Il maxiprocesso di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò

Tra il 1979 e il 1986, nella città di Palermo, lo scontro tra clan mafiosi causa 1000 morti. 500 vittime sulla strada e 500 persone rapite o scomparse. Nel mirino anche politici, poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, medici, imprenditori… e dietro ad alcuni omicidi la paura, il sospetto, l’ombra di un coinvolgimento delle istituzioni.

«A Belén, in Brasile, davanti alla tv nella saletta dell’hotel Regent, don Tano Badalamenti e Masino Buscetta ascoltano le notizie. E Badalamenti, subito: Qualche uomo politico s’è sbarazzato, servendosi della mafia, della presenza del generale (Carlo Alberto Dalla Chiesa, ndr). Lo hanno mandato in Sicilia per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che poteva giustificare tutto questo odio contro di lui».

Antonio Calabrò, ne I mille morti di Palermo (Mondadori, 2016), ricorda le parole del magistrato Sebastiano Ardita riguardo le intuizioni di Claudio Fava sulla criminalità catanese: «aveva capito per primo che la mafia sul disincanto aveva saputo costruire i suoi percorsi. Una classe borghese che si serve dei criminali, alleata del mondo istituzionale». Ma soprattutto sottolinea, l’autore, la nascita del pool antimafia guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, le cui accurate indagini hanno portato all’istituzione del maxiprocesso a Cosa Nostra nell’aula bunker dell’Ucciardone, iniziato il 10 febbraio del 1986:

  • 349 udienze.
  • 1314 interrogatori.
  • 635 arringhe difensive.
  • 200 avvocati difensori.
  • 475 imputati.
  • 2665 gli anni di carcere complessivamente inflitti.

Un enorme e scrupoloso lavoro di indagine, quello condotto dal pool di magistrati, cui è seguito un altrettanto valido impegno dei componenti della Corte. Tutto questo non deve essere dimenticato, neanche dalle nuove generazioni. È questa la motivazione principale che ha spinto Calabrò a raccontare dettagliatamente tutta la Storia degli anni che hanno preceduto il maxiprocesso e all’interno della quale se ne ritrovano le motivazioni.

Sono trascorsi 30 anni dall’inizio del processo. Cosa è successo in Italia da allora? La mafia siciliana è stata davvero messa in ginocchio? Qual è il ruolo della criminalità organizzata oggi nella politica e nell’economia? L’Italia ha abbassato la guardia?

Ne abbiamo parlato con Antonio Calabrò.

I mille morti di Palermo racconta la storia che precede e spiega il maxiprocesso di Palermo. Quali sono i motivi che l’hanno portata a scrivere questo libro?

Questo libro è un grande richiamo alla memoria di quelle persone che hanno combattuto la mafia, che hanno perso lo vita. È importante che ne vada tramandato il ricordo. Il nostro è un Paese troppo spesso immemore. Ho tentato di mettere insieme tanti episodi criminali, i 1000 morti, dentro un contesto di spiegazione politica ed economica, in un doppio incrocio tra la cronaca nera, l’ambiente e la situazione politica.

Il maxiprocesso di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò

Trent’anni fa iniziava, nell’aula bunker dell’Ucciardone, il maxiprocesso che, si legge nel libro, ha messo all’angolo la mafia. Le aspettative erano altissime. I risultati?

I risultati, per quel che riguarda il maxiprocesso in senso stretto, sono stati molto buoni. La sentenza è stata confermata anche negli altri due gradi di giudizio. Si è trattato, quindi, di un processo costruito molto bene, con riscontri certi, con prove oggettive e con un obiettivo raggiunto: mettere, per la prima volta, Cosa Nostra in ginocchio. Il maxiprocesso ha dimostrato che lo Stato, con un buon lavoro di indagine e costruzione giudiziaria, può battere Cosa Nostra.

Le cosche sono state scompaginate dall’azione del pool antimafia ma il vuoto di potere è stato subito colmato. Per evitare ciò non sarebbe stato utile e necessario un massiccio e diffuso intervento dello Stato? Per quale motivo non c’è stato secondo lei?

Finito il maxiprocesso, purtroppo, il clima è cambiato e il grande sostegno, anche di opinione pubblica, nei confronti dei magistrati si è affievolito. È cominciato un periodo molto difficile per Palermo. L’impegno avrebbe dovuto essere mantenuto con la guardia alta contro Cosa Nostra ma anche contro la ‘ndrangheta e la camorra. Non è successo e per molti motivi.

Il Paese si è distratto. Era un periodo, siamo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, in cui sono cambiati anche gli equilibri internazionali. L’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata su altro. Sicuramente è stato un errore. Era una condizione subita dal Mezzogiorno ma inevitabile.

Poi, nel 1992, c’è stato il periodo delle grandi stragi di mafia ma anche l’inizio di Tangentopoli. La fine del ’92 è stato un momento drammatico per l’economia italiana, con il crollo del valore della lira e una grande difficoltà di tenuta delle casse pubbliche. In sostanza, quello è stato un anno di particole impegno e tensioni che hanno messo in secondo piano l’importanza di una lotta di lunga durata nei confronti della mafia.

Proprio come conseguenza di quel 1992, tramontano le stragi di Falcone e Borsellino, declina la stella politica di un uomo molto discusso, Giulio Andreotti, diventa Presidente della Repubblica un personaggio, Oscar Luigi Scalfaro, che veniva da una lunga militanza da uomo perbene dentro la Democrazia Cristiana. Un passaggio epocale abbastanza grosso dentro il quale se c’è stata, dopo le stragi, una risposta alla mafia abbastanza imponente, è altrettanto vero che l’Italia intera si è trovata dentro una crisi profondissima e la lotta alla mafia, nel tempo, è passata in secondo piano.

Lei afferma che il Quirinale ha sempre avuto un forte segno d’impegno antimafia. Cosa intende per forte segno?

La consapevolezza della pericolosità dell’organizzazione mafiosa nei confronti della tenuta stessa della democrazia. Una consapevolezza che aveva ben chiara un Presidente come Sandro Pertini e che hanno mantenuto i suoi successori, Scalfaro, Ciampi, Napolitano e Mattarella. Il Quirinale insomma si è contraddistinto, nel corso del tempo, come un alto punto di garanzia e di solidità delle istituzioni repubblicane mentre la mafia è l’esatto contrario di una buona tenuta democratica ma anche di una efficiente economia di mercato.

Il maxiprocesso di Palermo ha avuto luogo anche grazie alle rivelazioni dei pentiti Buscetta e Contorno e quelle sui tentativi di “dialogo” tra Stato e mafia con l’aiuto di Brusca e Giuffré. Cosa pensa della Trattativa?

Buscetta, Contorno e tutti i pentiti nella stagione del maxiprocesso vengono interrogati, sottoposti a verifica, si cercano i riscontri da parte di un pool di magistrati attenti, preparati, scrupolosi. Le sentenze reggono in Appello e soprattutto in Cassazione perché basate non solo sulle parole dei pentiti, che erano comunque importanti, ma sui fatti a riscontro, sulla documentazione derivante dagli accertamenti patrimoniali, dalle liquidazioni sui soldi…

Un lavoro enorme, incredibile da parte di un pool di magistrati, cioè di uomini di legge che hanno esperienza, formazione, competenza, sguardi diversi e convergenti, guidati da un personaggio, Antonino Caponnetto, che aveva una fortissima capacità di leadership valorizzando di ognuno le specifiche attitudini. Quel pool era uno strumento eccellente, sarebbe stato necessario conservarlo mentre, certo non per caso, è stato smontato, e Falcone si è ritrovato umiliato da una presidenza dell’Ufficio Istruzione, come quella di Antonino Meli, a indagare sulle rapine. Un patrimonio disperso.

Quanto alla Trattativa tra lo Stato e la mafia, non credo sia avvenuta. Ci sono stati, ma come è sempre accaduto, dei contatti forti tra uomini delle istituzioni e vertici delle cosche mafiose ma non tra lo Stato come entità e la mafia.

Il maxiprocesso di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò

Lei scrive del 10 febbraio 1986: «il giorno in cui lo Stato ha messo la mafia in ginocchio». Lo Stato per tramite dei componenti il pool antimafia o quest’ultimi che vogliamo considerare un intero Stato?

Lo Stato è le sue istituzioni, le sue leggi, le sue regole, i suoi magistrati, i suoi carabinieri, la sua Polizia, i suoi cittadini. Nel momento del maxiprocesso, lo Stato ha dimostrato di essere questo: una struttura con la forza delle istituzioni e l’impegno a far rispettare le leggi. E questo è stato l’elemento vincente.

Negli anni precedenti, durante la lunga e drammatica stagione che arriva a 1000 morti, lo Stato si era dimostrato poco capace di usare i suoi strumenti, i suoi uomini e le sue istituzioni. Molti uomini delle istituzioni erano morti. Voglio ricordare Piersanti Mattarella, ma anche il segretario della Dc Michele Reina, il capo dell’opposizione La Torre, segretario del Pc, magistrati come Costa, Terranova e Chinnici, carabinieri come Giuliano e Di Bona, poliziotti come Russo e Zucchetto, e i tanti altri che sono caduti… Lo Stato non si dimostrava all’altezza di fronteggiare la violenza dei corleonesi e dei loro alleati. Poi arriva la reazione: la costruzione del maxiprocesso, la riprova e la tenuta della Corte.

Ricordiamo con grande gratitudine il pool antimafia ma bisogna rammentare anche la Corte: il presidente Giordano, il giudice a latere, che era Pietro Grasso, e i giudici popolari. Quella Corte che sa tenere il processo dentro i canali della legalità, rispettando in pieno i diritti degli imputati, ma onorando, soprattutto, l’esigenza di arrivare a una risposta, una sentenza che fosse fondata su prove e che fosse equilibrata rispetto alle esigenze del diritto.

Per questo è importante il maxiprocesso: perché non è un’azione persecutoria contro la mafia, è uno straordinario atto di giustizia.

Perché, secondo lei, in Italia spesso sull’impegno istituzionale e politico contro la mafia cala il silenzio?

Nella storia italiana, le cosche mafiose, camorriste, della ‘ndrangheta… si sono mosse all’interno dei circuiti della politica, degli affari e delle istituzioni. Sono state poi, negli anni dell’immediato dopoguerra, vissute, da chi governava, come un baluardo contro la sinistra e contro il Partito Comunista. Sono state all’interno del gruppo dirigente del Paese, in un connubio molto oscuro, molto segreto e anche molto inquinante. Poi, per fortuna, all’interno degli stessi ambienti di governo, si sono mosse persone che si sono impegnate per tenere la mafia fuori dalla politica e dalle istituzioni. Ricordo, di nuovo, un nome per tutti: Piersanti Mattarella. Una persona che, da governatore della Regione Sicilia, aveva fatto del buon governo la sua bandiera di riferimento.

Il maxiprocesso di Palermo ha davvero messo in ginocchio la mafia? Intervista ad Antonio Calabrò

L’Italia al tempo del maxiprocesso era quella delle soap opera, dei paninari e degli yuppies: distratta, malinformata e fortemente interessata a crescita, sviluppo e denaro. Oggi guardandosi intorno cosa vede?

Vedo un Paese che ha superato molte delle stagioni più drammatiche della sua storia e che cerca, con fatica ma anche con speranza, di ricostruire un destino di futuro migliore.

Vedo un Paese in cui si muovono delle energie, anche nelle nuove generazioni, delle robustezze imprenditoriali, delle intelligenze di ricercatori italiani.

E vedo, purtroppo, che una parte dell’Italia, il Mezzogiorno, con pochissime eccezioni, è molto più lento allo sviluppo, molto più dipendente dalla spesa pubblica e molto inquinato da presenze di criminalità organizzata. L’Italia ha questo problema: il divario di sviluppo, sulla cui negatività incide anche la presenza mafiosa. Ed è una questione che il nostro Paese deve saper affrontare.

Sono indicazioni che Ciampi, Napolitano e poi Mattarella hanno sottolineato con grandissima forza.

Per ben due volte nel libro cita Sciascia e il suo monito a non abbassare la guardia soprattutto quando la mafia non si fa sentire. L’Italia, lo Stato e gli italiani hanno abbassato la guardia?

Nella storia italiana ci sono stati tanti momenti in cui ci si è distratti o si è pensato che il problema fosse marginale. Il richiamo a Sciascia, a tenere alta la guardia, vale anche di questi tempi.

È evidente che il potere mafioso, fortemente interno agli affari e a una certa politica, oggi non è più quello di un tempo. Non ci sono più gli interessi e le convergenze in termini di voti, di affari, di prestigio che hanno caratterizzato gli anni Cinquanta e Sessanta, fino agli anni Ottanta. Però c’è una presenza pesante dei capitali mafiosi all’interno dell’economia, non soltanto italiana ma internazionale, e c’è un’allarmante indicazione di attività, soprattutto della ‘ndrangheta, anche nelle aree più ricche del Paese.

Come se il pericolo della ‘ndrangheta si fosse spostato, ad esempio, dalla Calabria a Milano. Questo spiega il forte impegno di un’associazione di imprenditori come Assolombarda nel ricordare ai suoi iscritti milanesi e della Brianza che la mafia è un pericolo grave e rischia di stravolgere l’intero assetto dell’economia. Bisogna tenere la guardia alta anche quando non spara.

http://www.sulromanzo.it/blog/il-maxiprocesso-di-palermo-ha-davvero-messo-in-ginocchio-la-mafia-intervista-ad-antonio-calabro

© 2016, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

Condividi