Einaudi ha pubblicato, nella collana Stile libero Big, L’uomo di Lewis (The Lewis man): si tratta del secondo capolavoro della Trilogia di Lewis (The Lewis Trilogy) di Peter May, giornalista, sceneggiatore televisivo, soprattutto scrittore, nativo di Glasgow in Scozia ma residente in Francia; il quale, ancora una volta, non delude le aspettative e regala ai lettori un libro pieno e profondo, coinvolgente e sconvolgente.
Certo L’uomo di Lewis di May ha poco a che vedere, per struttura e narrazione, con i libri della Christie. Non si cerca in esso il delitto o l’investigatore perfetto e, forse, è anche per questo che non si può che essere d’accordo con Massimo Carlotto quando lo definisce «Un ottimo noir ma soprattutto un grande romanzo».
La storia che Peter May ha scelto di raccontare abbraccia numerosi e svariati temi che vanno dai crimini irrisolti all’amore coniugale, dal maltrattamento degli orfani alla demenza senile, dal bullismo di teppistelli in erba e delinquenti navigati al legame profondo che unisce due persone anche quando queste pensano di non rincontrarsi mai più.
Tormod o Johnny, come lo chiama lei, e Ceit, Fin e Marsaili, Fionnlagh e Donna… tre grandi amori, tre generazioni che vivono la loro sofferta passione affrontando la vita e tutto ciò che ne consegue. Su ognuno di loro grava il peso di un segreto, di un rimorso, di un rimpianto, di una perdita, nonché il cadavere del giovane Peter, ritrovato dopo anni ancora intatto in un campo di torba.
È dal ritrovamento del corpo che parte la narrazione, dall’oggi di una vicenda che può trovare la sua soluzione solamente scavando nel passato, soprattutto in quello dei personaggi coinvolti. Così Marsaili scopre che suo padre non è chi dice di essere; per lei diviene uno sconosciuto ancora più distante di quanto la sua malattia non lo abbia già allontanato da lei, da sua madre, come dal resto del mondo, lasciandolo tornare al tempo in cui era veramente se stesso.
«Vedo il vento arruffare il pesante vello invernale delle pecore che pascolano sull’erba dolce e salata, ma non arrivo a sentirlo. E nemmeno arrivo a sentire l’oceano, là dove s’infrange sulla scogliera. Splendide onde bianche spumeggianti piene di sabbia e di rabbia. Dev’essere per via dei doppi vetri. Alla fattoria non li abbiamo mai avuti. Lì sapevi di essere vivo, con il vento che sibilava attraversi i telai delle finestre e soffiava giù dal camino il fumo di torba. C’era posto per respirare, c’era posto per vivere. Qui le stanze sono così piccole, isolate dal mondo. È come stare in una bolla. Quel vecchio mi sta di nuovo guardando dallo specchio. Gli sorrido, e lui ricambia. Ovviamente l’ho sempre saputo che si trattava di me. E mi chiedo come stia Peter in questi giorni».
Se la mente di Tormod non avesse viaggiato indietro nel tempo e non avesse lasciato che lui raccontasse, rivivendoli, gli episodi salienti della sua infanzia, la figura dell’attrice Morag McEwan sarebbe apparsa di sicuro meno piacevole e familiare al lettore; il quale, potendola identificare con la dolce e indifesa Ceit è incline a perdonarle le sbronze continue e il lassismo nel quale sembra vivere. È una maschera quella che indossa e le permette di convincersi di possedere una corazza dura che non può essere realmente scalfita. Era lo stesso quando da bambina doveva difendersi da un mondo di adulti che la consideravano un peso, o peggio, un’occasione.
Grande merito va sicuramente riconosciuto anche aChiara Ujka, la traduttrice che ha sapientemente riprodotto nella nostra lingua le atmosfere del racconto di May. Un misto di italiano, inglese e gaelico, una profusione di aromi intensi che lasciano il lettore a tratti stordito come fosse anch’egli annebbiato dal fumo della torba o risucchiato dal vento gelido che scuote i corpi e le menti degli abitanti delle Outer Hebrides (Ebridi Esterne).
Le riflessioni di May sulla vita, sugli uomini e sui loro pensieri invitano a pensare, a fermarsi un attimo, a riprenderci un po’ del nostro tempo, per assaporarlo e fare lo stesso con i nostri affetti più cari. «Entriamo in quella casa di riposo e non vediamo che un sacco di ospiti lì seduti. Sguardi assenti, sorrisi tristi. Li liquidiamo definendoli semplicemente… be’, vecchi. Persone finite, che non meritano più che ci si preoccupi di loro. Eppure dietro quegli sguardi ognuno di loro ha avuto una vita, una storia da raccontare. Di dolore, amore, speranza, disperazione. Tutte le sensazioni che proviamo anche noi. Diventare vecchi non li rende meno umani, o meno reali. E inoltre, domani ci saremo noi al posto loro, lì seduti a guardare i giovani che ci liquidano definendoci semplicemente… be’, vecchi».
May si sofferma a lungo nel racconto dei luoghi simbolo della sua Scozia, sulle caratteristiche del territorio ma anche sugli abitanti, sul loro stile di vita, sull’ingenuità di alcuni e la crudeltà di altri. Il racconto dei luoghi natii che si sono lasciati per vari motivi ma che si portano sempre con sé, dentro di sé, è tema comune e non ha risparmiato neanche il regista, novello scrittore, Ferzan Ozpetek.
«Il cielo le riempie gli occhi. Un cielo che il vento riduce a brandelli. Un cielo che lascia filtrare come lampi improvvisi di un flash gli sprazzi di luce che si rovesciano sui pascoli abbandonati, dove le bianche punte degli eriofori turbinano nei violenti e frenetici vortici d’aria».
«Così la gente di Lewis… sopravvive da secoli. E in quest’epoca di incertezza economica, mentre il costo del carburante aumenta, le famiglie con le stufe, cucine economiche e uno sbocco per il fumo sono ritornate in massa alle tradizioni degli antenati. In questo modo il solo costo per il riscaldamento di una casa è dato dal dispendio della propria fatica…».
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