque a rotoli. Il problema non sarebbe quindi esterno, bensì interno, nel modello di sviluppo scelto. Il piano messo in atto sarebbe stato quello di sostituire il terrore rosso con il terrore verde. Il terrore rosso non era un’invenzione, era un antagonista serio. Il terrore verde non è un’antagonista, è stato inventato dall’Occidente. È un’ipostasi messa davanti agli occhi della gente per terrorizzarla e costringerla a rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Stati Uniti d’America.

Per Foffano, prima di passare all’analisi oggettiva dei fatti, provando conseguentemente a interpretarli sino a giungere a una spiegazione logica e razionale degli avvenimenti, bisogna forzatamente sgombrare il campo da ogni sorta di pregiudizio politico-ideologico, che potrebbe in qualche modo viziare la nostra intrinseca capacità critica. Quello che Chiesa definisce con parole molto più crude Matrix, con riferimento diretto alla omonima produzione cinematografica. L’Occidente ha forgiato un apparato di comunicazione, attraverso il suo meraviglioso sistema dell’immagine gradevole e dell’immagine in movimento in generale, che è riuscito a modificare profondamente la psicologia della gente. Ha lavorato in tutti i modi possibili e immaginabili alla penetrazione cognitiva nel cervello degli uomini, delle donne e dei bambini soprattutto, modificando la loro percezione del mondo. Il mondo reale è altrove però, fatto in un altro modo, è furibondo, è feroce, è senza tregua. Siamo sistematicamente mitragliati da una sterminata quantità di messaggi gradevoli che uccidono la nostra capacità critica di sentire, di percepire e di conoscere.

Anche quanto sta accadendo o è già accaduto in Siria, per fare un esempio, viene tagliato fuori dall’immagine che del conflitto hanno milioni di occidentali indotti a credere che si stia parlando, solo, dell’ennesima lotta contro il terrorismo, di matrice islamica questa volta, necessaria e imprescindibile per la sicurezza e la stabilità del mondo, occidentale naturalmente.


Bibliografia di riferimento:

A. Foffano, “Siria. La guerra segreta dell’intelligence”, Ed. Solfanelli, 2017
P.J. Luizard, “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna”, Rosenberg&Sellier, 2016
B. Alabed, “Caro mondo”, Tre60, 2017
G. Chiesa, “Putinofobia”, Piemme, 2016


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Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


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Le sfide all’ordine mondiale: “Il ritorno delle tribù” di Maurizio Molinari (Rizzoli, 2017)

16 domenica Lug 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Califfo, flussimigratori, Ilritornodelletribu, immigrazione, jihad, MaurizioMolinari, migranti, monocolooccidentale, NWO, ordinemondiale, recensione, Rizzoli, romanzo, saggio, Terrorismo

Esce in prima edizione a maggio 2017 con Rizzoli il libro di Maurizio Molinari Il ritorno delle trbù. La sfida dei nuovi clan all’ordine mondiale, dedicato dall’autore «Alla mia tribù». Leggendo il testo se ne comprende fin da subito il perché.
Il ritorno delle tribù appare come un articolo/commento lungo in cui l’autore racconta la sua versione di quanto sta accadendo in Medio Oriente, Nord Africa, Nord America ed Europa, una personale analisi della «generale tendenza alla disgregazione che porta all’indebolimento degli Stati nazionali e dei rispettivi establishment».
Un libro che delude per il suo contenuto e stupisce per la presenza di alcuni refusi di punteggiatura, anche se bisogna ammettere che non sono di certo questi il vero problema.

Nelle affermazioni di Molinari il testo è volto «alla ricerca delle origini di rivolte, diseguaglianze e migrazioni per arrivare a descrivere le tribù d’Oriente e d’Occidente che ne sono protagoniste, mettendo in evidenza ciò che le distingue e ciò che le accomuna». In realtà, leggendolo, si ha l’impressione di consultare un vecchio testo di Storia nel quale gli accadimenti e le vicende geo-politiche vengono narrate descritte e commentate dall’unico punto di vista ritenuto giusto valido e attendibile: il monocolo occidentale. L’Universo dell’Occidente, che include anche Israele, guidato dagli Stati Uniti e la cui Legge sembra rappresentare per l’autore il Verbo divino. Come se tutti gli abitanti della Terra, indistintamente, debbano andare inesorabilmente verso l’unica direzione possibile e nota, la medesima tra l’altro che ha determinato e condizionato la Storia passata e presente e che si vorrebbe delimitasse anche quella futura.

Bisognerebbe riuscire ad ammettere quantomeno che le innumerevoli guerre e missioni portate avanti dai governi occidentali non sono rivolte a stabilire la pace e il benessere di tutti gli abitanti del Pianeta piuttosto a fermare chi si ribella all’ordine mondiale voluto e imposto dai suddetti governi.
Far leva sulla paura ingenerata dal terrorismo islamista oppure sulla cosiddetta invasione di migranti è facile e altrettanto facilmente può raccogliere consenso in chi legge. Una lettura meno critica del libro infatti potrebbe con molta semplicità dare la sensazione che gli jihadisti e i migranti siano l’unico vero problema da affrontare e che risolto ciò il Pianeta sarà salvo. È tanto evidente quanto elementare che così non è e così non sarà.

Molinari parla enne volte del «disegno apocalittico o escatologico della sottomissione dell’intero Pianeta al Califfo» nel suo libro, che è certamente contrario alla propaganda jihadista ma scritto con un’enfasi tale da apparire esageratamente e paradossalmente propagandistico a sua volta. Solo che l’apostolato sembra la cronistoria, a volte la giustificazione, delle strategie e delle tattiche degli americani, descritti come la punta, il vertice portabandiera delle imprese militari occidentali volte alla esportazione mondiale delle idee di democrazia progresso crescita e libertà. Secondo la visione dualista del mondo che vede gli occidentali, compresi gli ebrei, da una parte e tutti gli altri dalla parte opposta e in base alle cui regole di supremazia militare politica economica sono stati scritti e riportati oltre 2mila anni di Storia.

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Il terrorismo jihadista, come qualsiasi altra forma di terrorismo, è da biasimare innegabilmente così come il dramma umano dei migranti e dei profughi non può lasciare indifferenti le società “civili” di tutto il mondo ma lo smanioso desiderio di accentuare ed enfatizzare la negatività dell’estremismo jihadista dell’autore sembra gli sia tornato utile per tralasciare, accennandoli appena, alcuni aspetti della vicenda affrancandosi di parlarne nel dettaglio.
Per esempio, l’accenno al Trattato di Sèvres del 1920 in base al quale le potenze alleate vincitrici della seconda guerra mondiale promettevano l’indipendenza al popolo curdo e agli Accordi segreti di Sykes-Picot del 1916 siglati tra Inghilterra e Francia per spartirsi il dominio e il controllo sul Medio Oriente, nonché il fatto che tutti i confini degli stati dell’area mediorientale e del Nord Africa sono stati tracciati a tavolino sempre dalle potenze occidentali tenendo conto, presumibilmente, dei propri interessi politici ed economici senza sottolineare come la situazione che vivono queste aree oggi deriva da tutto ciò appare quasi ridicolo, per non dire fuorviante.
La quasi totalità delle rivolte e dei malcontenti in Africa e Medio Oriente ha origine proprio dal fatto che la suddetta suddivisione in “stati a tavolino” ha generato un tale caos che, aggiunto al mal operato di governi corrotti e all’incessante sfruttamento del territorio e delle risorse sempre da parte degli occidentali ha portato dritti dritti alla situazione catastrofica odierna. Come si fa a credere che spetta ancora solo alle potenze occidentali trovare la soluzione?

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La stessa nascita del jihadismo è imputabile, almeno in parte, all’operato degli occidentali i quali prima hanno sfruttato questi “ribelli” considerandoli alla stregua di eroi che combattevano al loro fianco per sconfiggere l’Impero del Male, allora rappresentato dall’Unione Sovietica che aveva invaso l’Afghanistan, e solo in seguito diventati essi stessi il Male perché hanno portato il terrore nel cuore dell’Occidente.
Dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001 la missione di tutto l’Occidente, più compatto che mai, era scovare colui che veniva da tutti indicato come il responsabile della tragedia: Osama bin Laden. La cui uccisione è stata proposta alla popolazione come l’unica via per debellare il Male, incarnato dalle cellule terroristiche di al-Qaeda. Versione ingenua o peggio fuorviante. Quel che in realtà è poi accaduto è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Ancor prima di Bin Laden un altro è stato il nemico da battere a ogni costo per mantenere sicure le certezze occidentali: Saddam Hussein, giustiziato nel 2006. La fine del dittatore iracheno ha generato la diaspora dei generali e degli uomini del suo esercito, molti dei quali hanno abbracciato le idee o sono stati ingaggiati dai terroristi islamisti con il compito di addestrare i nuovi adepti, compresi i foreign fighters. Oggi il nemico numero uno dell’Occidente è il Califffo. Ma cosa accadrà una volta che sarà sconfitto?
Ecco che si profila di nuovo il dubbio sull’affidabilità delle potenze occidentali a risolvere la situazione in Medio Oriente e Nord Africa.

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La soluzione auspicata da Maurizio Molinari ne Il ritorno delle tribù riguarda in realtà più il tentativo di superare la crisi economica conseguenza della globalizzazione che ha colpito il ceto medio occidentale e il cui malcontento sta consentendo, a suo dire, l’avanzata del populismo, indicato come il secondo dei mali da combattere. Il primo è il jihadismo. Uno interno e l’altro esterno che debbono essere affrontati separatamente ovvero, nelle parole dell’autore, «combattere il jihadismo come se il populismo non esistesse e rispondere al populismo come se il jihadismo non vi fosse». La linea indicata da Molinari per superare i due mali che attanagliano le tribù occidentali è molto parziale e sembra non tenere in considerazione non solo la consequenzialità degli eventi ma anche il processo inarrestabile della globalizzazione che non può e non deve essere solo di merci e capitali ma di persone. Per cui se anche fino a questo punto le decisioni dei governi occidentali non hanno voluto tenere in considerazione le conseguenze delle loro decisioni non solo riguardo la propria tribù ma anche per le altre, ciò non è più accettabile. Come non può esserlo l’idea che l’autore vuol far passare di Israele, indicato addirittura come “isola” per la compattezza e l’omogeneità della tribù che fa quadrato contro ogni minaccia «all’esistenza del proprio Stato».

Quelle che l’autore indica come scelte volte alla salvaguardia del proprio Stato o della propria nazione, della sicurezza o della democrazia in realtà, tradotte in fatti, corrispondono a sanguinose guerre e interventi militari che causano centinaia di morti e migliaia di feriti, sfollati, profughi e migranti. E che generano anche sentimenti di odio e risentimento nei confronti degli stranieri invasori e invadenti oppure verso governi corrotti e collusi che si rivelano inadeguati e disinteressati al benessere pubblico e collettivo.

I problemi di cui parla Molinari, ovvero gli jihadisti e i migranti non sono la causa bensì la conseguenza e la conseguenza non la risolvi se non vai a incidere sulla causa, sia fuori che dentro il proprio Universo.
Molinari dedica il libro alla sua tribù perché è l’unico raggruppamento umano verso cui sembra nutrire un certo interesse.

Maurizio Molinari: giornalista e scrittore, direttore del quotidiano La Stampa.

Source: libro inviato dall’editore al recensore, ringraziamo Ornella dell’Ufficio stampa Rizzoli.

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La Filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

15 lunedì Mag 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia l’atteggiamento giusto da tenere riguardo il fenomeno terroristico. Questa la base di partenza e il motivo ispiratore di Prendiamola con filosofia di Ermanno Bencivenga (edito da Giunti), un libro che tenta di dare risposta a tutte le domande che è necessario porsi per guadagnare una posizione responsabile in proposito a eventi di oggi o di ieri, questo poco importa, purché si comprenda quanto abbiano da insegnarci.

Paura, terrorismo e cambiamenti epocali inevitabili esaminati con la lente del ragionamento filosofico in un libro che è un’indagine su quanto le parole mettono in gioco nel tempo del terrore.

Ne abbiamo parlato con Ermanno Bencivenga nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Che cosa può dire un approccio filosofico sul terrorismo rispetto agli altri approcci? In che cosa consiste l’originalità del discorso della filosofia e perché è utile affidarsi a quest’ultimo?

Un approccio storico può informarci sulle origini del fenomeno. Un approccio politico o economico può chiarire quali siano i fattori in gioco, in termini di potere o di finanza. Un approccio legale può illustrare i diritti e doveri che le leggi nazionali e internazionali riconoscono alle varie parti. Un approccio filosofico può aiutare ciascuno di noi a capire quale sia, per lui o per lei, l’atteggiamento giusto nei confronti del fenomeno, mostrandone tutti gli aspetti e tutte le domande cui bisogna dare risposta per raggiungere una posizione responsabile in proposito.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

Libertà di espressione e rispetto per le fedi religiose. Mai come in questi anni tali principi, o meglio diritti, sono spesso al centro di dibattici pubblici e politici. Si sta veramente conducendo una “guerra” planetaria per tutelarli o rischiano di essere o diventare solo una copertura per interessi di altra natura?

Gli interessi di altra natura ci sono, naturalmente. Ma bisogna evitare ogni forma di riduzionismo, economicista per esempio. Ricordiamo il fallimento, intellettuale prima ancora che politico, del riduzionismo di stampo marxiano. Gli esseri umani sono animali razionali, quindi, oltre che da emozioni e interessi, sono mossi dalla ragione. E capire chi abbia ragione, in questi casi, è molto difficile. La difficoltà va affrontata, non evitata con il ricorso a facili slogan che mortificano e avviliscono la nostra natura di esseri pensanti. Una mortificazione che finiremo per pagare: con la frustrazione, con la depressione, con la rabbia.

Nel testo si legge: «che un evento si sia verificato ieri o duemila anni fa non conta», importa solo «quanto abbia da insegnarci». Che cosa abbiamo imparato o che cosa avremmo potuto e dovuto imparare dagli eventi storici passati?

Nel mio libro faccio riferimento, per esempio, al comportamento di Socrate durante il suo processo e la sua esecuzione, nel 399 a. C. Sono eventi sui quali continuiamo a interrogarci e dai quali continuiamo a imparare. È giusto scendere a compromessi per salvarsi la vita? È giusto fare un’eccezione per sé stessi quando si pensa che ci sia stato fatto un torto? È giusto rispondere al male con il male? Socrate ci fornisce le sue risposte e il suo esempio; sta a noi prenderli in esame e decidere da che parte stiamo.

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Tornando ai fatti recenti invece, quanto incidono le emozioni “a pelle” provate per gli attentati alle Torri Gemelle e a «Charlie Hebdo», per citare qualche esempio, su quelle che dovrebbero essere analisi più ragionate e obiettive della situazione contemporanea globale?

Le emozioni sono parte integrante della nostra umanità e bisogna accettarle ed esprimerle. Indipendentemente da tutte le analisi che ne ho fatto, io il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle ho pianto in pubblico, e credo fosse una reazione perfettamente umana a quel che era successo. Poi, però, è anche giusto porsi delle domande e cercare delle risposte, anche per evitare che tragedie del genere si ripetano.

La filosofia può aiutare ad affrontare il terrorismo? Intervista a Ermanno Bencivenga

La sensazione è di assistere a un cambiamento epocale che coinvolge e coinvolgerà gli abitanti dell’intero pianeta e che originerà un “mondo diverso”. I paletti che vari stati tentano di mettere per arginare detto cambiamento basteranno a tenerli separati dal resto del mondo oppure, dopo inutili quanto sanguinosi conflitti, cadranno inesorabilmente?

Non c’è alternativa a un mondo planetario. Rinchiudersi in un proprio spazio protetto è una scelta infantile e perdente. Bisogna accettare la sfida, che è culturale prima che politica o economica: inventare insieme una nuova forma di convivenza, trasformare l’attuale situazione di crisi in un’opportunità di crescita comune.

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In questo tempo del terrore, qual è la vera posta in gioco?

Di poste in gioco ce ne sono tante. Come sarà chiaro da tutto quel che ho detto finora, per me la più importante è riuscire a mantenere la nostra umanità e il nostro senso di giustizia sociale, che in questo momento stanno correndo un gravissimo rischio di essere annientati dalla paura, dall’ansia e dall’odio.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-filosofia-puo-aiutare-ad-affrontare-il-terrorismo-intervista-a-ermanno-bencivenga

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Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

21 martedì Mar 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Da poco pubblicato da Marsilio, Il logista di Federica Fantozzi è un romanzo dal ritmo incalzante, dalla narrazione forte che alterna suspence e descrizione, azioni statiche e scene di immediato impatto emotivo e sensoriale… elementi tutti che concorrono a definire l’ottima struttura di un libro che può servire al lettore a dare grandi input di riflessione sulla società, sulla malvagità, sulla criminalità e il terrorismo, sulle relazioni con il mondo esterno e con se stessi.

Ne abbiamo parlato con l’autrice nell’intervista che gentilmente ci ha consesso.

Il logista sembra contrapporre due mondi, quello arabo e quello occidentale, e due realtà, quella del benessere e quella della disperazione. Perché ha deciso di scrivere questo libro?

In realtà la disperazione è ovunque, tra i ricchi come tra i poveri. Il benessere può mascherarla ma non eliminarla. A me non interessava contrapporre il mondo arabo a quello occidentale bensì indagare i motivi che attirano sempre più persone giovani nella rete del terrorismo. E non sono convinta che la ragione principale sia la povertà: è il vuoto dentro. La solitudine, l’assenza di prospettive, lo sfilacciarsi dei legami familiari e sociali. Un cocktail micidiale che rende la vita priva di significato e, dunque, inutile. Infatti il jihadismo, come il terrorismo degli anni ’70, comincia a fare presa anche sui ceti sociali più elevati.

Agli occhi degli Occidentali, dai tempi delle Crociate contro gli infedeli, il mondo arabo e l’Islam vengono caricati continuamente di simboli misteriosi e negativi. Nel testo lei riprende l’immagine dello scorpione e il lettore viaggia attraverso il tempo e i continenti dalla Gran Bretagna all’antico Egitto, passando per l’Italia e il Medio Oriente. Il suo scopo è rimarcare il filo conduttore che lega insieme popoli e culture oppure quello di delineare le peculiarità che hanno contraddistinto i vari popoli e che ancora lo fanno?

Lo spunto è stato quello a cui lei fa riferimento: l’Islam è stato associato allo scorpione, a sua volta simbolo del maligno e dell’oscurità, all’epoca delle Crociate. Quando i cristiani, immersi nella sfolgorante luce di Dio, combattevano gli infedeli musulmani. Come fa notare Adam a un certo punto del romanzo, nella storia le prospettive cambiano e adesso è la Jihad a dare la caccia a chi non conosce né pratica il Corano. Credo che ogni lettore debba trarre le proprie conclusioni, io ho solo voluto raccontare una storia. Ma certo, nel nome delle diverse religioni attraverso i secoli sono state perpetrate molte nefandezze.

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Ne Il logista lei racconta, attraverso gli occhi della protagonista, una Roma decadente. Quali ragioni l’hanno spinta a rappresentare in questo modo la Capitale d’Italia?

La cosa divertente è che non avevo intenzione di rappresentare Roma in quel modo: sporca, insicura, decadente. È semplicemente uscita così, pagina dopo pagina. Me l’ha fatto notare per prima una persona a cui avevo fatto leggere le bozze e ho deciso di renderlo un elemento forte della narrazione. Il punto è che, da romana, evidentemente percepisco così la mia città. È un dato apolitico, non attribuisco la colpa esclusivamente a questo sindaco piuttosto che al precedente, ma resta la spiacevole sensazione che tale degrado si trascinerà a lungo.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

Il Male nascosto dietro lo scorpione è l’estremismo islamico di matrice jihadista. Ma l’Isis è il Male assoluto oppure viene considerato tale perché irrompe con la forza nel mondo occidentale?

È vero, e profondamente ingiusto, che noi tendiamo a considerare l’Isis come il Male assoluto solo quando tocca le nostre società. Mentre le stragi di donne e bambini in Iraq, Afghanistan, Sri Lanka o Somalia passano spesso inosservate. È altrettanto vero che il dolore, le emozioni potenti, la solidarietà, difficilmente attraversano il video del piccolo schermo. Personalmente, ho deciso di scrivere il romanzo dopo essere stata inviata dal mio giornale, «l’Unità», a Parigi nei giorni successivi al massacro del Bataclan. Una settimana durissima e commovente. Senza quell’esperienza vissuta dal vivo forse non avrei avuto la spinta necessaria per raccontare Il logista.

C’è stato un tempo e neanche troppo lontano in cui gli jihadisti erano considerati, da americani e occidentali, “i nostri eroi” perché combattevano per sconfiggere “l’Impero del Male” rappresentato dai sovietici che avevano invaso l’Afghanistan. Poi sono diventati i “barbari” che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente. Quanta responsabilità occidentale c’è, secondo lei, nell’esplosione dello “scorpione jihadista”?

L’Occidente ha responsabilità fortissime, basti pensare anche a Bin Laden e Saddam Hussein. Non c’è dubbio che l’espansionismo politico, lo sfruttamento da parte di pochi delle risorse globali, le crescenti diseguaglianze che la Rete rende immediatamente percepibili siano alla base di moltissimi conflitti del nostro tempo. Si tratta però di temi che servirebbe un’enciclopedia e non un romanzo per sviscerare. E io, invece, ho voluto creare alcuni personaggi lasciando al lettore il compito – e, spero, il piacere – di indagare se hanno o meno un cuore di tenebra.

Muoversi tra gli specchi per indagare il mondo e se stessi. “Il logista” di Federica Fantozzi

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Ne Il logista la protagonista Amalia Pinter da cacciatrice si scopre preda in un vorticoso andirivieni di azioni e suspense che caratterizzano e definiscono il ritmo incalzante del libro. La sua idea sembra essere stata quella di creare un gioco degli specchi. Si può ipotizzare una situazione simile anche per l’attuale scenario geopolitico euro-occidentale e medio-orientale?

Ma certo. Siamo tutti cacciatori e prede allo stesso tempo. Ci illudiamo di controllare il gioco, ma il rischio di venire usati, incastrati o manipolati è dietro l’angolo. Questo vale in ambito geopolitico (pensiamo ai sospetti che la Russia abbia condizionato le elezioni americane o al potere dell’Fbi rispetto alla Casa bianca), economico (lo scandalo Dieselgate o i Panama Papers) e personale. Quest’ultimo è l’aspetto che mi fa più paura: i falsi profili che creano identità parallele, le foto rubate e divulgate in oscuri gruppi Facebook, l’esistenza stessa di Darknet.


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Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

10 venerdì Feb 2017

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Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

Il 31 gennaio 2017 esce con Mondadori La fine del terrorismo di Benedetta Berti, nella versione tradotta da Teresa Albanese. TED Senior Fellow e ricercatrice al Foreign Policy Research Institute e al Modern War Institute a West Point, Benedetta Berti ha trascorso gli ultimi dieci anni “sul campo”, in luoghi impervi e pericolosi a studiare la nascita e l’evoluzione dei gruppi armati ribelli, politici e/o terroristici allo scopo di capirne l’essenza. Questa la via da lei stessa indicata nel libro per riuscire a “superarli”. Una sconfitta che passa attraverso la conoscenza e l’analisi di fatti e dati, non mediante il caos ingenerato dalla paura.

Nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione infinite sono le “informazioni” che circolano su terrorismo e anti-terrorismo, notizie spesso falsate faziose o imprecise. Per questo e anche per altre motivazioni la Berti sostiene che sia necessario riportare tutto alla linearità di una conoscenza basata su dati certi, informazioni sicure e analisi che siano fedeli alla realtà dei fatti. Solo in questo modo si riuscirà a comprendere il fenomeno terroristico e forse anche a superarlo.

Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

L’introduzione a La fine del terrorismo si apre al lettore con una citazione di Diego Gambetta. Parole forti, immagini tanto chiare quanto cruenti di ciò che mafia e Isis rappresentano o intendono rappresentare.  A cosa “servono” o “possono servire” mafia e Isis per l’Italia e l’Occidente?

Più che a “servire” all’Italia o all’Occidente, credo che il punto fondamentale sia che, oggi come in passato, gruppi armati violenti di matrice religiosa, politica o criminale sfruttano e traggono vantaggio dalla loro reputazione violenta. Più questi gruppi vengono analizzati e descritti come brutali, irrazionali e misteriosi, più ci sembrano minacciosi. Quello che non possiamo capire o spiegare ci fa inevitabilmente paura, questo però è un circolo vizioso: la paura non ci aiuta a capire, né tantomeno a fare le scelte più giuste ed efficaci per la nostra società e sicurezza. Allora, credo che sia importante andare oltre. Oggi come ieri, per capire ISIS così come le organizzazioni criminali nostrane, dobbiamo andare oltre la reputazione e il velo di mistero e analizzare le logiche interne, organizzative, politiche ed economiche di questi gruppi.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

La chiave di lettura da lei indicata per una maggiore comprensione delle «attuali tendenze nella violenza politica e nel terrorismo internazionale» è la comprensione in «termini semplici e razionali». Perché ritiene necessario seguire questa strada?

Perché, oggi più che mai, ci troviamo di fronte a un mondo caotico dove, tra sensazionalismo, informazioni disorientanti e decine di versioni contrastanti, diventa quasi impossibile capire che cosa stia davvero succedendo quando si parla di terrorismo e violenza politica. In questo contesto, credo sia importante cercare di spiegare le dinamiche globali legate alla violenza politica: dall’ascesa al declino dell’ISIS, alle nuove forme di terrorismo “autoctono” partendo da dati solidi e da un’accurata analisi del contesto storico, politico e geo-politico. Nel libro cerco di descrivere le complesse ragioni che hanno portato a una crescita del terrorismo a livello mondiale e anche di capire come i gruppi armati – come ISIS ma non solo – sono in grado di sfidare stati con maggiori risorse finanziarie e militari. Nel fare questo, mi propongo di spiegare la logica militare, politica ed economica di questi gruppi. Non per volerne giustificare le azioni, ma semplicemente perché capire la logica e la strategia della violenza politica odierna in modo semplice e razionale ci aiuta ad avere un dibattito pubblico basato sui fatti e non sulla paura; ci aiuta a trovare politiche più efficaci e a non essere manipolati.

Quali sono le immagini stereotipate relative ai gruppi armati che maggiormente influenzano l’opinione pubblica e l’operato dei governi?

Ce ne sono molte; e avendo passato gli ultimi dieci anni “sul campo” studiando i gruppi armati (in Medio Oriente, America Centrale, Latina, Africa orientale e altrove) credo che uno dei problemi principali sia la tendenza a sottovalutare l’evoluzione dei gruppi armati moderni, oltre alla facilità con la quale si fa di tutta l’erba un fascio, senza soffermarsi su come diversi contesti producano distinte dinamiche di violenza politica. In particolare, sottovalutare questi gruppi non aiuta a capirli meglio, né tantomeno a contrastarli. Per esempio, tendiamo a non prestare sufficiente attenzione alle motivazioni economiche e ai modelli finanziari usati dai gruppi armati; questo però ci porta a trascurare una delle componenti fondamentali della loro strategia e, spesso, del loro successo. Nel libro, anche attraverso esempi e storie ottenute in anni di ricerca, racconto di come molte organizzazioni terroristiche abbiano sviluppato complessi modelli di business, impegnandosi in attività economiche lecite e illecite, sfruttando la globalizzazione per aumentare la loro ricchezza. Ancora più interessanti sono le dinamiche di “governance” e le “politiche sociali” di questi attori violenti; per non parlare poi delle attività di marketing e comunicazione.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

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Quali sono i punti in comune e quali invece le divergenze tra la violenza politica di oggi e quella del passato?

Il libro parte dal semplice ma importante fatto che l’uso delle armi, della violenza e del terrorismo non sono tattiche nuove. Ci sono però numerose differenze tra gruppi terroristici “tradizionali” – come ad esempio le Brigate Rosse – e le principali organizzazioni violente attive negli ultimi due, tre decenni. Un punto fondamentale è che il contesto è cambiato: i gruppi armati non-statali, da organizzazioni terroristiche a milizie, sono sempre più spesso i protagonisti dei conflitti armati, che oggi avvengono prevalentemente a livello di guerre civili, interne e/o irregolari. Inoltre, nel libro guardo attentamente anche a come i processi di globalizzazione e di crisi degli stati abbiano offerto l’opportunità a molti gruppi armati di aumentare il loro potere, il loro status e le loro capacità di esercitare controllo sulla popolazione civile. Si può anche aggiungere che i gruppi armati moderni – sia di stampo politico che criminale – tendano ad essere più globali, più orientati ad agire attraverso complesse reti di alleati e partner, anche grazie all’accesso alle nuove tecnologie militari e di comunicazione. Negli anni dopo l’11 settembre, anche le dinamiche e le tattiche del terrorismo globale sono cambiate, e nel libro cerco di analizzare il come e il perché questo sia avvenuto.

È vero che un’organizzazione come l’Isis è riuscita ad affermarsi e a crescere sempre più perché si è sostituita e ha in parte sopperito alle carenze di governi corrotti e inefficienti?

Sicuramente sì.  Quando guardiamo alla mappa della violenza politica a livello mondiale, troviamo senza dubbio un nesso tra stati deboli inefficienti e caratterizzati da violenza interna e l’ascesa di gruppi armati che si propongono come un’alternativa allo stato e al sistema politico. Dall’ISIS ai Talebani, un contesto di guerra insicurezza repressione corruzione ha creato terreno fertile per questi attori violenti. Inoltre, non c’è dubbio che, almeno nelle prime fasi della sua espansione, anche un gruppo repressivo e violento come ISIS ha dedicato energie nel cercare di guadagnarsi una parvenza di legittimità, utilizzando per esempio l’inefficacia dello stato e cercando di sopperire a queste carenze come ad esempio la manutenzione stradale, la distribuzione del pane, per citarne solo alcune, rafforzando così la pretesa di essere uno “stato” di nome e di fatto.

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Quale sarà il futuro della violenza politica e quale quello di chi cerca di combatterla?

Anche se è impossibile sapere che cosa ci aspetterà nel futuro, credo che un’analisi attenta della realtà ci possa aiutare a capire alcune delle sfide in materia di violenza politica in generale e terrorismo in particolare. Per esempio, tutto indica che il ginepraio che caratterizza la situazione mondiale: insicurezza, inefficienza dello Stato, corruzione e repressione continuerà ad aiutare gruppi insurrezionali a emergere, e che la diffusione di nuove tecnologie militari e di comunicazione contribuirà alla maggiore pericolosità di molti di questi gruppi. Questa analisi sembra suggerire anche che contrastare il terrorismo dovrà essere sempre di più un’attività complessa e integrativa, a livello militare e di forza pubblica, ma anche sociale politico economico e culturale.

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La nascita dei “mostri” del terrorismo e il rifiuto delle responsabilità dell’Occidente in “La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna” di Pierre-Jean Luizard (Rosenberg&Sellier, 2016)

22 giovedì Dic 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Le piège Daech. L’État islamique ou le retour de l’histoire di Pierre-Jean Luizard è pubblicato in Italia da Rosenberg&Sellier a novembre 2016 nella versione tradotta da Lorenzo Avellino con prefazione di Alberto Negri e introduzione di Franco Cardini.

Pierre-Jean Luizard afferma che «lo Stato islamico prospera là dove gli stati hanno fallito», ma per capire i meccanismi che hanno portato al fallimento di questi stati e alla conseguente nascita di movimenti ribelli bisogna analizzare la Storia almeno degli ultimi cento anni. Ed è esattamente ciò che l’autore fa nel testo.

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna si rivela, fin dalle prime pagine, una lettura impegnativa che l’autore della introduzione alla versione italiana, Franco Cardini, sostiene non possa essere compresa fino in fondo se non la si fa precedere dallo studio di una serie di titoli che si premura di elencare.

In realtà, anche se a un lettore non esperto della materia può sfuggire qualche passaggio, il messaggio che Luizard vuole diffondere arriva forte e chiaro.

Le vecchie potenze mandatarie hanno difficoltà ad accollarsi il proprio passato coloniale. Non è facile ammettere che la “missione colonizzatrice” dell’Europa è servita «da copertura ad appetiti coloniali senza limiti». Non volendo riconoscere «il passato e soprattutto gli errori e le responsabilità» si ha molta difficoltà a vedere «un futuro “diverso” per il Medio Oriente». Non riuscire a vedere un “futuro diverso” per il Medio Oriente significa che difficilmente si troverà uno soluzione efficace al “problema terrorismo”.

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Quella offerta da Luizard non è una visione catastrofica o complottistica della realtà. Semplicemente l’autore analizza i fatti storici succedutisi a partire dal primo conflitto mondiale, ponendo in risalto quelli più o meno consciamente tralasciati o ignorati da parte di storici e giornalisti, per regalare al lettore una panoramica abbastanza ampia delle crisi:

  • Israelo-palestinese.

  • Israelo-siriana.

  • Sirio-libanese.

Della guerra irano-irachena, di quella “malintesa” combattuta in Afghanistan, dei conflitti confessionali, della genesi del terrorismo di matrice islamica, del ruolo delle diplomazie occidentali… Un modo efficace per cercare di far capire a noi occidentali “il resto del mondo”.

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La sconfitta militare del Califfato, molto reclamizzata dai media e dai politici occidentali, viene volutamente indicata come l’unica strada percorribile per annientare in maniera definitiva il terrorismo estremista di matrice islamica. Luizard sostiene che «anche se il califfato perderà tutta la sua base territoriale, si diffonderà come tante metastasi in zone escluse dall’attuale territorializzazione». È una storia già nota, quella che ci raccontano media e politici, che prospetta una soluzione già fallita. Basta ricordare quanto accaduto all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001.

Dopo l’uccisione di Osama bin Laden Al-Qã’ida «si è ricostituita in Yemen, ha continuato a operare in Iraq, nel Maghreb e nella fascia subsaheliana e in Siria» dove ha dato vita al «fronte Jabhat al-Nuşra, serbatoio di combattenti per lo stesso califfato».

Alberto Negri, nella prefazione al libro, sottolinea come il Califfato gli sia apparso in questi anni «una sorta di mostro provvidenziale per cambiare le frontiere del Medio Oriente» e aggiunge che è un po’ «come lo fu Al-Qã’ida dopo l’11 settembre per intervenire prima in Afghanistan e poi in Iraq». Bisognerebbe interrogarsi su come nascono questi “mostri” del terrorismo internazionale e su quali siano in realtà i legami con le diplomazie occidentali.

Una storia che per Negri ha inizio con l’invasione sovietica dell’Afghanistan, allorquando americani e sauditi avevano creato a Peshàwar «il più grande centro jihãdista del mondo», con il sostegno del Pakistan e dei pashtun della zona tribale. Allora gli jihãdisti erano considerati «i nostri eroi», erano quelli che combattevano contro «l’Impero del Male». Solo in seguito sono diventati i «barbari» che hanno portato il terrorismo nel cuore dell’Occidente.

Due anni prima della rivolta del 2011 Nibras Kazimi, un ricercatore arabo, affermava che la Siria era «il terreno ideale per una guerra santa». Era il nemico perfetto, come sottolinea lo stesso titolo del saggio – Syria through jihadist eyes: a perfect enemy – pubblicato negli Stati Uniti. Un Paese pieno di «difetti agli occhi degli occidentali»:

  • Non intendeva fare la pace con Israele se non con un patto che prevedesse la restituzione del Golan (al-Jawlãn) occupato dall’esercito ebraico nel 1967.

  • Continuava ad avere rapporti con Mosca.

  • Era alleato da decenni con la repubblica islamica sciita dell’Iran e sosteneva gli Hezbollah, «l’unica formazione araba che abbia fermato Israele nella guerra del 2006».

  • Appartiene a quell’ «asse della resistenza» che intende mantenere un’indipendenza dal sistema occidentale alleato con le potenze sunnite del Golfo.

La Siria confina con «paesi ribollenti» – Turchia, Libano, Iraq, Israele, Giordania -, ha una popolazione a maggioranza sunnita ma comandata da una minoranza, gli alauiti, ritenuta eretica.

Quando Al-Asad ha rifiutato l’offerta degli Emirati Arabi, che offrivano «il triplo del bilancio statale (circa 150 miliardi di dollari) per rompere l’alleanza con l’Iran», nelle cancellerie occidentali si diffuse «la convinzione che il regime avrebbe avuto vita breve», come Ben’ Alĩ in Tunisia, Mubãrak in Egitto e Al-Qadhdhãfĩ in Libia. L’ambasciatore statunitense in Siria e quello francese «andarono in visita a Hamã dai ribelli», presumendo che Al-Asad barcollasse e fosse opportuno «guadagnare credito con l’opposizione islamista». Per Negri ciò ha rappresentato un esplicito via libera per far affluire in Siria migliaia di «combattenti islamici» provenienti da ogni parte del Medio Oriente e del Nord-Africa.

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Ibrãhĩm ‘Awed Ibrãhĩm ‘Alí al-Badrĭ, il vero nome di Al-Baghdãdĩ nato a Sãmarrã nel 1971, «si è vantato di essere un imam con dotti studi sufi e un’origine che affonda nella tribù di Maometto», ma nel suo «oscuro percorso» di davvero notevole c’è che gli americani lo arrestarono nel 2004 per rilasciarlo nel 2009 «in maniera inspiegabile»: l’anno dopo era il capo di Al-Qã’ida. «Questi sono i fatti che ognuno può interpretare come preferisce» ma Negri avanza il sospetto che questa guerra allo Stato islamico sia soltanto il primo tempo della vicenda: «nel secondo si deciderà chi dovrà governare la nuova entità. E allora si comincerà a combattere la vera guerra».

I media, le cancellerie occidentali e di conseguenza anche l’opinione pubblica diffusa preferiscono, in genere, far partire il racconto dei fatti relativi al terrorismo estremista di matrice islamica dall’attacco alle Twin Towers e Washington dell’11 settembre 2001, ma per comprendere una «storia da conoscere» è certamente utile «un breve sguardo al passato».

Al-Qã’ida in Iraq «ha scavato nel desiderio di rivincita dei sunniti», una minoranza che prima deteneva tutto il potere ma che con «l’occupazione americana» è diventata un gruppo di reietti trattati come paria. L’Isis ha saputo «sfruttare il profondo malcontento sunnita». Con la fusione tra sunniti di «due nazioni frantumate» si colmava il divario demografico in Iraq e «si costruiva il califfato».

La Storia di Iraq e Siria «appartiene a un intreccio complesso tra strategie coloniali britanniche e francesi, contesti geopolitici legati al petrolio e ai movimenti nazionalistici» che hanno contribuito a disegnare la mappa del Medio Oriente «conosciuto fino a oggi».

Leggerlo o affermarlo oggi può risultare molto strano o addirittura provocatorio ma c’è stato un tempo in cui «l’idea del califfato diventò una soluzione politica anche per l’Occidente». Con «l’espediente politico dei califfati e degli sceicchi», il ministro delle Colonie Winston Churchill mise a capo degli stati sotto mandato britannico «i monarchi arabi del clan hashemita degli Husayn», sovrani della Mecca. «Fu così che nacquero l’Iraq, la Siria e la Giordania». Emiri e sceicchi allora erano «al servizio del piano coloniale» per far nascere nuovi stati che adesso si stanno sgretolando. «La guerriglia e il terrorismo praticato dallo Stato islamico» di Abũ Bakr al-Baghdãdĩ sono adesso «funzionali a un progetto completamente diverso»: abbattere le frontiere tracciate un secolo fa e riunire i sunniti sotto «la bandiera nera di un nuovo califfato».

Sia la Siria che l’Iraq oggi sono «degli ex-stati, presenti in maniera virtuale sulla mappa geografia» e nessuno, né in Occidente né in Medio Oriente, ha un piano politico alternativo «al mantra dell’unità nazionale ripetuto in maniera stucchevole dalla diplomazia internazionale». Per l’autore siamo quindi a un bivio: o si ricostituisce questa unità nazionale, «evocata a ogni pleonastica conferenza mediorientale», oppure si deve affrontare la «balcanizzazione del Medio Oriente». Gli europei, che hanno assistito «senza fare nulla di positivo» alla disintegrazione della Jugoslavia e ora «appaiono impotenti» di fronte all’Ucraina, «sono in materia degli esperti».

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L’ascesa del califfato tra Iraq e Siria «non è stata esattamente una buona notizia» per le monarchie assolute del Golfo «sostanzialmente antidemocratiche», che l’Occidente si ostina ad appoggiare «rifornendole di armi in cambio di petrolio, commesse e investimenti». Il presidente americano Barack Obama in otto anni di presidenza «ha venduto a Riad, impegnata nella guerra in Yemen, circa 100 miliardi di dollari di armamenti e firmato un contratto per 38 miliardi con Israele».

La Siria è stata per decenni una sorta di «kombinat militare-mercantile sostenuto dall’Unione Sovietica» che ha consolidato una «classe di privilegiati favorendo i cristiani e le dinastie sunnite». Prima dell’ascesa del partito Ba’th, gli alauiti erano fermi al gradino sociale più basso, erano fellah, contadini, uomini di fatica. «Il colpo di stato di al-Asad li portò nelle accademie militari, negli apparati pubblici, in mezzo alla borghesia urbana» e così si sono presi «la rivincita su secoli di emarginazione».

Al-Baghdãdĩ ha sfruttato il caos saldando guerra siriana e irachena, ma le vere e profonde cause della rivolta sono state «la corruzione e le politiche discriminatorie di Bagdad», rivelatesi una «formidabile propaganda per l’Isis». Non a caso infatti i periodi di maggiore intolleranza dell’islam sono coincisi con quelli di povertà e arretratezza, inoltre una delle prime misure degli jihadisti è stata «la promozione di azioni emblematiche contro la corruzione».

Più che una versione «pura» dell’Islam «gli jihadisti forniscono un franchising», che in Europa dà «un’etichetta al malessere individuale e di gruppo» e «riempie il vuoto lasciato dalle ideologie del Novecento». La strategia dello Stato islamico consisterebbe per l’autore nel passare rapidamente da una logica di “etichettamento” di circostanza a quella di un’adesione reale a uno “Stato di diritto islamico”, «certo estraneo alle pratiche occidentali e al diritto internazionale, ma che si vuole comunque uno stato di diritto». Il solo bottino di guerra di Mosul, «stimato in 313 milioni di euro», conferisce allo Stato islamico una potenza finanziaria senza precedenti, eppure i paesi occidentali e gli stati arabi «continuano a considerarlo al pari di una semplice organizzazione terrorista».

Interpretazioni inspiegabili, al pari della reazione dei media occidentali dal 2014 in poi che hanno trattato lo Stato islamico come una sorta di «Ufo politico, un esercito di jihadisti spuntati non si sa dove che nessuno sembrava poter fermare».

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Lo scopo del libro, dichiarato nell’introduzione dallo stesso Luizard, è quello di spiegare il rapido successo dello Stato islamico e di capire come e perché le potenze occidentali sono cadute «nella trappola che è stata tesa loro coinvolgendole nella sua guerra».

Come è possibile che una coalizione talmente ampia da abbracciare «tutta la società civile del mondo intero» spiegata contro quello che viene indicato il “Pericolo Pubblico Numero Uno” non riesca ad avere la meglio su una realtà politico-militare che in fondo si è dimostrata abbastanza labile? Davvero bisogna credere che manchi o non si riesca a trovare un valido e comune disegno politico oppure «l’Isis è servita e continua a servire a qualcuno o a qualcosa?»

Gli arabi, o comunque i musulmani sunniti, sono i soli che dinanzi all’opinione pubblica islamica di tutto il mondo «hanno il diritto di schiacciare la mostruosità ideologica travestita da estremismo religioso». Non potrebbero mai farlo «né i crociati occidentali né gli eretici sciiti iraniani» senza trasformare, agli occhi «del proletariato e del sottoproletariato musulmano del mondo», gli adepti del califfo in altrettanti martiri della fede perché, come affermava Tertulliano, «il sangue dei martiri è seme di nuovi fedeli».

La trappola Daesh. Lo Stato islamico o la Storia che ritorna di Pierre-Jean Luizard è come una sorgente in piena per un disperso nel deserto, un libro necessario per sedare la “sete” di conoscenza su una delle vicende storiche e geopolitiche solo in apparenza tra le più discusse: la nascita del terrorismo estremista di matrice islamica e il ruolo giocato dall’Occidente.

Pierre-Jean Luizard: Storico e direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique (Cnrs). Ha vissuto per lunghi periodi in diversi paesi del Medio Oriente ed è membro del Gruppo di sociologia delle regioni e della laicità (Gsrl) a Parigi.

Source: Si ringrazia il contatto dell’Ufficio Stampa della Rosenberg&Sellier per la disponibilità e il materiale

 

 

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Il mondo parallelo delle guerre segrete in “Prigionieri dell’Islam” di Lilli Gruber

11 mercoledì Mag 2016

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Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

Prigionieri dell’Islam (Rizzoli, 2016) della giornalista Lilli Gruber è un libro ambizioso, che si propone di creare un po’ di ordine nel caos delle informazioni, che circolano in un Occidente in piena crisi, riguardo quanto sta accadendo nel mondo arabo «in pieno naufragio».

Un libro che accoglie in sé: la cronistoria degli attacchi terroristici all’Occidente, a partire dall’11 settembre 2001; un’analisi geopolitica della situazione occidentale, mediorientale, delle primavere arabe, dell’Iran, della Turchia, della Siria… il resoconto dettagliato delle esperienze dirette dell’autrice come inviata; la trascrizione delle interviste fatte come giornalista; riferimenti diretti alla trasmissione televisiva che conduce; episodi e riflessioni legati alla propria vita privata e sentimentale.

Un intreccio di informazioni e stili che a volte funziona altre meno. La struttura del testo è circolare, l’autrice ritorna spesso sullo stesso punto o argomento, arricchendo di volta in volta quanto detto di nuovi particolari oppure analizzando il tutto da un’angolazione diversa.

Il discorso che la Gruber vuole portare avanti in Prigionieri dell’Islam sembra chiaro fin dal principio: non si possono incolpare tutti i musulmani per quanto sta accadendo nel mondo arabo e in Occidente, dobbiamo riconoscere le responsabilità dello stesso Occidente. La situazione in oggetto è molto complessa, colpe ed errori vanno imputati a entrambe le parti in causa (Occidente e anti-Occidente) e naturalmente l’autrice non ha una soluzione ai problemi in corso né per quelli prospettati dal prosieguo o dalla degenerazione delle attuali circostanze.

Ma il vero limite di un libro come questo è l’ostinazione al voler definire una situazione globale analizzandola dal solo punto di vista occidentale. Ammettere in qualche modo le responsabilità delle grandi potenze ma fermarsi nell’esatto momento in cui ci si rende conto che un mondo diverso equivale anche a un Occidente diverso, alla rinuncia dei tanti, troppi, privilegi accaparratisi da chi il mondo lo ha sempre conquistato non solo abitato.

Nel Prologo di Prigionieri dell’Islam la Gruber racconta di aver assistito alla conversione di una giovane ragazza napoletana presso la comunità islamica di viale Jenner a Milano. «Non passa giorno senza che bussi alla porta un nuovo aspirante musulmano», le dicono.

Perché l’Islam attrae sempre più nuovi proseliti? Questo quanto si connette alla diffusione del terrorismo islamico?

Per l’autrice «nel caos di un mondo arabo in pieno naufragio e nelle incertezze di un Occidente in crisi, l’Isis rappresenta un’alternativa concreta».

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Nell’Introduzione al libro l’autrice si sofferma sul resoconto dettagliato di come gli eventi di Parigi del 13 novembre 2015 siano entrati con irruenza nel suo privato lasciando esterrefatti lei e il compagno, il quale proprio mentre gli attacchi avevano luogo era su un volo diretto a Roma e partito da Parigi.

Racconta di come tutto ciò l’abbia riportata indietro nel tempo, all’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 e a due giorni dopo l’accaduto, quando l’allora presidente degli Stati Uniti d’AmericaGeorge W. Bush «accende la fiaccola che darà fuoco al mondo: quella della “guerra al terrore”».

Viene da chiedersi se quindici anni di “guerra al terrore” non abbiano portato solo altra guerra e terrore.

La Gruber ipotizza, timidamente, che faccia tutto parte di una sorta di piano, organizzato e giostrato per il potere e il denaro. «Nulla è impossibile nel mondo parallelo delle guerre segrete» “combattute” tra governi e servizi di spionaggio, fatte di embarghi, destabilizzazioni, minacce dirette o indirette, palesi o latenti, infiltrazioni e corruzioni varie… In punta di piedi allude a come il potere decisionale, in fin dei conti, sia sempre e solo nelle mani delle grandi potenze e che a muovere i loro gesti non sia sempre il mero desiderio di proteggere i popoli.

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I limiti di queste “guerre segrete” si sono visti già nel marzo 2011, quando «le capitali occidentali sperano che Assad alzi bandiera bianca», come Ben Ali e Mubarak, ma «gli occidentali sono molto meno influenti in Siria che in Tunisia o in Egitto. L’esercito è corrotto, ovvio, ma l’infiltrazione da parte di potenze straniere è meno capillare che in altri Paesi arabi».

Le operazioni di ingerenza occidentale nel mondo arabo sembrano essersi rivelate dei fallimenti sia dove l’estirpazione del regime è riuscita, come in Tunisia ed Egitto, sia dove non è andata a buon fine, come in Siria. Allora il lettore si chiede il motivo per cui si portano avanti azioni e politiche già rivelatesi fallimentari oppure se nel “mondo parallelo” si sono registrate delle vittorie che non è dato a tutti conoscere.

Il mondo parallelo delle guerre segrete in "Prigionieri dell'Islam" di Lilli Gruber

In Prigionieri dell’Islam si legge che, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, gli Stati Uniti hanno intrapreso la guerra contro il terrorismo per annientare al-Qaeda ma anche «per trasformare il mondo musulmano al grido di “esportare la democrazia”».

Con quali risultati? A costo di sacrificare cosa?

In seguito all’uccisione di Osama Bin-Laden e allo smantellamento di gran parte delle cellule che componevano l’organizzazione tutto l’Occidente ha creduto, su input di capi di stato, di governo e organi di stampa, che il terrorismo di matrice islamica fosse stato sconfitto. L’Isis e non solo hanno dimostrato al mondo intero che non è così.

Per la Gruber dall’inizio di aprile 2016 i miliziani dell’Isis sono in difficoltà, le operazioni speciali americane stanno eliminando uno dopo l’altro tutti i capi e ciò lo si può interpretare come l’inizio della fine di questo “mostro” che ha preso il posto di al-Qaeda come nemico numero uno degli Occidentali. Ma c’è poco da esultare perché ci si deve aspettare che, da un momento all’altro, possa «resuscitare altrove e tornare a seminare paura.»

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La Gruber conclude il suo Prigionieri dell’Islam con l’esortazione alla disobbedienza, ma non quella di Gandhi bensì quella di Obama.

«Le dimostrazioni più evidenti della sua disobbedienza sono il riavvicinamento con l’Iran e il rifiuto di muovere guerra alla Siria».

Parla anche dell’umiltà di papa Francesco, dell’ultimo sermone del profeta Maometto nel quale invitava i suoi fedeli a trasmettere il proprio messaggio, di Gesù Cristo e del fatto che cacciasse i mercanti dal tempio, dell’ingresso di nuovi attori (Cina e Russia) pronti a dire la loro sugli squilibri del pianeta, ma soprattutto tiene a sottolineare che «il Medioriente, il Golfo e i loro tormenti non devono minacciare le relazioni tra i colossi del mondo globalizzato».

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Con le sue 352 pagine il libro di Lilli Gruber si presenta al lettore carico di informazioni, di nozioni, di citazioni… ma la situazione analizzata è talmente complessa che tanti sono i dubbi e gli interrogativi che restano.

Ci si chiede chi siano i veri prigionieri dell’Islam: gli arabi o gli occidentali? È l’Islam l’unico vero carceriere di cui aver paura? Che relazione c’è tra il terrorismo di matrice islamica e le “guerre segrete” combattute nel “mondo parallelo” di governi e servizi di spionaggio?

Per la Gruber terrorismo, Islam e immigrazioni «congiungendosi in un triangolo, formano una trappola mortale» che «cambia la nostra vita». Ma chi ha fatto scattare questa trappola? Se i tre vertici del triangolo sono una conseguenza dell’ingerenza occidentale nel mondo arabo non dovrebbe essere l’Occidente il primo a invertire la rotta?

La verità è che l’Occidente è “prigioniero” anche di sé stesso, come ricorda pure l’autrice parlando della disobbedienza del presidente degli Stati Uniti d’America: «Mi colpisce il fatto che l’uomo più potente del mondo abbia il coraggio di riconoscere che è lui stesso prigioniero delle convenzioni, dei preconcetti, dei diktat dell’ideologia».

La morsa che stringe l’Occidente e il mondo intero sembra essere alimentata quindi da molto altro oltre il terrorismo, le migrazioni e l’integrazione, ovvero i vertici del triangolo che per la Gruber ci rendono tutti “prigionieri dell’Islam”.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-mondo-parallelo-delle-guerre-segrete-in-prigionieri-dell-islam-di-lilli-gruber

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La storia di Sophie Kasiki, la donna fuggita dall’Isis

16 sabato Apr 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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La storia di Sophie Kasiki, la donna fuggita dall’Isis

Dans la nuit de Daech, uscito in Italia per Tre60 col titolo Fuggita dall’Isis nella versione tradotta da Elena Sacchini, è il libro confessione della seguace pentita Sophie Kasiki (per ovvie ragioni il nome è di fantasia), scritto a quattro mani con la scrittrice francese Pauline Guéna. Sophie nasce nel 1981 a Kinshasa, in Congo, dove trascorre quella che lei stessa definisce «un’infanzia perfetta» che ruota intorno al fulcro della sua vita, sua madre, la cui morte prematura crea nella ragazza uno scompenso emotivo da cui non si riprenderà se non dopo otto anni. Almeno questo è quello che crede.

È una bambina quando la madre muore, così Sophie è costretta a lasciare la sua casa, il suo mondo, per trasferirsi a Parigi con la sorella maggiore e il cognato. Per quasi dieci anni sopravvive chiusa in sé stessa finché l’arrivo delle nipotine, le gemelle figlie di sua sorella Alice, non la fanno sentire di nuovo “utile e amata” e lei crede di aver definitivamente chiuso «quella lunga parentesi di lutto». Si diploma, si innamora, si sposa, inizia a lavorare. Sophie s’illude, aiutando gli altri come faceva sua madre, che era un’infermiera, di poter ritrovare sé stessa, la propria genitrice e soprattutto la felicità.

Ma quel senso di frustrazione e insoddisfazione non sembra proprio volerla lasciare, neanche dopo la nascita di Hugo, suo figlio, e la conversione all’Islam, religione che ritiene più vicina al suo pragmatismo. Dopo un viaggio all’isola di Gorée, in Senegal, durante il quale visita la casa degli schiavi con «l’apertura sul muro affacciata sul mare da cui venivano deportati gli schiavi in catene», la sua situazione psichica precipita di nuovo, alimentata dalla rabbia e dalla volontà di smascherare le ingiustizie profonde. Sophie pensa che la vita che sta conducendo stia diventando troppo “borghese”, che il suo scopo sulla Terra debba essere molto più grande e determinante di quello che riesce a intravedere dal suo appartamento nella periferia parigina e non si accorge che a fomentare i suoi pensieri non è un desiderio di agire bensì di morire.

Il male di vivere che l’aveva pervasa per otto lunghi anni dopo la morte della madre si riaffaccia in forma meno acuta ma più incisiva. Per non soccombere alla depressione Sophie decide che deve cambiare la sua vita e per farlo ha bisogno di una motivazione forte, una causa che travalichi i confini piccolo-borghesi della società occidentale nella quale si ritrova a vivere. È pronta a sacrificare tutto, anche il suo matrimonio, ma non la maternità, e così decide di partire per la Siria e di portare con sé suo figlio di soli 4 anni. Sophie intraprende quello che ritiene sarà il suo cammino verso la salvezza e non si rende conto, o preferisce ignorarlo, di essere già diventata una vittima, l’ennesima pedina di un gioco, o meglio di un giogo molto più grande di lei e del suo malessere.

«Quello che scopro mi sconvolge e mi fa star male. Non sono venuta qui per giocare ancora una volta alla colonizzazione, men che meno nei panni del colono».

Le basterà girare per le strade di una Raqqa blindata per rendersi conto di essere rimasta vittima di un inganno. Sbaglierà ancora nel ritenerne artefici Idriss, Mohammed e Souleymane, i ragazzi conosciuti al centro ricreativo dove lavorava come educatrice. Anche loro sono vittime del medesimo “efficientissimo sistema di propaganda” che ha risucchiato lei.

«Ogni giorno che passa cresce in me l’odio per questi stranieri che si credono tanto superiori. È l’esercito del Terzo Reich a Parigi, sono i coloni in Congo, i bianchi nelle terre degli indiani d’America».

Gli stranieri di cui parla sono i nuovi arrivati in Siria, come lei. Sono Idriss, Mohammed e Souleymane. Sono i combattenti, i mujaheddin, giunti da ogni parte del mondo per arruolarsi tra le fila dell’esercito dello Stato Islamico, piantonare la città di Raqqa, far rispettare la legge islamica, portare a compimento lo jihad.

La storia di Sophie Kasiki, la donna fuggita dall’Isis

Leggendo Fuggita dall’Isis si prova un certo sgomento, una sorta di ostinata incredulità che rende difficoltoso credere che tutto ciò che viene narrato sia vero. Che sia realmente accaduto. Non perché si mettono in dubbio le parole della Kasiki bensì perché farlo equivale ad ammettere che tutto quello che ascoltiamo in televisione, leggiamo sui giornali, commentiamo sui social network potrebbe irrompere nelle nostre vite in qualsiasi momento e stravolgerle. Sarebbe troppo semplicistico liquidare la storia di Sophie Kasiki come un qualcosa che non ci appartiene, perché frutto di scelte che noi non faremo mai. Con molta probabilità anche lei lo pensa. Altrettanto riduttivo sarebbe attribuire il tutto al fatto che lei si sia convertita all’Islamismo. Lei stessa ammette che la religione, in tutta la vicenda che l’ha vista protagonista e vittima, riveste un ruolo marginale. Nel caso di Sophie una componente determinante è stata la malattia, la depressione, ma non è sempre così. Viene naturale chiedersi qual è la molla che fa scattare gli altri numerosi giovani che dai centri e dalle periferie, dai paesi e dalle città di mezzo mondo decidono di partire per raggiungere lo Stato Islamico.

«La frattura che ho dentro è sempre lì, la sento, la vedo. L’ho esplorata a fondo, come non avevo mai fatto, e adesso so che non si rimarginerà. Oggi mi auguro soltanto di conoscerla abbastanza bene da non permettere a una religione, a una ideologia o anche a una persona di insinuarvisi e manipolarmi».

Fuggita dall’Isis è un libro che racconta una storia intensa, che accompagna il lettore in profonde riflessioni sulla vita che conducono gli abitanti del continente africano, di quello europeo e di coloro che vivono sospesi, come in bilico tra i due mondi. Storie, piccoli gesti di grande umanità che si ritrovano in luoghi e volti sconosciuti mentre si perdono in ciò e in coloro che riteniamo “famigliare”. Nel corso della sua incredibile avventura Sophie si ritroverà a incontrare sconosciuti disposti a rischiare la vita pur di aiutare lei e Hugo a ritrovare la libertà e far ritorno da suo marito Julien; lui che, assalito dalla stanchezza di doversi occupare del lavoro e del figlio, ha lasciato che lei gli mentisse, ha lasciato che partisse con Hugo per la Turchia e lo ha fatto senza neanche chiederle dove andasse e perché.

Errori, distrazioni, malesseri di una vita trascorsa a correre per andare al lavoro, lottare per far quadrare i conti, combattere per non sentirsi sopraffatti dalle responsabilità. Una vita dove il “benessere” si rivela sempre più spesso una tortura, una condanna, una corsa in tondo che non porta da nessuna parte… e così mentre Sophie parte in cerca di risposte, Julien resta eppure entrambi commettono lo stesso errore: si lasciano condizionare mentendo a sé stessi. Non si capirà perché il terrorismo islamico avanza, né perché dall’Occidente, che se ne dichiara nemico, partono centinaia di giovani che scelgono il rigore della legge islamica al liberismo tout court della democrazia ma Fuggita dall’Isis di Sophie Kasiki è di sicuro un libro interessante, che invita alla riflessione su tanti aspetti della contemporaneità.

http://www.sulromanzo.it/blog/la-storia-di-sophie-kasiki-la-donna-fuggita-dall-isis

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