Quali conseguenze sulla preparazione degli studenti italiani rispetto ai coetanei stranieri hanno le azioni e i cambiamenti, in sostanza le riforme prodotte dai vari governi succedutisi di recente? Ciclicamente siamo bombardati di servizi su giornali e telegiornali nazionali che ci parlano di inizio anno scolastico, vacanze invernali, conclusione dell’anno scolastico, esami di Stato, prove INVALSI, test di accesso alle facoltà universitarie, vacanze estive, programmi ERASMUS e stage. Poco si affronta, invece, il nodo cruciale della preparazione dei nostri studenti confrontandola con quanto accade, in materia d’istruzione, nel resto d’Europa.
Un’indagine del Programme for international student assessment (PISA) dell’OCSE condotta sugli studenti quindicenni italiani ha rivelato che «i risultati medi in matematica, lettura e scienze sono inferiori alla media» internazionale. Bisogna comunque precisare che «l’Italia è tuttavia uno dei Paesi che ha registrato i più notevoli progressi in matematica e scienze». A PISA 2012 hanno partecipato 65 Paesi ed economie dell’OCSE rispetto ai quali l’Italia si colloca in classifica sempre in posizioni mediane:
• Matematica (tra la 30esima e la 35esima).
• Lettura (tra la 26esima e la 34esima).
• Scienze (tra la 28esima e la 35esima).
Ha avuto molta eco la notizia del divario tra il Nord del Paese, che si attesta su livelli al di sopra della media OCSE, e il Sud che invece ha rivelato l’ennesimo ritardo. La stampa nazionale ha anche definito “abisso” la forbice esistente, senza però precisare che “i notevoli progressi” registrati risultano «più marcati nel Mezzogiorno, mentre le regioni del Centro perdono terreno rispetto alla media nazionale; inoltre il miglioramento si è concentrato nelle scuole diverse dai licei e, più in generale, tra gli studenti con competenze meno elevate».
I progressi sono più ragguardevoli prendendo in considerazione il periodo 2006-2012 e «gli effetti legati alla composizione degli studenti 15-enni che può essere mutata nel tempo (ad esempio è da segnalare la forte crescita degli studenti non nativi)». Gli stessirelatori dell’indagine svolta dall’OCSE precisano che i dati forniti potranno essere adoperati per meglio analizzare i fattori sottostanti, ovvero «la riduzione delle risorse a disposizione del sistema intervenuta negli ultimi anni, che non sembrerebbe averne compromesso la performance (ma potrebbe aver frenato quei più forti segnali di miglioramento registratisi tra le rilevazioni del 2006 e del 2009)» e ancora «la riforma del II ciclo, avviata a partire dall’anno scolastico 2010-2011, che non sembrerebbe aver modificato la performancecomplessiva delle scuole di tale ciclo, anche se l’analisi dovrà essere approfondita alla luce del differenziato grado di effettiva implementazione della riforma e tenendo conto delle modifiche più di dettaglio, che potrebbero aver avuto effetti differenziati sulle diverse componenti delle competenze, con differenze tra tipologie di scuole non più circoscrivibili alla tradizionale ripartizione tra licei, tecnici e professionali».
Altro fattore da considerare è il lieve miglioramento del clima in cui si svolgono le lezioni nelle classi rispetto alle rilevazioni 2003, «anno in cui comunque gli studenti italiani più frequentemente evidenziano problemi quali la mancanza di puntualità, attenzione e silenzio nello svolgimento delle normali attività didattiche». Lo scopo di PISA 2012 in sostanza è di valutare in che misura gli studenti, prossimi alla fine dei cicli di istruzione/formazione obbligatoria, abbiano acquisito conoscenze e competenze ritenute essenziali per una piena partecipazione alla vita civile nella società moderna, focalizzando su lettura, matematica, scienze e problem solving. Alla luce dei dati forniti possiamo affermare che gli studenti italiani, alla fine dei cicli obbligatori di istruzione/formazione, sono adeguatamente preparati per la vita civile nella società moderna? Sembrerebbe di no.
I quesiti di matematica di PISA 2012 della sottoscala Interpretare servivano a testare le capacità degli studenti di riflettere su soluzioni, risultati o conclusioni matematiche e di interpretarle nel contesto dei problemi reali. I paesi OCSE top performers su questa sottoscala sono Corea del Sud, Giappone, Svizzera e Finlandia. Gli studenti italiani per questa specifica sottoscala totalizzano un punto sopra la media OCSE (498). All’interno dell’indagine PISA 2012 a un sotto-campione di scuole, rappresentativo per macro-area geografica e per tipo di scuola, sono state somministrate anche prove da svolgere attraverso un’interfaccia digitale. I Paesi partecipanti al CBA (Computer-Based Assessment) sono stati 32. Gli studenti italiani che hanno partecipato al CBA hanno raggiunto una media di 499, attestandosi alla 15esima posizione nella classifica internazionale. In pole-position troviamo Singapore, Shanghai/Cina, Corea del Sud. Ora, volendo, si potrebbe anche temporeggiare rimarcando le differenze esistenti e persistenti tra Nord e Sud del Paese, interrogarsi sui perché e sui per come ma prima o poi bisognerà fare i conti con il fatto che il vero divario che deve preoccuparci è quello che ci separa dai Paesi che hanno totalizzato punteggi ben più alti della media OCSE perché sono loro la vera concorrenza con cui scontrarsi poi nel mondo del lavoro.
Questo ammesso che si vogliano leggere i dati di PISA 2012 nell’ottica di un’unica nazione che si raffronta con il resto del mondo nell’era della globalizzazione; se poi invece vogliamo ignorare il gap che ci separa dalle economie emergenti, fossilizzarci sulle disparità interne e parlare dei quindicenni del Nord-Ovest che hanno totalizzato una manciata di punti in più rispetto ai coetanei del Sud e delle isole facciamolo pure ma non ne caveremo un ragno dal buco. La domanda da porsi è: perché l’Italia ha un sistema d’istruzione/formazione che non consente ai suoi alunni di andare oltre la media? Stando a quanto si legge nel 48esimoRapporto del Censis Review of the Italian strategy for digital schools gli studenti italiani sono molto indietro rispetto ai loro coetanei stranieri in materia di competenze digitali. Del resto se consideriamo la stima al 31 dicembre 2014 che contava solo 1321 aule digitalizzate sul territorio nazionale, ci rendiamo ben conto di quanto lunga sia ancora la strada da percorrere per accorciare le distanze e riuscire a raggiungere almeno la media europea. Un ritardo stimato in almeno 15 anni rispetto ad altri Paesi che da tempo hanno puntato sulla tecnologia e sull’informatizzazione. Delle 41.483 sedi scolastiche esistenti solo 1562 sono dotate di collegamentowi-fi e anche la Commissione europea mette in evidenza un triste primato tutto italiano: «la più bassa disponibilità di accesso alla banda larga dell’Unione europea».
Il Piano nazionale scuola digitale, nato nel 2000, ad oggi è costato oltre 150 milioni di euro, considerando gli stanziamenti pubblici, il costo del progetto Wireless nelle scuole e quello per la preparazione degli insegnanti. Secondo i dati rilevati dal Censis, per i dirigenti scolastici i problemi principali riguardano «la rapida obsolescenza della dotazione tecnologica delle scuole, spazi e strutture inadeguate ma anche i costi che ogni istituto deve sostenere per il collegamento alla Rete».
Mentre sui costi di collegamento alla Rete si può convenire con quanto sostenuto dai dirigenti scolastici, per quanto riguarda la rapida obsolescenza della dotazione tecnologica per un progetto che è stato avviato nel 2000 qualche perplessità sorge, se non altro in merito al fatto che non sembra questa essere una motivazione valida per non usarle queste attrezzature. In fondo le macchine possono diventare presto obsolete ma i programmi li si può aggiornare e neanche in uffici o abitazioni private un computer si sostituisce ogni anno. L’obsolescenza diventa un danno irreparabile nel momento in cui le attrezzature restano in giacenza per lungo tempo, magari ancora dentro gli imballaggi originari.
Il punto però è un altro. Si continua a parlare di queste “dotazioni tecnologiche” come di un qualcosa a parte o di un extra che va o andrebbe a sommarsi alle tradizionali e consuete attività didattiche. Anche per questo motivo occorrono dei locali idonei, per poter creare dei laboratori atti a ospitare le attrezzature. Intanto le famiglie continuano a comprare libri di testo cartacei, quaderni, fogli protocollo, album da disegno, righe, matite, penne… è vero che la gran parte dei libri sono in formato misto (cartaceo e digitale), è vero anche che molte aule sono dotate di LIM (lavagne multimediali e interattive), che alcune scuole hanno iniziato a utilizzare i tablet ma allora perché la produzione di materiale scolastico in formato digitale utilizzato non supera il 18,1%? Decisamente poco per un’era come la nostra nella quale tutte le informazioni passano attraverso la Rete e dove la conoscenza delle lingue straniere e dell’informatica apre nuovi orizzonti oltre che nuove opportunità di lavoro.
Molto interessante per comprendere gli effetti sul lungo termine di questa situazione è visionare i dati dell’indagine Piaac(Programme for the international assessment of adult competencies) condotta dall’OCSE su campioni rappresentativi della popolazione di età compresa tra i 16 e i 65 anni di 24 Paesi di cui 22 membri dell’OCSE. Lo scopo dichiarato era misurare le competenze linguistiche e matematiche della popolazione adulta. Il campione di italiani che ha partecipato allo studio ha guadagnato l’ultima posizione in preparazione linguistica e la penultima in competenze matematiche. Forse va bene precisare che le prove dell’indagine sono state tradotte quindi ogni partecipante ha lavorato su quesiti scritti nella propria lingua. Gli adulti senza il titolo di studio di scuola superiore hanno dimostrato di avere conoscenze molto scarse, al pari dei francesi e degli statunitensi. Ma in questi Paesi i dati vengono compensati dalle performance eccellenti dei laureati, cosa che per gli italiani non accade. In Italia i laureati hanno mediamente competenze linguistiche comparabili a quelle dei diplomati di nazioni quali Finlandia, Giappone, Australia e Olanda. Sulle competenze linguistiche le prime quattro posizioni sono state raggiunte da Giappone, Finlandia, Olanda e Australia. Mentre per quanto concerne le conoscenze matematiche ai primi posti troviamo, o meglio ritroviamo Giappone, Finlandia e Australia cui si aggiunge in terza posizione il Belgio.
È evidente che la situazione ha un qualcosa di inquietante soprattutto laddove si legge che i risultati sono pressoché identici sia per i lavoratori che per i non occupati. Se ne deduce che l’aggiornamento professionale in Italia è molto scarno e al contempo chi “non è occupato” in un lavoro di sicuro non impiega quel tempo per prepararsi eventualmente per un impiego. Una componente determinante è di certo la preparazione scolastica ma sta di fatto che l’Italia è uno dei Paesi con la percentuale più elevata di lavoratori under-skilled, ovvero persone che non possiedono le competenze sufficienti per svolgere il proprio lavoro in modo adeguato. Ora se proviamo a sovrapporre questi dati percentuali al fatto che gli insegnanti, copiosa categoria professionale italiana, sono al contempo lavoratori ed educatori ne emerge uno spaccato decisamente poco piacevole. Nello studio Piaac condotto dall’OCSE gli italiani si sono classificati ultimi per competenze linguistiche, operando con la propria madrelingua, l’italiano, che si studia per svariate ore fin dal primo anno del primo ciclo di studi, fin dalla prima elementare per intenderci, e con la quale si comunica e si interagisce a partire dal primo anno di vita. Cosa sarebbe accaduto se questi italiani fossero stati chiamati a confrontarsi con i coetanei degli altri 22 Paesi aderenti al progetto su una lingua diversa dalla propria, magari l’inglese? Secondo l’indagine condotta da Ef (Education First) gli italiani si trovano in 27esima posizione rispetto ai 63 Paesi coinvolti nello studio sulla conoscenza della lingua inglese.Ai primi posti ci sono Danimarca, Svezia e Olanda. Tra i Paesi dell’Unione europea solo la Francia si classifica dopo l’Italia, al 29esimo posto.
All’approvazione del tanto sospirato quanto criticato ddl La buona scuola Matteo Renzi ha dichiarato: «Nella riforma della scuola è rafforzato l’insegnamento di musica, arte, lingue, educazione motoria. Ci sarà particolare attenzione, dalla primaria, alla assoluta professionalità di chi insegna l’inglese, per dare insegnamenti non appiccicaticci – per cui si fa fare un corsettino alla maestra – ma si richiede un inglese assolutamente perfetto». Bisogna quindi sperare che il “corsettino” che si farà frequentare alla maestra basti a scongiurare gli “insegnamenti appicicaticci” o cominciare seriamente a fare in modo che le ore di insegnamento e studio delle lingue servano a formare studenti e cittadini in grado di dialogare e comunicare con il resto del mondo? Che si aumenti il numero di ore previste per l’insegnamento della lingua straniera non è certo un male ma bisogna focalizzare sulla qualità, considerando anche quanto si legge nell’edizione 2012 del rapporto Eurydice – Eurostat Cifre chiave dell’insegnamento delle lingue a scuola in Europa: «Per essere efficace, l’insegnamento delle lingue straniere ha bisogno di docenti altamente qualificati. Più input ricevono gli studenti, più alto è il rendimento. Uno dei sistemi indicato per aumentare l’esposizione degli alunni alle lingue straniere è che alunni e insegnanti usino la lingua target durante le lezioni. Cosa che non accade in quasi tutti i Paesi o le regioni partecipanti all’indagine. Nella maggior parte dei Paesi o regioni partecipanti, a detta degli studenti testati, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione non vengono usate regolarmente durante le lezioni di lingua».
L’Indagine europea sulle competenze linguistiche (IECL) di Eurydice e Eurostat mette inoltre in evidenza che il rapporto tra la percezione degli studenti dell’utilità di imparare le lingue testate e la loro competenza linguistica è positivo. La gran parte degli studenti considera l’inglese utile per la carriera scolastica e il lavoro futuro; l’80% per il lavoro futuro (tranne in Francia) e anche di più riguardo alla ricerca di un buon impiego. Una corretta informazione quindi potrebbe maggiormente coincidere con una corretta formazione. Far comprendere quanto prima ai ragazzi che un’istruzione seria e qualificata li porta a essere non solo più competitivi nella ricerca di un lavoro ma anche a essere più preparati e competenti nello svolgimento di un impiego. Chiarire il concetto che il fatto di parlare la propria lingua non equivale a conoscerla, ma bisogna studiarla al pari di quelle straniere, della matematica e dell’informatica. Ovvio che tutte le altre materie di studio sono egualmente importanti per la formazione culturale ma nell’era della digitalizzazione e della globalizzazione non possiamo fingere di non sapere quanto incidano la conoscenza delle lingue e dell’informatica sulla preparazione degli studenti italiani rispetto ai coetanei stranieri.
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© 2015, Irma Loredana Galgano. Ai sensi della legge 633/41 è vietata la riproduzione totale e/o parziale dei testi contenuti in questo sito salvo ne vengano espressamente indicate la fonte irmaloredanagalgano.it) e l’autrice (Irma Loredana Galgano).