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Irma Loredana Galgano

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Il giornalismo d’inchiesta: aspetti e conseguenze. Intervista a Stefano Santachiara

05 venerdì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Interviste

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intervista, StefanoSantachiara, WMI

Stefano Santachiara. Il giornalismo d’inchiesta: aspetti tecnici e conseguenze.

Stefano Santachiara, giornalista d’inchiesta e corrispondente del «Fatto Quotidiano», dopo I panni sporchi della sinistra (Chiarelettere, 2013), scritto a quattro mani con Ferruccio Pinotti, ha pubblicato Calcio, carogne e gattopardi, un’indagine su come il controllo sociale sia gestito dal potere attraverso il calcio, autoprodotto e distribuito dalla piattaforma YouCanPrint, disponibile sia in versione cartacea che digitale. Gli abbiamo rivolto alcune domande sugli aspetti tecnici del suo lavoro ma abbiamo anche voluto affrontare il discorso delle conseguenze, spesso spiacevoli, della professione di reporter.

Essere un giornalista significa raccontare i fatti, essere un giornalista d’inchiesta invece ha un significato molto diverso. Ricerca, analisi, descrizione sono i passaggi perentori da seguire per condurre un’inchiesta. A tutti gli effetti il tuo lavoro somiglia più a quello investigativo che giornalistico in senso stretto.

Sì, fare inchiesta significa non accontentarsi della verità superficiale, delle prime dichiarazioni e documenti che ti arrivano sul tavolo.

Non metterei però dei paletti rigidi tra l’inchiesta e le altre categorie. Non solo il cronista di giudiziaria e il nerista, ma anche il notista politico e il responsabile della cultura di un quotidiano o un periodico possono sviluppare vere e proprie inchieste, anche se il tempo e lo spazio sono sempre più circoscritti. Ognuno di noi si evolve sulle basi del proprio background, delle nuove sperimentazioni e dei principi di deontologia e onestà intellettuale che dovrebbe preservare.

A volte il giornalista d’inchiesta svolge un lavoro parallelo e di supporto all’apparato investigativo, può capitare che per intuizione, capacità logico-deduttiva, rapporti stretti con gli inquirenti, scopra materiale scottante di rilievo penale. Ma bisogna sempre fare molta attenzione, dopo le prime risultanze occorre procedere al fact checking: incrociare i dati acquisiti con nuovi documenti e testimonianze per verificare i riscontri. È fondamentale non lasciarsi influenzare dalle tesi che si sono costruite, rimettendo qualora fosse necessario tutto in discussione con il fine della sola ricerca della verità, che significa sviluppare l’inchiesta giornalistica nella massima correttezza ed equidistanza lasciando parlare i fatti.

Cosa ti ha spinto nella direzione del giornalismo d’inchiesta?

Non saprei fornire un’unica motivazione, le nostre scelte sono il risultato di predisposizioni naturali, insegnamenti che riceviamo in famiglia, a scuola, consigli di colleghi e amici, avvenimenti più o meno imprevedibili che troviamo lungo il cammino. A volte prima, a volte poi, scopriamo qual è la nostra passione e credo sia giusto, malgrado tutte le difficoltà, cercare di farla coincidere con il proprio mestiere.

Ricordo un episodio avvenuto al liceo: il professore di Lettere, Alberto Ricchetti, motivò il doppio voto che mi aveva dato, 4 e 10, apparentemente incomprensibile, scrivendo: ‘Sei fuori tema oppure, se è come penso, sei un giornalista’. Nel compito avevo parlato della guerra civile in Yugoslavia, non accontentandomi di attingere dalle cronache embedded, scrivendo dunque che in ogni conflitto esistono interessi economici e geopolitici diversi e che la pulizia etnica non era prerogativa soltanto dei miliziani del presidente Milosevic ma anche dei fascisti croati Ustascia contro i cittadini serbi residenti nella regione della Krajina.

In quegli anni, come tanti coetanei, scoprii la passione civile nel biennio di Mani Pulite, la rabbia impotente per le stragi di Capaci e via D’Amelio.

La molla decisiva però, quella che mi fece “sentire” le parole del maestro di liceo, fu la visione casuale de Il muro di gomma di Marco Risi, il film sull’inchiesta giornalistica che cercò di far luce sulla strage di Ustica e i depistaggi di Stato. Di lì a poco iniziai a collaborare per la Gazzetta di Modena e in particolare di Reggio Emilia, dove la curiosità e la pratica sul campo furono alimentate dagli insegnamenti della mia caposervizio Luisa Gabbi.

Quali requisiti tecnici deve contenere un articolo o un reportage d’inchiesta?

Le informazioni fondamentali che devono essere fornite al lettore, possibilmente già in forma sintetica nell’attacco di ogni pezzo, rispondono alla regola di stampo anglosassone delle cinque W: who, what, where, when, why. Una volta spiegati gli elementi essenziali, l’approfondimento di una particolare circostanza o aspetto è naturalmente soggettivo.

Cito un esempio che vale per il reportage del videomaker come per l’estensore di un articolo di cronaca. Il 26 luglio 2006 la mia regione si risvegliò bruscamente dopo un attentato di ‘ndrangheta che distrusse l’Agenzia delle Entrate di Sassuolo. L’Emilia credeva di avere gli anticorpi adatti a respingere le infiltrazioni mafiose, invece presenti come in ogni zona dove il benessere diffuso è occasione di riciclaggio per le cosche, che stringono rapporti con pezzi di economia e politica. Allora lavoravo per Modena Radiocity e la mattina appresi la notizia durante il consueto “giro di cronaca” che consisteva, anche in radio come nei giornali, nel chiamare numeri concordati di vigili del Fuoco, polizia e carabinieri per sapere cos’era accaduto nella notte. Si trattò di un attacco allo Stato in controtendenza rispetto alla strategia della sommersione tipica delle mafie al Centro-Nord. Per fortuna non ci furono vittime ma quando arrivai sul posto vidi uno scenario di guerra, gli uffici erano stati sventrati con un chilo di pentrite, esplosivo cinque volte più potente del tritolo. L’Agenzia era stata punita dalla cosca degli Arena perché aveva scoperto una frode fiscale che nascondeva un giro di riciclaggio tra Svizzera, motor valley e il paradiso fiscale delle Isole Vergini. Tra le macerie fumanti intervistai il direttore percependo il suo terrore. La mattina stessa il boss crotonese l’aveva chiamato per dirsi “a disposizione per ricomprare macchinari”. Quel racconto passò quasi in diretta sulle frequenze della radio, nei mesi seguenti continuai a occuparmi del caso raccogliendo nuove testimonianze, recuperando documenti, scavando a ritroso su flussi di denaro e legami tra i soggetti coinvolti. I collegamenti mi hanno condotto sino a Roma, all’inchiesta del pm della Dda capitolina Giancarlo Capaldo sul riciclaggio di Telekom-Sparkle che vide ancora protagonisti gli affiliati alla cosca Arena, alcuni dei quali si erano occupati di far eleggere il senatore Nicola di Girolamo del Pdl tramite brogli organizzati presso emigrati in Germania. Già, proprio la nazione della strage di Duisburg, dove le penetrazioni della ‘ndrangheta sono state raccontate praticamente in solitudine dalla massima esperta di mafie tedesca, la giornalista e scrittrice Petra Reski.

È fuor di dubbio un mestiere complesso il tuo, spesso difficile, con dei risvolti duri come le implicazioni giudiziarie che possono seguire a un’inchiesta. Come vivi questi momenti?

A quale caso in particolare di riferisci?

Sicuramente quello più noto è il “Sacco di Serramazzoni, primo caso di rapporti tra ‘Ndrangheta e Pd di governo al Nord” che tu raccontasti nel 2011 e che fu poi oggetto della trasmissione Report. Per la partecipazione al programma di Rai3 una coop ti ha chiesto un risarcimento danni di circa 1 milione di euro, una causa definita “intimidatoria” da Ossigeno, Articolo 21, sindacato e Ordine dei giornalisti…

Tutti quanti, compresa la conduttrice Milena Gabanelli, abbiamo rifiutato la proposta di mediazione pre-processuale prevista dalla legge perché riteniamo di aver esposto in modo continente fatti documentati e di rilievo pubblico. La sola differenza, a parte il fatto che il mio breve intervento ha riguardato la lettura di visure camerali e la conferma dell’esistenza di un procedimento penale, è che la Rai tutela i propri giornalisti mentre il giornalista freelance o precario che viene colpito nel “limbo” di un passaggio televisivo deve arrangiarsi da solo. Per fortuna ho trovato un avvocato di grandi qualità professionali e umane come Fausto Gianelli, responsabile del Forum Giuristi democratici e già legale dei ragazzi pestati dalla polizia durante il G8 di Genova. Gianelli si era subito accorto che si trattava di una causa mirata a imbavagliare la stampa scomoda con fini pedagogici: colpire il giornalista che osa toccare certi sepolcri imbiancati per educarne altri cento che eventualmente volessero fare altrettanto.

Sei stato chiamato in giudizio per altre cause simili? Come affronti questo aspetto del tuo lavoro?

Di querele in vent’anni ne ho ricevute diverse ma sono state tutte archiviate o definite in udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere. Le ho sempre affrontate serenamente, nel merito, perché consapevole di aver lavorato in modo corretto e per quanto riguarda l’aspetto economico l’editore, come da prassi, assicurava la tutela legale.

Ora invece mi trovo costretto a pagare un avvocato per un processo ‘kafkiano’. Si tratta di una querela per diffamazione per un articolo pubblicato nel 2010 su «L’Informazione» di Modena relativo a dissidi tra un ufficiale dell’Accademia militare e l’ex moglie. La querela è stata riesumata proprio appena dopo il fallimento del giornale, nel luglio 2013, ed è stata sospinta da mani sapienti fino al processo malgrado l’articoletto in questione fosse senza firma e senza sigla. Dunque non solo non vi è uno straccio d’indizio sulla paternità ma, ancora più assurdo, il dibattimento che dovrò sostenere riguarda un articolo in cui non sono identificabili i protagonisti, ma proprio nel modo più assoluto: non ci sono i nomi, le iniziali, le età, le residenze del co-querelato, l’ufficiale, e della querelante, l’ex moglie, di cui non si conosce neppure il lavoro e la nazionalità. Ho solo saputo, a margine dell’udienza preliminare, che si tratta di una persona con precedenti penali. Dunque: o siamo in presenza dell’invenzione di un nuovo reato e non ci hanno avvertito, la “diffamazione senza il diffamato”, o evidentemente qualcuno ha del tempo da perdere e del denaro da farmi perdere.

Quale consiglio senti di dare a chi vuole intraprendere questo mestiere?

Il consiglio è sempre di provarci. Purtroppo il mercato è saturo e soffre come gli altri settori della crisi economica e della destrutturazione dei diritti del lavoro. Ma nonostante tutti i problemi, le minacce, le cause, gli ostacoli professionali che colpiscono i giornalisti veri, sono sempre più persuaso che si debbano seguire le proprie passioni e ciò che si sente giusto.

So che non ti piace parlare di quello a cui stai lavorando e allora per concludere ti chiedo se mai ti sei pentito delle scelte fatte in passato…

Errori ne ho fatti certamente ma pentito no, rifarei lo stesso percorso.

Intervista pubblicata sul numero 41 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

La pubblicazione di un libro. Gli scrittori e il mondo editoriale. Parte Prima: Piccola e Media Editoria

02 martedì Ago 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, editoria, WMI

Rapporto Aie sullo stato dell’editoria in Italia. Le caratteristiche della piccola e media editoria. Rapporto ISTAT su produzione e lettura dei libri. I PmE e la digitalizzazione. Cataloghi e e-commerce. I PmE e gli autori esordienti secondo il parere degli editor.

«Con il 2014 siamo al quinto anno consecutivo di segno meno: la ripresa non arriva, viene data solo e ancora come imminente. La crisi è diventata un fatto ordinario con cui editori, librerie e distributori si trovano quotidianamente a fare i conti. Ma la crisi è anche una grande spinta modificatrice, che ha cambiato e sta cambiando i processi e i flussi produttivi, le strategie comunicative e la gestione della logistica distributiva alla ricerca di una maggiore efficienza.»

Con queste parole è stato presentato il Rapporto sullo stato dell’editoria in Italia 2015 dell’Associazione Italiana Editori (Aie), un’indagine su un campione rappresentativo di 220 piccoli editori.

La piccola, o almeno parte di essa, vende in e-commerce, produce e-book, utilizza i social network più della media editoria. Entrambe poi vendono maggiori diritti a editori stranieri, con un aumento del 96,2% rispetto al 2011.

A questo impegno profuso per la promozione e la vendita non corrisponde un aumento delle tirature, delle ristampe e della pubblicazione di nuovi titoli, valori questi tutti con segno negativo. In diminuzione anche la presenza nelle librerie mentre ad aumentare purtroppo sono le rese che passano dal 52% del 2000 al 63,6% del 2014.

Nel Quaderno 6 del «Giornale della Libreria» Giovanni Peresson, responsabile dell’ufficio studi dell’Aie, cerca di porre l’accento sulle qualità identificative della piccola e media editoria che non sono solo e non devono necessariamente essere circoscritte alla dimensione strutturale (numero di occupati, addetti, capitale investito, fatturato, ecc.), criterio questo che «consente di discriminare tra grande, media e piccola casa editrice (e soprattutto tra le diverse “dimensioni” delle piccole) ma che non consente immediatamente di identificare i tratti che caratterizzano i PmE sotto il profilo della strategia o del posizionamento nel sistema competitivo o nel segmento di cui fanno parte».

Secondo Peresson uno dei tratti caratterizzanti il profilo del PmE sta nella dimensione progettuale del lavoro editoriale e nella sua qualità.

«Un grande editore non può permettersi di pubblicare un libro di cui non vende almeno 4-5 mila copie. Noi invece sì. Qualità del prodotto (traduzione, cura redazionale, apparati editoriali, grafica e confezionamento, stampa, ecc.), del rapporto con l’autore, con la rete vendita, con il libraio… restare piccoli significa continuare a lavorare in maniera artigianale, curando tutto il percorso, dal manoscritto alla libreria».

Chiara Valerio, consulente editoriale della casa editrice Nottetempo, in un’intervista rilasciata per Rai Letteratura ha affermato che «molti piccoli editori si sono distinti per una politica specifica di traduzione anche da aree linguistiche molto segnate, penso al lavoro che ha fatto Nuova Frontiera sull’area ispano-americana, Voland su tutta l’area slava e sui russi e quello che sta facendo adesso Sur sugli scrittori sudamericani, e penso che sono costituzionalmente case editrici fondate da persone che non solo maneggiavano quelle lingue ma vivevano in quei mondi. Ancora una volta il fronte della traduzione è stato portato avanti da lettori che avevano frequentato quei libri. Le loro stanze dell’immaginazione erano state aperte in quei libri».

Per la Valerio punto fondamentale delle piccole e medie case editrici è il catalogo, determinante per la loro permanenza sul mercato, non avendo in genere accesso alla grande catena distributiva ed essendo spesso assenti nelle librerie.

Secondo quanto si legge nel Rapporto 2015 dell’Istat su La produzione e la lettura di libri in Italia negli anni 2013 e 2014, oltre la metà degli editori attivi (58,4%) pubblica meno di 10 titoli l’anno. I medi editori rappresentano il 29,2% del totale e pubblicano non più di 50 titoli, mentre i grandi marchi editoriali sono il 12,4% degli editori.

Nel 2013, i circa 1.600 editori attivi censiti hanno pubblicato 61.966 titoli e hanno stampato 181 milioni di copie: circa tre per ogni cittadino italiano. In media sono state stampate poco meno di 3 mila copie per ciascun titolo pubblicato. E se consideriamo che in Italia i lettori forti, ovvero quelli che leggono almeno un libro al mese, sono il 14,3% si capisce bene che la soluzione per uscire dalla crisi del settore editoriale non va certo cercata nel numero di copie stampate. Potrebbe aiutare invece una varietà nella scelta, una selezione accurata dei titoli… ed ecco che si ritorna al punto evidenziato da Chiara Valerio: il catalogo.

I dati Istat sembrano confermare quanto affermato da Peresson. I piccoli e medi editori, cioè quelli che pubblicano non più di 50 titoli l’anno, rappresentano l’87,6% del numero complessivo di editori attivi. I grandi editori, invece, pur essendo il 12,4% del numero complessivo degli operatori del settore, pubblicano oltre tre quarti (76,2%) dei libri proposti sul mercato, con una capacità di produzione e di offerta quasi 12 volte superiore a quella dei piccoli editori in termini di titoli proposti e 34 volte maggiore in termini di copie stampate.

A fronte di una capacità di produzione quantitativamente circoscritta, i piccoli e medi editori hanno sviluppato un’elevata specializzazione tematica delle proposte editoriali, «svolgendo spesso un importante ruolo di innovazione, di esplorazione e di soddisfazione della domanda, rivolgendosi a target di lettori estremamente specifici». Oltre la metà dei piccoli editori (55,4%) ha una linea di produzione editoriale tendenzialmente monotematica.

In base ai dati diffusi dall’Osservatorio eCommerce B2C Netcomm del Politecnico di Milano, i servizi offerti dai grandi canali di vendita online alle piccole e medie imprese italiane operanti nel comparto dell’editoria hanno registrato nel 2013 una crescita del 28%.

Un settore, quello dell’e-commerce, cui è doveroso e utile guardare sia per abbattere i costi della distribuzione sia per raggiungere una fetta di lettori più ampia e diffusa. Sarebbe bello, e ne parla anche la Valerio nella sua intervista, poter avere una biblioteca e una libreria in ogni città, paese e borgo, come una piazza, come l’edicola o una fontana. Un must cui non è che si è dovuto rinunciare a causa della crisi ma un qualcosa che non è mai stato realtà.

Per definizione gli editori, grandi e piccoli, devono continuare a investire risorse sui cosiddetti esordienti, gli autori nuovi tra i quali, potenzialmente, ci sono i grandi scrittori di domani.

Spesso si leggono lamentele sui tempi di attesa molto lunghi, risposte che arrivano di rado, proposte di pubblicazione ancora più esigue.

Il catalogo della piccola e media editoria pesa per il 19,1% sul catalogo complessivo italiano.

Tra il 2012 e il 2013 il settore ha perso il 21,5% degli addetti e le previsioni per il 2015 sono anche peggiori. Antonio Monaco, presidente del Gruppo Piccoli editori dell’Aie, in un’intervista ha dichiarato: «Il timone per resistere alla tempesta sarà, a mio avviso, la capacità di mettere al centro la professionalità, intesa come una composizione delle diverse professionalità che, combinate, fanno la buona editoria».

Beppe Severgnini, dalle pagine de «Il Corriere» risponde a una lettera col tramite del responsabile delle scelte editoriali di una casa editrice: «(gli scrittori, ndr) sono tutte persone con una vocazione che sono state “trovate” dall’occasione giusta in forma del tutto imprevedibile. Idem per i registi, i calciatori, i pittori: professioni destrutturate che non hanno un percorso istituzionale. Se l’occasione non capita, vuol dire che non c’era il talento o che si è stati sfortunati». Per avallare la sua risposta il responsabile editoriale invita a rileggere le vite degli scrittori del Novecento. Severgnini invece esorta gli emergenti a «presentarsi con un’idea. È questa che manca, quasi sempre».

In un saggio pubblicato sul numero 65-66 di «Allegoria», Luca Pareschi compie un’attenta analisi dei metodi di selezione di opere di autori inediti impiegati da 13 case editrici italiane, diverse per dimensione, localizzazione e orientamento verso gli esordienti.

Cosa cercano gli editor in un manoscritto? «Si tratta piuttosto di una costruzione di senso a posteriori: un manoscritto piace, in maniera pre-razionale; quando si cerca di spiegarne il perché, lo si riconduce ad alcune caratteristiche notevoli.»

Un editor di una piccola casa editrice milanese di qualità dice: «Se lavorassi in una grande casa editrice dovrei motivare maggiormente le mie scelte, o magari inquadrarle in un progetto. Invece devo dire che in un libro, innanzitutto cerco proprio il piacere della lettura personale. È evidente che se un libro faccio fatica a leggerlo, fatico ad andare avanti, difficilmente è un libro che posso promuovere».

Uno dei luoghi comuni che circolano fra gli aspiranti autori è che una biografia interessante aiuti a pubblicare il manoscritto. Gli editor sentiti da Pareschi non sembrano considerarla fra gli elementi più importanti almeno in fase di selezione, può diventare un valore aggiunto in un momento successivo, durante la promozione del libro.

Anche nelle case editrici medie spesso si applica la politica di scelta di un autore piuttosto che di un libro. «Cosa che commercialmente non conviene, in verità. Però, nei 10 anni in cui ho lavorato per Minimum Fax, abbiamo sempre privilegiato l’idea di trovare un autore e di seguirlo su diversi libri. Di credere nella sua carriera, più che di prendere un titolo X, che magari funziona, ma che sentiamo che non ha alle spalle una penna già forte.»

Originalità sembra essere il tema più ricorrente cercato dagli editor. Originalità di voce, di storia, di temi, di lingua. «Tutto ciò che è nuovo è qualcosa che valutiamo con favore. Tutto ciò che non va in scia, che non segue. Per me conta molto il tasso di novità, di singolarità dell’opera, la sua carica di innovazione, la capacità di prevedere, di precedere le tendenze.» Ecco che si ritorna al concetto di “idea” auspicato da Severgnini.

Il comparto della piccola e media editoria ha subito un duro contraccolpo a causa della crisi che ormai rischia di diventare endemica, per cui gli operatori del settore tendono a diventare sempre più esigenti e selettivi, a orientarsi verso le opportunità offerte dalla rete e dalla digitalizzazione. Qualità, novità, serietà sembrano essere gli imperativi dei PmE che lottano quotidianamente per restare a galla e possono vantare l’onore di non cedere all’inganno della pubblicazione a pagamento.

Articolo pubblicato sul numero 45 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte

© 2016 – 2017, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Chi è lo scrittore più bravo al mondo?

29 venerdì Lug 2016

Posted by Irma Loredana Galgano in Articoli

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articolo, scrittori, scrittura, WMI

Criteri di classificazione degli scrittori più bravi o più venduti. I classici e la Letteratura di genere. I gusti del grande pubblico e i consigli di scrittura degli autori celebri. Riflessioni sul Premio Nobel per la Letteratura e la ‘direzione ideale’ degli scrittori premiati.
Lo scrittore più bravo al mondo, la qualità della scrittura e quella del narrato.

“Chi è lo scrittore più bravo al mondo?” Spesso il concetto di più bravo viene associato a quello di più noto o peggio di più ricco.

Sono tante le classifiche che si trovano anche in rete e che stilano la lista degli scrittori più venduti al mondo.

Stando agli annuali elenchi della rivista «Forbes» a farla da padrone è l’americano James Patterson che finisce nella top ten degli artisti più ricchi al mondo. Patterson ha venduto oltre 300 milioni di copie. Perché?

I libri oggi sono commercializzati al pari di una qualsiasi altra merce e come tali per rendere devono essere inseriti nel sistema mediatico della promozione. Gli americani, il popolo che ha inventato la cosiddetta ‘fabbrica dei sogni‘, in questo sono dei veri maestri.

Numerose opere di Patterson sono state trasposte cinematograficamente, ma non tutti i libri che diventano film vendono milioni di copie. Quindi dev’esserci dell’altro.

Patterson viene «considerato uno dei più importanti autori di thriller del nostro tempo». Al ‘nostro tempo’ infatti il thriller, come il giallo, il poliziesco e il noir acquistano sempre maggiore consenso e diffusione.

Generi letterari nati nell’accezione negativa di produzioni ‘commerciali’ o ‘di massa’ hanno faticato non poco per trovare una congrua collocazione nel panorama letterario. Ancora non troppo ben visti dai cultori della Letteratura vengono sempre più considerati come scritti che non si limitano a raccontare un crimine e relative indagini ma opere di narrativa che denunciano i mali sociali e la violenza, o quantomeno ne parlano.

Ma perché il pubblico è sempre più attratto da un qualcosa da cui nella vita reale si cerca di fuggire?

Stephen King è un altro scrittore e sceneggiatore statunitense che ha all’attivo una prolifica e fortunata carriera, con libri entrati regolarmente nelle classifiche dei più venduti e una vendita complessiva di oltre 500 milioni di copie. King entrò a far parte della giuria composta da 125 scrittori celebri che nel 2013 stilò l’elenco dei 10 libri più belli di tutti i tempi. Non è presente in esso nessuno dei libri e quindi degli autori attualmente ‘produttivi’, neanche Patterson o lo stesso King, mentre figurano nomi del calibro di Tolstoj, Flaubert, Twain, Cechov, Eliot… autori che non hanno cercato o studiato il modo di scrivere un libro che piaccia al pubblico, che venda milioni di copie e che sia rappresentato cinematograficamente o meglio, visto il periodo, nei teatri.

Leggendo Tolstoj, Flaubert, Twain, Cechov, Eliot non ti chiedi com’è o come sarebbe il film, non ripercorri mentalmente le scene qualora ne avessi già visto la trasposizione in video, bensì ti figuri il mondo nel quale affrontano la vita i personaggi, protagonisti di storie intense, uniche, straordinarie come solo la vita vera può esserlo. Impari, senza neanche rendertene conto, tutto sulla società, sui luoghi che ospitano le vicende con, spesso, riferimenti e collegamenti ai grandi eventi che hanno caratterizzato il corso della Storia.

Quindi mentre il grande pubblico sembra apprezzare sempre più libri che rispondano alle sue precise richieste, opere di narrativa studiate a tavolino e lanciate nel mercato con vere operazioni di marketing, gli scrittori più famosi, tra i quali figurano gli autori dei libri sopra descritti, preferiscono i classici.

Ma cosa cerca il grande pubblico in un libro?

Stando alla classifica stilata lo scorso anno da «MetalliRari» tra i 10 scrittori più ricchi al mondo troviamo 5 autori di thriller e noir, 3 autori di romanzi rosa e 2 autori di fantasy. Si può dedurre che la prima cosa che i lettori cercano in un libro sia l’evasione, al pari del grande pubblico televisivo e cinematografico.

Studi psicologici ipotizzano l’ambivalente piacere che ci procura la sofferenza altrui, che diviene in parte compensatorio della nostra aggressività repressa. Quindi il costante aumento di consenso ottenuto dai libri gialli, thriller, polizieschi, noir e horror potrebbe in qualche misura essere dovuto anche a questo ‘ambivalente piacere‘.

Raggiunta a un convegno sul tema delle “grandi storie romantiche” Lidia Ravera affermò: «Sì, però le lettrici non sono ingenue, sanno bene che il principe azzurro non esiste». Lo sanno quindi che nella vita reale non ha senso attendere l’arrivo di una carrozza e che il ‘vivere per sempre felici e contenti’ ha un significato differente ma leggono comunque con passione e costanza i romanzi rosa che ruotano intorno alla figura del grande amore da sogno.

Per quanto concerne il fantasy poi alcuni sostengono di leggerlo «perché non è soltanto evasione», ma anche avventura, thriller, horror… il tutto condito da una buona dose di Storia, più o meno fantasiosa.

Ma il bravo scrittore è colui che sa adattarsi alle richieste dei lettori o colui che sa meglio trasmettere il proprio messaggio, la propria eredità letteraria?

«Se lo fai solo per soldi o per fama, non farlo. Se lo fai perché vuoi delle donne nel letto, non farlo. Se devi startene lì a scrivere e riscrivere, non farlo. Se è già una fatica il solo pensiero di farlo, non farlo. Se stai cercando di scrivere come qualcun altro, lascia perdere.» Scriveva Charles Bukowski, lo scrittore che per molti “derise l’umanità”, lui che in fondo ha solo cercato di descriverla questa umanità, senza filtri né belle parole.

Nel suo libro On Writing, uscito in Italia nel 2010 per la Sperling&Kupfer con il sottotitolo Autobiografia di un mestiere, Stephen King elenca oltre venti consigli diretti agli aspiranti scrittori utili per diventare delle ‘buone penne’.

I suoi in realtà sono più consigli da manuale che segreti del mestiere. Suggerisce di essere costanti, chiari nella scrittura, di leggere molto, di limitare l’uso degli avverbi, di fare attenzione a dialoghi e personaggi e poi ritorna anche lui sulla questione economica: «Non scrivere per denaro, ma per il piacere di farlo, perché se puoi farlo per piacere, puoi farlo per sempre».

Il nostrano Umberto Eco invece in La bustina di Minerva, edito da Bompiani nel 2000, elenca ben 40 regole da seguire per scrivere bene. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a suggerimenti sulla tecnica di scrittura che Eco ha ammesso di aver ‘ricopiato’ dalla rete.

«Ho trovato in internet una serie di istruzioni su come scrivere bene. Le faccio mie, con qualche variazione, perché penso che possano essere utili a molti, specie a coloro che frequentano le scuole di scrittura.»

Eco suggerisce, tra l’altro, di scrivere in maniera semplice e poco ridondante, di usare con parsimonia le figure retoriche e le citazioni, di fare attenzione alla punteggiatura e ai congiuntivi. Ma i suoi consigli, dispensati tra il serio e il faceto, si fermano all’aspetto manuale della scrittura lasciando intendere che ‘il mestiere di scrivere’ è, al pari di qualsiasi altro lavoro, basato soprattutto su tecnica ed esperienza.

Opinione simile ha espresso il regista e scrittore italiano Biagio Proietti, il quale in un’intervista ha definito l’attività di un buon scrittore come un «oneroso lavoro da bravo artigiano».

In maniera sempre più ricorrente nell’immaginario collettivo lo scrittore più bravo al mondo viene identificato con il ricevente il Premio Nobel per la Letteratura.

Secondo le disposizioni testamentarie di Alfred Nobel il Premio è assegnato all’autore «nel campo della letteratura mondiale che si sia maggiormente distinto per le sue opere in direzione ideale».

La gran parte degli autori a cui è stato assegnato il Nobel per la Letteratura erano sconosciuti al grande pubblico e tali sono rimasti anche dopo, fatta eccezione per il fatto di saperli individuare come vincitori del prestigioso premio. In rarissimi casi i premi Nobel sono letti dal grande pubblico e leggendo le motivazioni per cui sono stati candidati o hanno vinto il premio se ne comprende anche la ragione.

“Perché nelle sue commedie [egli] scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni e spinge ad entrare nelle stanze chiuse dell’oppressione”; “Perché nel ricercare l’anima malinconica della sua città natale, ha scoperto nuovi simboli per rappresentare scontri e legami fra diverse culture”; “Cantrice dell’esperienza femminile, che con scetticismo, fuoco e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa”; “Autore di nuove partenze, avventura poetica ed estasi sensuale, esploratore di un’umanità al di là e al di sotto della civiltà regnante”; “Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo dei diseredati”; “Per la sua cartografia delle strutture del potere e per la sua immagine della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo”; “Attraverso le sue immagini dense e nitide, ha dato nuovo accesso alla realtà”; “Che con un realismo allucinatorio fonde racconti popolari, storia e contemporaneità”; “Per l’arte della memoria con la quale ha evocato i destini umani più inafferrabili e scoperto il mondo della vita dell’occupazione”.

Quelle appena elencate sono alcune delle motivazioni per cui sono stati scelti e premiati i più recenti nobel per la Letteratura, espressioni che racchiudono la direzione ideale delle opere scritte da questi autori che poco o nulla hanno in comune con gli scrittori più venduti o più ricchi al mondo mentre tanto sembrano averne con i grandi classici, autori dei libri selezionati dai 125 scrittori celebri.

Non è cosa facile stabilire chi sia lo scrittore più bravo al mondo, forse addirittura impossibile ma la via indicata da Alfred Nobel anche se opinabile e imperfetta è sicuramente indicativa di una particolare tipologia di autori che si vuol premiare per il loro ‘ideale’, ovvero per l’impegno con cui hanno raccontato i mali sociali, i soprusi, hanno narrato degli oppressi, denunciando a volte situazioni di estremo disagio. È innegabile che questo tipo di opere letterarie abbia una immensa eredità che trasmette al lettore, svolgendo al contempo l’impagabile funzione di informare, educare e fungere da monito.

Oscar Wilde diceva che «non esistono libri buoni o libri cattivi, esistono solo libri scritti bene o scritti male» e questo potrebbe anche essere vero ma la differenza non è solo la qualità della scrittura a farla, è il narrato che può anche arrivare a diventare un esempio al pari dei grandi personaggi.

Pensiamo alla forza e alla determinazione che contengono i testi del premio nobel 1997 Dario Fo. In ogni sua opera la sopraffazione dei poveri, degli analfabeti, dei deboli è il tema fondamentale e l’occasione da cui partono le critiche, ora satiriche ora rabbiose, a chi di queste sopraffazioni è responsabile. Ce n’è per tutti, perfino per il concetto stesso di democrazia, ritenuto la maschera sorridente di una élite finanziario-capitalista aggressiva e cinica.

Scritti che rispecchiano le azioni di denuncia dei grandi uomini che hanno lottato, pagando con la propria vita, contro i soprusi e le ingiustizie: Malcon X, Martin Luther King, Mahatma Gandhi, per citarne alcuni.

Forse non si riuscirà mai a stabilire con certezza assoluta chi è il più grande scrittore al mondo e forse non si riuscirà neanche a stabilire quale sia il libro migliore ma di sicuro esistono, e si spera ce ne saranno tanti altri ancora, testi e autori straordinari per il loro operato e i loro scritti… in poche parole per la loro eredità letteraria.

Articolo pubblicato sul numero 44 della rivista WritersMagazine Italia diretta da Franco Forte.

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