Roberto Paolo, caporedattore del «Roma» e autore di numerose inchieste politico-giudiziarie, ha da poco pubblicato Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani (Castelvecchi, 2014). Un libro che vuole riportare l’attenzione su una triste vicenda giudiziaria che Maurizio de Giovanni, nella prefazione, sottolinea essere caratterizzata da «caos e disordine». Un omicidio teso a «a rendere muta una voce».
Sei persone sono state condannate per l’omicidio di Giancarlo Siani ma dall’inchiesta condotta da Roberto Paolo emerge che i veri killer e mandanti potrebbero essere ancora liberi. E la Procura di Napoli decide di riaprire le indagini.
Ne abbiamo parlato con Roberto Paolo nell’intervista che gentilmente ci ha concesso.
È da poco uscito, pubblicato da Castelvecchi, il tuo libro-inchiesta su un ‘mistero italiano’: l’omicidio del cronista Giancarlo Siani. Tu hai affermato che il fratello di Siani, a proposito del libro, ha detto «mi fa rabbia che non ci fosse un giornalista come te 30 anni fa». Ma Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani non è un’indagine necessaria solo per i familiari, lo è o almeno dovrebbe esserlo per tutti gli italiani…
Infatti, credo sia necessaria soprattutto per tutti gli altri. I familiari in qualche modo avevano avuto ‘soddisfazione’ dalle sentenze di condanna contro mandanti e presunti esecutori. La mia indagine riapre per loro una ferita dolorosa, con tutta l’incertezza che ne consegue anche in merito agli esiti a cui si può arrivare oggi.
La frase di Paolo Siani si riferiva forse proprio a questo: dopo trent’anni sarà difficile individuare tutti i colpevoli e punirli. Però quella frase è anche un po’ ingiusta nei confronti di chi operava 30 anni fa in altre condizioni rispetto a ora. Intendo dire che oggi è molto più facile per uno storico o un giornalista raccogliere le confidenze di fonti che trent’anni fa, quando il clan Giuliano imperava su tutta Napoli e corrompeva forze dell’ordine e toghe, non avrebbero mai parlato. Oggi invece i vertici e i gregari di quel clan sono tutti pentiti o morti o ergastolani e quindi chi vuole liberarsi la coscienza si sente più libero di parlare. Il tempo in questo senso aiuta la ricostruzione storica dei fatti, mentre su un altro versante, per chi deve costruire un percorso giudiziario, trovare prove giuridicamente proponibili in giudizio, il tempo può rivelarsi un ostacolo insormontabile.
Per ricomporre i tasselli della vicenda e ricostruire quei giorni minuto per minuto ti sei basato sulla documentazione esistente ma soprattutto sulla ricerca sul campo. Hai girato, hai fatto domande, hai osservato… alla fine la Procura ha riaperto il caso. Sei soddisfatto del tuo lavoro?
No. Non posso dirmi soddisfatto. Restano in piedi troppi punti interrogativi. C’è ancora molta gente che conosce la verità, ma non parla. Ci sono altre persone da rintracciare e altre verifiche da fare. Ma le mie forze e i miei poteri sono molto limitati. A un certo punto mi sono dovuto fermare. La mia inchiesta è durata quattro anni, da quando ho scritto i primi articoli sul mio giornale, il «Roma», a quando poi ho pubblicato il libro con contenuti del tutto inediti. Ci sono circostanze che non è in mio potere approfondire, se non a prezzo di altri mesi. Poi la Procura di Napoli ha aperto un fascicolo di indagine e grazie al procuratore aggiunto Giovanni Melillo, fino a qualche mese fa coordinatore della Direzione antimafia, l’inchiesta è andata avanti molto approfonditamente ed è stata condotta con grande competenza e dispiego di energie e intelligenze. Prima che io dessi alle stampe il mio libro, il suo contenuto era stato interamente portato a conoscenza dell’autorità inquirente, che mi ha interrogato più volte. Quindi ho ritenuto di dovermi fermare e passare la mano a chi ha mezzi e competenze per appurare la verità.
I ‘veri killer’ ora sarebbero morti, ma ciò non modifica in alcun modo lo scopo del libro e delle indagini. Ciò che importa conoscere è il perché di un gesto così efferato nei confronti di un giovane cronista che deve non solo aver pestato i piedi a qualcuno di molto influente, ma deve anche aver scoperto cose che dovevano rimanere segrete. Si racconta che Siani negli ultimi tempi fosse molto inquieto, che stesse preparando un dossier.
No, attenzione: non sono tutti morti. Nel mio libro sostengo che oltre alle persone condannate in via definitiva, altre persone parteciparono attivamente all’omicidio di Giancarlo Siani e a quello, collegato, di Vincenzo Cautero, un uomo del clan Giuliano legato alle cooperative di ex detenuti, ammazzato quattro mesi dopo Siani. Ci sono persone che spararono, persone che decisero quegli omicidi e persone che collaborarono all’esecuzione con vari ruoli. Due di essi sono morti, ma gli altri sono vivi. Ci sono anche persone, di cui io faccio nomi e cognomi, che certamente sanno più di quello che hanno detto finora o che hanno raccontato palesi bugie sui due omicidi. Perché? Sono vivi: qualcuno è in carcere per altri delitti, qualcuno è un collaboratore di giustizia e vive con una nuova identità stipendiato dallo Stato, qualcun altro è libero e continua a fare la sua vita indisturbato.
Ci sono i mafiosi del clan dei Corleonesi oggi pentiti, che all’epoca erano alleati strettissimi del clan Nuvoletta di Marano e furono ‘interessati’ all’omicidio Siani.
Ci sono i vertici del clan Giuliano di Forcella che non hanno mai rivelato quello che sanno. E poi altri ancora, colletti bianchi e killer del clan Gionta di Torre Annunziata. Nel mio libro ci sono i nomi e le domande che bisognerebbe porre a queste persone. Le risposte, però, non posso darle io, anche se un’idea me la sono fatta.
Quanto a Giancarlo Siani, no, non credo che fosse particolarmente preoccupato, anche se nei mesi precedenti c’era stato qualche segnale allarmante. In realtà del suo libro-dossier su Torre Annunziata, di cui aveva scritto a un’amica, non è stata trovata alcuna traccia e i suoi amici e colleghi smentiscono questa ipotesi. È probabile che Siani non si fosse accorto di essere in pericolo e avesse scritto di cose molto pericolose senza rendersene bene conto.
Pino Tripodi nel suo libro La zecca e la malacarne afferma: «il crimine organizzato è un alibi che giustifica e assolve le malattie degenerative degli uomini e della Società del Sud. […] La zecca (la mafia, ndr) in ambienti diversi dalla malacarne (società corrotta e collusa, ndr) non sopravvive. La malacarne al contrario anche in assenza della zecca è capace di riprodursi generando per partogenesi altre tipologie di parassiti che si specializzano nel suo habitat».
Qual è la tua opinione in merito?
Sono assolutamente d’accordo, ma solo per la fase nascente e primitiva del fenomeno. Vale a dire che la criminalità organizzata così come la conosciamo noi (mafia, camorra e ndrangheta) nasce e cresce grazie alla società che le fa da terreno di coltura. Non poteva nascere in Svezia o in Svizzera, in società in cui si dà una grande importanza all’autoaffermazione individuale, svincolata da familismi, e allo stesso tempo il bene comune, la res pubblica, ha un grande valore ed è oggetto di rispetto.
Non poteva nascere in società con basse densità di popolazione e in cui il clima e le caratteristiche geopolitiche portano a condizioni di vita meno promiscue. E in cui, per gli stessi fattori naturali, è più facile provvedere al sostentamento e alla sopravvivenza di tutti gli appartenenti alla società stessa. In società in cui il controllo sociale e l’amministrazione della pubblica autorità sono molto efficaci. Detto questo, oggi il fenomeno è molto cambiato. Oggi il crimine organizzato si riproduce grazie ai grandi capitali accumulati con le attività illegali, che vengono reinvestiti in attività legali o apparentemente legali, anche e soprattutto al di fuori delle zone in cui la criminalità organizzata è nata. Nei quartieri bene delle stesse città, in altre città del Paese, e anche all’estero.
Oggi la criminalità organizzata è imprenditoriale, manageriale, inquina il tessuto economico anche di società a cui originariamente non apparteneva. E amplia il suo potere grazie alla corruzione delle pubbliche amministrazioni e dei poteri pubblici. Non è un caso che al vertice dell’Autorità contro la corruzione sia stato messo un magistrato esperto di antimafia come Raffaele Cantone.
Stando alla tua ricostruzione dei fatti, ripeto ritenuta attendibile dalla magistratura che proprio in conseguenza di ciò ha riaperto il caso, per trovare le motivazioni dell’omicidio bisognerebbe tornare indietro nel tempo e studiare un’inchiesta che Siani aveva raccontato sei mesi prima, e per trovare i mandanti non bisogna fermarsi all’hinterland bensì esplorare il ‘ventre di Napoli’…
Siani aveva scritto un articolo molto pericoloso sulle cooperative di ex detenuti controllate dalla camorra, nell’aprile del 1985. Di quell’articolo nessun investigatore all’epoca si è mai occupato, chissà perché. Passò sotto silenzio. Invece, è probabile che qualcuno che era coinvolto nelbusiness delle cooperative se ne accorse e si allarmò. E forse qualcuno utilizzò il suo articolo per ricattare i boss, lasciando intendere che Siani aveva altro materiale scottante e che poteva essere fermato in cambio di qualcosa. Qualcuno, insomma, si ‘vendette’ Siani a sua insaputa. Poi i boss decisero di risolvere il problema a modo loro.
Secondo te cosa si poteva fare, per evitare che Giancarlo Siani la sera del 23 Settembre 1985 fosse barbaramente ucciso, che non è stato fatto?
Beh, col senno di poi tutti siamo bravi. Non credo di potermi ergere a giudice di nessuno. Ripeto che Siani forse non si accorse di aver toccato fili mortali con quel suo articolo sulle cooperative di ex detenuti. E del resto aveva scritto anche altri articoli che avevano dato fastidio a tanta gente, ai Nuvoletta di Marano e ai Gionta di Torre Annunziata, allo stesso sindaco di Torre, che era colluso con la camorra e al pretore dell’epoca, che aveva propri interessi non sempre limpidi.
Il suo ruolo di corrispondente da Torre Annunziata fu sottovalutato dai vertici de «Il Mattino». Per come era il giornale all’epoca i trafiletti di provincia erano ritenuti di nessuna importanza rispetto al lavoro che facevano le grandi firme sulle pagine nazionali o napoletane. In qualche modo possiamo dire che quel ragazzo, che si affacciava appena alla professione, fu mandato allo sbaraglio in una terra di frontiera di cui nessuno si voleva occupare e fu poco controllato e seguito. Ma fu un errore di sottovalutazione che all’epoca era facile commettere, non era pensabile che la camorra potesse uccidere un giornalista. E infatti Siani è stato un caso unico e, spero, irripetibile.
Da alcuni anni opera a Napoli la Fondazione Pol.i.s. presieduta da Paolo Siani, fratello di Giancarlo, che si prefigge come scopi principali il riutilizzo e la valorizzazione dei beni confiscati alla mafia e il sostegno ai familiari delle vittime di mafia. L’inverno scorso hanno fatto un po’ notizia le critiche e i dissapori in merito a qualche nomina, ma ora sembra che tutto sia tornato alla tranquillità. Tu come vedi questo genere di iniziative sul territorio?
Sono iniziative di fondamentale importanza. La criminalità organizzata prospera nel silenzio, nell’ignoranza e nella paura. Si combatte quindi parlandone, conoscendola e sradicando la paura. È un male che si può sconfiggere. Basti pensare a cosa è successo al clan dei Casalesi in una decina di anni. Diventato fenomeno mediatico, finito sulle prime pagine di tutti i giornali, affrontato con grande dispiego di mezzi e di forze dallo Stato, è stato quasi completamente smantellato. Lo stesso si può dire del clan Giuliano di Forcella, per esempio. Quindi, più se ne parla, meglio è. Bisogna parlarne soprattutto nelle scuole, come fa Paolo Siani da tanti anni, perché le vecchie generazioni hanno fallito, la lotta alla criminalità organizzata è compito dei giovani.
C’è un messaggio che vorresti lanciare alle persone che abitano la tua terra e non solo, soprattutto ai giovani… quella stessa gente che Siani osservava ogni giorno, tra la quale cercava di mescolarsi per svolgere le sue ‘indagini’, le sue inchieste…
Non sono un opinion leader e nemmeno un politico. Faccio solo il giornalista e ho lavorato per quattro anni, in silenzio e nell’ombra, all’inchiesta sull’omicidio di Giancarlo Siani. Non ho titoli per dare lezioni. Però sento di poter dire che Giancarlo Siani è ancora oggi un esempio valido: era un giovane appassionato e competente, che affrontava il lavoro con entusiasmo, con grande spirito di sacrificio, con serietà. Era un ragazzo che voleva solo fare bene il suo mestiere, il lavoro che amava. Ed è stato ucciso per questo. Perché faceva bene il proprio lavoro.
Non era un eroe, ma una persona comune. Anche se oggi è diventato eroico fare semplicemente il proprio dovere. Ecco, penso che indipendentemente dal proprio ruolo nella società, sia che uno faccia il medico o l’operaio, l’insegnante o il benzinaio, l’artigiano o il commerciante, beh, se solo ognuno di noi tentasse ogni giorno semplicemente di fare bene il proprio lavoro, questo sarebbe un mondo migliore.
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