Guerini e Associati propone al grande pubblico il secondo atto del saggio di Marcello Foa su Gli stregoni della notizia. Il libro di «un giornalista che, dopo oltre 30 anni di carriera, resta profondamente innamorato della propria professione», di un “amore” che rimane comunque critico, consentendogli di osservare il lavoro proprio e dei colleghi con pungente spirito critico, il medesimo vorrebbe fosse presente in tutti gli operatori dell’informazione. Ma così, purtroppo, non è. I motivi sono molteplici ma alcuni più peculiari e pericolosi.
Ne abbiamo discusso nell’intervista che gentilmente ha concesso.
Dieci anni fa lei scriveva di come coloro che conoscono le tecniche per manipolare l’informazione potessero minare le democrazie. Dieci anni dopo ripropone il testo aggiornato in uno scenario che non è poi così confortante. In questo lasso di tempo a fare più passi in avanti sono state le democrazie, gli operatori dell’informazione o i manipolatori?
Ottima domanda. Direi in prima battuta i manipolatori. L’informazione e la comunicazione sono strumenti indispensabili nella gestione del potere e come strumento delle guerre asimmetriche. Le tecniche che descrissi dieci anni fa vengono usate anche oggi, nel frattempo se ne sono aggiunte altre molto sofisticate. Purtroppo i giornalisti, anziché allertarsi e mostrarsi sempre più guardinghi, hanno continuato ad essere facili prede degli spin doctor e questo ha finito per diminuire la credibilità della grande stampa e, in seguito, anche la fiducia nelle istituzioni e nei partiti. Se la nostra democrazia non è morta lo dobbiamo in larga parte al successo della cosiddetta informazione alternativa online, a cui è corrisposto la nascita di nuovi movimenti politici.
Le notizie false non sono prerogativa dei nostri tempi, eppure oggi sembra che interi governi vogliano indire addirittura una crociata contro quelle che sono state definite “armi contro la democrazia”. Sono le fake news che girano in Internet e sui social media il vero pericolo per le democrazie occidentali o si attaccano queste per distrarre le persone da altro?
Le fake news sono chiaramente un pretesto per mettere a tacere o comunque limitare l’informazione alternativa online, che, contrariamente ai miei colleghi, saluto con molto favore. Nel saggio dimostro come lo scopo reale di queste polemiche sia l’instaurazione di una sorta di censura che, in nome di una causa apparentemente giusta (“le fake news vi ingannano!”), permetta ai governi di discriminare tra buona e cattiva informazione. Ma queste sono logiche da regime autoritario. Diversi studi hanno dimostrato come l’influenza delle “fake news” sull’elettorato sia marginale ed effimera. La mia tesi è che le vere indisidie siano rappresentate dalle manipolazioni che nascono dentro le istituzioni, con effetti davvero devastanti, ma contro cui non si levano mai voci e tanto meno richieste di sanzioni.
Le va di spiegarci la differenza tra comunicazione istituzionale e comunicazione politica?
Certo. La comunicazione istituzionale è per sua natura oggettiva, neutrale, spoliticizzata: viene usata dai governi non per fare propaganda ma per permettere ai cittadini di disporre di dati e notizie oggettive riguardanti l’attività dello Stato e dello stesso governo.
La comunicazione politica, invece, permette ai ministri di prendere parte al dibattito politico e di difendere le proprie opinioni. I problemi nascono quando i comunicatori più spregiudicati, ovvero gli spin doctor, le mischiano o addirittura, come capita sempre più frequentemente, aboliscono la distinzione. Quando questo accade si abusa del potere delle istituzioni e informazioni apparentemente oggettive sono in realtà falsate o manipolate alla fonte. È un fenomeno invisibile, di cui i cittadini (e quasi sempre anche gli stessi giornalisti) non sono consapevoli ma gravissimo per una democrazia.
Lei scrive che i giornalisti sanno sempre qualcosa in più del pubblico. Come utilizzano queste informazioni? Ciò li rende più ricattatori o più ricattabili?
Direi che li rende troppo vicini al potere. Mi spiego: la frequentazione dei politici e dei governi è inevitabile; come è inevitabile che si instauri una certa confidenzialità con le proprie fonti. Non puoi fare degli scoop se non hai degli informatori all’Eliseo, a Palazzo Chigi o al Pentagono. Il problema è che i giornalisti tendono a diventare troppo simpatetici con l’establishment e dunque ad assorbirne le logiche e gli interessi. Smettono di ringhiare e di abbaiare, diventano dei cani da guardia troppo docili, troppo “di casa”; si sentono gratificati dalla vicinanza con il potere e questo finisce per limitare la capacità critica e il coraggio di denunciare. Un giornalista conosce presidenti e primi ministri ma dovrebbe essere sempre temuto da costoro. Purtroppo non è sempre così e questa è una delle ragioni del conformismo della grande stampa che finisce per pensare troppo al Palazzo e con il Palazzo, distaccandosi dalla realtà e dai cittadini.
Perché è così difficile garantire un’informazione originale e corretta anche all’interno di stati democratici?
Da un lato per la ragione che le ho esposto, a cui se na aggiungono altre: i condizionamenti dettati dagli interessi degli editori, la riduzione delle risorse economiche a disposizione delle redazioni, che comporta uno scadimento qualitativo di quest’ultime . Però c’è un punto fondamentale: per esercitare fino in fondo la propria missione di coscienza critica, i giornalisti dovrebbero conoscere le tecniche usate dagli spin doctor per orientare o manipolare l’informazione, ma sebbene, come dimostro nel saggio, gli esempi siano numerosi e ricorrenti, questa consapevolezza non matura. E i giornalisti continuano a essere prede fin troppo facili degli spin doctor. Risultato: un’informazione tendenzialmente conformista.
Proviamo a calcolare il senso della corretta informazione in base ai parametri della conoscenza e a quelli dell’era digitale. Lei da decenni ormai studia e compie ricerche per raccontare scomode verità. Si può anche non condividere il suo lavoro ma non si può negare che cerchi sempre di documentarlo con fonti certe. Lei ha 28 mila persone che seguono il suo profilo social. Il sito tematico dove si afferma di perseguire la mission di smascherare le bufale mediatiche, ovvero le fake news, BUTAC è seguito, sullo stesso social network, da 125 mila persone. Diciamo che il loro non è proprio un metodo scientifico piuttosto un rifarsi alla cultura dominante. Tant’è vero che, oltre a lei, un altro giornalista che finisce spesso nel loro mirino è Giulietto Chiesa. Il punto su cui vorrei discutere con lei è il motivo per cui tanta gente preferisce credere semplicemente e tranquillamente a loro? E, se mi permette, anche conoscere la sua opinione sul perché tante persone preferiscano sia un sito a dir loro cosa sia una bufala invece di documentarsi personalmente…
Tendenzialmente i debunker sono simpatetici con le istituzioni nella presunzione che rappresentino la fonte della Verità. Il mio approccio è opposto: io individuo nella manipolazione dentro le istituzioni una delle minacce più gravi alla nostra democrazia. È normale che in genere non sia amato dai debunker, che infatti sono restii ad attaccare i governi e l’establishment economico, men che meno gli spin doctor. Direi che mi sembrano funzionali all’establishment, che infatti li elogia (vedi la Boldrini nella passata legislatura). La loro visione privilegia e difende l’ortodossia istituzionale e i loro toni sono sovente inquisitori, polemici, ostentamente denigratori. Non c’è distacco critico. D’altronde molti di loro si sono autoproclamati in questo ruolo, senza credenziali professionali o accademiche ma naturalmente il pubblico questo non lo sa. Bisogna essere molto sicuri di sè per erigersi quotidianamente a giudici (e con toni implacabili) degli altri. Quanto contano davvero? Difficile dirlo. Alcuni studi hanno dimostrato che la loro influenza è limitata.
Uno dei punti su cui lei insiste molto nel libro è l’influenza degli esperti della comunicazione usati dai politici in campagna elettorale e non solo, gli spin doctor. In questi giorni primeggia tra i titoli dei giornali il datagate che ha coinvolto Facebook e Cambridge Analytica. Era davvero così inaspettato l’utilizzo di tutti i dati raccolti e immagazzinati dai social media?
Assolutamente no. Nel saggio scrivo che i giornalisti anziché infervorarsi sulle fake news, dovrebbero occuparsi di problemi ben più seri e gravi, come le insidie rappresentate dalla capacità di Facebook di orientare le nostre emozioni i nostri stati d’animo e anche le nostre idee politiche. Lo scandalo di Cambridge Analytica è esploso adesso e sebbene le circostanze siano state in parte strumentalizzate, non mi ha affatto sorpreso. Ma ad essere pericolosa non è tanto la società britannica, quanto Zuckerberg stesso.
Lei afferma che la concorrenza di siti e blog online sia salutare al giornalismo classico ma che comunque spetti a questo portare avanti il riscatto dell’informazione. Lo farà?
Me lo auguro di cuore. Io resto convinto che una stampa autorevole e coraggiosa sia indispensabile per la nostra democrazia. Solo i grandi media sono attrezzati per condurre battaglia davvero scomode e coraggiose, che richiedono ingenti mezzi economici e le necessarie tutele giuridiche. Ma bisogna volerlo e bisogna poter contare su editori all’altezza. Che ci riesca non lo so, che debba provarci lo credo con tutte le mie forze.
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