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Bloccata la vendita dei bocconcini di pollo in tutti i 3.100 punti vendita McDonald sparsi per il Giappone dopo che, stando a quanto riferito dal portavoce della filiale giapponese del gruppo americano, «un cliente a Misawa lo scorso sabato ha rinvenuto in un nugget un pezzo di questo materiale non commestibile» aggiungendo che studieranno «come possano verificarsi questi episodi».

McDonald avrebbe immediatamente ordinato di bloccare la vendita di nuggets provenienti dalla stessa filiera di produzione, presumibilmente gli stabilimenti della Thailandia visto che il gruppo ha dovuto interrompere l’importazione e la vendita nell’arcipelago di tutti i prodotti contenenti pollo provenienti dalla Cina.

A fine luglio 2014 infatti il gruppo americano ha dovuto affrontare un’altra ‘crisi’ in seguito alla scoperta che il fornitore cinese avrebbe inviato prodotti scaduti e mal conservati tra cui figurava anche la carne utilizzata per confezionare i Chicken McNuggets. Nonostante dalla McDonald si sono affrettati a far sapere di aver definitivamente troncato i rapporti con il fornitore cinese e di essersi indirizzati verso ditte alternative thailandesi, i giapponesi, da sempre attenti alla qualità del cibo, hanno dimostrato di non gradire simili errori facendo registrare al colosso un crollo del 25% dei ricavi nel successivo mese di agosto.

Questi eclatanti episodi generano uno scompenso maggiore ma è sicuramente una tendenza continuativa, ormai, quella del calo di gradimento riscontrato da McDonalds, come dalle altre catene di fast food , in quanto i consumatori tendono sempre più ad associare il cibo proposto nei loro ristoranti ad abitudini alimentari sbagliate e poco salutari. Se il cibo fast era considerato ‘gustoso e conveniente’ fino a qualche anno fa, ora i gusti e l’orientamento dei consumatori stanno cambiando e clienti sempre più numerosi chiedono cibo ‘fresco e funzionale al mantenimento della salute’.

Il calo delle vendite non riguarderebbe soltanto l’area asiatica ma anche la madrepatria del cheeseburger. Negli Stati Uniti si registrerebbe infatti una discesa costante negli ultimi 13 mesi che invano si è cercato di arginare con politiche ‘innovative’ come l’impiego di uova da allevamenti ‘non in gabbia’.

Numerose sono le associazioni di consumatori che da anni portano avanti campagne di informazione che vorrebbero riuscire nell’intento di veder limitato al massimo il consumo di cibo fast, che spesso viene definito junk, in favore di un’alimentazione più sana e genuina.

Sarebbero almeno 16 le diverse tipologie di additivi riscontrati nel cibo servito nei vari fast food e molto insistenti le voci che vorrebbero il 70% delle carni impiegate consistenti in scarti di macellazione. La cosiddetta pünk slime, la poltiglia rosa ottenuta dalla triturazione di ciò che rimane dalla macellazione e dalla disossatura sarebbe impiegata in percentuali variabili per comporre la carne macinata prima di essere surgelata. Per evitare il ripetersi e il protrarsi di casi di escherichia coli, i grandi colossi del fast food preferiscono servire solo carne ben cotta e i produttori di questa impiegano la tecnica del lavaggio della ‘melma rosa’ con l’ammoniaca. Procedimenti questi che si rendono quasi indispensabili nel momento in cui si consumano ‘parti’ potenzialmente contaminate dalle feci degli animali macellati.

Altro motivo di sconforto per i fautori del mangiar sano sono le tovagliette colorate e propagandistiche adagiate sopra i vassoi che pur dovendo accogliere del cibo sono prodotte con materiale ‘non per alimenti’. La domanda che ci si pone è perché vengano impiegati materiali non adatti a contenere cibo in locali che dovrebbero essere dei veri e propri ristoranti? Non vale neanche l’attenuante che gli alimenti non entrano direttamente in contatto con la tovaglietta essendo riposti in appositi contenitori, perché è molto probabile che un contatto lo abbiano, soprattutto se il vassoio è destinato a bambini, cui è pressoché impossibile imporre dei limiti del genere «se prendi due patatine e dopo averne mangiata una ti viene sete, non riporre la patatina avanzata sulla tovaglietta ma nell’apposito contenitore, in quanto la tovaglietta che si trova nel vassoio con il tuo pranzo non è idonea a contenere del cibo».

Il motivo per cui si viene a creare un tale paradosso può essere ricercato, per quanto riguarda l’Italia, nella legislazione che vieta di scrivere o stampare la carta destinata a uso alimentare in quanto gli inchiostri possono cedere sostanze nocive (Decreto Ministeriale 21-03-1973). Pare esista un solo tipo di inchiostro che abbia superato tutti i controlli e ottenuto il visto ma che venga impiegato da un ristretto numero di aziende tra le quali non sembrano figurare i fast food. Anche le direttive europee sull’argomento prevedono che gli articoli di cui si prevede ragionevolmente che possano essere messi a contatto con prodotti alimentari o che trasferiscano i propri componenti ai prodotti alimentari nelle condizioni d’impiego normali o prevedibili devono essere sicuri per i consumatori (regolamento europeo 1935/2004).

Se la tovaglietta nel vassoio con il cibo non può entrare in contatto con questo, allora per quale motivo si trova lì? Se è per una questione igienica, ovvero per isolare gli alimenti dal vassoio non sarebbe meglio igienizzare questo magari lavandolo dopo ogni utilizzo? O forse lo scopo è tutt’altro e riguarda i tanti disegni e le numerose scritte che vi si possono osservare e leggere e che rappresentano un’azione pubblicitaria in piena regola? Quindi, la tovaglietta sarebbe un prodotto per il marketing dell’azienda che la utilizza.

 I cibi serviti nei fast food, chiamati anche junk food (cibo spazzatura) sono spesso messi all’indice per:

  • L’elevata densità energetica.

  • Il basso quantitativo di acqua, sali minerali e vitamine.

  • Il notevole apporto di grassi saturi, idrogenati, colesterolo, saccarosio, alcol.

  • Il basso quantitativo di fibre alimentari.

  • L’alta razione di cloruro di sodio.

  • La scarsa concentrazione di grassi essenziali.

Sono notoriamente indicati come rischi concreti e tangibili della frequente alimentazione con cibo da fast food: l’incremento di peso, l’alterazione del metabolismo lipidico (ipercolesterolemia e ipertrigliceridemia), glucidico (iperglicemia e diabete) e pressorio ematico (pre-ipertensione e ipertensione).

Una ricerca condotta dal Dipartimento di Salute Pubblica dell’Università della California, pubblicata sul Bulletin of the World Health Organization e condotta per 25 Paesi, ha messo in relazione l’aumento di peso con la crescita dei Paesi industrializzati e  con le politiche di libero mercato attuate dai Governi. I ricercatori hanno considerato quante volte in un anno una persona acquista in un fast food (azione definita ‘transazione’). Le transazioni sono poi state messe in relazione con l’andamento medio del BMI (Indice di massa corporea) per il periodo compreso tra il 1999 e il 2008. Il numero di transazioni è aumentato nel tempo passando da 26,61 a 32,76 e parallelamente il BMI è passato da 25,8 a 26,6. Il coordinatore della ricerca, Roberto de Vogli, sostiene che «se i Governi non si decidono ad assumere al più presto provvedimenti severi lasciando che il marketing continui ad agire nel silenzio, l’obesità crescerà ancora in tutto il mondo, con conseguenze disastrose tanto sulla salute quanto sulla produttività economica».

Studi della FAO condotti tra il 2002 e il 2008 nei medesimi 25 Paesi segnalano che l’apporto calorico pro-capite è passato da 3.432 a 3.437 il che significa che è ulteriormente aumentato rispetto al numero di calorie sufficiente per vivere in salute (2.500 per gli uomini e 2.000 per le donne).

Abituare le persone, soprattutto giovani e giovanissimi, ad alimentarsi presso i fast food rappresenta per molti un fattore diseducativo in quanto si abitua il palato a sapori molto dolci, salati e ‘unti’ e che, conseguentemente, non accetterà più volentieri cibo privo di eccessivo condimento.

Ovviamente, i titolari e i gestori dei vari fast food negano fermamente tutte le accuse rivolte al cibo servito, continuando imperterriti a garantire la qualità e a parlare addirittura di biologico o, come nel caso italiano, di prodotti tipici locali.

Life Hunter Tv ha condotto un singolare esperimento invitando noti esperti gastronomici ad assaggiare cibo fast biologico e a confrontarlo con quello classico. I buongustai ignoravano l’inganno e, fidandosi del loro interlocutore, hanno creduto di mangiare davvero cibo fast bio definendolo «dal gusto molto ricco. […] Certamente questo piatto ha un gusto migliore e il fatto che sia biologico di sicuro è una buona cosa».

Nessuno nega che il cibo da fast food sia saporito e gustoso, ma non sono certo queste le caratteristiche che ne determinano la qualità dal punto di vista nutrizionale. Secondo gli autori della singolare intervista «se dici alle persone che un prodotto è biologico, automaticamente loro crederanno che lo sia». Da ciò si deduce quanto facile sia ‘ingannare’ il consumatore anche quando questi è un ‘esperto buongustaio’. Però è anche vero che un ‘inganno’ non può durare a lungo.

Il fotografo newyorkese Sally Davies, avendo appreso che i prodotti del McDonald non ‘vanno a male’ il 1° aprile del 2010 inizia un esperimento: mette su un piatto un menù Happy meal (il menù dedicato ai bambini) per vedere in quanto tempo si sarebbe decomposto e documentando il tutto con delle foto. Dopo 679 giorni, ovvero dopo quasi 2 anni, i segni di decadimento del panino e della porzione di patate sono ridottissimi. L’intera sequenza di scatti è visibile sulla pagina Flickr del fotografo.

In casa abbiamo o possiamo procurarci del cibo quale carne macinata cotta alla piastra e patatine fritte e possiamo tutti sperimentare che la loro decomposizione è certamente più breve di un lasso temporale di 679 giorni, per cui il sospetto che al cibo fast o junk vengano aggiunti dei conservanti è forte, come la curiosità di sapere quali effetti essi producano nell’organismo che ingerisce tali sostanze.

http://luciogiordano.wordpress.com/2015/01/06/mcdonalds-giapponesi-nella-bufera-per-plastica-rinvenuta-nei-nuggets/

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© 2015, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).

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