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Irma Loredana Galgano

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SPECIALE WMI: Il ruolo culturale delle biblioteche oggi in Italia

26 mercoledì Giu 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, biblioteche, cultura, RinnovamentoCulturaleItaliano, WMI

Qual è il ruolo culturale delle biblioteche, pubbliche e private, oggi in Italia? Perché, nella società che si definisce dell’informazione, i luoghi simbolo della cultura vera, come appunto le biblioteche, si considerano ormai obsoleti, superati, inutili? Che relazione si pone tra diritto alla conoscenza, libertà di pensiero e di espressione e libertà di accesso all’informazione? I libri e la libertà. Le biblioteche e la democrazia. Bibliotecari e pubblico. Il rapporto dei cittadini con la lettura.

Le biblioteche sono istituzioni che, inspiegabilmente, restano fuori da ogni dibattito, mediatico e istituzionale, sulla cultura. Eppure esse rappresentano non solo i luoghi fisici di conservazione della memoria del passato ma, soprattutto, la struttura, la tecnica, il metodo, la fisicità e la possibilità concreta per la creazione di una cultura, di un’informazione e anche una educazione, quanto più ampie e diffuse possibile, che non siano faziose, di parte o partitiche, settarie e limitate.
Proprio le biblioteche, le quali rimangono ancora oggi estranee ed esterne alle logiche del mercato, all’economia imperante, al consumismo e alla superficialità di una conoscenza priva di fondamenta solide e logiche.
Michel Melot sosteneva che «la biblioteca è una macchina per trasformare la convinzione in conoscenza. La credulità in sapere». Come riportato anche nella premessa al testo L’azione culturale della biblioteca pubblica di Cecilia Cognini (Editrice Bibliografica, 2014).

Cognini ricorda che uno degli obiettivi dei programmi di Europa 2020 è proprio quello di «promuovere e consolidare la società della conoscenza». Ponendo al centro l’istruzione e le competenze, la ricerca, l’innovazione e la società digitale, allo scopo di favorire «un uso intelligente e consapevole delle nuove tecnologie». L’economia della conoscenza si basa sulla centralità del ‘capitale umano’ come «elemento capace di determinare un andamento positivo dello sviluppo di un paese». Nello scenario sociologico internazionale sempre di più si sta consolidando il bisogno di superare il PIL come indicatore dello stato di benessere di un paese, in Italia «lo Cnel e l’Istat hanno elaborato degli indicatori per misurare il BES, il benessere equo e sostenibile», ricollegando concettualmente il tasso di benessere di una società a fattori che «comprendono cultura e salute e altri aspetti immateriali della vita contemporanea».

Ecco che entra in gioco il concetto di apprendimento per tutto l’arco della vita, che diventa «un aspetto essenziale nella prospettiva esistenziale delle persone». L’intelligenza degli individui, ma anche quella di ognuno, non può essere ricondotta a una sola tipologia, «educare a pensare la complessità diventa un obiettivo rilevante per la società della conoscenza». L’azione della biblioteca pubblica può essere interpretata come una «sintesi efficace delle diverse vocazioni e stratificazioni di senso che il concetto di cultura rappresenta».
Affinché cultura e creatività si radichino in un territorio è necessario che si sviluppi una “atmosfera creativa”. In base al concetto largamente esposto nelle sue opere da Walter Santagata, per rendere percepibile un’atmosfera creativa è necessario che «il bagaglio di idee e creatività raggiunga un certo livello» e che siano presenti determinati ingredienti: «le reti creative, i sistemi locali della creatività, le microimprese di servizi». Anche le biblioteche, gli archivi e i musei sono soggetti essenziali da questo punto di vista, perché anch’essi qualificano il tessuto economico e sociale di un dato territorio, «aumentando la predisposizione delle persone a investire nelle loro capacità e competenze conoscitive e accrescendo la qualità sociale di una comunità».
Laddove per “qualità sociale” deve intendersi la misura secondo cui le persone sono capaci di «partecipare attivamente alla vita sociale, economica e culturale e allo sviluppo delle loro comunità», in condizioni che migliorino il benessere collettivo e il potenziale individuale.

Nella filiera del patrimonio culturale proprio le biblioteche possono conquistare «un ruolo e una rilevanza centrali, ancora solo parzialmente esplorate», e contribuire, per la loro capillarità e accessibilità e la loro vocazione alla divulgazione, a «promuovere la più ampia conoscenza e fruizione possibili del patrimonio culturale del nostro paese». Come indicato nel Manifesto IFLA/Unesco, la biblioteca pubblica svolge un «ruolo centrale anche nel promuovere la consapevolezza dell’importanza dell’eredità culturale che è propria di una comunità e di un territorio», non solo nel senso più scontato del mettere a disposizione del pubblico i fondi di storia e cultura locale o i documenti conservati nelle sezioni “Manoscritti e Rari”, ma più in generale come «promozione della capacità di lettura e interpretazione del patrimonio culturale di una comunità» al fine di trovare nuovi modi per raccontarlo, «nella consapevolezza delle nuove sfide poste dalla società multiculturale e dal digitale».

La vita degli adulti dovrebbe essere centrata sull’apprendimento continuo. Una educazione «fortemente correlata a una diversa concezione del sapere», non più focalizzato solo sull’acquisizione di abilità e contenuti ma anche di atteggiamenti e comportamenti. Esiste un sottostimato ma innegabile «legame fra formazione permanente e sviluppo democratico della comunità». L’atto di conoscere è a un tempo biologico, linguistico, culturale, sociale e storico e «la conoscenza non può essere dissociata dalla vita umana e dalla relazione sociale».
Nicholas Carr sostiene che la rete ci ha confinato nella superficialità e nell’incapacità di approfondire, mentre Rheingold Howard ritiene che questa ci aiuti a sviluppare appieno tutto il potenziale dell’intelligenza collettiva. Per Cecilia Cognini forse hanno ragione entrambi. Innegabile è di sicuro il fatto che internet e le nuove tecnologie hanno «modificato le modalità di apprendimento, i contesti e gli scenari di riferimento e con essi il ruolo delle biblioteche», da ricercarsi proprio nella formazione permanente.

La formazione permanente può avere un ruolo centrale nel «contrastare il ritardo di alfabetizzazione presente nel nostro paese».
Stando ai dati ISOFOL-PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies) l’Italia è la più bassa fra i paesi Ocse per partecipazione ad attività di apprendimento formale e informale degli adulti, con appena il 24% a fronte di una media del 52%. In questo ambito la biblioteca «può promuovere una visione proattiva e non passiva della cultura».
Per Cecilia Cognini l’azione della biblioteca si esplica sostanzialmente in quattro modi:
Predisposizione all’accesso.
Formazione dei cittadini.
Definizione di un ambiente sicuro.
Costruzione della motivazione a imparare.

Nella premessa al testo di Mauro Guerrini curato da Tiziana Stagni De Bibliothecariis. Persone Idee Linguaggi (Firenze University Press, 2017) Luigi Dei, magnifico rettore dell’Università degli Studi di Firenze, definisce le biblioteche «uno dei più preziosi patrimoni che le Università posseggono o ai quali gli Atenei fanno costante riferimento come irrinunciabile stella polare per le loro missioni». Per il rettore Dei non bisogna lasciarsi intimorire dal progresso scientifico-tecnologico, dal digitale, dalla rete… perché «la nostra era non è più unica di quanto lo sembrassero le precedenti ai nostri predecessori». I nuovi media troveranno «il loro posto nelle biblioteche» e così i bibliotecari assolveranno alla loro missione secondo modalità «stupendamente innovative e con strumenti d’inenarrabile potenza e versatilità». Il destino che attende quindi queste istituzioni, secondo Luigi Dei, è quello di «rivestire nel futuro un ruolo sempre più centrale nella vita dell’uomo».

Il testo di Mauro Guerrini si apre al lettore con una citazione di Shiyali Ramamrita Ranganathan:

«Fino a quando l’obiettivo principale di una biblioteca fu la conservazione dei libri, tutto quello che si pretese dal suo personale fu che fosse costituito da guardiani capaci di combattere i quattro nemici dei libri: fuoco, acqua, parassiti e uomini. Non era strano che un posto di lavoro in biblioteca rappresentasse il rifugio possibile per le persone incapaci di fare altri lavori. Ci volle davvero molto tempo perché si comprendesse che era necessario un bibliotecario professionale.»

Per Guerrini il tronco di attività e di competenze che regge la professione bibliotecaria si basa essenzialmente su due temi caratterizzanti: gli utenti e le risorse bibliografiche. «Il bibliotecario mette in relazione positiva queste due entità». La biblioteca pubblica italiana è, in questa fase storica, chiamata a difendere la Costituzione, le istituzioni democratiche, il diritto a un’informazione libera, tempestiva e plurale, «arginando le manipolazioni che pervadono, armai da sessant’anni, l’assetto partitocratico delle istituzioni e dei mass-media». Non può esistere democrazia senza controllo. E il controllo, oltre che dalla tripartizione dei poteri, deve essere esercitato dall’elettorato: «un cittadino bene informato è un requisito della democrazia perché conosce e giudica tramite la scheda elettorale l’operato dei politici, dei potenti, della società».
La biblioteca è chiamata a documentare in modo imparziale i diversi punti di vista dai quali un tema può essere interpretato anche conflittualmente e senza avanzare, in modo evidente o tra le righe, la preferenza per nessuno.

Quella del bibliotecario è una professione, e la capacità di scindere tra orientamenti personali e comportamento professionale fa parte del bagaglio culturale e professionale, «anzi ne determina il livello di professionalità». Libro è libertà sono indissolubili. La biblioteca non è il luogo di una verità unica, e neanche della verità degli altri, è il luogo dove «il lettore deve costruirsi la propria».
Il diritto alla conoscenza, la libertà di pensiero e la libertà di espressione sono condizioni necessarie per la libertà di accesso all’informazione. «Il bibliotecario è il garante dell’accesso a un’informazione libera», senza restrizioni e non condizionata da ideologie, credi religiosi, pregiudizi razziali, condizioni sociali, ecc… «ovvero da tutto ciò che in qualsiasi misura possa rappresentare un fattore di discriminazione e di censura». Suo compito è inoltre garantire la riservatezza dell’utente e «promuovere, quale strumento di democrazia, l’efficienza del servizio bibliotecario».

Guerrini ritiene doveroso cercare di individuare le ragioni, in una prospettiva storica, sia della mancata consapevolezza da parte del cittadino dei servizi e delle potenzialità informative che le biblioteche mettono a disposizione della comunità, sia del venir meno di quei servizi essenziali verso il cittadino da parte di alcuni enti pubblici, motivati dal continuo costante e inarrestabile taglio dei finanziamenti statali. I tagli dei fondi alla cultura sono intesi e lasciati intendere come «tagli al superfluo». E allora, si chiede Mauro Guerrini: «quando si capirà che investire in biblioteche significa investire per la democrazia, lo sviluppo economico e la qualità della vita?»
L’Italia può, o meglio potrebbe, svolgere un ruolo importante a livello politico generale, come «ponte di cultura» ma anche di pace e di libertà intellettuale, di scambio informativo, di modello di conoscenza, «di incontro e di dialogo fra culture diverse, fra Nord Europa e paesi che si affacciano sul Mediterraneo». L’Italia è un Paese di confine che «subisce l’urto dei flussi migratori», ma «la nostra cultura, le nostre biblioteche possono essere un efficace strumento di pace, di diffusione della comprensione e di reciproco rispetto».

Per Antonella Agnoli, autrice de Le piazze del sapere (Editori Laterza, 2014), in una società caratterizzata da disuguaglianza crescente e dalla scomparsa o dalla privatizzazione di molti servizi sociali, «la biblioteca è diventata un presidio del welfare». Occorre fare della cultura una questione politica centrale per il paese, «chiedere al governo e agli enti locali di tornare a investire sulla scuola e sulla cultura». Tante buone pratiche si affermano a livello locale ma, alla fin fine, tutte o quasi sono costrette a cedere sotto il peso di una politica nazionale che «va in direzione opposta».
Inoltre va sottolineato che scuole, università, biblioteche e altre istituzioni culturali sul territorio «non comunicano tra loro, non agiscono in sinergia», non vanno a costituire un «ambiente globale dove i talenti possano svilupparsi e lavorare».
Le biblioteche pubbliche, per Agnoli, devono essere considerate «un servizio universale, come la scuola o l’ospedale». Ma, soprattutto, dovrebbero agire in sinergia con tutte le altre istituzioni culturali, soprattutto afferenti al sistema scolastico, secondo progetti e programmi coordinati dallo stesso Miur per ovviare a oggettivi e oramai sistemici deficit di apprendimento.
Stando ai dati Ocse-PISA (Programme for International Students Assessment), la capacità degli studenti italiani di leggere e interpretare un testo sono molto inferiori a quelli degli studenti degli altri paesi europei. Il che significa che diventeranno adulti non in grado di «leggere un libro o un giornale» e di comprenderne appieno il significato e, soprattutto, cittadini a rischio nei loro diritti elementari perché «in difficoltà a capire una scheda elettorale, una bolletta della luce o un estratto conto». Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Ne La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica, 2014) Antonella Agnoli ricorda che ogni giorno in Italia si condividono online 5milioni di foto, Facebook ha 20milioni di iscritti mentre Twitter ne ha 10milioni e afferma che «il prezzo che paghiamo alle meraviglie offerte da iTunes, Youtube, Twitter e Instagram è la rinuncia, del tutto volontaria, ai libri. La fine della lettura». Ma è davvero così? Prima dell’avvento di internet e dei social le persone leggevano davvero molto più di adesso? E in che misura?
Tralasciando i tempi in cui il tasso di analfabetismo era ancora molto elevato e diffuso e osservando l’Italia e gli italiani della seconda metà del Novecento si deve ammettere di trovarsi di fronte un quadro dipinto per la maggiore da radio, calcio e televisione. Internet e i social sono solo il mezzo di distrazione del nuovo millennio che è andato ad aggiungersi o a sostituirsi a quelli imperanti nel secolo scorso. I lettori, quelli forti, che non si lasciavano attrarre dalla televisione nel Novecento non si lasciano sedurre neanche dai nuovi media. I numeri erano pochi allora e lo sono anche oggi. È questo il nocciolo del problema.

Andrea Capaccioni in Le biblioteche dell’Università (Maggioli Editore, 2018) sottolinea come già numerosi stati hanno incrementato gli investimenti per sostenere un più efficiente sistema di istruzione superiore e per fornire ai cittadini un accesso alla formazione lungo tutto l’arco della vita. Gli atenei sono dunque chiamati a svolgere «un ruolo sociale (civic university) sempre più importante» e a garantire livelli qualitativi elevati attraverso «periodiche verifiche dei risultati raggiunti sul piano scientifico e divulgativo». C’è un forte legame tra la biblioteca, l’insegnamento e la ricerca al punto che le biblioteche dell’università sono state definite «specchio dell’educazione superiore». Troppe volte però la biblioteca, invece di «luogo privilegiato della propria missione», viene considerata dagli atenei come mero «strumento da includere tra le attrezzature didattiche».
È tuttavia innegabile che in una società sempre più interessata alla produzione e alla gestione dell’informazione «le università costituiscono un obiettivo strategico per i governi di tutto il mondo» e con esse tutti i luoghi di produzione e conservazione delle informazioni e della cultura, comprese naturalmente le biblioteche.
Si prospetta la necessità di ripensare il ruolo e le funzioni della biblioteca nel nuovo contesto culturale e tecnologico e Capaccioni si chiede se le università siano pronte a gestire il cambiamento. Ma egli stesso rammenta poi che nel mondo è in costante crescita il numero di università che hanno individuato nelle loro biblioteche il luogo ideale per istituire dei learning center «in cui ai tradizionali servizi bibliotecari si affiancano iniziative legate alla didattica e all’information literacy».

Per John Palfrey, autore di BIBLIOTECH (Editrice Bibliografica, 2016), «le biblioteche sono in pericolo perché ci siamo dimenticati quanto esse siano eccezionali». Le biblioteche danno accesso alle abilità e alle conoscenze necessarie per adempiere al nostro ruolo di cittadini attivi. La conoscenza che le biblioteche offrono e l’aiuto che i bibliotecari forniscono «sono la linfa di una repubblica informata e impegnata». Le democrazie possono funzionare soltanto se tutti i cittadini hanno pari accesso all’informazione e alla cultura, in modo tale che possano «essere aiutati a fare buone scelte, siano esse relative alle consultazioni elettorali o ad altri aspetti della vita pubblica». E l’accesso eguale e paritario alla cultura può esserci solo laddove ci siano istituti e istituzioni pubbliche (scuole, atenei, biblioteche, archivi, …) per usufruire dei quali non è importante «quanto denaro si ha in tasca». Nel mondo digitale le biblioteche, come anche gli altri istituti della cultura, devono continuare a ricoprire le funzioni essenziali di accesso libero alla conoscenza, laboratori per lo studio, l’apprendimento e la ricerca, depositi della conoscenza. Esattamente come hanno fatto nel periodo analogico.
Il futuro delle biblioteche è importante per vari motivi, ma per Palfrey in testa alla lista delle priorità vi è fuor di dubbio il loro ruolo nel tutelare in modo certo la conoscenza culturale nel lungo periodo.
Allorquando i nuovi materiali digitalizzati verrano seriamente inclusi nei piani di studio scolastici, «un’iniziativa nazionale fra biblioteche, che renda disponibili documenti di supporto appropriati a tutti i docenti e agli studenti» potrebbe abbattere i costi della transizione per le scuole e permettere agli allievi di avere «un facile accesso e gratuito a strumenti di studio rilevanti».
La scusante che va per la maggiore, in genere, è la mancanza di risorse finanziarie, ma in molti casi le questioni relative all’educazione non hanno molto a che fare con i soldi, quanto piuttosto «con l’amministrazione, la visione, l’impegno».

La mancanza di visione e impegno rischia di continuare a lasciare i cittadini di oggi e di domani in balìa di questo immenso «rumore informazionale di fondo», un vero e proprio «turbine di gossip» che genera una diffusa condizione di alfabetizzati-illetterati storditi «dagli irrilevanti contributi di un pervadente disturbo che li strania da ogni stimolo di autentica realtà». Alfredo Serrai, in La biblioteca tra informazione e cultura (Settegiorni Editore, 2016), indica come unica strada percorribile il progettare «un salvataggio della intellettualità antica racchiusa nelle gloriose biblioteche antiche innestandola nel quadro sistematico di una sintesi culturale che la valorizzi». Naturalmente incorporandola nella storia e nella cultura del passato ma «con le estensioni, gli sviluppi e i rivolgimenti prodotti dalle acquisizioni, tecnologiche e concettuali, del pensiero moderno».
Perché, a rifletterci bene, sottolinea Serrai, il problema di fondo rimane quello del rapporto che si intende avere con il passato. Conservarlo come fossero resti mummificati oppure continuare a «sentirci il ramo più alto di uno stesso grande albero ancora vitale» e verosimilmente prosperoso. Quando le biblioteche si ridurranno a Musei, nel senso di luoghi destinati alla conservazione delle testimonianze, sarà anche la fine della cultura che le biblioteche aveva generate e alimentate.
Chiedersi se spariranno le biblioteche va di pari passo con il domandarsi se continuerà il dissolvimento di quella che si continua a riconoscere ancora come la nostra attuale cultura.

Come conseguenza della aumentata velocità dei mezzi di comunicazione, della immediatezza delle comunicazioni, spesso identiche e ripetitive, si assiste a una generale e uniforme «omologazione concettuale e a un diffuso appiattimento di pensiero». Si percepisce come unicamente reale, «non solo sul piano personale ma anche su quello cosmico», soltanto il presente e l’immediato. Ma se l’informazione non diventa Cultura, ovvero «trama di un ordito molteplice e complesso» che si nutre del passato per affrontare il presente e guardare il futuro, allora è ben poca cosa, avverte Serrai. La biblioteca è e deve sempre porsi come sorgente di cultura e non di informazione o ragguaglio, come sono invece i motori di ricerca molto utilizzati nella navigazione su internet.

La motivazione a documentarsi, a interrogarsi, a immaginare ipotesi risolutive, a indagare e anche semplicemente a leggere può originarsi in «modo intrinseco solo se queste attività vengono comprese come necessarie per capire i mondi con cui si entra in contatto». Se l’intenzione è capire, non è sufficiente porsi di fronte a un testo, bisogna «costruire il proprio testo esplorando altri testi alla ricerca, in primo luogo, di ciò che non si capisce».
Tentare di motivare alla lettura attraverso la proclamazione della sua importanza, l’imposizione della sua realizzazione, la gratificazione del suo essere compiuta si rivelano, pressoché sempre, operazioni non sufficienti a produrre un’abitudine duratura nel ricorrere al documentarsi per conoscere, per capire, perché «non si basano su alcun bisogno del soggetto che dovrebbe compiere l’atto di leggere».
Attualmente in Italia la formazione scolastica «non riesce a trasmettere un approccio metodologico alla ricerca bibliografica» e, soprattutto, «non sempre aiuta a comprendere l’importanza di buoni documenti» per la ricerca e per l’approfondimento «per la vita, per il lavoro, per le scelte importanti».
Tra le convinzioni comuni c’è quasi sempre l’idea, «ben nota ai docenti e ai bibliotecari», che la rete, «o meglio un indifferenziato Google», sia la fonte documentale unica. Naturalmente non è così. È necessario dunque cominciare a trasmettere con fermezza l’idea che l’importante non è solo ottenere delle risposte immediate, indistinte e omogenee, bensì imparare a valutare «quali strumenti potrebbero aiutarci a raggiungere delle informazioni rilevanti, oltre che corrette». E così internet, invece che essere il mezzo attraverso cui si accede, «con approcci specifici, a libri elettronici, articoli scientifici da acquistare, preziosa documentazione di fonte pubblica, documenti open access da consultare, migliaia di cataloghi di biblioteche nel mondo da interrogare,» … diventa un tutto indistinto, in cui il recupero è affidato al «funzionamento di algoritmi non noti o all’uso di pochissime fonti note».
Queste alcune delle importanti indicazioni illustrate da Piero Cavaleri e Laura Ballestra nel Manuale per la didattica della ricerca documentale (Editrice Bibliografica, 2014).
L’obiettivo è quello di rendere gli studenti consapevoli del processo che conduce a «una trasformazione dei dati informativi in reali conoscenza e cultura». Consapevolezze e competenze che il personale docente dovrebbe già aver acquisito.

La lezione di Roberto Tassi del 2015, raccolta da Ugo Fantasia nel testo Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche ed edita da il Mulino nel 2017 è la miglior risposta possibile al quesito di senso sull’esistenza delle biblioteche.
Nel testo si compiono un’analisi e un’indagine sulle origini e sulla storia delle biblioteche, condotte attraverso i testi antichi e i documenti anche meno noti, tali da diventare esse stesse la testimonianza diretta dell’importanza della conservazione. Dal diventare la ragione evidente per la quale tutto il sapere accumulato non deve andare perduto bensì custodito, coltivato, nutrito, incrementato, fortificato.

«Studiare la storia dei testi significa studiare la storia della realtà bibliotecaria.»

Si fa tanto e presto a dire che bisogna avvicinare i giovani alla lettura. E questo è senz’altro un ottimo proposito. Ma gli adulti quanto leggono? Genitori, insegnanti, dirigenti scolastici, al ministero, la classe politica e dirigente in generale quanto leggono e quanto si documentano in realtà?
L’importanza perentoria delle biblioteche, degli archivi, dei musei e di tutti gli istituti della cultura è innegabile. Ciò che invece va accantonata, dismessa, dimenticata è la convinzione dell’inutilità della cultura e della sua scarsa incidenza sul benessere collettivo, anche economico.

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO

Andrea Capaccioni, Le biblioteche dell’Università. Storia, Modelli, Tendenze, Maggioli Editore (nuova edizione 2018).

Andrea Capaccioni, Le origini della biblioteca contemporanea. Un istituto in cerca d’identità tra vecchio e nuovo continente (secoli XVII-XIX), Editrice Bibliografica, 2017.

Mauro Guerrini, Tiziana Stagni (a cura di), De Bibliothecariis. Persone, Idee, Linguaggi, Firenze University Press, 2017.

Cecilia Cognini, L’azione culturale della biblioteca pubblica, Editrice Bibliografica, 2014.

John Palfrey, Elena Corradini (traduzione di), BIBLIOTECH. Perché le biblioteche sono importanti più che mai nell’era di Google, Editrice Bibliografica, 2016.

Antonella Agnoli, Le piazze del sapere. Biblioteche e libertà, Editori Laterza, 2014.

Antonella Agnoli, La biblioteca che vorrei. Spazi, Creatività, Partecipazione, Editrice Bibliografica, 2014.

Alfredo Serrai, La biblioteca tra informazione e cultura, Settegiorni Editore, 2016.

Piero Cavaleri, Laura Ballestra, Manuale per la didattica della ricerca documentale, Editrice Bibliografica, 2014.

Anna Maria Mandillo – Giovanna Merola (a cura di), Archivi Biblioteche e Innovazione. Atti del Seminario tenuto a Roma il 28 novembre 2006 (Annale 19/2008 dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli fondata da Giulio Carlo Argan), Iacobelli Editore, 2008.

Massimo Accarisi – Massimo Belotti (a cura di), La biblioteca e il suo pubblico. Centralità dell’utente e servizi d’informazione, Editrice Bibliografica, 1994.

Ugo Fantasia (a cura di), Luciano Canfora. Per una storia delle biblioteche (Lezione Roberto Tassi 2015), il Mulino, 2017.


Articolo apparso sul numero 54 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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“L’oro dei Medici” di Patrizia Debicke Van der Noot (Tea, 2018)

16 sabato Mar 2019

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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LorodeiMedici, PatriziaDebicke, recensione, romanzo, romanzostorico, Tea, WMI

L’oro dei Medici, pubblicato con Tea, è un romanzo storico che Patrizia Debicke sceglie di ambientare, almeno in parte, a bordo di una nave, nella fattispecie un’imbarcazione della flotta granducale, da guerra.
Un rischio e un ulteriore livello di difficoltà. Una sfida che l’autrice sembra aver voluto lanciare a se stessa. Il linguaggio e la parlata propri del Cinquecento in un contesto ancor più arduo.
Il lavoro di documentazione che certamente la Debicke ha fatto, unitamente a un’attenta verifica, hanno comunque dato buoni frutti.
Il linguaggio, seppur preciso e tecnico, non risulta ostico o stucchevole. È attento, elaborato, ma fluido e scorre bene come l’intera vicenda narrata.

Persiste anche in questo lavoro letterario la descrizione dettagliata e minuziosa, anche anatomica, dei protagonisti e la sottolineatura della loro prestanza fisica, la virilità, la forza di valorosi condottieri, uomini forti e determinati. Descrizioni che ne enfatizzano le caratteristiche generali e accentuano l’aspetto deciso e perentorio del loro essere e del loro volere. Uomini blasonati, avvezzi al comando, alla servitù e ai privilegi.

La Debicke ha studiato molto e in maniera approfondita il periodo in cui ha deciso di ambientare i suoi romanzi storici. Leggendo i libri di colei che più volte e a buon diritto è stata indicata come “la signora del Cinquecento”, traspare l’impegno profuso e la cura per ogni dettaglio, che sia di interesse storico artistico architettonico o linguistico.
Eppure riesce l’autrice, nei suoi libri e attraverso le sue storie, ad attualizzare, per così dire, le vicende come anche i protagonisti i quali, pur essendo perfettamente inseriti nel contesto storico di riferimento, sembrano avere sempre un qualcosa che li avvicina e li accomuna agli uomini e alle donne, ai governanti e alla popolazione, ai benestanti come agli indigenti di oggi.

Il Cinquecento raccontato ne L’oro dei Medici, come anche negli altri romanzi di Patrizia Debicke, è un mondo, il mondo visto dall’aristocrazia, dai principi, dai cardinali, dai pontefici. Nel quale i componenti tutti i livelli inferiori della popolazione vivono le loro esistenze, quando va bene, di riflesso, quando va male, in condizione di completa precarietà e abbandono.
D’altronde è esattamente questo il mondo cinquecentesco che è passato alla Storia attraverso libri, scritti e opere d’arte. Fu solo a cavallo tra 1500 e 1600 infatti che Annibale Carracci, per fare un esempio, compì la sua grande e personale rivoluzione nella pittura: la rappresentazione della vita quotidiana di bassa estrazione come opera d’arte. Il suo Bottega del macellaio è tra le opere più famose al riguardo. Ancor più audace, controversa ed estrema la rivoluzione portata avanti da Michelangelo Merisi, ovvero Caravaggio.

Questa volta la Debicke ha scelto come protagonista un personaggio che è anche un cliché: Don Giovanni. Il suo appartiene alla famiglia de’ Medici, figlio naturale di Cosimo I ed Eleonora Albizzi, legittimato per volere del padre. Un vero Don Giovanni di nome e di fatto. Ma l’autrice è riuscita a renderlo di gran lunga più interessante raccontando di un uomo e delle sue “conquiste” amorose certo ma anche dei suoi principi, dei sentimenti, del coraggio e del rispetto che si conquista con l’onore e il valore e non solo e non tanto con il denaro e i titoli nobiliari.

L’utilizzo di figure retoriche e la ricercatezza di termini e linguaggio fanno sì che la Debicke regali al lettore “immagini di parole” molto suggestive. Per riportare alcuni esempi: «Ma il sole, coi connotati dell’inverno che incombeva, mostrava gran fretta di coricarsi nel letto di nuvole basse, arrossate, che sfioravano il mare» oppure «il grande portone della Canaviglia si spalancò, prontamente vorace, ad accogliere il ritorno di Don Giovanni».
Patrizia Debicke racconta, di fantasia certo seppur con incredibile verosimiglianza, gli intrighi, i complotti, gli inganni, i tradimenti posti in essere, per posizione privilegi e denaro, da aristocratici, nobili, condottieri, notabili e prelati. Lotte di potere quasi sempre intestine o afferenti a qualcuno facente parte della Curia romana. Una Chiesa di preghiera e potere che ancora oggi sembra aver conservato le sue peculiari tipicità.

Un libro scritto nell’era di internet e della comunicazione ultra-veloce e che sembra trasportare il lettore in un mondo quasi surreale, dove il tempo si misura con le clessidre, le notizie viaggiano attraverso lettere e missive sigillate e consegnate a mano. Un mondo diverso, antico eppure, per certi versi, così ancora tristemente attuale.

L’oro dei Medici di Patrizia Debicke, pubblicato in seconda edizione digitale da Tea a maggio 2018, è una lettura senz’altro consigliata.


Recensione apparsa sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte 



Source: Si ringraziano l’Ufficio Stampa di Tea e AnnaMaria Riva – Comunicazione e Promozione per la segnalazione, la disponibilità e il materiale.


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“A bon droit” di Luciana Benotto (La Vita Felice, 2017) 

 Il Rinascimento italiano nel romanzo geo-storico di Luciana Benotto 

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“Cesare l’immortale. Oltre i confini del mondo” di Franco Forte (Mondadori, 2016) 


 

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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Quarta: I nuovi modi di fare Editoria

16 sabato Mar 2019

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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Analisi dei nuovi modi di fare editoria. Pubblicazioni a pagamento, auto-pubblicazioni, scrittura social. Nuova e vecchia editoria a confronto.

 

 

Sul sito dell’Associazione Italiana Editori (AIE) si possono facilmente trovare tutte le indicazioni sulle procedure e sulle regole da seguire per diventare un editore. Viene segnalato inoltre quanto complesso sia il cumulo di norme che regolano l’esercizio dell’attività editoriale e sottolineati gli obblighi che ciascuno deve rispettare nel corso della propria attività.
Gli editori sono, in buona sostanza, degli imprenditori che commercializzano libri o periodici. Imprenditori particolari però, perché nelle loro mani passano la cultura, l’informazione, l’educazione.
Oltre l’aspetto commerciale quindi non va mai dimenticato il carattere peculiare di queste aziende chiamate case editrici.

Nell’anno 2017 sono state quasi 5mila le case editrici che hanno pubblicato almeno un titolo, ovvero un’opera letteraria. Eppure tutte queste imprese sembrano non bastare o non soddisfare le richieste dell’utenza. Di chi vuol pubblicare non di chi vuol leggere, si badi bene. Ecco allora spiegato uno dei motivi del sorgere di sempre nuovi modi di fare editoria.

Ma cosa si intende esattamente con nuovi modi di fare editoria? È bene partire da una definizione di quello “vecchio”.

In un’intervista di Ada Gigli Marchetti pubblicata sul Bollettino di storia dell’editoria in Italia, Franco Angeli sottolineava che la sua è nata come una «impresa familiare che trae finanziamenti dal prodotto che commercializza. L’editoria basa la sua prosperità sul prodotto che riesce a diffondere. E si tratta di un prodotto che paga a posteriori con i diritti d’autore». L’editoria quindi, nella visione che aveva Franco Angeli, non ha bisogno di un grosso investimento di capitali iniziale, se non per quanto riguarda le librerie, tuttavia «ha un solo vero problema, quello di azzeccare i titoli giusti e di mettere insieme un catalogo adeguato».

Quello che conta insomma è la scelta dei titoli giusti e la formazione di un catalogo adeguato. E come si fa? Lo si impara con la formazione e la pratica. Il rovescio della medaglia vede una sempre più massiccia diffusione di siti, piattaforme, start up, società, aziende e via discorrendo che sembrano voler mescolare le carte e anche le regole di questo “gioco” chiamato editoria.

Dapprima ci hanno provato quelli che si fanno chiamare egualmente editori, lasciando sottintendere di esserlo, i quali però non essendo in grado di effettuare una accurata e lungimirante scelta di titoli e, di conseguenza, di un valido catalogo che è, in buona sostanza, il biglietto da visita e al contempo la credenziale maggiore per una casa editrice, accettano di pubblicare chiunque e in qualunque momento. A volte senza neanche stare troppo a sindacare sulla forma e sul contenuto dei titoli pubblicati. Una chimera per scrittori e aspiranti tali? In genere sì. Il trucco c’è e viene prontamente svelato al momento della presentazione del conto. Agli “editori a pagamento” non andrebbe permesso l’uso di detto appellativo. Sono tipografi o stampatori, insomma operatori del settore editoriale ma non certo editori.

Serviva davvero poco affinché qualcuno iniziasse a pensare che invece di pagare un presunto tale editore che comunque non garantiva adeguati editing, promozione e diffusione, si poteva anche eliminare del tutto questa superflua figura di intermediario e pubblicarsi da soli i propri libri. In tipografie o stamperie fisiche o digitali. Ecco allora che nasce il self publishing. Il punto però è che, se non si ha accesso alla distribuzione, se non si ha un grande numero di lettori, se non ci si affida comunque a qualche professionista della promozione, il risultato che si ottiene è più o meno lo stesso della pubblicazione a pagamento. In più va detto che sono davvero pochi i titoli auto-pubblicati che meritano o meriterebbero un’adeguata pubblicazione editoriale. Lo stesso vale per le pubblicazioni con i cosiddetti editori a pagamento.

Nel 2016 gli editori italiani hanno pubblicato 61.188 titoli, per un totale di copie stampate di 128.825. A questi numeri vanno aggiunti i titoli pubblicati con editori a pagamento e quelli auto-pubblicati. E vanno aggiunti ancora tutti gli e-book. Sempre nel 2016 la quota di lettori italiani è risultata essere ancora in calo. Rispetto al totale di potenziali lettori (ovvero tutti i cittadini al disopra dei sei anni) solo il 40.5% ha dichiarato di aver letto almeno un libro in un anno. Presumibilmente tra essi ci sono anche molti degli aspiranti scrittori. Una situazione a dir poco paradossale.

Considerando la mole degli aspiranti scrittori in Italia il numero di lettori dovrebbe essere altissimo, e si parla di quelli definiti forti, che hanno letto molto più di un solo libro in un anno. Non si può davvero pensare e per lungo tempo di poter scrivere libri senza essere un lettore non forte ma fortissimo. Anche e per certi versi soprattutto per coloro i quali si professano sostenitori del progresso e dell’innovazione, in campo editoriale, che osteggiano il predominio degli arcaici colossi editoriali, che criticano il lavoro dei piccoli e medi editori, che non condividono la missione dell’editoria indipendente. Di coloro insomma che sembrano fare affidamento esclusivo sui nuovi e innovativi mezzi di socializzazione e condivisione. Essere innovativi, stare al passo con i tempi, ambire a una rivoluzione culturale non preclude affatto le competenze e le conoscenze che permangono e rimangono elemento necessario e imprescindibile.

Le piattaforme di social publishing consentono di scrivere e condividere i propri scritti, perlopiù brevi storie. Una sorta di blog collettivi cui partecipano coloro che scrivono e coloro che leggono, o dovrebbero leggere. Affinché il tutto funzioni, si afferma essere molto di aiuto la lunghezza breve delle storie. Così, senza troppo impegno, chiunque abbia cinque minuti liberi li può passare leggendo la short story. Che poi, alla fin fine, è quanto accade nei social network per così dire “tradizionali” allorquando non si condividono o non si leggono articoli e link vari provenienti da altri siti ma quelli scritti sulla timeline, i post personali. Il rischio infatti è che le caratteristiche e la qualità di quanto scritto sia in realtà molto livellata per entrambe le tipologie di piattaforma, quella del social network e quella del social publishing.

Va da sé che ognuno può scrivere ciò che gli pare, nei limiti della legge e del decoro, ovunque gli pare, anche su un papiro se è ciò che vuole, ma parlare di scrittura di un libro, di pubblicazione di un’opera letteraria, di essere o diventare uno scrittore è un’altra cosa. Che questo sia chiaro.

«Se numericamente c’è molta concorrenza, nei fatti il livello medio dei manoscritti inviati e il livello delle capacità degli aspiranti scrittori è talmente basso, il livello di totale inconsapevolezza rispetto a quel che viene scritto e impunemente inviato è così tragicamente alto, che se siete cerebralmente normodotati, lettori abituali, e fate esercizio di scrittura creativa da qualche tempo, per voi sarà quasi impossibile non riuscire a pubblicare», con un «vero piccolo, medio o grande editore». A dirlo è Marco Cubeddu, caporedattore della rivista letteraria Nuovi Argomenti in un articolo pubblicato su Linkiesta.it.
È presumibile pensare che i tanti, tantissimi aspiranti scrittori i cui manoscritti vengono dichiarati illeggibili o non pubblicabili trasmigrino prontamene, insieme alle proprie opere, in Rete, sui social, sulle piattaforme di scrittura social, su quelle di auto-pubblicazione e via discorrendo, ma nella sostanza, ovvero nella qualità degli scritti, ancora nulla è cambiato.

Cubeddu riporta un esempio che lui stesso ricorda essere banale e abusatissimo ma che funziona, perché rispecchia la realtà. «Statisticamente, la maggior parte delle volte, se sentite rumore di zoccoli, si tratta di un cavallo. Rarissimamente di una zebra. Cavallo=testi illeggibili, Zebra=testi leggibili, interessanti, pubblicabili…» e conclude affermando che «ci vuole una grande autostima per sentirsi zebre». Oppure vanagloria, allorquando ci si sente delle zebre senza aver ritenuto necessario e doveroso leggere, leggere e ancora leggere libri, senza essersi immersi nel mondo della Letteratura, della Cultura, senza essersi esercitati a scrivere, a riscrivere, a rivedere…

Da uno sguardo sommario in Rete emerge che tutti questi nuovi modi di fare editoria, lanciati nel web come importanti novità, tanto attesi affrancamenti dalla vecchia e superata editoria tradizionale, sono poi, pian piano, tutti scemati. Non che gli aspiranti abbiano smesso di scrivere o di cercare un modo alternativo per diffondere le proprie opere letterarie. Solamente che, forse, i due modi di fare editoria non sono né complementari né alternativi, sono proprio due cose diverse e così vanno viste oltre che pensate.


Articolo apparso sul numero 53 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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© 2019, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Costruire personaggi e storie intorno al proprio mondo. “Malùra” di Carlo Loforti (Baldini Castoldi, 2017)

09 mercoledì Mag 2018

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CarloLoforti, Malùra, recensione, romanzo, Sicilia, WMI

Torna in libreria Carlo Loforti, già autore di Appalermo, Appalermo!, con Malùra, il nuovo romanzo pubblicato sempre dalla casa editrice Baldini&Castoldi. E anche stavolta lo fa con una storia che solo in apparenza racconta dell’universo individuale del protagonista quando, in realtà, usando con abilità linguaggio e ironia, mostra ai suoi lettori l’immenso macrocosmo di una Palermo e di una Sicilia tutta che sono, in fondo, lo specchio e il riflesso di un’Italia intera.

Con uno stile narrativo che sarebbe ingiusto e riduttivo definire leggero, Loforti racconta le vicende, a tratti rocambolesche, dei suoi protagonisti, rimarcandone i tratti divertenti e, solo in apparenza, limitandosi ad accennare quelli seri e importanti. Riesce invece in questo modo a meglio imprimerli nella mente di chi legge, forse proprio perché non cede mai alla retorica e all’ipocrisia. Una “denuncia narrativa” che solo a uno sguardo disattento può sembrare superficiale e criptica.


«Tutte quelle cose (che avevi prima di entrare in prigione, ndr), quando esci ci sono ancora, mica no. Solo che per quanto tu possa sforzarti di vederle come le vedevi prima, ora sono in bianco e nero, una pellicola sbiadita dentro cui vorresti entrare per ritornarci a vivere ma che appartiene ormai a un’altra dimensione.»


I romanzi di Carlo Loforti sono ambientati in Sicilia, a Palermo, città che l’autore conosce in tutte le sue pieghe e risvolti, come il protagonista di Malùra e Appalermo, Appalermo!, Domenico Calò, detto Mimmo. Un ragazzo, un giovane uomo cresciuto in periferia e che ha assorbito ogni odore, ogni sapore, ogni colore di questa città e lo trasmette al lettore, in maniera graduale ma inequivocabile, attraverso i piccoli gesti quotidiani che riflettono tutto il retaggio culturale che li ha generati.

Il registro narrativo di Loforti in Malùra richiama molto quello già usato in Appalermo, Appalermo! e sembra essere plasmato intorno alla vera essenza del protagonista. Potrebbe anche essere vero il contrario, in qual caso l’autore ha modellato un personaggio che calza a pennello il suo stile di scrittura.
Frasi brevi e di composizione lineare. Discorsi che rimandano al dialogare quotidiano. Riflessioni che sembrano quasi interrotte e controvoglia. Emblema perfetto della personalità di Mimmo, il quale non ha alcuna intenzione di stressarsi per agire e portare qualsiasi cosa alla sua legittima conclusione, come non ha intenzione di sfiancarsi con pensieri e riflessioni che lo stancano e lo sfiniscono nello stesso momento in cui fanno capolino nella sua mente.

I temi o “leit motiv” narrativi incontrati in Malùra sono diversi, ma il romanzo di Loforti sembra concentrarsi maggiormente sul concetto di libertà ritrovata. Tema col quale il libro si apre al lettore, allorquando chi legge sembra “accompagnare” il protagonista nel suo primo giorno di libertà dopo «tredici mesi all’Ucciardone». Ma sarà nel viaggio intrapreso da Mimmo con suo padre Pietro e l’amico Pier Francesco che il simbolismo e la simbologia letteraria abbracceranno in toto gli aneliti di libertà e perché no anche di rinascita.
Un viaggio che proprio in quanto tale è un andare e un tornare, nello spazio geografico dei chilometri percorsi ma, soprattutto, nella mente di Mimmo che, proprio mentre sembra proiettarsi verso il futuro, viene travolta e stravolta dal passato, con tutto il peso e il sovraccarico che si trascina dietro. Un intricato labirinto che, alla fine, rappresenta un enorme, complesso ed esilarante preludio alla «separazione», in quanto poi «si riduce tutto a quello». E la vita stessa in fondo è solo tempo e spazio che intercorre tra una separazione e un’altra.

Anche se Loforti utilizza sempre un registro narrativo divertente e ironico, che ricalca il carattere di Mimmo Calò, traspare dal racconto e dalle vicende vissute dai protagonisti una mesta malinconia di sottofondo che sembra accompagnare tutti, nessuno escluso. Un malessere esistenziale che è appunto una malùra.

Malùra di Carlo Loforti è un romanzo che prosegue nel racconto delle semiserie avventure di vita di Mimmo Calò, già incontrato in Appalermo, Appalermo!, ma la struttura di entrambi i libri è auto-conclusiva. Non è necessario aver letto il primo romanzo per comprendere appieno il secondo.

Con il nuovo romanzo Loforti conferma le sue abilità di scrittore, di narratore della contemporaneità che sa raccontare mali e malesseri individuali e sociali dosando alla perfezione serietà, ironia e auto-ironia. Un libro, Malùra, che rappresenta una valida opera letteraria nel suo complesso e una lettura assolutamente consigliata.


Articolo pubblicato sul numero 51 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


Source: Si ringrazia Michela Rossetti della GDG Press per la disponibilità e il materiale


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© 2018, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Terza: I colossi dell’Editoria

09 mercoledì Mag 2018

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editoria, WMI

I grandi colossi dell’editoria e il mercato editoriale globale. I maggiori gruppi editoriali italiani e gli editori indipendenti. Editori autori e lettori alle prese con la digitalizzazione, la discultura e l’oscurantismo.

A ottobre 2015 il gruppo Mondadori – che già includeva Einaudi, Piemme, Sperling&Kupfer, Frassinelli, Electa – acquisisce per 127milioni e mezzo Rizzoli, Rizzoli International, Bompiani, Marsilio, Fabbri, Bur, Sonzogno, Etas e la divisione education di Rcs e viene stimato che la nuova formazione conquisterà il 35% del mercato dei libri comprati in libreria e sul web e poco meno del 25% del settore scolastico.
L’acquisizione ha scatenato parecchi rumors tra gli editori, tra gli scrittori e anche tra i lettori. Ripetutamente è stato invocato l’Antitrust e rappresentato in maniera negativa lo scenario successivo per il libero mercato editoriale italiano.
Al momento dell’acquisizione Rcs aveva un debito di 526milioni. Il presidente della Mondadori, Marina Berlusconi, ha commentato l’operazione di acquisto indicandola come un «investimento sul futuro del nostro Paese e sulla qualità di questo futuro».

Guardata dal punto di vista culturale ed editoriale l’acquisizione conclusasi con la formazione del gruppo indicato come Mondazzoli preoccupava in quanto antitetica al pluralismo inteso come sinonimo di indipendenza, differenza e diversificazione. Aspetti editoriali che da anni comunque vengono rivendicati dall’editoria indipendente. Secondo le stime il nuovo gruppo editoriale avrebbe un fatturato oltre 500milioni in un mercato, quello editoriale italiano del 2014, di 1,2miliardi. Ma le critiche non sono mancate anche da parte degli stessi autori ai quali ha risposto Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri: «La competizione europea e mondiale si gioca tra colossi dell’editoria, cui si affiancano magari case editrici più piccole».

Viene a questo punto naturale chiedersi se gli autori che hanno manifestato pubblicamente il loro dissenso all’accorpamento dei due grandi gruppi editoriali siano i medesimi che auspicano un numero sempre crescente di copie vendute e libri pubblicati. Perché il nocciolo della questione forse è proprio questo. Se si vuol conquistare un mercato sempre più ampio, globale, non si riuscirà di certo a farlo con una piccola o media casa editrice che potrà magari vantare la bibliodiversità ma di sicuro non la diffusione planetaria, la traduzione in molteplici lingue e la relativa promozione. Insomma non potrà mai ambire e far ambire ai propri autori le tanto agognate milioni di copie vendute. Se poi, invece, si abbandona o accantona l’aspetto economico e monetario e si rivolge la propria attenzione al problema della diversità culturale applicata ai libri allora il discorso cambia, ma la responsabilità non potrà comunque essere imputata totalmente ai colossi che in quel caso andrebbero a pescare in un mercato differente.

Ai cultori liberi e sopraffini non interessa la pubblicità, non interessano le classifiche settimanali mensili o annuali di vendita, le sponsorizzazioni e quant’altro… i titoli che interessano loro se li vanno a cercare, in librerie e biblioteche fisiche o store online.

Per Nicola Lagioia, vincitore dello Strega 2015, la Fondazione Bellonci dovrà «aguzzare l’ingegno e inventarsi delle contromosse per arginare il monopolio». È quantomeno singolare che si sia espresso in questo modo. Scorrendo la lista dei vincitori di quello che viene indicato come uno dei più prestigiosi premi letterari italiani salta all’occhio il fatto che le case editrici siano più meno sempre le medesime. Negli ultimi venti anni la Mondadori appare 7 volte, Einaudi 5, Rizzoli 4, Bompiani 2, Feltrinelli 2. Se si va ancora indietro di 10 anni l’unico editore che salta all’occhio è Leonardo altrimenti gli altri sono sempre gli stessi. E anche andando oltre a ritroso non è che la situazione cambi così radicalmente. Viene da chiedersi quali nefaste conseguenze teme Lagioia per l’ipotetico monopolio indotto dalla presenza della Mondazzoli. In fondo, a pensarci bene, una sorta di monopolio o quantomeno oligopolio esiste già e da decenni ormai.

Le case editrici i cui titoli arrivano finalisti e diventano vincitori dello Strega sono sempre le stesse perché sono le uniche a pubblicare libri meritevoli o c’è dell’altro? Eventualmente è su questo che andrebbe aguzzato l’ingegno.
L’obiettivo concorrenziale di un colosso editoriale come la Mondazzoli è, presumibilmente, un gruppo editoriale di pari o superiori dimensioni perché gli editori a esso afferenti avevano comunque già vinto in rapporto alla piccola e media editoria.

Lo scorso dicembre, in una lunga intervista a La Stampa Marina Berlusconi, parlando di concorrenza commerciale, rivolgeva il suo interesse e manifestava le proprie perplessità verso i 5 grandi colossi del web (Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook) che hanno potuto agire, a suo dire, «in un contesto del tutto privo di regole». Un universo sregolato per tassazione ma anche per l’utilizzo di contenuti e copyright. Un universo che deve di certo essere regolamentato, per la trasparenza e la concorrenza ma, soprattutto, per la tutela degli utenti. Come deve essere tutelata da bibliodiversità da parte di coloro che operano, a vario titolo, nel settore della cultura, anche a livello di giuria e organizzazioni di eventi, fiere, saloni e premi letterari. Poi, naturalmente, c’è il pubblico che dovrebbe imparare a compiere ogni volta scelte indipendenti e libere.

Una cinquantina tra intellettuali e scrittori italiani manifestano pubblicamente le loro perplessità circa l’acquisizione e sottoscrivono un accorato appello volto a far desistere le parti in virtù del fatto che questa operazione genererebbe un colosso che avrebbe «enorme potere contrattuale nei confronti degli autori, dominerebbe le librerie, ucciderebbe a poco a poco le piccole case editrici e renderebbe ridicolmente prevedibili quelle competizioni che si chiamano premi letterari». Doveroso a questo punto andare a spulciare ancora tra i dati di quelle “competizioni che si chiamano premi letterari”.

Negli ultimi 20 anni gli editori i cui titoli sono arrivati tra i 5 finalisti di un altro tra i più quotati premi letterari italiani, il Campiello, sono nella misura di: Einaudi 18 volte, Mondadori 17, Bompiani 11, Rizzoli 9, Feltrinelli 8, Guanda 7, Sellerio 5, Baldini Castoldi 3, Giunti Piemme Aragno Nottetempo Marsilio 2, Il Saggiatore Neri Pozza E/O Adelphi Bollati Boringheri Garzanti Cairo Nutrimenti Ponte alle Grazie La nave di Teseo 1. Ancora più interessante è osservare tra i vincitori 4 volte Einaudi e Mondadori, 3 volte Sellerio, 2 Feltrinelli Bompiani e Guanda, 1 Adelphi Piemme Rizzoli.

Annualmente l’Istituto nazionale di statistica (ISTAT) effettua una rilevazione, indicata come Indagine sulla produzione libraria, presso tutte le case editrici e gli altri enti che svolgono attività editoriale con l’obiettivo di «descrivere le principali caratteristiche della produzione di libri nel nostro Paese». L’indagine si rivolge a circa 2000 unità, registrate in un archivio informatizzato degli editori che viene aggiornato annualmente dall’Istat. Stando ai dati forniti dall’Aie – Associazione Italiana Editori – tra il 2016 e il primo semestre del 2017 le case editrici attive, ovvero quelle che hanno pubblicato almeno un nuovo titolo, sono 4.877. Numeri imponenti che evidentemente attraversano poi grate e imbuti che sembrano farli quasi del tutto scomparire. Da tempo, non dall’acquisizione di Rcs da parte di Mondadori.

Forse ha ragione Antonio Giangrande quando parla di Discultura e oscurantismo. Se in Italia i libri vendono poco non è colpa del digitale, dell’industrializzazione e neanche delle grandi concentrazioni editoriali, «c’entrano invece, e molto, gli usi consolidati della filiera tradizionale del libro, che gli operatori dominanti (grandi editori e distributori, che in Italia poi sono la stessa cosa) non solo faticano a superare, ma tentano disperatamente (e dissennatamente) di difendere, con una distribuzione fatta di una miriade di librerie sparse ovunque, e ora in crisi profonda, abituate come sono a un mercato drogato dal “tanto se non lo vendo lo rendo”. Ecco come funziona». E descrive nel dettaglio tutto l’iter seguito da un piccolo-medio editore serio che va dalla pubblicazione in tipografia di un libro scelto alla riconsegna dell’invenduto (che in Italia ha una percentuale media del 60%) alla pubblicazione di un nuovo libro i cui introiti fittizi serviranno a tappare i buchi lasciati dagli introiti mancati del precedente, e così via…

Se a un accorpamento delle case editrici corrisponde anche un ulteriore accentramento della distribuzione ecco allora che l’imbuto e le maglie della griglia si fanno ancora più stretti per la bibliodiversità. Ma è necessario comunque sempre tenere bene in mente il fatto che l’unico canale di distribuzione e vendita che ha registrato negli ultimi anni un trend positivo è quello digitale. Il medesimo dove i grandi colossi, inclusa la Mondazzoli, vanno a scontrarsi con giganti ben più imponenti di loro.

A tenere alto il livello di concorrenza del mercato librario italiano ci sarebbero il Gruppo Mauri Spagnol, il Gruppo De Agostini, la Feltrinelli, Giunti e anche altri che, volendo, potrebbero simbolicamente dare del filo da torcere al nuovo Gruppo Mondadori-Rcs. Ma tutti parlano di testa calata per gli autori e per gli altri editori, quelli che restano fuori dal nuovo colosso. Eppure influenzare un autore che desidera scrivere il suo libro è di sicuro meno diretto e immediato di quanto potrebbe accadere o accade nella stessa editoria ma parlando di informazione giornaliera, ovvero di quotidiani. Spulciando tra i membri dei Consigli di amministrazione e gli editori i nomi dei principali, intesi come i più grandi per numero di copie, diffusione e sponsorizzazione, vengono fuori dal cilindro sempre gli stessi conigli ma nessuno o quasi di coloro che si mostrano tanto preoccupati per la libertà culturale in Italia sembra volerne parlare.

Viene da sé che la cultura deve essere uno spazio di libertà, che mai deve venir meno la libera circolazione delle idee e la diversificazione culturale ma ciò è importante non solo per i libri, lo è anche per l’informazione, per l’educazione, per le istituzioni, per il sociale e per il territorio… e, soprattutto, va sottolineato che tutto ciò non potrà mai avvenire per la mera presenza di un regime di concorrenza perfetta, ovvero un mercato dualista dove si contrappongono le due grandi visioni del mondo. Il pluralismo e la diversificazione culturale deve essere intrinseca innanzitutto in chi la cultura la vuole creare, sotto forma di libri racconti articoli di giornale o fumetti che siano, e poi in chi la diffonde.

Nella classifica mondiale 2017 di Publishers Weekly e Livres Hebdo il primo grande gruppo editoriale italiano è Mondadori che passa dalla 39° posizione del 2015 alla 28° grazie anche all’acquisizione di Rizzoli Libri (un fatturato di 501milioni di dollari contro i 350milioni del 2015). Seguito a ruota alla 29° posizione da De Agostini Editore (469milioni di dollari nel 2016) e dal Gruppo Editoriale Mauri Spagnol stabile in 33° posizione (431milioni comprensivi anche del fatturato di Messaggerie Italiane).
Altro dato interessante della classifica è la conferma che anche nel 2016 il fatturato globale è ancora in gran parte realizzato da case editrici europee (59,80%). In aumento anche la quota del Nord America (31.12%). Tenendo comunque in considerazione l’esclusione dalla classifica dei gruppi editoriali cinesi non si può non chiedersi come è possibile che una industria, quella editoriale europea, che produce quasi il 60% del fatturato globale del settore sia continuamente denigrata, attaccata, svilita, incompresa, sottovalutata, boicottata da utenti e consumatori, operatori e investitori, governi e istituzioni.

Il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2017 dell’Aie parla di ripresa dopo gli anni della crisi con una crescita del fatturato complessivo del 2016 di un +1,2%. L’editoria libraria italiana diventa sicuramente più internazionale, «con una maggiore capacità di proporre e vendere diritti degli autori italiani sui mercati stranieri (non solo per bambini e ragazzi, ma anche titoli di narrativa) e di realizzare coedizioni internazionali». Dal periodo pre-crisi (2010) i canali di vendita «sono profondamente cambiati: cresce l’online, cala la grande distribuzione, tiene la libreria». Resta e «si aggrava» quello che è «il vero problema strutturale della nostra editoria: il calo progressivo dei lettori di libri».

L’Italia registra la più bassa percentuale di lettori in confronto con le altre editorie:
Italia 40,5%
Spagna 62,2%
Germania 68,7%
Stati Uniti 73%
Canada 83%
Francia 84%
Norvegia 90%

Con questa percentuale media di lettori in Italia e il mercato dirottato verso il digitale e il globale ecco che trovano conferme le strategie poste in essere dai grandi colossi dell’editoria, come Mondadori-Rizzoli Libri. Un fiume di marketing che spaventa gli editori alternativi e indipendenti ma la cui sopravvivenza non dipende tanto da esse quanto proprio dai lettori, troppo scarsi e fors’anche troppo distratti da pubblicità e prodotti di tendenza.

 


Articolo pubblicato sul numero 51 della Rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte


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La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Seconda: Gli editori indipendenti

07 mercoledì Giu 2017

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articolo, bibliodiversita, desertificazionelibraria, dossier, editoria, editoriindipendenti, PME, scrittori, scrittura, WMI

Il ruolo degli editori indipendenti nel panorama editoriale italiano e internazionale. Bibliodiversità e desertificazione libraria. Editori indipendenti e autori emergenti.

Gli editori indipendenti in Italia sono quelli che si dichiarano paladini della bibliodiversità, capaci di mantenere alta l’asta della libertà d’espressione grazie al fatto di essere liberi autonomi e sovrani nelle scelte editoriali.

Non rispondendo agli interessi di alcuno riescono a garantire ai lettori piena indipendenza. È veramente questo che accade? Gli editori non-indipendenti sono per contro tutti “dipendenti” da qualcuno? Le loro pubblicazioni sono quindi in un certo qual modo “falsate”?

I grandi editori producono molti titoli ma soprattutto stampano innumerevoli copie puntando al guadagno come ritorno per il numero di copie vendute. Un libro che ha venduto molto e che viene magari anche ristampato è identificato come best seller. Un “best seller” nell’immaginario collettivo diventa un “gran libro”, per l’editore è un “successo editoriale” ma nella realtà rimane semplicemente un titolo che ha venduto molto.

Gli editori indipendenti affermano di preoccuparsi più della bibliodiversità, ovvero di curare la diversità culturale applicata ai libri.

In un articolo pubblicato sull’Huffington Post lo scorso aprile e firmato da Leonardo Romei, venivano riportate tutte le risposte date dagli editori indipendenti presenti al Book Pride 2016 (la Fiera Nazionale dell’Editoria Indipendente) in merito al quesito: cos’è una casa editrice?

Le risposte sono molto varie e parlano di progetti culturali, di laboratori, di strumenti per interpretare lo spirito del tempo… nella gran parte dei casi si percepisce il tentativo di battere sull’aspetto culturale, a volte si palesa la concretezza dell’aspetto economico e la risposta data dalle Edizioni E/O sembra sintetizzare al meglio la complessa situazione. Una casa editrice è «una fabbrica di mondi che però deve fari tornare i conti».

Ecco allora che, almeno in qualcosa, gli editori indipendenti cominciano a somigliare di più ai grandi colossi dell’editoria. Nessuno di loro lavora a un progetto culturale per filantropia bensì tutti lo fanno con un fine economico. Permane l’obiezione che vede gli indipendenti paladini della bibliodiversità. Tuttavia spulciando i cataloghi dei grandi editori si trovano anche lì dei titoli bibliodiversi, certo meno sponsorizzati rispetto ai best seller ma pur sempre presenti. E allora dove sta la differenza, oltre ovviamente nelle dimensioni?

La differenza la dovrebbe fare l’utente che in questo caso coincide con il lettore.

I grandi editori possono giocare con i grandi numeri, con le poderose campagne pubblicitarie e con le “vantaggiose” campagne promozionali volte a invogliare i lettori all’acquisto. Cifre che sempre più spesso divengono per nulla competitive per gli editori indipendenti i quali, per tramite dell’Osservatorio degli Editori Indipendenti (ODEI), hanno presentato una proposta di legge «a favore della promozione della lettura, per il sostegno delle librerie di qualità, delle biblioteche e delle piccole e medie imprese editoriali» nella quale spiccano le richieste di fissare il tasso massimo di sconto al 5% e di una maggiore regolamentazione delle campagne.

Non si può sapere con certezza assoluta se fissando un tetto massimo di sconto si spingerà il lettore a guardarsi attorno con maggiore attenzione e magari se questi decida di acquistare, a parità di prezzo, libri meno sponsorizzati e pubblicizzati, ma di sicuro regolamentando i ribassi del prezzo di vendita si contribuirà a limitare la “svendita” di un libro.

Nel corso della Fiera Nazionale della Piccola e Media Editoria Più libri Più liberi, tenutasi lo scorso dicembre a Roma, sono stati presentati i dati dell’indagine Nielsen sul mercato generale del libro di carta. Nei primi dieci mesi del 2016 si è registrato un aumento dello 0,2% del mercato del libro di carta corrispondente a circa 2,1 milioni di euro in più rispetto allo stesso periodo del 2015. Ma il problema di fondo ruota proprio intorno ai quesiti: siamo sicuri che dati col segno più siano segnali positivi dell’editoria? Il mercato del libro è davvero come qualsiasi altro settore della commercializzazione dove chi più vende più guadagna e se così è non ci troviamo dinanzi a una situazione simile al casinò dove è il banco a vincere sempre?

In tutta questa vorticosa giostra fatta di numeri dati vendite e guadagni in che posizione si collocano rispettivamente autori e lettori?

Gianluca Ferrara, saggista e direttore editoriale di Dissensi Edizioni, in un articolo apparso su Il Fatto Quotidiano parla delle difficoltà incontrate come conseguenza della scelta di voler restare dalla parte dei lettori. «Il mercato editoriale è un settore delicato, la “fabbrica del consenso” nasce proprio con i libri, infatti sono i pochi gruppi editoriali che controllano la quasi totalità del settore. Posseggono le tipografie dove si stampano i libri, la distribuzione con cui li veicolano, le librerie dove se li vendono e i giornali dove si pubblicano le recensioni.» Gli spazi che rimangono liberi secondo il sistema appena descritto sono pochi ma al giorno d’oggi, tramite l’utilizzo delle nuove tecnologie e nuovi strumenti, le possibilità offerte agli indipendenti sono in aumento e loro dovrebbero approfittarne presentando sempre pubblicazioni lodevoli.

Secondo quanto riportato da Jon Sealy in un articolo per Literary Hub, negli Stati Uniti una serie sempre crescente di piccoli editori indipendenti cerca di aggirare gli ostacoli relativi alla distribuzione e alla vendita dei canali tradizionali aprendo dei propri punti vendita, librerie che siano al tempo stesso centri di commercio al dettaglio e aggregazione culturale. In Italia questo ruolo sembra sia stato assegnato alle fiere di settore.

In buona sostanza quindi l’obiettivo dell’editoria indipendente sembrerebbe ben sintetizzato nelle parole di Carlos Fuentes: «Bisogna creare lettori, non dar loro quello che vogliono». Gli indipendenti sognano di creare dei lettori mentre i colossi sognerebbero di creare dei buoni clienti.

I sogni però devono prima o poi scontrarsi con la realtà e, impossibile negarlo, l’Italia è il Paese dei pochi lettori ma soprattutto dei pochi lettori forti. Ciò significa che le persone che leggono regolarmente, che sono appassionate dalla lettura, che vanno a cercarsi dei titoli che esulano dalle classifiche dei best seller, dalla narrativa di genere, dai libri-tormentone… sono in numero ancora più esiguo e che, per contro, coloro che comprano la narrativa o altro genere a prezzo ribassato nei grandi store commerciali o online forse comprerebbero di meno o non comprerebbero affatto se venisse meno la convenienza economica. Lettori che acquistano libri né più né meno di come fanno la spesa al supermercato, dove le offerte speciali e i tre per due vanno per la maggiore.

È già da un po’ che in Italia si parla di ‘desertificazione libraria‘ in riferimento alle librerie storiche o più o meno recenti che chiudono i battenti per vari motivi ma principalmente ciò va considerato una diretta conseguenza della ‘desertificazione progressiva dei lettori’, frutto a sua volta della ‘desertificazione culturale’ che ormai sta diventando strutturale. Persone, famiglie, coppie, giovani e meno giovani, occupati e inoccupati disposti e addirittura bramosi di accollarsi anche un cospicuo numero di rate pur di ‘possedere’ un’auto, un televisore o uno smartphone di ultima generazione ma che storcono il naso dinanzi una pila di libri che sonnecchia in una pressoché invisibile vetrina. E allora sì che in quest’ottica l’impresa portata avanti dagli editori indipendenti diventa ancora più titanica.

In un’intervista rilasciata per Il Giornale, Matteo Chiavarone, direttore editoriale delle Edizioni Ensemble, afferma che essere “indipendente” è bello ma solo se fai dei bei libri, in numero limitato, mantieni una costante attenzione verso esordienti e autori di Paesi poco esplorati, partecipi assiduamente a eventi culturali e fiere di settore.

Per Gino Iacobelli, già editore e presidente di ODEI, la casa editrice indipendente è «un’azienda che parla con lo scrittore ma anche con il tipografo. Lavora a stretto contatto con tutta la filiera. Gli indipendenti scelgono sempre in virtù di una passione, pur non vergognandosi di gioire dei successi economici ed editoriali».

Se da un lato l’Italia è il Paese dei pochi lettori dall’altro è il regno degli scrittori in erba. Tutti gli editori, grandi e piccoli, indipendenti e non, dichiarano di ricevere decine o centinaia di manoscritti, quotidianamente. Iacobelli sostiene che questo va sempre e comunque visto come un qualcosa di positivo e che ogni editore è libero di scegliere se puntare sulla scrittura oppure sulle idee, magari in questo caso ritornando a lavorare sulla scrittura insieme con l’autore.

E ci sono stati molti casi di “grandi successi” letterari portati avanti da editori indipendenti. Nuovi autori scoperti o scrittori riscoperti, stranieri valorizzati oppure ancora “idee” in cui si credeva fermamente. Il “successo” riscosso dagli editori indipendenti sembra essere quasi sempre legato alle rigide scelte editoriali e all’accurata selezione preventiva dei titoli da inserire nel proprio catalogo per cui è lecito pensare che un autore emergente e non che intende rivolgersi a un indipendente per sottoporre un proprio manoscritto debba preventivamente visionare tutta la linea del catalogo e riflettere, con una quanto maggiore gli riesce obiettiva autocritica, valutare la propria scrittura oppure, quantomeno, la qualità delle proprie idee.

Articolo originale apparso sul numero 49 di Writers Magazine Italia – La Rivista di riferimento per chi scrive diretta da Franco Forte.

Leggi anche – La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria

© 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La scrittura come conoscenza e rinascita. Intervista a MariaGiovanna Luini

09 martedì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, WMI

Intervista a MariaGiovanna Luini, medico-scrittore che interpreta la scrittura come conoscenza e rinascita. Una miscellanea di formazione scientifica e medicina “alternativa” che si riscopre nei suoi romanzi, l’ultimo dei quali, Il male dentro, ambientato in un Istituto di ricerca e cura. La Luini nelle terapie energetiche ha trovato la strada per la sua evoluzione interiore che si propaga anche alla sua scrittura.

MariaGiovanna Luini è lo pseudonimo utilizzato da Giovanna Maria Gatti per firmare le sue opere di narrativa.

Ha conseguito la laurea in medicina e la specializzazione in chirurgia generale e radioterapia. Svolge la professione di divulgatore e comunicatore scientifico presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. Risalgono ai tempi in cui era ancora una studentessa i primi contatti con il direttore scientifico Umberto Veronesi, nel cui team ha svolto il lavoro di ricercatrice e assistente. La collaborazione scientifica con il professor Veronesi ha portato anche alla pubblicazione di diversi saggi scientifici.

Ha prestato le sue competenze in campo medico-scientifico e letterario alla casa cinematografica Taodue per la fiction a carattere medico Crimini bianchi e al regista Ferzan Ozpetek per il film Allacciate le cinture di sicurezza.

MariaGiovanna Luini scrive anche sui suoi blog, sui portali online de Il fatto quotidiano e Satisfiction e recensisce libri per Mangialibri.

*****

Sei riuscita a conciliare aspetti e professioni apparentemente così diverse fra loro per concentrare il tuo lavoro sulla comunicazione efficace. Come ci sei riuscita?

Gli esempi di medici scrittori sono tanti e tali che dovremmo avere ormai imparato la lezione. Si può essere medico e si può anche scrivere, si può creare e si può comunicare. Anzi il medico ha una posizione privilegiata nell’osservazione della vita, nella conoscenza diretta (e non solo per esercizio di fantasia) dell’umanità, nelle sue sfaccettature più sottili e nascoste. Lo scrittore e il medico hanno parecchi elementi comuni, uno evidente è la posizione: guardano, ascoltano, producono e riproducono. Traggono conclusioni e prefigurano scenari. Chi, da medico, legge Cecov o Bulgakov intuisce subito il tratto sottile, la capacità di “vedere” che nasce non solo dal talento artistico e creativo ma da una quotidianità alle prese con la salute, la malattia, la morte, il dramma, le confidenze più intime, lo stupore di fronte all’inimmaginabile. Andiamo ad Andrea Vitali: le sue storie hanno dentro l’osservazione speciale, la consapevolezza che solo essere medico regala. Perfino l’ironia è più sottile. L’ironia dei pazienti, dei medici, degli infermieri è molto speciale perché nasce da una consapevolezza amara e cruda di quali siano le priorità reali.

Il male dentro è il tuo romanzo più recente. Uscito lo scorso marzo, edito da Cairo Editore, è ormai giunto alla quarta edizione. Un libro molto intenso. Senza lasciarti tentare dal dramma, o peggio dal melodramma, hai narrato della vita reale, vera, e della malattia, anch’essa reale, che ancora spaventa tanto perché troppo spesso colpisce duro. C’è molto di te, del tuo lavoro come medico ma anche di quello come divulgatore scientifico, delle esperienze vissute in prima persona e di quelle osservate da vicino o da lontano… quanto ritieni importante la narrazione di sé nella costruzione di una storia?

La narrazione di sé non è importante, almeno quando si parla di scrittura volta alla pubblicazione per un pubblico di lettori. Il punto è un altro. Si scrive meglio ciò che si sente, ciò che si conosce intimamente o comunque si comprende. Vero è che lo scrittore riesce a diventare altro, a uscire da se stesso per creare e ricreare identità differenti, ma nessuno mi convincerà mai che – salvo eccezioni rare – tale creazione possa essere del tutto realistica senza un pizzico di esperienza concreta. Il male dentro non è il romanzo dell’Istituto Europeo di Oncologia e neanche di MariaGiovanna Luini in quanto personaggio del romanzo, è una storia composta da tante storie possibili ma non riprese da una realtà quotidiana. Io non sono questo o quel personaggio, mi sono presa in giro qua e là ma non ho scritto un libro di memorie o una cronaca della mia professione medica. Il luogo non è IEO. Il male dentro contiene il mio amore per l’umanità che incontro all’Istituto Europeo di Oncologia, l’amore per la gente e per le relazioni che, sorprendenti e profonde, nascono in un istituto oncologico di eccellenza. Amo il lavoro di scrittore e amo il lavoro di medico, sono entrambi insostituibili.

Sei studiosa e ricercatrice di Reiki, TheReconnection, Energie, Luce. Anche ne Il male dentro si fa riferimento a questo genere di studi e ricerche nonché ai loro risultati che possono o potrebbero essere impiegati come supporto complementare alle terapie standard indicate nelle linee guida della prevenzione e cura dei tumori. Quanto ti hanno aiutato questi studi nella vita e nell’elaborazione delle tue opere di narrativa?

La creatività si nutre di tutto. Sono nata con il bisogno di scrivere, ho imparato a scrivere da sola nel momento stesso in cui ho scoperto di essere in grado di leggere (più o meno a tre anni). Ogni dettaglio della vita, anche quello che sembra più banale, non è a caso. Niente è a caso e tutto nutre la nostra evoluzione. Siamo persone in cammino, non siamo le stesse di un minuto o un giorno o un anno fa: andiamo avanti e ciò che facciamo è influenzato da ogni minimo evento. Le persone che capitano sul nostro cammino hanno un ruolo e tanto significato, lo stesso vale per i pensieri, gli accadimenti, le gioie e il dolore. Le terapie energetiche sono un passo fondamentale della mia evoluzione, si intuisce in ciò che scrivo e si vede nella mia vita di ogni giorno.

La tua carriera letteraria nasce quasi per caso nel 2005 eppure sei riuscita a conciliare i differenti aspetti della tua vita e garantire sempre un ottimo lavoro. Hai all’attivo sei titoli di narrativa (Una storia di delfini, Le parole del buio, Diario di melassa, Cosa fanno le tue mani, Ritorno ai delfini, Il male dentro) pubblicati in versione cartacea, quattro in formato digitale (È il mio racconto, Nemesi di un destino qualsiasi, Rita Levi Montalcini la vita e le scoperte della più grande scienziata italiana, Caheir di passione). Numerosi poi sono i testi di saggistica scritti con il professor Veronesi e i tuoi lavori di curatrice per testi scientifici dello stesso. Hai anche offerto la tua consulenza a case di produzione televisiva e registi quali Ferzan Ozpetek per la realizzazione di fiction e film a carattere medico. Qual è il consiglio che ti senti di dare a chi vorrebbe intraprendere il mestiere di scrivere?

Disciplina. Le energie per lavorare esistono, lo snobismo o il disfattismo non aiutano. Ho avuto e continuo ad avere una gavetta molto impegnativa, va bene così. Mettersi in discussione, leggere tantissimo (sembra incredibile ma c’è gente che scrive e non legge), usare le giuste parole con se stessi. Mai dire “non ce la faccio, non posso”. Si può fare, si fa. E usare la generosità: non siamo soli al mondo, abbiamo bisogno degli altri e in particolare chi scrive deve avere il massimo rispetto per i lettori, per il cosiddetto “pubblico”. Deve rispettare i colleghi, onorarli e stimarli e aiutarli con la lettura e la diffusione delle loro opere. L’amore crea il bene per tutti, anche e soprattutto per chi lo dona. I sogni esistono e muovono la nostra vita, a me sono capitate cose incredibili che hanno aperto tante strade… guarda caso, erano proprio le strade dei miei sogni e mai avrei immaginato che potesse accadere. Quando segui un sogno e ci credi, e non permetti a nessuno di fermarti con il disfattismo, la vita ti aiuta. Tenacia, mai abbattersi: ho ricevuto tanti “no” e capita ancora, mai mi sono lasciata sconfiggere da questi no. Un’esperienza recente è stata il lavoro di consulenza per Allacciate le cinture di Ferzan Ozpetek: chi pensava che mi sarebbe capitato di avere un’opportunità così? Invece c’è stata, e mi ha rivelato l’esistenza di persone profonde, meravigliose e creative: è accaduto perché medicina e scrittura si sono fuse (ecco, qui si dimostra che non sono incompatibili) e a quel particolare film, peraltro bellissimo, servivano entrambe.

Articolo pubblicato sul numero 40 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

L’agente letterario oggi. Intervista a Silvia Meucci

06 sabato Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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Silvia Meucci, titolare dell’Agenzia Letteraria Meucci Agency. Ripercussioni in campo editoriale della crisi economica. La figura dell’agente letterario in Italia e all’estero. Le caratteristiche strutturali di un buon manoscritto. Gli errori da evitare quando ci si rivolge a un agente letterario. Esistono i generi letterari evergreen? Il consiglio dell’agente allo scrittore emergente.

Silvia Meucci è nata a Milano. Si è laureata in Lingua e Letteratura Tedesca. Ha lavorato prima in Italia per Feltrinelli e poi in Spagna per Ediciones Siruela e per l’Universidad de Salamanca. Nel 2007 è stata insignita del titolo di Cavaliere della Repubblica Italiana, Onorificenza della Stella della Solidarietà Italiana per il lavoro di diffusione della cultura italiana all’estero. Rientra in Italia e dopo un anno di collaborazione con l’Agenzia Berla & Griffini decide, nel 2012, di fondare la Silvia Meucci Agenzia Letteraria.

Ha accettato di rispondere ad alcune domande sul suo lavoro come agente letterario, dando anche qualche consiglio pratico a chi, ultimato il suo scritto, voglia sottoporlo al vaglio di un’agenzia o degli editor di case editrici.

È un periodo particolare quello che stiamo vivendo, dal punto di vista economico ma anche sociale. Quali sono le ripercussioni più evidenti che ha riscontrato in campo editoriale?

Ripercussioni? In parte positive, sembra paradossale. Oggi gli editori sono più prudenti, più scrupolosi nelle scelte. Quando mi parlano di crisi mi permetto di esortarli a “fare meno ma a fare meglio”, a riappropriarsi di una propria linea editoriale, ferrea, che torni a caratterizzarli. Fino a oggi, troppi editori volevano fare gli “stessi” libri, senza più distinzioni tra marchi, profili editoriali, origini, ma solo per rispondere a logiche di mercato, mode, fenomeni sociologici…

Il lettore non è stupido. A un certo punto si stanca. I bei libri vincono sempre. Crisi o non crisi. E la crisi sul lettore si fa sentire sul poter acquisitivo. Se ho quindici euro, voglio portare a casa un libro, un mondo, una storia che resti, non un prodotto usa e getta. L’editore non è uno stampatore, e ultimamente si era perso di vista, a parer mio, il “mestiere”, quel buffo e strano mestiere che sfida tutte le leggi dell’Economia, e che fa anticipare tutti i costi di produzioni, prima ancora di capire se un prodotto funzionerà o meno. Per questo, bisogna tornare a calibrare bene, anzi benissimo, le proprie scelte editoriali e appoggiare il libro, nel momento del lancio, con un editing accurato, una veste grafica ben studiata, campagne di marketing e messaggi chiari.

Più lavoro, più professionalità, più attenzione. Ecco, secondo me, il lato positivo. Quello negativo è purtroppo un aspetto pesante che non ha che a vedere con la crisi della lettura, ma della vita in sé. Si è ridotta enormemente la fascia di acquirenti. Come diceva Brecht: “prima il cibo, e poi la morale”.

Cosa rappresenta oggi e quanta importanza riveste la figura dell’agente letterario all’interno del business editoriale italiano? E in quello internazionale?

Un agente è importante perché è garanzia per l’editore che il manoscritto che viene proposto è stato già vagliato, è frutto di una selezione, di un’analisi, forse anche di una prima e sommaria correzione, ed è garanzia per l’autore che la propria opera raggiunga effettivamente l’interlocutore adeguato e venga letta. La stessa identica cosa vale per l’estero.

Quali caratteristiche (strutturali, narrative, letterarie, e via discorrendo) deve avere un manoscritto per catturare la sua attenzione di agente letterario?

La voce. L’angolo da cui l’autore spia la realtà. L’originalità. Ma soprattutto, l’onestà. È la storia, il mondo nuovo, i personaggi che devono catturare, rapire, il lettore. E questo rapimento non avviene se la scrittura non è efficace.

Qual è l’errore più comune che riscontra nelle proposte editoriali che le giungono in redazione?

Molti scrivono non leggendosi dentro, non capendo realmente di cosa vogliono parlare e scrivono pensando al successo, al mercato, ai generi di moda. Bisogna scrivere di quello che si sa, di quello che si conosce o che non si conosce personalmente ma che è oggetto di una passione forte, frutto di curiosità, di interesse…

Stare aderenti alla propria mappatura interiore. E non voler andare a creare qualcosa di “artefatto”. I lettori (gli editori) capiscono subito quando un’opera è frutto di uno sterile lavoro a tavolino e quando invece è il risultato di un’esperienza reale o immaginata, ma sentita. Scrivere è scavare dentro e fuori, fa male. Non è un’operazione delicata.

Quali sono i generi letterari che potremmo definire evergreen, ovvero la cui richiesta e commercializzazione non passa mai di moda?

Non amo parlare di generi ma di libri. Bei libri. Il buon libro non passa mai di moda. Indipendentemente dal genere a cui appartiene: mainstream, poliziesco, thriller, storico, sociale o romanzo d’amore. Basti pensare ai Classici o ai capolavori del Novecento. Sono tali perché hanno resistito all’impatto di mode e del tempo. Perché? Perché sono ‘storie’ prodigiose.

C’è un consiglio che sente di dare a un aspirante scrittore in cerca di un agente letterario?

Quello che dico sempre a tutti: un agente non è un critico letterario. È solo un interlocutore, una persona che deve, assolutamente deve, entrare in sintonia con l’opera presentata. Quindi non bisogna avvilirsi se un agente dice “no”, perché ciò che non entra nelle corde dell’uno, può entrare nel sentire di un altro. Succede costantemente.

Articolo pubblicato sul numero 40 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Il giornalismo d’inchiesta: aspetti e conseguenze. Intervista a Stefano Santachiara

05 venerdì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, StefanoSantachiara, WMI

Stefano Santachiara. Il giornalismo d’inchiesta: aspetti tecnici e conseguenze.

Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta e corrispondente del «Fatto Quotidiano», dopo I panni sporchi della sinistra (Chiarelettere, 2013), scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti, ha pubblicato Calcio, carogne e gattopardi, un’indagine su come il controllo sociale sia gestito dal potere attraverso il calcio, autoprodotto e distribuito dalla piattaforma YouCanPrint, disponibile sia in versione cartacea che digitale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sugli aspetti tecnici del suo lavoro ma abbiamo anche voluto affrontare il discorso delle conseguenze, spesso spiacevoli, della professione di reporter.

Essere un giornalista significa raccontare i fatti, essere un giornalista d’inchiesta invece ha un significato molto diverso. Ricerca, analisi, descrizione sono i passaggi perentori da seguire per condurre un’inchiesta. A tutti gli effetti il tuo lavoro somiglia più a quello investigativo che giornalistico in senso stretto.

Sì, fare inchiesta significa non accontentarsi della verità superficiale, delle prime dichiarazioni e documenti che ti arrivano sul tavolo.

Non metterei però dei paletti rigidi tra l’inchiesta e le altre categorie. Non solo il cronista di giudiziaria e il nerista, ma anche il notista politico e il responsabile della cultura di un quotidiano o un periodico possono sviluppare vere e proprie inchieste, anche se il tempo e lo spazio sono sempre più circoscritti. Ognuno di noi si evolve sulle basi del proprio background, delle nuove sperimentazioni e dei principi di deontologia e onestà intellettuale che dovrebbe preservare.

A volte il giornalista d’inchiesta svolge un lavoro parallelo e di supporto all’apparato investigativo, può capitare che per intuizione, capacità logico-deduttiva, rapporti stretti con gli inquirenti, scopra materiale scottante di rilievo penale. Ma bisogna sempre fare molta attenzione, dopo le prime risultanze occorre procedere al fact checking: incrociare i dati acquisiti con nuovi documenti e testimonianze per verificare i riscontri. È fondamentale non lasciarsi influenzare dalle tesi che si sono costruite, rimettendo qualora fosse necessario tutto in discussione con il fine della sola ricerca della verità, che significa sviluppare l’inchiesta giornalistica nella massima correttezza ed equidistanza lasciando parlare i fatti.

Cosa ti ha spinto nella direzione del giornalismo d’inchiesta?

Non saprei fornire un’unica motivazione, le nostre scelte sono il risultato di predisposizioni naturali, insegnamenti che riceviamo in famiglia, a scuola, consigli di colleghi e amici, avvenimenti più o meno imprevedibili che troviamo lungo il cammino. A volte prima, a volte poi, scopriamo qual è la nostra passione e credo sia giusto, malgrado tutte le difficoltà, cercare di farla coincidere con il proprio mestiere.

Ricordo un episodio avvenuto al liceo: il professore di Lettere, Alberto Ricchetti, motivò il doppio voto che mi aveva dato, 4 e 10, apparentemente incomprensibile, scrivendo: ‘Sei fuori tema oppure, se è come penso, sei un giornalista’. Nel compito avevo parlato della guerra civile in Yugoslavia, non accontentandomi di attingere dalle cronache embedded, scrivendo dunque che in ogni conflitto esistono interessi economici e geopolitici diversi e che la pulizia etnica non era prerogativa soltanto dei miliziani del presidente Milosevic ma anche dei fascisti croati Ustascia contro i cittadini serbi residenti nella regione della Krajina.

In quegli anni, come tanti coetanei, scoprii la passione civile nel biennio di Mani Pulite, la rabbia impotente per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

La molla decisiva però, quella che mi fece “sentire” le parole del maestro di liceo, fu la visione casuale de Il muro di gomma di Marco Risi, il film sull’inchiesta giornalistica che cercò di far luce sulla strage di Ustica e i depistaggi di Stato. Di lì a poco iniziai a collaborare per la Gazzetta di Modena e in particolare di Reggio Emilia, dove la curiosità e la pratica sul campo furono alimentate dagli insegnamenti della mia caposervizio Luisa Gabbi.

Quali requisiti tecnici deve contenere un articolo o un reportage d’inchiesta?

Le informazioni fondamentali che devono essere fornite al lettore, possibilmente già in forma sintetica nell’attacco di ogni pezzo, rispondono alla regola di stampo anglosassone delle cinque W: who, what, where, when, why. Una volta spiegati gli elementi essenziali, l’approfondimento di una particolare circostanza o aspetto è naturalmente soggettivo.

Cito un esempio che vale per il reportage del videomaker come per l’estensore di un articolo di cronaca. Il 26 luglio 2006 la mia regione si risvegliò bruscamente dopo un attentato di ‘ndrangheta che distrusse l’Agenzia delle Entrate di Sassuolo. L’Emilia credeva di avere gli anticorpi adatti a respingere le infiltrazioni mafiose, invece presenti come in ogni zona dove il benessere diffuso è occasione di riciclaggio per le cosche, che stringono rapporti con pezzi di economia e politica. Allora lavoravo per Modena Radiocity e la mattina appresi la notizia durante il consueto “giro di cronaca” che consisteva, anche in radio come nei giornali, nel chiamare numeri concordati di vigili del Fuoco, polizia e carabinieri per sapere cos’era accaduto nella notte. Si trattò di un attacco allo Stato in controtendenza rispetto alla strategia della sommersione tipica delle mafie al Centro-Nord. Per fortuna non ci furono vittime ma quando arrivai sul posto vidi uno scenario di guerra, gli uffici erano stati sventrati con un chilo di pentrite, esplosivo cinque volte più potente del tritolo. L’Agenzia era stata punita dalla cosca degli Arena perché aveva scoperto una frode fiscale che nascondeva un giro di riciclaggio tra Svizzera, motor valley e il paradiso fiscale delle Isole Vergini. Tra le macerie fumanti intervistai il direttore percependo il suo terrore. La mattina stessa il boss crotonese l’aveva chiamato per dirsi “a disposizione per ricomprare macchinari”. Quel racconto passò quasi in diretta sulle frequenze della radio, nei mesi seguenti continuai a occuparmi del caso raccogliendo nuove testimonianze, recuperando documenti, scavando a ritroso su flussi di denaro e legami tra i soggetti coinvolti. I collegamenti mi hanno condotto sino a Roma, all’inchiesta del pm della Dda capitolina Giancarlo Capaldo sul riciclaggio di Telekom-Sparkle che vide ancora protagonisti gli affiliati alla cosca Arena, alcuni dei quali si erano occupati di far eleggere il senatore Nicola di Girolamo del Pdl tramite brogli organizzati presso emigrati in Germania. Già, proprio la nazione della strage di Duisburg, dove le penetrazioni della ‘ndrangheta sono state raccontate praticamente in solitudine dalla massima esperta di mafie tedesca, la giornalista e scrittrice Petra Reski.

È fuor di dubbio un mestiere complesso il tuo, spesso difficile, con dei risvolti duri come le implicazioni giudiziarie che possono seguire a un’inchiesta. Come vivi questi momenti?

A quale caso in particolare di riferisci?

Sicuramente quello più noto è il “Sacco di Serramazzoni, primo caso di rapporti tra ‘Ndrangheta e Pd di governo al Nord” che tu raccontasti nel 2011 e che fu poi oggetto della trasmissione Report. Per la partecipazione al programma di Rai3 una coop ti ha chiesto un risarcimento danni di circa 1 milione di euro, una causa definita “intimidatoria” da Ossigeno, Articolo 21, sindacato e Ordine dei giornalisti…

Tutti quanti, compresa la conduttrice Milena Gabanelli, abbiamo rifiutato la proposta di mediazione pre-processuale prevista dalla legge perché riteniamo di aver esposto in modo continente fatti documentati e di rilievo pubblico. La sola differenza, a parte il fatto che il mio breve intervento ha riguardato la lettura di visure camerali e la conferma dell’esistenza di un procedimento penale, è che la Rai tutela i propri giornalisti mentre il giornalista freelance o precario che viene colpito nel “limbo” di un passaggio televisivo deve arrangiarsi da solo. Per fortuna ho trovato un avvocato di grandi qualità professionali e umane come Fausto Gianelli, responsabile del Forum Giuristi democratici e già legale dei ragazzi pestati dalla polizia durante il G8 di Genova. Gianelli si era subito accorto che si trattava di una causa mirata a imbavagliare la stampa scomoda con fini pedagogici: colpire il giornalista che osa toccare certi sepolcri imbiancati per educarne altri cento che eventualmente volessero fare altrettanto.

Sei stato chiamato in giudizio per altre cause simili? Come affronti questo aspetto del tuo lavoro?

Di querele in vent’anni ne ho ricevute diverse ma sono state tutte archiviate o definite in udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere. Le ho sempre affrontate serenamente, nel merito, perché consapevole di aver lavorato in modo corretto e per quanto riguarda l’aspetto economico l’editore, come da prassi, assicurava la tutela legale.

Ora invece mi trovo costretto a pagare un avvocato per un processo ‘kafkiano’. Si tratta di una querela per diffamazione per un articolo pubblicato nel 2010 su «L’Informazione» di Modena relativo a dissidi tra un ufficiale dell’Accademia militare e l’ex moglie. La querela è stata riesumata proprio appena dopo il fallimento del giornale, nel luglio 2013, ed è stata sospinta da mani sapienti fino al processo malgrado l’articoletto in questione fosse senza firma e senza sigla. Dunque non solo non vi è uno straccio d’indizio sulla paternità ma, ancora più assurdo, il dibattimento che dovrò sostenere riguarda un articolo in cui non sono identificabili i protagonisti, ma proprio nel modo più assoluto: non ci sono i nomi, le iniziali, le età, le residenze del co-querelato, l’ufficiale, e della querelante, l’ex moglie, di cui non si conosce neppure il lavoro e la nazionalità. Ho solo saputo, a margine dell’udienza preliminare, che si tratta di una persona con precedenti penali. Dunque: o siamo in presenza dell’invenzione di un nuovo reato e non ci hanno avvertito, la “diffamazione senza il diffamato”, o evidentemente qualcuno ha del tempo da perdere e del denaro da farmi perdere.

Quale consiglio senti di dare a chi vuole intraprendere questo mestiere?

Il consiglio è sempre di provarci. Purtroppo il mercato è saturo e soffre come gli altri settori della crisi economica e della destrutturazione dei diritti del lavoro. Ma nonostante tutti i problemi, le minacce, le cause, gli ostacoli professionali che colpiscono i giornalisti veri, sono sempre più persuaso che si debbano seguire le proprie passioni e ciò che si sente giusto.

So che non ti piace parlare di quello a cui stai lavorando e allora per concludere ti chiedo se mai ti sei pentito delle scelte fatte in passato…

Errori ne ho fatti certamente ma pentito no, rifarei lo stesso percorso.

Intervista pubblicata sul numero 41 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria

02 martedì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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Rapporto Aie sullo stato dell’editoria in Italia. Le caratteristiche della piccola e media editoria. Rapporto ISTAT su produzione e lettura dei libri. I PmE e la digitalizzazione. Cataloghi e e-commerce. I PmE e gli autori esordienti secondo il parere degli editor.

«Con il 2014 siamo al quinto anno consecutivo di segno meno: la ripresa non arriva, viene data solo e ancora come imminente. La crisi è diventata un fatto ordinario con cui editori, librerie e distributori si trovano quotidianamente a fare i conti. Ma la crisi è anche una grande spinta modificatrice, che ha cambiato e sta cambiando i processi e i flussi produttivi, le strategie comunicative e la gestione della logistica distributiva alla ricerca di una maggiore efficienza.»

Con queste parole è stato presentato il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2015 dell’Associazione Italiana Editori (Aie), un’indagine su un campione rappresentativo di 220 piccoli editori.

La piccola, o almeno parte di essa, vende in e-commerce, produce e-book, utilizza i social network più della media editoria. Entrambe poi vendono maggiori diritti a editori stranieri, con un aumento del 96,2% rispetto al 2011.

A questo impegno profuso per la promozione e la vendita non corrisponde un aumento delle tirature, delle ristampe e della pubblicazione di nuovi titoli, valori questi tutti con segno negativo. In diminuzione anche la presenza nelle librerie mentre ad aumentare purtroppo sono le rese che passano dal 52% del 2000 al 63,6% del 2014.

Nel Quaderno 6 del «Giornale della Libreria» Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio studi dell’Aie, cerca di porre l’accento sulle qualità identificative della piccola e media editoria che non sono solo e non devono necessariamente essere circoscritte alla dimensione strutturale (numero di occupati, addetti, capitale investito, fatturato, ecc.), criterio questo che «consente di discriminare tra grande, media e piccola casa editrice (e soprattutto tra le diverse “dimensioni” delle piccole) ma che non consente immediatamente di identificare i tratti che caratterizzano i PmE sotto il profilo della strategia o del posizionamento nel sistema competitivo o nel segmento di cui fanno parte».

Secondo Peresson uno dei tratti caratterizzanti il profilo del PmE sta nella dimensione progettuale del lavoro editoriale e nella sua qualità.

«Un grande editore non può permettersi di pubblicare un libro di cui non vende almeno 4-5 mila copie. Noi invece sì. Qualità del prodotto (traduzione, cura redazionale, apparati editoriali, grafica e confezionamento, stampa, ecc.), del rapporto con l’autore, con la rete vendita, con il libraio… restare piccoli significa continuare a lavorare in maniera artigianale, curando tutto il percorso, dal manoscritto alla libreria».

Chiara Valerio, consulente editoriale della casa editrice Nottetempo, in un’intervista rilasciata per Rai Letteratura ha affermato che «molti piccoli editori si sono distinti per una politica specifica di traduzione anche da aree linguistiche molto segnate, penso al lavoro che ha fatto Nuova Frontiera sull’area ispano-americana, Voland su tutta l’area slava e sui russi e quello che sta facendo adesso Sur sugli scrittori sudamericani, e penso che sono costituzionalmente case editrici fondate da persone che non solo maneggiavano quelle lingue ma vivevano in quei mondi. Ancora una volta il fronte della traduzione è stato portato avanti da lettori che avevano frequentato quei libri. Le loro stanze dell’immaginazione erano state aperte in quei libri».

Per la Valerio punto fondamentale delle piccole e medie case editrici è il catalogo, determinante per la loro permanenza sul mercato, non avendo in genere accesso alla grande catena distributiva ed essendo spesso assenti nelle librerie.

Secondo quanto si legge nel Rapporto 2015 dell’Istat su La produzione e la lettura di libri in Italia negli anni 2013 e 2014, oltre la metà degli editori attivi (58,4%) pubblica meno di 10 titoli l’anno. I medi editori rappresentano il 29,2% del totale e pubblicano non più di 50 titoli, mentre i grandi marchi editoriali sono il 12,4% degli editori.

Nel 2013, i circa 1.600 editori attivi censiti hanno pubblicato 61.966 titoli e hanno stampato 181 milioni di copie: circa tre per ogni cittadino italiano. In media sono state stampate poco meno di 3 mila copie per ciascun titolo pubblicato. E se consideriamo che in Italia i lettori forti, ovvero quelli che leggono almeno un libro al mese, sono il 14,3% si capisce bene che la soluzione per uscire dalla crisi del settore editoriale non va certo cercata nel numero di copie stampate. Potrebbe aiutare invece una varietà nella scelta, una selezione accurata dei titoli… ed ecco che si ritorna al punto evidenziato da Chiara Valerio: il catalogo.

I dati Istat sembrano confermare quanto affermato da Peresson. I piccoli e medi editori, cioè quelli che pubblicano non più di 50 titoli l’anno, rappresentano l’87,6% del numero complessivo di editori attivi. I grandi editori, invece, pur essendo il 12,4% del numero complessivo degli operatori del settore, pubblicano oltre tre quarti (76,2%) dei libri proposti sul mercato, con una capacità di produzione e di offerta quasi 12 volte superiore a quella dei piccoli editori in termini di titoli proposti e 34 volte maggiore in termini di copie stampate.

A fronte di una capacità di produzione quantitativamente circoscritta, i piccoli e medi editori hanno sviluppato un’elevata specializzazione tematica delle proposte editoriali, «svolgendo spesso un importante ruolo di innovazione, di esplorazione e di soddisfazione della domanda, rivolgendosi a target di lettori estremamente specifici». Oltre la metà dei piccoli editori (55,4%) ha una linea di produzione editoriale tendenzialmente monotematica.

In base ai dati diffusi dall’Osservatorio eCommerce B2C Netcomm del Politecnico di Milano, i servizi offerti dai grandi canali di vendita online alle piccole e medie imprese italiane operanti nel comparto dell’editoria hanno registrato nel 2013 una crescita del 28%.

Un settore, quello dell’e-commerce, cui è doveroso e utile guardare sia per abbattere i costi della distribuzione sia per raggiungere una fetta di lettori più ampia e diffusa. Sarebbe bello, e ne parla anche la Valerio nella sua intervista, poter avere una biblioteca e una libreria in ogni città, paese e borgo, come una piazza, come l’edicola o una fontana. Un must cui non è che si è dovuto rinunciare a causa della crisi ma un qualcosa che non è mai stato realtà.

Per definizione gli editori, grandi e piccoli, devono continuare a investire risorse sui cosiddetti esordienti, gli autori nuovi tra i quali, potenzialmente, ci sono i grandi scrittori di domani.

Spesso si leggono lamentele sui tempi di attesa molto lunghi, risposte che arrivano di rado, proposte di pubblicazione ancora più esigue.

Il catalogo della piccola e media editoria pesa per il 19,1% sul catalogo complessivo italiano.

Tra il 2012 e il 2013 il settore ha perso il 21,5% degli addetti e le previsioni per il 2015 sono anche peggiori. Antonio Monaco, presidente del Gruppo Piccoli editori dell’Aie, in un’intervista ha dichiarato: «Il timone per resistere alla tempesta sarà, a mio avviso, la capacità di mettere al centro la professionalità, intesa come una composizione delle diverse professionalità che, combinate, fanno la buona editoria».

Beppe Severgnini, dalle pagine de «Il Corriere» risponde a una lettera col tramite del responsabile delle scelte editoriali di una casa editrice: «(gli scrittori, ndr) sono tutte persone con una vocazione che sono state “trovate” dall’occasione giusta in forma del tutto imprevedibile. Idem per i registi, i calciatori, i pittori: professioni destrutturate che non hanno un percorso istituzionale. Se l’occasione non capita, vuol dire che non c’era il talento o che si è stati sfortunati». Per avallare la sua risposta il responsabile editoriale invita a rileggere le vite degli scrittori del Novecento. Severgnini invece esorta gli emergenti a «presentarsi con un’idea. È questa che manca, quasi sempre».

In un saggio pubblicato sul numero 65-66 di «Allegoria», Luca Pareschi compie un’attenta analisi dei metodi di selezione di opere di autori inediti impiegati da 13 case editrici italiane, diverse per dimensione, localizzazione e orientamento verso gli esordienti.

Cosa cercano gli editor in un manoscritto? «Si tratta piuttosto di una costruzione di senso a posteriori: un manoscritto piace, in maniera pre-razionale; quando si cerca di spiegarne il perché, lo si riconduce ad alcune caratteristiche notevoli.»

Un editor di una piccola casa editrice milanese di qualità dice: «Se lavorassi in una grande casa editrice dovrei motivare maggiormente le mie scelte, o magari inquadrarle in un progetto. Invece devo dire che in un libro, innanzitutto cerco proprio il piacere della lettura personale. È evidente che se un libro faccio fatica a leggerlo, fatico ad andare avanti, difficilmente è un libro che posso promuovere».

Uno dei luoghi comuni che circolano fra gli aspiranti autori è che una biografia interessante aiuti a pubblicare il manoscritto. Gli editor sentiti da Pareschi non sembrano considerarla fra gli elementi più importanti almeno in fase di selezione, può diventare un valore aggiunto in un momento successivo, durante la promozione del libro.

Anche nelle case editrici medie spesso si applica la politica di scelta di un autore piuttosto che di un libro. «Cosa che commercialmente non conviene, in verità. Però, nei 10 anni in cui ho lavorato per Minimum Fax, abbiamo sempre privilegiato l’idea di trovare un autore e di seguirlo su diversi libri. Di credere nella sua carriera, più che di prendere un titolo X, che magari funziona, ma che sentiamo che non ha alle spalle una penna già forte.»

Originalità sembra essere il tema più ricorrente cercato dagli editor. Originalità di voce, di storia, di temi, di lingua. «Tutto ciò che è nuovo è qualcosa che valutiamo con favore. Tutto ciò che non va in scia, che non segue. Per me conta molto il tasso di novità, di singolarità dell’opera, la sua carica di innovazione, la capacità di prevedere, di precedere le tendenze.» Ecco che si ritorna al concetto di “idea” auspicato da Severgnini.

Il comparto della piccola e media editoria ha subito un duro contraccolpo a causa della crisi che ormai rischia di diventare endemica, per cui gli operatori del settore tendono a diventare sempre più esigenti e selettivi, a orientarsi verso le opportunità offerte dalla rete e dalla digitalizzazione. Qualità, novità, serietà sembrano essere gli imperativi dei PmE che lottano quotidianamente per restare a galla e possono vantare l’onore di non cedere all’inganno della pubblicazione a pagamento.

Articolo pubblicato sul numero 45 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

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