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Irma Loredana Galgano

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Scuola dell’Infanzia violata da maltrattamenti e abusi. Come fermare tanta rabbia?

22 giovedì Mar 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, paura, RinnovamentoCulturaleItaliano, violenza

Dalla onlus La via dei colori, fondata e presieduta da Ilaria Maggi, avvertono di usare con cautela termini come maltrattamenti e abusi, almeno fin quando non si hanno prove certe di quanto può rivelarsi solo un’apprensione esagerata o un fraintendimento. Esistono dei campanelli d’allarme, sintomi specifici che connotano in maniera pressoché inequivocabile una situazione d’abuso. Questi campanelli però sembra che li ascoltino troppi genitori.

Dal dicembre 2010 al marzo 2017, La via dei colori ha preso in carico circa 95 processi per reati di maltrattamento (572 cp), abuso dei mezzi di correzione (571), abuso sessuale e pedofilia. 95 processi, non segnalazioni o denunce. Sul sito ministeriale si legge che, per quanto riguarda la scuola dell’infanzia, è previsto un numero minimo di 18 e uno massimo di 26 bambini per classe. Considerando una semplice media ponderale di 22 bambini se ne deduce che nei 95 processi seguiti dalla onlus sono coinvolti, a vario titolo, almeno 2090 alunni. La via dei colori non è l’unica associazione che si occupa di questo e i tribunali in Italia sono tantissimi… Si arriva così a cifre spaventosamente alte da indurre immediatamente a chiedersi cosa in concreto è stato fatto per prevenire ulteriori aggressioni e maltrattamenti, denunce e processi.

Sembra impossibile reperire, forse perché non esiste, un dossier, un report ufficiale, un’indagine conoscitiva istituzionale sulla situazione scolastica italiana, o meglio sulle qualifiche degli insegnanti, sulle procedure di valutazione, se ce ne sono, e sui dati relativi ai maltrattamenti e agli abusi ma soprattutto sulle conseguenze a lungo termine. Sulle innocenti vittime certo ma anche su chi le ha generate. Che fine fanno questi insegnanti?

I casi balzati alla cronaca che hanno destato maggiore clamore sono stati sovente accompagnati da spezzoni di video delle riprese effettuate dalle telecamere nascoste posizionate dalle forze dell’ordine. Immagini che colpiscono soprattutto per le urla, tante urla da parte delle o degli insegnanti. I locali di quelle scuole hanno l’isolamento acustico? Difficile a credersi. Come arduo è pensare che nessuno sentisse. Non si denuncia per omertà o perché lo si considera un atteggiamento educativo normale? In entrambi i casi si parla di situazione terrificante inammissibile e inaccettabile.

In un’intervista rilasciata per ilfattoquotidiano.it, la Maggi parla di circa 13 segnalazioni al giorno ricevute al numero verde dell’associazione. Non sempre si tratta di reati già commessi certo ma nel corso della loro attività hanno scoperto di «insegnanti che li tengono legati, che fanno mangiare loro il cibo vomitato e che usano percosse non solo con le mani. Le vessazioni sono all’ordine del giorno».

Più di una volta è capitato che i dirigenti dell’istituto coinvolto hanno provato a giustificarsi adducendo di non sapere, di non essere a conoscenza e di non essersi mai resi conto… scusanti che, in ogni caso, non li esimono dalla responsabilità legale e, soprattutto, morale di quanto accaduto. La legge italiana non ammette ignoranza, neanche noncuranza e mai come in questi casi così deve essere.

Violenze non solo fisiche ma anche psicologiche sono state documentate in diversi asili nido, con «urla sistematiche e cibo spesso raccolto da terra e imboccato a forza erano purtroppo la norma per una ventina di spaventatissimi bambini, troppo piccoli per reagire o solo per parlare con i genitori». Agghiacciante il resoconto che rovigooggi.it fa di quanto accaduto nell’asilo dove l’intero corpo docente, composto da tre maestre, è risultato coinvolto. Violenze fisiche e psicologiche protratte su bambini di età compresa tra uno e tre anni.

Sembra che oltre al danno ci si diverta quasi ad aggiungere anche la beffa allorquando si tenta di giustificare i comportamenti ritenuti “meno gravi” come reminiscenza di una formazione e, conseguentemente, di un’educazione all’antica. Il fatto è che non conta se e quando era in vigore o di uso comune una simile tipologia di educazione, in famiglia o a scuola, il punto è che nel Terzo Millennio è assolutamente inaccettabile anche solo credere di poter giustificare una tal simile mancanza di correttezza e professionalità in educatori ed educatrici che sono, in un certo senso, figure istituzionali perché si occupano, o dovrebbero farlo, dell’educazione di coloro che saranno i cittadini futuro dello Stato, che direttamente o indirettamente, tra l’altro, garantisce loro il posto di lavoro e il salario.

Lavorare a stretto contatto con i minori di anni sei richiede una preparazione e delle conoscenze che non riguardano solo la sfera della didattica, abbracciando invece campi che vanno dalla psicologia alla medicina in senso stretto. Gli operatori de La via dei colori sottolineano l’importanza di conoscere aspetti e caratteristiche del funzionamento del corpo umano anche per evitare di causare danni involontari ma che potrebbero egualmente essere gravi e irreversibili per i piccoli alunni.

Shaken Baby Syndrome, ovvero la ‘sindrome da bambino scosso‘ può essere una terribile conseguenza di un gesto che in pochi sanno o ritengono essere potenzialmente molto pericoloso. Il cervello dei neonati e dei bambini molto piccoli è ancora immaturo e lo scuotimento con brusche accelerazioni e decelerazioni del capo causa o può causare lesioni di tipo meccanico all’encefalo.

Il 21 novembre 2013 La via dei colori ha lanciato, a tal proposito, l’iniziativa #iostoconMattia per sensibilizzare genitori e insegnanti «sulla Shaken Baby Syndrome che ha ucciso il piccolo Mattia» e anche per fare in modo che la triste vicenda di Mattia Pierinelli, per troppo tempo passata in sordina, continui a essere raccontata sia come riscatto che come monito a non sbagliare più.

Negli Stati Uniti 30 bambini ogni 100mila nati l’anno subiscono gravi danni a causa della ‘sindrome da bambino scosso’. In Italia mancano dati ufficiali ma «tutte le strutture ospedaliere più avanzate per la diagnosi precoce del maltrattamento sui bambini ci confermano la necessità di avviare un’ampia azione informativa per la prevenzione». A dirlo è Federica Giannotta, responsabile Advocacy e Programmi Italia di Terre des Hommes, che ha lanciato la prima campagna di sensibilizzazione su questa sindrome, “Non scuoterlo!”, con uno spot tv e un sito informativo dedicato.

La scusante più frequente al comportamento aggressivo degli insegnati è la diseducazione o mala-educazione dei bambini che assumerebbero atteggiamenti ingestibili, emulati anche dai soggetti più remissivi, generando il caos in classe. Sottolineando che bisogna anche tenere presente le condizioni precarie e oggettivamente difficili nelle quali sono costretti a operare i docenti. E la soluzione che avrebbero trovato è aggredire i bambini? Viene da sé che questo ragionamento, portato avanti da chi vuol difendere l’indifendibile, non convince neanche un po’. Se ci sono dei bambini con deficit comportamentali non è aggredendoli che la situazione migliora. Se ci sono carenze strutturali e di organico sul posto di lavoro non è aggredendo i piccoli ospiti della struttura che si migliorano le cose.

Si dice che la violenza è lo strumento preferito di chi non ha a disposizione altri strumenti. E gli insegnanti di strumenti e metodi dovrebbero averne molti altri e differenti. Soprattutto con i bambini piccoli, piccolissimi e in età da asilo nido.

L’ordinamento giuridico italiano pone tra i diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo il pieno sviluppo della persona umana. L’articolo 13 della Costituzione sancisce che “la libertà personale è inviolabile”. La Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nell’articolo 2 consacra espressamente “il diritto alla vita”. Quando si parla di persona o di uomo bisogna leggere ogni cittadino di qualunque sesso o età anagrafica. Maltrattare verbalmente, psicologicamente e/o fisicamente un bambino è una grave violazione della sua libertà, della sua persona e dei suoi diritti umani.

Nel pieno di un dibattito pubblico e mediatico sulla sicurezza dei bambini dietro le porte chiuse delle aule, la segreteria nazionale della Federazione Italiana Scuole Materne (FISM) diffonde una nota nella quale, pur dichiarando di comprendere le preoccupazioni dei genitori, ritiene che «la richiesta di introdurre negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia sistemi di videosorveglianza allo scopo di prevenire comportamenti di violenza e maltrattamenti sui bambini da un lato non risolverebbe la preoccupazione, dall’altro darebbe origine ad altre questioni di non poco conto». La telecamera «disincentiva, quando non sostituisce, il dialogo, l’ascolto, la relazione indispensabili tra scuola e famiglia». Non sarebbe quindi necessario l’uso di questo strumento per ‘controllare’ «come gli insegnanti impostano e realizzano il lavoro educativo». Molto meglio sarebbe, a parer loro, il confronto, il dialogo, la parola… I genitori «devono essere aiutati a imparare a partecipare alla vita della scuola», perché «devono essere aiutati a imparare a ‘vedere’, leggere, capire, direttamente nei/dai loro figli la presenza di eventuali problemi e non guardare la loro esperienza di vita scolastica attraverso una telecamera».

Il punto è che proprio attraverso la ‘lettura’ del comportamento dei propri figli i tanti genitori che hanno denunciato si sono accorti di quanto in realtà accadeva a scuola. Dopo che era accaduto. Invece di insistere tanto sul voler aiutare i genitori a ‘vedere’ i segnali di pericolo perché non si tenta di studiare un modo per prevenire i danni? Si può anche convenire che l’uso delle telecamere non sia la migliore delle soluzioni ma almeno si focalizzi sulla prevenzione, perché un bimbo maltrattato non è un danno collaterale ma il nocciolo della questione.

Una posizione che ricalca quella del garante della privacy espressosi in merito alla legge 2574 (Prevenzione abusi in asili e case di cura) ma che, forse, la minimizza troppo. Per Antonello Soro infatti non bisogna «inseguire le scorciatoie tecnologiche come esclusiva risposta ai problemi complessi» ma è importante sottolineare come «anche uno solo di questi episodi costituisce motivo di apprensione e di grave allarme sociale». Dovrebbe. Invece si rabbrividisce a leggere la voce pressoché univoca di coloro che operano a vario titolo nel comparto scolastico e che, pressoché all’unisono, definiscono il sistema scolastico nazionale un ambiente “sano” e un’istituzione che funziona “bene”, certo l’esistenza di mele marce, anche alla luce dei processi e delle sentenze giudiziarie, non può essere negata ma di casi isolati vogliono si tratti.

La realtà e l’onestà intellettuale invece vorrebbero che a fronte di maltrattamenti visti, sentiti e taciuti ognuno di questi operatori si passasse una mano sulla coscienza. Perché l’omertà difronte a un reato, anche laddove non è punibile legalmente, lo è per certo moralmente.

«La tecnica non potrà mai sostituire “l’uomo”, nessuna telecamera potrà mai sopperire a carenze insite nella scelta e nella formazione del personale deputato all’educazione e all’assistenza di soggetti particolarmente vulnerabili». Necessario quindi seguire le indicazioni del «disegno di legge approvato» volte a «introdurre sistemi di controlli più articolati ed efficaci che coinvolgano attivamente il personale tutto e, se del caso, le famiglie stesse».

Nel ddl 2574 infatti si parla di accurati metodi di valutazione dei requisiti all’atto dell’assunzione e di successivi e continuati processi formativi e di aggiornamento. Sostegno e ricollocamento per chi risulta non idoneo. Persiste il solito intoppo che dalle modifiche apportate «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica» che stride notevolmente quando si parla di strutture pubbliche, statali o comunali. Nel testo ci si sofferma poi sull’utilizzo e sui modi di impiego delle telecamere di sorveglianza e sugli oneri finanziari, null’altro su requisiti, formazione e aggiornamento degli operatori.

Il quadro che emerge dall’osservazione di questo grave allarme sociale dipinge i tratti a tinte forti di una formazione (quella degli operatori) che cerca di fare il più possibile quadrato per difendere la categoria e anche il posto di lavoro, che si indispone e assume un atteggiamento ostile per ogni critica o accusa, continuando ad accumulare in questo modo rabbia e frustrazione. Per contro c’è la ressa dei genitori, intimoriti e spaventati, impossibilitati a ottenere garanzie certe e vessati dalla necessità di affidare i propri figli a queste strutture, diversamente non avrebbero a chi affidarli durante quelle ore. Anche in loro questa situazione genera rabbia e frustrazione. Quasi marginale appare la figura di questi piccoli che sembrano non avere voce e non solo perché per molti di loro è prematuro anche il solo saper parlare.

Lo Stress Lavoro Correlato è «la percezione di squilibrio avvertita dal lavoratore quando le richieste del contenuto, dell’organizzazione e dell’ambiente di lavoro, eccedono le capacità individuali per fronteggiare tali richieste», secondo la definizione datane dalla European Agency for Safety and Health at Work (EU-OSHA). Le categorie professionali più interessate dallo Stress Lavoro Correlato sono:
Medici
Infermieri
Poliziotti
Assistenti Sociali
Insegnanti
Autotrasportatori

Lasciando da parte un attimo le professioni sanitarie, immaginiamo che dei poliziotti sfoghino tutto l’eccesso di rabbia accumulata e il senso di frustrazione su vittime, a caso, inermi. Tipo quanto accaduto alla scuola Diaz dopo il G8 di Genova. Oppure che un autotrasportatore dia di matto e sfoghi tutto lo stress accumulato verso ignari automobilisti che, per caso, lo incontrano lungo le strade percorse. Anche i bambini che subiscono maltrattamenti sono vittime casuali. Visionando gli spezzoni di video delle riprese delle camere posizionate dalle forze dell’ordine si può osservare che si tratta, semplicemente, di bambini, con i loro atteggiamenti e le loro peculiarità. Niente di più e niente di meno.

Il voler cercare a tutti i costi di ridimensionare quanto sta accadendo, considerando gli eventi come esempi isolati e non come un grave allarme sociale rischia di ingigantire il problema piuttosto che arginarlo. Poi succede che i genitori, esasperati, cercano di farsi giustizia da soli, cercano la vendetta e per trovarla usano a loro volta la violenza.

Ilaria Maggi de La via dei colori, lei stessa genitore di un bambino maltrattato a scuola, lancia un accorato appello affinché episodi del genere non si verifichino più: «non solo corriamo il rischio di inficiare il processo, che è la giusta sede per punire i maltrattamenti, ma incorriamo nel grave errore di non dare il buon esempio. I nostri bambini hanno già conosciuto la violenza e meritano da noi un esempio diverso». Eguali parole sarebbe stato utile ascoltare o leggere da tutti quegli operatori che si ritengono la parte buona del ben funzionante sistema scolastico nazionale e sarebbe stata già una ottima base di partenza per contrastare il fenomeno. Il persistente tentativo diffuso di minimizzare, di negare, di distrarre oltre a confermare una carenza o una mancanza addirittura di professionalità, non fa altro che alimentare il fuoco della rabbia e della frustrazione, di entrambe le posizioni.


Articolo originale qui


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G8, scuola Diaz e Bolzaneto: Il tempo trasforma la colpa in merito?

13 sabato Gen 2018

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

Nel novembre del 2015 nuove condanne furono inflitte agli agenti di polizia e funzionari che non impedirono le violenze alla scuola Diaz nel luglio 2001, allorquando si svolse il G8 a Genova. Il risarcimento richiesto ammontava a 350mila euro ma il giudice della Corte dei Conti lo ha ridimensionato accogliendo la tesi secondo cui non essendo stati identificati tutti i responsabili del pestaggio non si poteva accollare l’intero importo esclusivamente agli indagati. Il Tribunale di Genova ha così condannato i responsabili al pagamento di 110mila euro, a titolo di risarcimento morale e materiale per le violenze subite dal giornalista Mark William Covell.

«Arrivato al primo piano dell’istituto, ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese, stavano infierendo su manifestanti inermi a terra. Sembrava una macelleria messicana. Sono rimasto terrorizzato e basito quando ho visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo addirittura che stesse morendo. Fu a quel punto che gridai: “basta basta” e cacciai via i poliziotti che picchiavano.»

A raccontarlo ai pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Albini Cardona è il vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma Michelangelo Fournier, uno dei 28 poliziotti imputati per la vicenda, nella nuova versione illustrata agli inquirenti nel 2007, molto diversa da quella fornita inizialmente.

«Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza»

Uno spirito di appartenenza che in altri contesti non si fatica a indicare come omertà. Non si può a questo punto non porsi la domanda che in tanti urlano da quasi venti anni: cosa è successo veramente alla scuola Diaz, alla caserma di Bolzaneto e durante i giorni del G8 di Genova?

“Sembrava una macelleria messicana”, dice Fournier. Macelleria messicana è una situazione in cui si verificano atti di estrema violenza e crudeltà. Perché a Genova si sono verificati?

Il G8 è un annuale incontro tra i capi di stato e di governo delle maggiori democrazie mondiali. Il summit del 2001 si è tenuto nella città di Genova tra il 20 e il 22 luglio. I punti discussi all’ordine del giorno sono molteplici e spaziano dal commercio internazionale alla fame nel mondo, dai problemi legati all’ambiente alle innovazioni tecnologiche, dai cambiamenti climatici alle malattie, dalla finanza alla pace nel mondo. Gli incontri tra i grandi della Terra sono blindati, come i luoghi in cui si svolgono e ciò che viene fatto trapelare sono le dichiarazioni ufficiali dei diretti interessati, o chi per essi, in conferenza stampa e l’idea che il tutto possa quasi essere una costosissima reunion di pranzi ed eventi che forse potrebbe anche essere evitata visto che se i partecipanti sono concordi sul da farsi potrebbero comunicarselo in mille altri modi e se non lo sono non è detto che lo diventino proprio in quei giorni.

Le iniziative contro il G8 sembrano essere tutte motivate dalla convinzione che un altro mondo è possibile. Un mondo votato verso il commercio equo e solidale, la finanza etica, l’annullamento del debito dei paesi poveri, le produzioni biologiche, pregno di azioni concrete contro le guerre. Con limiti e restrizioni al commercio delle armi. Un mondo con uno sviluppato senso critico, sociale e solidale. Un mondo pulito. Le numerose sigle e associazioni che protestavano contro il G8 a Genova si erano riunite in un comitato chiamato Genova Social Forum, il cui portavoce fu nominato Vittorio Agnoletto, medico milanese fondatore della Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids (LILA).

In un’intervista rilasciata a oltremedianews, Agnoletto ha dichiarato che, a parer suo, l’aspetto più scioccante sul piano politico è stato l’assalto alla scuola Diaz perché «quell’evento ha reso evidente che, da parte delle istituzioni dello Stato e dei suoi rappresentanti, non c’era assolutamente più nessun rispetto della legge, delle regole e della legalità e che i rappresentanti dello Stato stavano agendo unicamente in base alla logica del più forte e stavano manipolando completamente la realtà, costruendo, come si è potuto vedere successivamente, una versione del tutto falsa di quello che stava accadendo».

Ma perché la polizia irrompe nella scuola Diaz? Ufficialmente è alla ricerca dei black bloc, i manifestanti del blocco nero indicati come i responsabili dei disordini durante le manifestazioni e degli atti di vandalismo alla città. Ma questi black bloc alla Diaz non c’erano.

Agnoletto, nel corso dell’intervista, ci tiene a precisare però che il fatto più grave accaduto a Genova durante il G8 è stato l’uccisione di Carlo Giuliani: «Una vita umana che non potrà mai essere restituita è un valore incomparabile rispetto a qualunque altro evento».

Carlo Giuliani, giovane manifestante no-global muore in piazza Alimonda per il proiettile sparato dall’arma di ordinanza del carabiniere Mario Placanica, indagato per omicidio e prosciolto per legittima difesa e uso legittimo delle armi. Giuliani minacciava di colpire l’auto dentro cui stazionavano Placanica e colleghi con un estintore. Placanica gli ha sparato in testa. In tanti si saranno chiesti in tutti questi anni quale effetto avrebbe sortito un colpo sparato in aria contro un gruppo di manifestanti che, nella concitazione del momento, provavano ad assalire e assaltare i nemici di quel momento con armi di fortuna. Ma c’è anche un’altra domanda da porsi: perché la polizia, il cui compito sarebbe quello di proteggere i cittadini, aveva incarnato fin da subito le sembianze del ‘nemico‘, ovvero lo Stato e i suoi rappresentanti che se ne stavano blindati nella zona rossa? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è già in essa contenuta.

Agli occhi dei manifestanti, come per i membri del blocco nero e degli ultras, i celerini, ovvero i poliziotti della squadra mobile, la cosiddetta celere, sono l’incarnazione dello Stato e dei suoi rappresentanti, o meglio ne sono i servi, diventando di fatto il nemico da ‘combattere’. Quello vero, diciamo così, è inarrivabile, barricato, e così l’interesse si concentra sul suo surrogato oppure, come nel caso degli ultras, sui ‘nemici’ della tifoseria avversaria. Ma questi poliziotti, i celerini, come vedono i loro ‘nemici’ sul campo e come i rappresentanti dello Stato?

I poliziotti del reparto mobile sono addestrati per garantire l’ordine e devono restare impassibili agli sputi, agli insulti, alle minacce, al lancio di oggetti… almeno fino a quando il loro comandante non dà il via alla carica, ovvero alla “occupazione del territorio” e allora partono i lacrimogeni e, quando non bastano, vengono sfoderati gli sfollagente, usati fino a quando il funzionario non dice “basta!”. Vengono offensivamente indicati come servi. Sono in realtà servitori dello Stato, il medesimo che, attraverso altri funzionari e altri servitori, manda, per fare un esempio, indirizzate direttamente a loro le lettere di sfratto, coatta esecuzione della volontà statale che tante volte hanno avuto il compito di supportare e coordinare. Sono servitori addestrati a mostrare il muso duro verso protestanti, manifestanti, sfrattati e tifosi ma che devono remissivamente sottostare agli ordini dei diretti superiori, chiunque essi siano e qualsiasi decisione prendano. Costretti a difendersi in aula quando perdono le staffe e a vedere, inermi, i funzionari giudiziariamente illesi per decisioni sbagliate che hanno portato, magari, conseguenze disastrose. La domanda da porsi non è relativa alla presenza o meno di rabbia e frustrazione, ma semplicemente quando e verso chi verrà incanalata.

L‘Italia, per i fatti accaduti alla scuola Diaz di Genova e alla caserma di Bolzaneto è stata condannata prima perché si trattava di tortura e poi perché ritardava l’adeguamento delle leggi. E ciò è di una tale gravità da far rabbrividire. Non si sta parlando di raptus, di errore strategico, di impulsività… no, si parla di tortura. Qualsiasi forma di coercizione fisica o mentale non inferta allo scopo di ottenere una confessione o informazioni va intesa come violenza, sevizia, crudeltà fine a se stessa dettata solo dalla brutalità. Azioni che, per essere poste in essere, necessitano di un addestramento, di sangue freddo e anche di un certo macabro auto-controllo derivante da una formazione militare o paramilitare oppure da devianze psichiatriche.

Vincenzo Canterini, all’epoca dei fatti comandante del Primo reparto mobile romano, nel quale era inquadrato il VII Nucleo Sperimentale antisommossa guidato da Michelangelo Fournier che irruppe nella scuola Diaz, nel libro Diaz, scritto con Simone Di Meo e Marco Chiocci (Imprimatur, 2012), racconta la sua verità sulla sanguinosa notte di Genova.

«La Diaz fu una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti.»

In un’intervista rilasciata per altraeconomia.it, Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano nazionale e cofondatore del Comitato Verità e Giustizia per Genova, testimone e vittima dei fatti della Diaz, ribatte, punto per punto, le dichiarazioni di Franco Gabrielli, oggi capo della Polizia, all’epoca dirigente della Digos di Roma. Partendo proprio dalle scuse che non sono mai arrivate… «come le ragioni chiare per le quali si vorrebbe chiedere scusa: Per i pestaggi alla Diaz? Per i falsi realizzati dopo l’irruzione? Per la violazione di numerosi articoli del codice penale e della Costituzione? Per averne impunemente ostacolato i processi, come riconosciuto anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo? Per le mancate rimozioni e sanzioni disciplinari dei responsabili delle violenze?»

Nel luglio del 2015 sono diventate definitive le condanne ai 25 poliziotti per l’irruzione nella scuola Diaz al termine del G8 di Genova del luglio 2001. Tutti condannati in Cassazione per falso aggravato in relazione ai verbali di perquisizione e arresto a carico dei manifestanti. L’unica imputazione sopravvissuta alla prescrizione dopo i trascorsi 11 anni. Pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni anche per alcuni degli alti gradi inflitta nel 2012:

  • Giovanni Luperi (capo del Dipartimento analisi dell’Aisi).

  • Franco Gratteri (capo della Direzione centrale anticrimine).

  • Gilberto Caldarozzi (capo del Servizio centrale operativo).

Tutti condannati a risarcire le parti civili ma nessuno che abbia mai veramente rischiato di finire in carcere, complice anche lo sconto di tre anni all’indulto approvato nel 2006. Diverse le prescrizioni che sono cosa ben diversa da un’assoluzione.

A luglio 2017 per chi non era potuto andare in pensione si prospettava la concreta possibilità di rientrare in servizio.

L’11 settembre 2017 il ministro dell’Interno, Marco Minniti, nomina vice direttore tecnico operativo della Direzione investigativa antimafia Gilberto Caldarozzi. Pietro Troiani, il poliziotto accusato di aver introdotto nella scuola Diaz due bottiglie incendiarie tipo Molotov, già vicequestore avrebbe ricevuto anche l’incarico di dirigente del Centro operativo autostradale di Roma con competenza su tutto il Lazio.

Michelangelo Fournier prontamente ha tenuto a replicare alle affermazioni di Marco Travaglio allorquando il direttore de Il Fatto quotidiano avrebbe affermato che Fournier «dopo la prima condanna a 4 anni e 2 mesi ascese al vertice della Direzione Centrale Antidroga». La condanna di Fournier era solo di 2 anni e non di 4 ma, per il resto, Travaglio resta sulle sue posizioni specificando che «fare carriera non significa necessariamente ottenere promozioni e premi: per chi partecipò all’assalto alla Diaz, anche se alla fine sembrò pentirsene, già il fatto di seguitare a ricoprire ruoli di responsabilità nella Polizia di Stato dopo quello che era accaduto, e addirittura dopo essere stato condannato per lesioni personali continuate, mi pare sufficiente per dire che ha fatto carriera».

Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, sempre in merito alle promozioni, in particolare quella di Caldarozzi, ipotizza uno sviluppo differente se in Italia ci fosse stata per tempo e da tempo un’adeguata legge sulla tortura. Mentre Enrica Bartesaghi, già presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova istituito a sostegno «delle vittime della repressione delle forze dell’ordine nell’esercizio della manifestazione del pensiero», ormai sciolto e madre di Sara, tra le vittime della Diaz, scrive parole che rappresentano invece esattamente lo scenario che è stato.

«In questi lunghissimi anni ho assistito a numerose promozioni indecenti di buona parte dei condannati per le violenze e le torture alla Diaz e a Bolzaneto, da parte di tutti i governi che si sono succeduti. Non c’è mai stata alcuna sospensione, nessun allontanamento dei colpevoli, nessuna legge o riforma volta a prevenire e condannare quello che è successo a Genova»

I manifestanti avevano il diritto di protestare? Di sfilare in corteo per dimostrare la loro opinione, contraria, alle decisioni dei grandi della Terra? Avevano il diritto di alloggiare in quella scuola trasformata per l’occasione in dormitorio? I celerini avevano il diritto di manganellare a destra e a manca fino all’alt del funzionario incaricato di dare il comando? I poliziotti hanno il diritto di fabbricare prove mancanti? Di dichiarare il falso? Di trascriverlo nei verbali? I funzionari hanno il diritto di impartire determinati ordini incuranti delle conseguenze? Se viene dimostrato l’errore nella catena di comando quanto è importante che corrisponda un’adeguata punizione in un paese che si dichiara democratico? Se il vertice non viene punito perché dovrebbe esserlo chi ha solamente eseguito degli ordini? Se il vertice non era a conoscenza perché questi ‘picchiatori’ selvaggi e ‘torturatori’ non sono stati fermati?

Al G8 i manifestanti riunitisi come Genova Social Forum volevano partecipare a cortei e manifestazioni lungo le strade della città che ospitava i grandi della Terra proprio in quei giorni, presumibilmente, perché volevano approfittare dell’interesse mediatico elevato per l’occasione. La Costituzione italiana è a favore della libera manifestazione delle proprie idee. Se i Capi di Stato e di Governo devono riunirsi in sontuose location per prendere decisioni che poi, inevitabilmente, ricadranno sui popoli, i cittadini che vanno a comporre quelle popolazioni hanno e devono avere a loro volta il diritto di di riunirsi e manifestare le proprie personali opinioni. Il dispiegamento di forze dell’ordine impiegato per proteggere le celebrities dovrebbe essere dispiegato anche per proteggere la popolazione, i cittadini, siano essi manifestanti oppure no.

I poliziotti vengono chiamati in causa per motivi diversi. Viene detto loro di entrare in azione per arginare la violenza. Devono essere pronti anche con il minimo preavviso e, quasi sempre, non hanno idea di cosa li aspetta davvero. Tra gli interventi più frequenti richiesti agli agenti della mobile è il servizio d’ordine allo stadio. Le violenze dentro e appena fuori gli stadi sono innumerevoli, spesso gravissime e si riallacciano a dinamiche psicologiche e sociali che poco o nulla hanno a che fare con lo sport e la sportività. Piuttosto legate alla rabbia repressa, alla frustrazione, all’appartenenza a un gruppo e la sottomissione alle sue regole. Violenza estremista e provocazione, come quella dei black bloc, che inevitabilmente finisce con il coinvolgere persone che nulla hanno a che fare con tutto ciò. Momenti in cui il tutto appare ancora più surreale, paradossale, incredibile al punto da lasciare increduli, basiti, scioccati tutti… in un primo momento, poi l’indifferenza ritorna a farla da padrona. Ma non per le vittime, non per i carnefici, non per coloro che nuovamente in quel delirio vengono chiamati a ‘combattere’.

«Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono». (Bertolt Brecht)

Articolo originale qui

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Italia: Tortura, G8, Diaz, Bolzaneto. La condanna della Corte europea e l’iter infinito di una legge che tarda ad arrivare

“Sbirritudine” di Giorgio Glaviano (Rizzoli, 2015)

Disclosure: Copyright prima immagine galleria per La storia della tortura www.focus.it

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#25novembre: Il ‘ponte’ contro la violenza, attivismo no stop per tutte le donne

25 sabato Nov 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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femminismo, violenza

Insieme a tutte le altre iniziative previste, partirà nella giornata odierna dedicata alla violenza di genere, la campagna dell’ONU UNiTE centrata sul tema “Nessuno deve essere lasciato indietro: poniamo fine alla violenza contro le donne e le ragazze”. Un no stop di attivismo che durerà 16 giorni, ovvero fino al 10 dicembre, giornata dedicata ai diritti umani. Un ‘ponte’ voluto proprio perché aggredire, maltrattare, stuprare, uccidere un altro essere umano equivale a violare la sua persona e i suoi diritti.

Un ‘ponte’ che per il movimento One Billion Rising dell’attivista americana Eve Ensler arriverà fino al 14 febbraio 2018 con la campagna Solidarietà, voluta per fermare qualsiasi forma di abuso o violenza ai danni di donne e bambine. Mentre rappresenta un lungo cammino per le organizzatrici della manifestazione nazionale a Roma Non Una di Meno intenzionate ad andare avanti fino a quando non ci saremo davvero affrancati dalla violenza di genere in tutte le sue forme. Un percorso di libertà e liberazione che coinvolge migliaia di donne, trans e queer.

Il quarto rapporto di Eures sul femminicidio in Italia rivela che sono 114 le vittime nei primi dieci mesi del 2017. 114 donne che hanno perso la vita per morte violenta. E se l’omicidio non può mai avere una motivazione valida a giustificarlo, in questi casi davvero bisogna ammettere che la ricerca arcaica e superata di virile possesso e dominio sulla ‘propria’ donna è davvero una stupida rivendicazione che va estirpata alla radice con un accurato programma culturale che include anche trasmissioni e programmi televisivi, produzioni cinematografiche, pubblicazioni di libri e qualsiasi altro frutto della modernità che continui a inculcare, in maniera diretta o subliminale, il concetto e la divisione dei ruoli tra maschi e femmine.

È necessario agire d’impatto sulla violenza diretta, sulle aggressioni fisiche e verbali, sullo stalking, e su tutte le varie forme di violenza, a ogni livello, ma bisogna anche lavorare sulla violenza strutturale insita nella cultura dominante e trasmessa anche ai giovanissimi, spesso in maniera inconscia. Come ricorda Flavia Piccinni in Bellissime (Fandango, 2017), viviamo in una società che molto precocemente è in grado di inquadrare nei ruoli di genere l’essere umano. Ruoli che vengono inculcati e che spesso diventano una prigione, che non considera i nostri desideri e le nostre ambizioni, le nostre passioni e i nostri sogni, ma che ci proietta nel futuro esclusivamente attraverso le pressioni sociali e le aspettative degli altri.

Molto si è parlato nei giorni scorsi delle molestie poste in essere da noti esponenti dello show business e della politica e tante, purtroppo, sono state le critiche rivolte alle vittime invece che ai carnefici. Anche questo fa parte di un retaggio culturale frutto della violenza strutturale cui veniamo inconsciamente sottoposti, tutti. Una società che precocemente ipersessualizza giovani vite lasciando sottintendere che con la provocazione e la bellezza si possono raggiungere risultati altrimenti insperati è una società deviata che produce e produrrà sempre vittime e carnefici.

Basta fare un giro negli store di giocattoli per realizzare quanto, la cultura della parità di genere, sia ancora molto lontana da raggiungere. Prodotti per la pulizia della casa che riproducono fedelmente quelli da grandi, tutto il necessario per fare il bucato, la spesa e accudire bambolotti che sembrano dei bambini veri, bambole e fatine con corpi mozzafiato e accessioni glam da urlo… sono lo specchio incondizionato dei ruoli che si vorrebbe rivestissero le donne nel mondo reale: angelo del focolare o bomba sexi. Ce n’è di strada da percorrere per cambiare e sconfiggere questi stereotipi radicati da secoli di cultura sessista e maschilista.

Il corpo delle donne non è un oggetto votato alla riproduzione o al soddisfacimento dei piaceri sessuali di uomini che ne hanno il pieno controllo e per abbattere queste “certezze” radicate non basta mostrare il volto tumefatto delle donne vittime di violenza, non basta fare la conta dei morti e dei feriti, bisogna reagire e per farlo è necessario mostrare a tutti la forza della conoscenza. Portare avanti campagne di informazione, istruzione e cultura che formino le menti dei giovani, maschi o donne che siano, e mostrino loro un differente modo di emergere nella società e nel lavoro. Un metodo che non preveda provocazione o abuso ma basato sulle doti, le qualità, la conoscenza e la preparazione che ognuno deve avere e sul rispetto verso se stessi e verso gli altri.

Uno stupratore o un omicida non avrà mai paura di agire guardando l’immagine di una vittima di abusi, potrebbe addirittura essere invogliato all’emulazione. Ma avrà di certo paura di pene severe, di una società che non starà ferma ad aspettare che sia troppo tardi ma risponderà repentinamente a ogni violazione dei diritti dei suoi membri, compreso quello di non diventare vittima di un’assurda violenza motivata dalla frustrazione, dall’incapacità, dall’ignoranza che, come si è visto, coinvolge tutti i livelli economici e sociali.

Ammonta a 10 milioni di euro il finanziamento stanziato per i progetti per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere, il cui bando è consultabile sul sito governativo del Dipartimento per le pari opportunità. Supportare attività di sensibilizzazione rispetto a sei aree d’intervento, questo lo scopo dichiarato dell’iniziativa: donne migranti e rifugiate, inserimento lavorativo delle vittime di violenza, supporto alle donne detenute che hanno subito violenza, programmi di trattamento di uomini maltrattati, supporto e protezione delle donne sottoposte anche a violenza “economica” e progetti di sensibilizzazione, prevenzione ed educazione. Vengono elencati per ultimi ma in realtà i progetti di sensibilizzazione, prevenzione ed educazione devono precedere e magari prevenire la violenze e quindi i progetti conseguenti.

Il Dipartimento governativo per le pari opportunità afferma di avere una attenzione particolare verso quei progetti volti a sostenere campagne di comunicazione culturale contro la violenza di genere che include, si immagina, anche la violenza domestica. Dovrebbe includere anche la violenza strutturale. Doveroso a questo punto ricordare che è sempre frutto di un’attività governativa la scandalosa campagna di comunicazione pro fertilità, prontamente ritirata, che ha giustamente scatenato le ire di molti cittadini e cittadine, associazioni, movimenti e attivisti e che rientra a pieno titolo nell’imprigionamento in ruoli che certo non aiuta nel progresso culturale per cui si sta lottando. Errori che sarebbe preferibile non ripetere più, soprattutto nelle istituzioni pubbliche.

Enti pubblici e governativi, istituti scolastici e accademici, organizzazioni e movimenti, associazioni e attivisti anche quando agiscono privatamente hanno il dovere morale di mostrare e dimostrare la parità e l’uguaglianza tra le persone, di evitare ogni forma di violenza, anche come forma di reazione e monitorare il progresso culturale della società.

Personalmente sono stata accusata di lasciarmi fuorviare da idiosincrasie relativamente al giudizio negativo espresso in una recensione, o meglio una stroncatura. Un testo di narrativa, un romanzo indicato come adatto a tutti, venduto in tutte le librerie fisiche e digitali, pubblicato con un grande editore italiano e proposto per un concorso letterario la cui giuria popolare si compone di studenti delle superiori è stato da me additato come misogino per tanti passaggi ed espressioni presenti nel testo, ma soprattutto perché in esso l’apparato genitale maschile veniva indicato come “arma”. Quindi dovremmo tacere dinanzi al fatto che l’organo riproduttivo maschile venga indicato come arma e così proposto agli adolescenti italiani o di qualsiasi altro paese? In virtù del numero di aggressioni e violenze a scopo sessuale che ogni giorno martorizzano il nostro paese e non solo lo trovo assurdo, inutile e pericoloso. Non è la sottoscritta a peccare di idiosincrasia bensì chi ritiene gli organi riproduttivi maschili più “potenti” di quelli delle donne, di chi ritiene il corpo femminile utile solo a divenire vittima della “arma” in possesso dei maschi, di coloro che, in buone sostanza, restano ancorati a un retaggio culturale obsoleto che non può e non deve più essere trasmesso alle nuove generazioni.

È necessario e doveroso affrancare soprattutto i giovani dalla prigionia della divisione rigida dei ruoli, dai pregiudizi e dai retaggi culturali obsoleti e deleteri, e far comprendere loro la reale portata della parità e del rispetto che non si misura nella libertà di denudarsi, di essere provocanti o opportunisti, di usare la violenza o la forza… no, si tratta di avere piena coscienza dei propri diritti e fare di tutto per vederli riconosciuti.


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La Globalizzazione come produttore di periferie. “IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale” di Annamaria Rufino (Mimesis, 2017)

12 sabato Ago 2017

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AnnamariaRufino, Comunicazione, Globalizzazione, INSECURITY, insicurezza, MichelMaffesoli, MIM, Mimesis, paura, recensione, violenza, webmondo

Esce con Mimesis, del marchio editoriale MIM, nella collana Eterotopie, il saggio sulla comunicazione nel tempo della globalizzazione IN-SECURITY di Annamaria Rufino, con la prefazione a firma del professore emerito della Sorbona Michel Maffesoli, tradotta dal francese da Ciro Pizzo.

Un testo breve e conciso ma, al contempo, interessante, chiaro e con un gran bello scopo: precisare alcuni aspetti essenziali della globalizzazione, che è un «produttore di periferie» per effetto della «crisi del sistema relazionale e della fine della dimensione spazio-tempo» e, soprattutto, della comunicazione al tempo della medio-globalità.

Il «totalitarismo dolce delle democrazie occidentali» si contrappone al «totalitarismo duro», come quello «del nazismo e dello stalinismo», ma è comunque necessario, doveroso discorrere dei buchi neri creati da questa “dolcezza”, degli errori e delle assenze di iniziative… in una parola, come sottolinea l’autrice nel testo, dei «vuoti» nel sistema che generano «insicurezza, paura, violenza». Vuoti, mancanze che non riguardano solo i cittadini, le persone, bensì le Istituzioni la cui responsabilità maggiore sembra risiedere nell’incapacità di fare in modo che «la conoscenza, il sapere sappiano adattarsi alla “complessità” attuale». Il “webmondo” prevede «nessuna partecipazione dell’utente» e può, a tutti gli effetti, essere considerato una «ideologia totale» che ha «destrutturato la capacità interpretativa del mondo, trasformando la società globale in una super-massa».

Per Maffesoli, l’intuizione fondamentale del libro della Rufino sta nel tentativo dell’autrice di cercare il modo per «integrare nella maniera più a buon mercato l’insicurezza, come canalizzare libido ed energia, personali e collettive». Un po’ svolgendo la funzione sociale che da sempre hanno avuto le «Feste dei folli, le inversioni sociali, i carnevali», ovvero quella di «ritualizzare l’insicurezza» mediante queste «configurazioni antropologiche che hanno saputo far metabolizzare l’istinto aggressivo, che è proprio dell’animo umano». Inutile negarlo o regalarlo ai margini, alle “periferie”. Etichettarlo come afferente a gruppi etnici e sociali specifici. Il risultato è questo “vuoto” conseguenza diretta di «quest’energia fondamentale “slancio vitale (Bergson) o anche “libido” (Jung)» che, non potendo essere repressa, viene manifestata sotto forma di in-sicurezza, paura, smarrimento, violenza fisica e verbale che ha trovato terreno fertile anche nella Rete e nei social network e che ha origine da seri «problemi di coesione sociale, ordine, sicurezza, identità».

Come un’illusione ottica, «la globalizzazione e, direi, la comunicazione globale» non produce “conoscenza” o sapere ma “narrazioni”, «labili narrazioni come quelle giornalistiche, di ogni fonte, che dominano i fatti e sono fagocitanti rispetto a tutte le conoscenze e a tutti i saperi». Una vera e propria «ideologia destrutturante» in quanto la narrazione giornalistica è, in buona sostanza, un «produttore di fatti di cui non è possibile o è quantomeno difficile verificare la fondatezza, della notizia e della sua interpretazione». Ragion per cui «la percezione del dato sfuma in immagini e parole cui si fatica a dare un volto e un senso» e la comunicazione allora «rimane mera informazione». A lungo andare le narrazioni giornalistiche creano «un vuoto interpretativo e cognitivo». Inoltre questo tipo di comunicazione acquisisce sempre maggiore spazio. Quello «lasciato vuoto dalle istituzioni».

Annamaria Rufino più volte ripete ne IN-SECURITY la necessità di «un’azione coordinata e consapevole» da parte delle istituzioni in maniera tale da «correggere un sistema arido di comunicazione e di interpretazione», oltre che di «consapevolezza dei sistemi sicuritari», in quanto l’insicurezza percepita in modo diffuso e incontrollabile «si è trasformata paradossalmente nell’indicatore principale utilizzato per misurare i difetti d’ingranaggio tra sistema istituzionale e sociale» di un modello, quello occidentale, che «si è dissolto proprio nel momento in cui ha raggiunto la sua massima estensione».

Uno strumento valido di aiuto potrebbe essere, secondo la Rufino, «riabilitare alla sicurezza attraverso una comunicazione responsabile», individuando i «punti cruciali del complesso meccanismo dell’insicurezza» così da disattivare «il diffuso atteggiamento difensivo che si trasforma in violenza e aggressione, attive e passive, verbali e fisiche». La sfida a questo punto, che l’autrice pone ai suoi lettori in forma di domanda, è la concreta possibilità di una comunicazione sostenibile che contrasti le derive totalizzanti del non-luogo medio-globale.

Un libro interessante IN-SECURITY. La comunicazione della paura nell’età medio-globale di Annamaria Rufino, in grado di stimolare il lettore verso un dibattito solo in apparenza aperto e diffuso. Una riflessione valida e concreta sul problema della in-sicurezza e della paura, della comunicazione e dell’informazione nell’era dichiarata della loro massima diffusione.

Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa della Mimesis Edizioni per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia dell’autrice www.mimesisedizioni.it

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Mistero e misoginia in “Sempre più vicino” di Raul Montanari

11 giovedì Mag 2017

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BaldiniCastoldi, misoginia, RaulMontanari, recensione, romanzo, Semprepiuvicino, stroncatura, violenza

Mistero e misoginia in “Sempre più vicino” di Raul Montanari

Esce quest’anno con Baldini & Castoldi Sempre più vicino di Raul Montanari, un libro con un ritmo narrativo simile a quello di un romanzo d’appendice su cui pesano come macigni le continue divagazioni e descrizioni che distolgono, o almeno ci provano, l’attenzione del lettore dalla vicenda principale ripresa, in maniera avvincente e incalzante, all’incirca alla pagina duecentocinquanta per essere poi nuovamente marginalizzata già a pagina duecentosessanta. Anche se appare chiaro fin da subito che l’obiettivo dell’autore è quello di creare una struttura labirintica all’interno della quale tessere la trama dell’intricata vicenda, il ripetere enne volte ad esempio che lo zio Willy è stato misteriosamente assassinato e che svolgeva una professione e dei riti occulti in odore di satanismo non aiuta a mantenere alto l’interesse di chi legge, il quale ha già letto di questo e vorrebbe saperne di più. Non si viene purtroppo accontentati, in quanto la risoluzione del mistero sull’uccisione del povero zio Willy è rimandata a data da destinarsi. L’arcano che viene svelato in Sempre più vicino invece riguarda il tesoro da questi lasciato e mai ritrovato, almeno così si pensava. Sarà proprio la brama di impadronirsi dei milioni nascosti da Willy a generare l’intero filone principale della vicenda.

Il protagonista è un giovane ragazzo che vive a Milano e cerca la sua indipendenza da un padre pressante che si è costruito da solo, dopo essersi trasferito dall’Abruzzo insieme al fratello. Valerio ha “ereditato” l’appartamento dello zio Willy e, per arrotondare, lo subaffitta a turisti e viaggiatori, lasciandosi ospitare in quei giorni dall’amico di sempre. Un personaggio, Valerio, che è stato definito “vero e tenerissimo”. Sul fatto che una persona come lui possa essere ritenuta “vera”, nel senso che in giro ci sono o ci possono essere tanti come lui, nulla da obiettare ma sul “tenerissimo” qualche precisazione va fatta. Come si fa a considerare tenero un giovane uomo che si reca di nascosto nell’appartamento dato in affitto a donne e uomini sconosciuti e si masturba sfregandosi con la loro biancheria intima? Come si fa a scrivere in un libro diffuso sull’intero territorio nazionale e su tutti gli store online che “in fondo tutti hanno i propri vizi”, quando sulle pagine del medesimo testo le donne sono state indicate con tutti gli epiteti negativi immaginabili?

Quasi come se si volesse far quadrare un cerchio che perfetto non potrà mai essere, l’autore si sofferma ripetutamente sul racconto delle voluttuose richieste intime dell’amante di Valerio che desidera con fervore essere sottomessa e trattata al pari di una schiava o di una geisha. In tutta questa dilagante misoginia quasi si perde la linea del racconto, il mistero sul tesoro accumulato dallo zio, la trappola in cui cade Valerio, il tradimento da parte di coloro che amava, l’amicizia inattesa con l’investigatore Velardi e il nuovo inizio insieme al padre al quale è servito il buio di una nuova separazione per riuscire a vedere e riconoscere il proprio figlio.

Mistero e misoginia in “Sempre più vicino” di Raul Montanari

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Una storia, quella da raccontata da Raul Montanari in Sempre più vicino che sembra racchiudere in sé diversi generi letterari. Un testo di narrativa che a lungo si sofferma sulla situazione dei giovani di oggi, sulla loro mancanza di certezze e punti di riferimento. Un romanzo di formazione che cerca di tirare le somme su una generazione maturata negli anni del boom economico del secolo scorso e che si è “fatta” con le proprie mani, riuscendo a guadagnarsi una posizione economica e sociale superiore rispetto ai propri genitori, per la gran parte braccianti e agricoltori. Una generazione che rischia il sorpasso anche sui propri figli. Un giallo che sconfina nell’investigativo su scala internazionale allorquando la scena si sposta, nel resoconto dell’investigatore Velardi, dalle strade di Milano alle favelas e alle foreste brasiliane. Un libro che abbraccia tanto, forse troppo, e che di sicuro senza alcune forzature sessiste avrebbe avuto agli occhi del lettore un aspetto anche migliore.

http://www.sulromanzo.it/blog/mistero-e-misoginia-in-sempre-piu-vicino-di-raul-montanari

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Italia: Tortura, G8, Diaz, Bolzaneto. La condanna della Corte europea e l’iter infinito di una legge che tarda ad arrivare

10 lunedì Apr 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Bolzaneto, Diaz, G8, Genova, Italia, italiani, paura, violenza

 

Sono trascorsi quasi 16 anni dall’irruzione nella scuola Diaz da parte della Polizia a Genova e dal trasferimento nella caserma di Bolzaneto, 2 dalla condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo ma la legge italiana sul reato di tortura non è stata ancora approvata in via definitiva.

La notte del 21 luglio 2001 in conseguenza degli scontri avvenuti durante tutto il giorno a Genova la Polizia fece irruzione nella scuola Diaz giustificando il gesto come una «perquisizione ad iniziativa autonoma» compiuta allo scopo di cercare armi e black bloc. I testimoni hanno raccontato tutt’altra versione, parlando di «cosa indegna in un sistema democratico». In tutti questi anni tanto è stato detto raccontato e denunciato ma ogni cosa sembra essersi arrestata dinanzi al muro di gomma dell’inadeguatezza delle leggi italiane che non hanno consentito equi processi in primis perché gli agenti, a viso coperto, erano sprovvisti di numero identificativo e secondo poi perché anche chi è stato processato non ha scontato alcuna pena per decorrenza dei termini. In un Paese democratico ciò non sarebbe mai dovuto accadere.

Il fatto poi che solo oggi, dopo quasi 16 anni, il governo riconosca pubblicamente che «durante il G8 di Genova sono stati commessi abusi e violenze contro i manifestanti» mentre ancora la legge sul reato di tortura rimbalza tra le due Camere sembra quasi una beffa, oltre al danno che innegabilmente c’è stato.

Il Guardasigilli Orlando ha dichiarato nei giorni scorsi, in merito ai tempi di approvazione del ddl, «siamo nella fase degli emendamenti, finalmente mi pare che ci sia la corsa libera in Senato per arrivare in fondo», sottolineando che «il ministro Finocchiaro è al lavoro su questo fronte e credo che potremmo adempiere a un impegno che a questo punto non è soltanto di carattere generale ma anche specifico su quella vicenda».

La relativizzazione alla vicenda della scuola Diaz è certamente doverosa ma un’adeguata legge sul reato di tortura è e sarebbe stata comunque necessaria, anche se quanto accaduto la notte del 21 luglio 2001 non fosse mai successo.

Nel nuovo testo di legge vengono introdotti anche i termini «reiterate violenze», l’agire «con crudeltà» e il «verificabile trauma psichico». Contestualizzazioni che possono far scattare la pena a dieci anni. Sulle violazioni commesse da esponenti delle forze dell’ordine invece si fa un passo indietro e i 15 anni proposti dalla Camera vengono di fatto annullati dall’emendamento approvato in Senato secondo cui «se tali fatti sono commessi da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni o da un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio del servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni». Sfatando così ancora una volta il mito che funzionari amministratori e governanti pubblici devono rappresentare il corretto esempio ed esemplare deve o meglio dovrebbe essere la pena per coloro che violano la legge, trasgrediscono o commettono reato mentre svolgono e ricoprono il loro incarico ufficiale e pubblico. Se poi parliamo di ‘pubblica sicurezza’ ecco riaffacciarsi l’ombra della beffa che grava su questa come su troppe altre vicende.

Gravissima l’accusa rivolta dai giudici di Strasburgo all’Italia, rea di «aver sottoposto ad atti di tortura e trattamenti inumani e degradanti» le persone condotte nella caserma di Bolzaneto sempre in quella tragica notte del luglio 2001 e di «non aver condotto un’inchiesta penale efficace» complice anche la mancanza di un’adeguata legge sul reato di tortura. Ragazzi e ragazze tra i 18 e i 28 anni subirono insulti e minacce sessuali, furono costretti a denudarsi davanti ai poliziotti, nelle loro celle furono spruzzati gas orticanti, un testimone-vittima affermò di essere stato costretto a inginocchiarsi e abbaiare. Viene da chiedersi cosa esattamente pensavano di ottenere gli agenti che  hanno messo in scena questo squallido teatrino dell’orrore e della perversione. Loro che sono i fautori dell’ordine pubblico quale assetto di civiltà e giustizia intendevano raggiungere?

Con 6 dei 65 cittadini, italiani e stranieri, ricorrenti è stata firmata, lo scorso 7 aprile, una «risoluzione amichevole» in base alla quale il governo italiano si impegna a colmare la lacuna legislativa e predisporre corsi di formazione specifici «sul rispetto dei diritti umani per gli appartenenti alle forze dell’ordine», e risarcire ciascuna vittima con «45mila euro per danni morali e materiali e per le spese processuali». L’Italia quindi 16 anni dopo ammette le proprie responsabilità ma non può riconoscere che è stata tortura perché ancora non esiste una legge per questo tipo di reato.

In un articolo scritto nel 2011, in occasione dei dieci anni dai fatti del G8 di Genova, Amnesty International evidenziava i ritardi e gli errori del governo italiano, iniziati ancor prima che il vertice dei ‘grandi’ avesse luogo. Due giorni prima che «oltre 200.000 persone si ritrovassero a Genova per protestare contro il vertice del G8» Amnesty International «chiedeva alle autorità italiane di proteggere i manifestanti, garantendo un uso legittimo della forza da parte degli agenti della polizia». Un appello rimasto evidentemente inascoltato visto che tra il 19 e il 22 luglio del 2001 «Genova divenne teatro di aggressioni indiscriminate da parte degli agenti di polizia verso manifestanti pacifici e giornalisti durante i cortei, violenze ingiustificate nel raid alla scuola Diaz, arresti arbitrari e maltrattamenti nel carcere provvisorio di Bolzaneto». Amnesty  cita minacce «di stupro e di morte, schiaffi, calci, pugni, privazione del cibo, dell’acqua, del sonno e posizioni forzate per tempi prolungati».

Ad aggravare ulteriormente un quadro drammatico e sconcertante è il fatto che nei 10 anni intercorsi dai fatti di Genova all’articolo di Amnesty International «altri episodi hanno chiamato in causa la responsabilità dei corpi di polizia per l’uso delle armi e della forza»:

  • La morte di Federico Aldrovandi durante un fermo (2005).
  • La morte di Gabriele Sandri, raggiunto da un colpo di pistola sparato da un agente della stradale (2007).
  • La morte in custodia di Aldo Bianzino (2007), Giuseppe Uva (2008) e Stefano Cucchi (2009).
  • L’aggressione e gli insulti razzisti denunciati da Emmanuel Bonsu, fermato da agenti della municipale (2008).

La speranza o forse l’ingenuità nel voler credere che siano gli unici.

«Le forze di polizia sono attori chiave nella protezione dei diritti umani. Perché questo ruolo sia riconosciuto nella sua importanza e svolto nella piena fiducia di tutti, sono essenziali il rispetto dei diritti umani, la prevenzione degli abusi, il riconoscimento delle responsabilità e una complessiva trasparenza».

Che sia sempre chiaro il ruolo degli agenti e dei funzionari delle forze dell’ordine, che l’esistenza e/o la presenza di frange estreme non diventi una giustificazione o la regola per la prevaricazione dei diritti umani di cittadini e manifestanti, compreso il diritto alla esternalizzazione del proprio dissenso. Affinché sia sempre chiaro e definito e mai si superi il confine che porta dalla Polizia di Stato allo Stato di Polizia.

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Rivoluzioni storiche delle donne, repressione e conservazione al maschile in “Socialfemminismo” di Stefano Santachiara (Digitalpress, 2017)

26 domenica Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Comunicazione, Digitalpress, femminismo, istruzione, paura, politica, recensione, saggio, Socialfemminismo, StefanoSantachiara, violenza

È da poco uscito il nuovo saggio del giornalista investigativo Stefano Santachiara, Socialfemminismo edito dalla Digitalpress. Già oggetto di critiche e tenzone, il libro di Santachiara non poteva non far parlare di sé. Una vera sfida, ecco cos’è. Contro il pregiudizio, i preconcetti, le disparità e le ingiustizie. Scritto con una intrigante verve da cronista che ha investigato a lungo prima di procedere alla narrazione di un articolato percorso informativo volto a dimostrare che la violenza da combattere non è solo quella dell’uomo che aggredisce una donna. Questo rappresenta il braccio. Bisogna conoscere e lavorare sulla mente che quel braccio arma ogni giorno.

La violenza di genere di cui è piena la cronaca nera non rappresenta che la punta dell’immenso iceberg della violenza strutturale di cui non solo la nostra società è pregna ma su cui proprio sembra essere fondata.

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Santachiara si chiede quali siano i reali motivi per cui «le analisi femministe subiscono la marginalizzazione dei mass media» a tal punto da sembrare che debbano «restare nella nicchia e privarsi della dialettica». Tutti dovrebbero interrogarsi sul perché. La realtà è che viviamo in una società basata sulla competizione tra «dipendenti, disoccupati, schiavi nel terzo mondo e nel sottoproletariato occidentale; giovani e anziani, stranieri e autoctoni, uomini e donne». È necessario quindi «portare alla luce il gap tra la parità formale e le discriminazioni reali». Lo scopo di Socialfemminismo sembra essere proprio questo.

Nel testo Santachiara scrive ciò che nessuno sembra voler leggere o ascoltare, perché in tal caso si sarebbe costretti ad ammettere che rei della violenza di genere non sono solo gli uomini che manualmente la praticano bensì l’intero sistema che, più o meno consapevolmente, non li condanna. A cominciare dal mainstream mediatico che «riproduce la logica sessista dell’onore cavalleresco», ancora più opinabile quando lo fa in riferimento a «vili lanciatori di bombe, missili, armi batteriologiche» che hanno effetti e conseguenze devastanti per la popolazione civile.

Non di rado la stampa, con titoli e articoli a effetto, contribuisce a fomentare l’odio non solo verso il presunto aggressore o femminicida ma lo fa «dissennatamente verso interi gruppi sociali» o etnici. Tranne i casi in cui si parla di «occidentali di buona famiglia».

«L’Occidente si erge a giudice di altre culture per farne il capro espiatorio, sbatte in prima pagina il “mostro” straniero e la vittima “ingenua” fomentando la xenofobia e i peggiori stereotipi. Ma non può lavare la coscienza di uomini americani ed europei che vessano, stuprano e uccidono le donne.»

L’autore affronta il tema del misoginismo spaziando attraverso i vari campi del sapere e narrando di esempi o riportando riflessioni circa avvenimenti accaduti in ogni angolo del pianeta, a riprova dell’idea che i diritti umani non hanno muri o barriere che reggano. Bisogna prendere atto del «nesso tra maschilismo e violenza», consapevolezza che il problema riguarda tutti e la comunità nel suo complesso, ragione del fatto che una società per essere realmente “civile” deve combattere seriamente le molestie e le violenze, «mettendo in circolo tutti gli impulsi culturali volti a prevenirle». Impulsi culturali che, come sottolinea lo stesso Santachiara, non riguardano la «sola educazione al rispetto e ai sentimenti nella scuola ma di ridefinire il quadro per intiero».

Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne contro la violenza se ai violentatori si continuano a infliggere pene irrisorie? Che senso e quali risultati concreti potranno mai dare le campagne di informazione scolastica se governanti e media continuano a utilizzare un linguaggio e un comportamento sessista? Santachiara sembra proprio centrare il nocciolo quando afferma che «vi è un problema più profondo di abitudine alla disumanità».

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Osservando con più attenzione il messaggio profuso dall’apparato mediatico e informativo, come l’autore ha fatto, si riesce a scorgere la volontà di «impedire la presa di coscienza», tinteggiando di «rosa il genere femminile mediante la produzione positiva delle consuetudini». Ed è così che le massaie vengono rappresentate «splendide al rientro del marito, impegnate con biberon e pignatte», mentre le lavoratrici che lottano contro l’ingiustizia «non di rado, appaiono astiose e frustrate».

Se «una italiana su tre subisce violenza» e «le sentenze della magistratura raccontano storie di mobbing, demansionamenti, licenziamenti ingiustificati, mancati pagamenti di contributi e stipendi» bisogna prendere atto e ammettere che stiamo parlando di una conseguenza, non di una causa.

Molti uomini e purtroppo anche alcune donne non riescono a elaborare «il semplice concetto per cui la differenza sessuale attiene al portato anatomico, biologico, genetico, cromosomico mentre le scelte – culturali e intime – sono strettamente personali», per cui ne deriva la difficoltà a superare il luogo comune della “naturale” predisposizione femminile a svolgere le incombenze domestiche e alla cura dei famigliari. Non vi è alcuna predisposizione naturale o biologica, «a costringerla, difatti, è l’ideologia predominante». Ideologia rafforzata anche da governanti e amministratori. Fa bene Santachiara a ricordare l’inqualificabile campagna pro-fertilità lanciata solo pochi mesi fa dal ministero e dal ministro della salute.

Leggi anche – Ipocrisie e contraddizioni nella lotta infinita contro la violenza sulle donne

Socialfemminismo va letto senza pregiudizi, cercando di non lasciarsi offuscare dagli stereotipi imperanti nella ideologia dominante, secondo cui le democrazie occidentali sarebbero il non plus ultra del vivere civile, bensì aprirsi all’idea che spesso, troppo spesso ciò che viene fatto passare per “naturale” e quindi “giusto” non lo è affatto. Colpisce, a tal proposito, la citazione di Grazia Francescato, riportata nel testo.

«Bisogna smettere di pensare che l’uomo è buono per natura, che il popolo è buono per definizione, bisogna partire dall’uomo com’è realmente e non dall’Uomo come vorremmo che fosse».

Non si può, a questo punto, non concordare con la posizione di Judith Butler analizzata da Santachiara in Socialfemminismo. Sulle nostre vite pendono «le norme eterosessuali», trasmesse «quotidianamente dai media, dai film, così come dai nostri genitori». Norme che poi noi stessi perpetriamo «nelle nostre fantasie e nelle nostre scelte di vita». In buona sostanza sono queste norme che «prescrivono ciò che dobbiamo fare per essere un uomo o una donna». E anche se, come ricorda la scrittrice norvegese Toril Moi, «il femminile è il dato biologico, la femminilità il costrutto culturale e il femminismo una posizione politica», per Santachiara quest’ultimo non potrà «mai perdersi finché ci saranno sfruttamento e ingiustizia». E questo, sicuramente, non rappresenta solo una mera posizione politica dell’autore, bensì una speranza e una dichiarazione di fiducia, nonostante tutto, nel genere… umano.

Source: Si ringrazia Stefano Santachiara per la disponibilità e il materiale

Disclosure: Fonte biografia autore stefanosantachiara2.wordpress.com

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

10 venerdì Feb 2017

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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BenedettaBerti, Comunicazione, intervista, Lafinedelterrorismo, Mondadori, Occidente, Oriente, paura, terrore, Terrorismo, violenza

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

Il 31 gennaio 2017 esce con Mondadori La fine del terrorismo di Benedetta Berti, nella versione tradotta da Teresa Albanese. TED Senior Fellow e ricercatrice al Foreign Policy Research Institute e al Modern War Institute a West Point, Benedetta Berti ha trascorso gli ultimi dieci anni “sul campo”, in luoghi impervi e pericolosi a studiare la nascita e l’evoluzione dei gruppi armati ribelli, politici e/o terroristici allo scopo di capirne l’essenza. Questa la via da lei stessa indicata nel libro per riuscire a “superarli”. Una sconfitta che passa attraverso la conoscenza e l’analisi di fatti e dati, non mediante il caos ingenerato dalla paura.

Nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione infinite sono le “informazioni” che circolano su terrorismo e anti-terrorismo, notizie spesso falsate faziose o imprecise. Per questo e anche per altre motivazioni la Berti sostiene che sia necessario riportare tutto alla linearità di una conoscenza basata su dati certi, informazioni sicure e analisi che siano fedeli alla realtà dei fatti. Solo in questo modo si riuscirà a comprendere il fenomeno terroristico e forse anche a superarlo.

Ne abbiamo parlato nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.

L’introduzione a La fine del terrorismo si apre al lettore con una citazione di Diego Gambetta. Parole forti, immagini tanto chiare quanto cruenti di ciò che mafia e Isis rappresentano o intendono rappresentare.  A cosa “servono” o “possono servire” mafia e Isis per l’Italia e l’Occidente?

Più che a “servire” all’Italia o all’Occidente, credo che il punto fondamentale sia che, oggi come in passato, gruppi armati violenti di matrice religiosa, politica o criminale sfruttano e traggono vantaggio dalla loro reputazione violenta. Più questi gruppi vengono analizzati e descritti come brutali, irrazionali e misteriosi, più ci sembrano minacciosi. Quello che non possiamo capire o spiegare ci fa inevitabilmente paura, questo però è un circolo vizioso: la paura non ci aiuta a capire, né tantomeno a fare le scelte più giuste ed efficaci per la nostra società e sicurezza. Allora, credo che sia importante andare oltre. Oggi come ieri, per capire ISIS così come le organizzazioni criminali nostrane, dobbiamo andare oltre la reputazione e il velo di mistero e analizzare le logiche interne, organizzative, politiche ed economiche di questi gruppi.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

La chiave di lettura da lei indicata per una maggiore comprensione delle «attuali tendenze nella violenza politica e nel terrorismo internazionale» è la comprensione in «termini semplici e razionali». Perché ritiene necessario seguire questa strada?

Perché, oggi più che mai, ci troviamo di fronte a un mondo caotico dove, tra sensazionalismo, informazioni disorientanti e decine di versioni contrastanti, diventa quasi impossibile capire che cosa stia davvero succedendo quando si parla di terrorismo e violenza politica. In questo contesto, credo sia importante cercare di spiegare le dinamiche globali legate alla violenza politica: dall’ascesa al declino dell’ISIS, alle nuove forme di terrorismo “autoctono” partendo da dati solidi e da un’accurata analisi del contesto storico, politico e geo-politico. Nel libro cerco di descrivere le complesse ragioni che hanno portato a una crescita del terrorismo a livello mondiale e anche di capire come i gruppi armati – come ISIS ma non solo – sono in grado di sfidare stati con maggiori risorse finanziarie e militari. Nel fare questo, mi propongo di spiegare la logica militare, politica ed economica di questi gruppi. Non per volerne giustificare le azioni, ma semplicemente perché capire la logica e la strategia della violenza politica odierna in modo semplice e razionale ci aiuta ad avere un dibattito pubblico basato sui fatti e non sulla paura; ci aiuta a trovare politiche più efficaci e a non essere manipolati.

Quali sono le immagini stereotipate relative ai gruppi armati che maggiormente influenzano l’opinione pubblica e l’operato dei governi?

Ce ne sono molte; e avendo passato gli ultimi dieci anni “sul campo” studiando i gruppi armati (in Medio Oriente, America Centrale, Latina, Africa orientale e altrove) credo che uno dei problemi principali sia la tendenza a sottovalutare l’evoluzione dei gruppi armati moderni, oltre alla facilità con la quale si fa di tutta l’erba un fascio, senza soffermarsi su come diversi contesti producano distinte dinamiche di violenza politica. In particolare, sottovalutare questi gruppi non aiuta a capirli meglio, né tantomeno a contrastarli. Per esempio, tendiamo a non prestare sufficiente attenzione alle motivazioni economiche e ai modelli finanziari usati dai gruppi armati; questo però ci porta a trascurare una delle componenti fondamentali della loro strategia e, spesso, del loro successo. Nel libro, anche attraverso esempi e storie ottenute in anni di ricerca, racconto di come molte organizzazioni terroristiche abbiano sviluppato complessi modelli di business, impegnandosi in attività economiche lecite e illecite, sfruttando la globalizzazione per aumentare la loro ricchezza. Ancora più interessanti sono le dinamiche di “governance” e le “politiche sociali” di questi attori violenti; per non parlare poi delle attività di marketing e comunicazione.

Qual è la strada per sconfiggere il terrorismo? Intervista a Benedetta Berti

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Quali sono i punti in comune e quali invece le divergenze tra la violenza politica di oggi e quella del passato?

Il libro parte dal semplice ma importante fatto che l’uso delle armi, della violenza e del terrorismo non sono tattiche nuove. Ci sono però numerose differenze tra gruppi terroristici “tradizionali” – come ad esempio le Brigate Rosse – e le principali organizzazioni violente attive negli ultimi due, tre decenni. Un punto fondamentale è che il contesto è cambiato: i gruppi armati non-statali, da organizzazioni terroristiche a milizie, sono sempre più spesso i protagonisti dei conflitti armati, che oggi avvengono prevalentemente a livello di guerre civili, interne e/o irregolari. Inoltre, nel libro guardo attentamente anche a come i processi di globalizzazione e di crisi degli stati abbiano offerto l’opportunità a molti gruppi armati di aumentare il loro potere, il loro status e le loro capacità di esercitare controllo sulla popolazione civile. Si può anche aggiungere che i gruppi armati moderni – sia di stampo politico che criminale – tendano ad essere più globali, più orientati ad agire attraverso complesse reti di alleati e partner, anche grazie all’accesso alle nuove tecnologie militari e di comunicazione. Negli anni dopo l’11 settembre, anche le dinamiche e le tattiche del terrorismo globale sono cambiate, e nel libro cerco di analizzare il come e il perché questo sia avvenuto.

È vero che un’organizzazione come l’Isis è riuscita ad affermarsi e a crescere sempre più perché si è sostituita e ha in parte sopperito alle carenze di governi corrotti e inefficienti?

Sicuramente sì.  Quando guardiamo alla mappa della violenza politica a livello mondiale, troviamo senza dubbio un nesso tra stati deboli inefficienti e caratterizzati da violenza interna e l’ascesa di gruppi armati che si propongono come un’alternativa allo stato e al sistema politico. Dall’ISIS ai Talebani, un contesto di guerra insicurezza repressione corruzione ha creato terreno fertile per questi attori violenti. Inoltre, non c’è dubbio che, almeno nelle prime fasi della sua espansione, anche un gruppo repressivo e violento come ISIS ha dedicato energie nel cercare di guadagnarsi una parvenza di legittimità, utilizzando per esempio l’inefficacia dello stato e cercando di sopperire a queste carenze come ad esempio la manutenzione stradale, la distribuzione del pane, per citarne solo alcune, rafforzando così la pretesa di essere uno “stato” di nome e di fatto.

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Quale sarà il futuro della violenza politica e quale quello di chi cerca di combatterla?

Anche se è impossibile sapere che cosa ci aspetterà nel futuro, credo che un’analisi attenta della realtà ci possa aiutare a capire alcune delle sfide in materia di violenza politica in generale e terrorismo in particolare. Per esempio, tutto indica che il ginepraio che caratterizza la situazione mondiale: insicurezza, inefficienza dello Stato, corruzione e repressione continuerà ad aiutare gruppi insurrezionali a emergere, e che la diffusione di nuove tecnologie militari e di comunicazione contribuirà alla maggiore pericolosità di molti di questi gruppi. Questa analisi sembra suggerire anche che contrastare il terrorismo dovrà essere sempre di più un’attività complessa e integrativa, a livello militare e di forza pubblica, ma anche sociale politico economico e culturale.

http://www.sulromanzo.it/blog/qual-e-la-strada-per-sconfiggere-il-terrorismo-intervista-a-benedetta-berti

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