Il bosco e il suo respiro hanno un posto significativo nell’esistenza umana. L’uomo si è allontanato dalla natura per necessità ma, per Fratus, essa non ci ha mai abbandonati.
La dottrina del bosco è antica quanto la storia dell’uomo. Nell’immaginario comune, ai diversi livelli della formazione culturale e della competenza letteraria, attorno all’immagine del bosco si coagula una serie di connotati e suggestioni tutto sommato simili e comuni, che spaziano fra un’idea positiva, quella di contesto rigoglioso, brulicante di vita e incontaminato, gradevole e riposante, e un’idea negativa, di luogo oscuro e misterioso, di entità impenetrabile, inquietante, ostile (Manzo, 2013). Alberodonti di Tiziano Fratus è un viaggio di conoscenza, dei grandi alberi d’Italia certo, ma soprattutto del legame che unisce uomo e albero. Nella tradizione giudaico-cristiana gli alberi sono una rappresentazione dello spirito, nel paradiso terrestre infatti vi era l’albero della vita, fonte della conoscenza universale e della vita eterna. Ci si chiede allora se, allontanandosi dalla natura, l’uomo scelga di rinunciare, in qualche modo, alla conoscenza. Ma per Fratus l’uomo non si è mai davvero allontanato da essa e la natura, dal canto suo, non l’hai mai del tutto abbandonato.
«L’uomo si è allontanato dalla natura per necessità, ha affrontato un percorso di liberazione e di protezione di sé e dei propri cari elevandosi dalla condizione di uomo cacciatore e raccoglitore, diventando capace di conoscere, di elaborare una tecnica e di edificare intere città. Ma questa natura non l’ha del tutto respinta, capisce bene di farne parte, di essere parte di questo disegno. Certo correggere la corsa sfrenata di otto miliardi e mezzo di persone che cercano la sicurezza economica, così come abbiamo imparato a pensarla, a desiderarla, a comporla, non è facile, e oggi siamo di fronte a questa grande sfida. Ma la natura non ci ha abbandonati, ci nutre, ci sfama, ci alimenta, ci rinnova…»
Nella filosofia jüngeriana il bosco è il luogo metafisico di raccoglimento del ribelle, il quale si dissocia dalla società e le sfugge scegliendo appunto di “passare al bosco”, bosco che diventa dimora dell’essere nella quale l’io torna a vincere sulla massa, su un noi collettivo sempre più impersonale e spersonalizzante. La grande esperienza del bosco, sostiene Jünger, è l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Porta verso quello stato sul quale poggia l’intera vita sociale e che fin dalle origini è sotteso a ogni comunità (Trattato del ribelle, Adelphi, 1990).
Fratus non sa se, nel corso della sua esistenza, abbia incontrato più persone o più alberi. Di sicuro c’è qualcosa che continua a sfuggire alla presa platonica delle parole e che lo commuove quando incontra un albero dall’aspetto vissuto. Sembra che il suo relazionarsi con gli alberi non solo vinca sulla massa ma anche sugli altri, singolarmente presi. Eppure egualmente ci si chiede se il suo “passare al bosco” davvero lo isoli dalla massa oppure, in ultima analisi, gli consenta di vivere meglio anche la comunità di appartenenza.
«Il mio approccio al bosco è stato innanzitutto autobiografico, nasce da bambino, quando mio padre mi ci portava, e da giovane uomo, quando i legami radicali con la mia famiglia si sono recisi e allora gli alberi, i boschi, al contrario delle persone, mi hanno accolto. Mi hanno dato la fiducia che non trovavo nel cuore complesso delle persone. Poi, sono tornato tra gli umani ma, quando cerco conforto ristoro energia, quando cerco di guarire le mie contraddizioni, è al bosco che vado. Non per ribellarmi, bensì per crescere. Per “farmi silenzio”, come dicono i patriarchi del buddismo che cerco, nei miei sbandamenti, di seguire, di praticare. La guerra prima bisogna sanarla dentro di sé, poi semmai fuori. Chi si porta dentro la guerra, prima o poi la fa. Non c’è scampo a questa antica regola del vivente.»
La “guerra”, ovvero il buio dell’esistenza umana. Il bosco è l’idea forza, nel senso soreliano del termine, è lo spazio dal quale l’uomo può sperare non solo di condurre la lotta, ma anche di vincere. Il bosco è segreto. Ma, allo stesso tempo, anche clandestino inquietante perturbante. In questa accezione di significato risuona l’eco della grande antitesi e dell’equazione ancora più grande di vita e morte, alla cui soluzione si dedicano i misteri. In questa luce il bosco è la grande casa della morte, la sede del pericolo di annientamento. Il viaggiatore nel bosco muore e risorge simbolicamente. A un passo dall’annientamento c’è il trionfo. Chi ha inteso questo, sa rialzarsi al di sopra della violenza temporale. L’uomo impara che questa violenza non ha alcun potere su di lui (Manzo, 2013). E questo è ciò che sembra accadere all’io di Fratus allorquando raggiunge il bosco per ritrovare il suo equilibrio e allontanare il male, il dolore e la sofferenza, che insieme albergano nel complesso cuore umano.
L’animo umano ha bisogno di spazio. Lo spazio che solo la natura può offrire. Nella sua esperienza di vita tra i boschi, Thoreau tenta di uscire da un proprio senso di solitudine che gli schemi di pensiero e la società hanno generato. Estraniandosi dal contesto sociale egli tende a valorizzare la dimensione interna, calandosi in una solitudine particolare. Una massiccia esposizione al “selvatico” riesce a rieducare l’individuo e a riportarlo in grado di sentire la vita (Thoreau, 1845). L’esperienza di vita tra i boschi, a pieno contatto con la natura, lo porta a vivere una “solitudine gioiosa”, fatta di contemplazione estatica della natura, di lunghi periodi di tempo dedicati alla meditazione distaccata e serena, che gli hanno permesso di lasciarsi invadere dalla pace interiore. Per Fratus, di fatto, stiamo già vivendo e osservando i frutti culturali di quello che è stato definito l’umanesimo elvetico, poi indicato come silvestre e additato dall’autore stesso come “terrestre” addirittura. Intriso di spiritualità religiosa, di riferimenti al francescanesimo delle origini, al buddismo zen e alle pratiche d’immersione o bagno di foresta, nonché alla nuova consapevolezza scientifica. Ma come descrive Fratus l’esperienza di solitudine nei boschi?
«Molti di noi, un secolo e mezzo dopo, rivivono le esperienze che Thoreau tentava e vivificava ai suoi tempi, abbandonando di tanto in tanto il consorzio civile e i mille obblighi della nostra quotidianità arruffata, talora sembrerebbe più per arricchire il nostro profilo social che non per vivere a fondo la condizione contemplativa che i boschi e le foreste favoriscono, ma diciamo anche per meditare, per isolare e isolarci, per irrobustire le proprie radici, per ritrovare la solitudine gioiosa, sempre che non ci si trovi di fronte a qualche pericolo, il che resta uno degli ingredienti dell’avventura composita che ogni natura selvatica e talora selvaggia ci offre là fuori.»
Ferrarotti (Atman. Il respiro del bosco, Empiria, 2012) si chiede se mai l’uomo della società industriale saprà mettersi in dialogo con la natura e il paesaggio ma Fratus ha un’idea diversa del rapporto che lega l’uomo all’albero, al paesaggio, alla natura.
«In ogni tempo ci sono stati e ci sono uomini e donne che hanno saputo dialogare con la natura e col paesaggio. Certo, esistono enormi contraddizioni, ma sembra anche che possiamo imparare e poco alla volta a migliorare.»
Il libro
Tiziano Fratus, Alberodonti d’Italia. Cento capolavori della natura, Gribaudo – IF – Idee editoriali Feltrinelli, Colognola ai Colli (VR), 2024.
Articolo pubblicato sul numero di giugno 2024 della Rivista cartacea Leggere:Tutti
Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa di Gribaudo – IF e l’autore per la disponibilità e il materiale.
Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com
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