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Irma Loredana Galgano

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L’Africa, i giovani, l’Italia

01 lunedì Set 2025

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GuerinieAssociati, MarioGiro, PianoMattei, recensione, saggio

Che cos’è l’Africa per l’Italia e per l’Europa? La si dipinge alternativamente come terra delle opportunità o come mostro demografico pronto a schiacciarci, giacimento a cielo aperto o antro di malattie e pandemie, partner per gli aiuti internazionali o socio nel commercio internazionale, lions on the move  i o bottom billion ii. Cosa sono l’Italia e l’Europa per l’Africa? Di fronte ai mutamenti indotti dalla deglobalizzazione e dalle guerre in corso, l’Africa è alla ricerca di un’autonomia che le permetta di fare le proprie scelte in maniera indipendente. Il modello di sviluppo occidentale sembra stia portando tutti in un vicolo cieco ecologico. Il continente africano, che non ha ancora intrapreso tale percorso, è forse nella posizione migliore per inventare un nuovo modello iii.

I saggi raccolti in Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa (Edizioni Angelo Guerini e Associati, 2024), volume collettaneo curato da Mario Giro iv, indagano i vari aspetti delle relazioni fra Italia, Europa e Africa per comprendere se davvero la risposta agli interrogativi sia inclusa o meno nel Piano Mattei del governo Meloni. Ma, soprattutto, mettono in evidenza i punti programmatici mancanti o su cui si dovrebbe lavorare per rendere il Piano, attualmente in una fase ancora embrionale, davvero incisivo ed efficace nella costruzione di un partenariato equo e duraturo.

Il Continente africano sta attraversando una serie di transizioni epocali in campo economico, sociale, politico e demografico. Si prevede che la sua popolazione sarà più che raddoppiata entro il 2050 e supererà quota 2,5 miliardi, un quarto di quella globale. L’Africa rimarrà, in futuro, anche la regione più giovane del mondo, con un’età media di 25 anni. Possiede circa il 30% delle riserve minerarie, il 7% delle risorse petrolifere e di gas e oltre il 60% delle terre arabili incolte del mondo. Il Governo italiano guidato da Giorgia Meloni intende imprimere, con il Piano Mattei, un cambio di paradigma nei rapporti con il Continente africano e costruire un partenariato su base paritaria, che rifiuti tanto l’approccio paternalistico e caritatevole quanto quello predatorio, e che sia capace di generare benefici e opportunità per tutti v.

Fondamentale per l’attuazione del Piano Mattei per l’Africa è il ricorso al Fondo italiano per il Clima, il cui 70% è dedicato all’Africa per la realizzazione di iniziative nei settori dell’idrogeno verde, dell’energia rinnovabile e dell’adattamento agricolo al cambiamento climatico, per il ripristino della biodiversità e per l’uso sostenibile delle risorse naturali. La dotazione iniziale del Piano Mattei è di 5 miliardi e 500 milioni di euro tra crediti, operazioni a dono e garanzie, di cui circa 3 miliardi dal Fondo italiano per il Clima e 2,5 miliardi dei Fondi della Cooperazione allo Sviluppo vi.

Si consideri che nello stesso arco temporale durante il quale la popolazione africana crescerà e l’età media sarà sempre più bassa, l’Europa vivrà un forte declino demografico. Nel 2050, l’Italia avrà registrato un presumibile calo di 7 milioni di abitanti, con piccoli comuni svuotati, un rilevante aumento degli ultraottantenni e una conseguente riduzione della ricchezza nazionale e del welfare, a partire dall’insostenibilità del sistema pensionistico vii.

Viceversa, la popolazione in età lavorativa in Africa, attualmente pari a circa il 56% del totale, aumenterà fino al 63% nello stesso periodo. Il Piano Mattei si propone di dare priorità a quegli interventi che si prefiggono di promuovere la formazione e l’aggiornamento dei docenti, l’adeguamento dei curricula, l’avvio di nuovi corsi professionali e di formazione in linea con i fabbisogni dei mercati del lavoro locali. Potranno essere impiegate le nuove piattaforme digitali per l’apprendimento della lingua italiana a distanza. Egualmente, si potrà considerare il coinvolgimento delle Università italiane nell’attuazione di iniziative di formazione nel Continente africano. Da questo punto di vista è significativa l’esperienza realizzata dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) con il “Partenariato per la conoscenza”, che ha l’obiettivo di mettere in rete le migliori competenze tecniche e accademiche italiane per l’alta formazione. Oltre alla finalizzazione e al negoziato di diversi memorandum d’intesa in alta formazione, ricerca e innovazione, a oggi sono circa mille gli accordi inter-universitari con atenei africani, ai quali si aggiungono circa duecento progetti universitari (il 47% dei quali nel settore della formazione). Il sistema universitario italiano è disponibile a condividere con le Università africane il know-how nel campo della ricerca, del trasferimento delle conoscenze e della formazione, con l’obiettivo di sviluppare rapporti di collaborazione paritaria e di crescita comune viii.

Il calo della popolazione italiana è in costante aumento dal 2014, con una contrazione delle nascite e un innalzamento della speranza di vita, un conseguente aumento della popolazione anziana e una riduzione di quella giovane. Secondo questo trend, nel 2050 a essere aumentati saranno solo gli over 55, con un +45,7%, mentre la fascia 18-21 sembra essere destinata a crescere solo del 3,2%. Avere meno giovani significherà avere anche meno immatricolati e meno laureati, con un peggioramento netto della situazione italiana a livello mondiale. Nel 2020 la Commissione Europea ha presentato la European Skill Agenda con dodici azioni finalizzate a promuovere lo sviluppo delle competenze che i cittadini dovrebbero avere per essere in grado di affrontare la complessità del mondo contemporaneo. Sin dalle prime pagine del documento, si sottolinea come la crescita dei Paesi sia strettamente connessa alla preparazione dei propri cittadini. L’istruzione in giovane età rimane fondamentale ma costituisce solo la prima tappa di un percorso di vita, ovvero la prospettiva del lifelong learning. 

Nel nostro Paese il 63% delle persone occupabili (ovvero di età compresa tra i 25 e i 64 anni) ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,5% della media europea e l’83,3% di Germania e Francia. Il 20,3% possiede un titolo di studio terziario (universitario). Una percentuale nettamente inferiore alla media europea (30,4%) e circa la metà di quella registrata in Francia e Germania ix.

I giovani di età compresa tra i quindici e i trenta anni sono al massimo della potenza biologica, sessuale e ideativa eppure la società italiana, e occidentale in generale, se non ne fa proprio a meno, certamente non impiega opportunamente e utilmente quella generazione. Che futuro potrà mai avere, se ce l’avrà, questa società che ignora i propri giovani?

La verità è che, per certi versi, la vecchia società, ancorata a quelli che ritiene baluardi e principi inderogabili, sembra quasi aver paura di questa “massa giovane” di nichilisti attivi che appaiono come i soli ad aver compreso che l’amore è l’unico antidoto al valore del denaro, che non hanno timore di cambiare, stravolgere l’ordine dato, evolvere la società in altro x. Il punto è che la società italiana, e occidentale in generale, sembra non comprendere neanche i giovani stranieri. Si chiede retoricamente Mario Giro nel testo cosa abbia mai la gioventù africana globale che gli occidentali non capiscono, abituati a un mondo in cui i giovani sono pochi.

Questa gioventù possiede un irrefrenabile desiderio di contare, di diventare soggetto, ed è disposta a correre grandi rischi per ottenere il suo posto nella globalizzazione che tutto offre e nega allo stesso tempo. L’atto migratorio diviene l’avventura individuale dell’invenzione di sé, del proprio posto nel mondo. Imparano a essere aggressivi e meno mansueti dei loro genitori: nelle grandi città africane la vita ha assunto i contorni di una lotta per la sopravvivenza che poi si ripete al di là del Mediterraneo. Oggi migrare è realizzare il sogno individuale di prendere in mano il proprio destino.

Lo sguardo occidentale – qualunque sia la posizione sugli immigrati – è miope: non vede la forza colossale insita in tale nuova generazione africana che non si ferma davanti a nulla, esce dal proprio ambiente e va verso l’ignoto. Avventurieri è la parola usata in Africa per chi decide di emigrare in Europa, coloro che hanno il coraggio di fare il “grande viaggio”. Giovani i quali ormai compiono il cammino iniziatico senza più supervisione degli anziani, non c’è bosco sacro, non ci sono classi di età, si supera anche l’etnia. Ci sono solo individui immersi nel caos. La mentalità dell’africano adulto o anziano è ancora legata ai vecchi miti e alle ideologie anni Sessanta, come il panafricanismo, il socialismo africano, il federalismo o la negritudine. La percezione delle giovani generazioni è diversa: tra di esse prevale un’aspettativa di prosperità individuale e molto competitiva. È sorto un ceto medio africano più istruito e culturalmente globalizzato ma meno interessato al futuro comune xi.

Per la giovane generazione intellettuale africana il continente non è più nero ma grigio: fallita l’Africa romantica che fingeva sulla propria grandeur precoloniale, immaginava emozioni e progettava nuove prospettive comunitariste, rimane un’africa sterile e mancata che, tra corruzione e violenza, non ha saputo voler bene ai propri figli i quali ora la disconoscono e hanno smesso di amarla. È questa la rottura sentimentale che si compie: innanzitutto una frattura con sé stessi, con la propria terra matrigna. Ma non si può amare nemmeno chi ha contribuito a renderla così: il mondo “bianco” che non ha risposto alla domanda di reciprocità dei padri. Tra la retorica di un’Africa eterna e il vittimismo costante, resta solo un grande vuoto di cui i giovani africani sono figli. Spaesati – come i loro coetanei di altri continenti – nel grande flusso della globalizzazione, reagiscono con una mentalità egocentrica e globalizzata al contempo. 

Oggigiorno molti giovani “votano con i piedi”, cioè se ne vanno. Dopo la generazione sacrificata dell’aggiustamento strutturale (1985-2000) xii, oggi ne è giunta a maturità un’altra che non vuole fare la stessa fine. Per questo si ribella a modo suo e non si fida più di nessuno. La sfida è ricreare un terreno d’intesa ricostruendo le basi di un dialogo comune. xiii

Uno dei modelli di integrazione, diffuso soprattutto in Germania, Svizzera e Belgio, è quello del “lavoro temporaneo”, il quale accoglie immigrazione sulla base di necessità stagionale, temporanea e settoriale di manodopera, permettendo l’ingresso a persone alle quali vengono garantiti diritti sindacali ma non politici. Non vengono offerte opportunità di integrazione ma solo di lavoro. Tutto ciò, costruito nell’ottica di una migrazione circolare, presuppone permessi di soggiorno legati alla durata del contratto di lavoro, eventualmente rinnovabili, esclude la possibilità di ricongiungimenti familiari e rende molto difficolto l’accesso alla cittadinanza. La Francia, invece, ha quasi sempre prediletto l’approccio assimilazionista. Il processo di naturalizzazione prevede una rapida omologazione anche culturale, mediante adesione alle regole democratiche laiche che fondano la comunità francese. L’Italia non ha mai davvero adottato alcun modello per cui il sistema di integrazione viene “costruito” nei fatti dalla stratificazione normativa vigente in materia. xiv La fattispecie risultante potrebbe essere definita con un ossimoro assimilazionista di tipo escludente. 

La mancanza di un qualsivoglia modello teorico adeguato ad affrontare la questione immigrazione nel nostro Paese va inteso come l’effetto di alcuni fattori che hanno orientato il dibattito pubblico in senso emergenzialista e conflittuale, producendo esiti frastagliati dovuti proprio alla mancanza di un paradigma generale. xv In Francia viene richiesto agli immigrati di assimilarsi al sistema culturale ospitante e in cambio viene offerta una rapida e piena integrazione che culmina con l’attribuzione della cittadinanza, in Italia questo scambio risulta fortemente impari: i migranti dovrebbero rinunciare alla loro identità etnica, culturale e religiosa in cambio di nulla.

La politica migratoria del governo Meloni presenta una tripartizione netta e ben definita. La prima politica è quella inerente l’accoglienza dei rifugiati ucraini e mantiene, sostanzialmente, la linea dettata dal governo Draghi nel marzo 2022. La seconda, egualmente non nuova ma rafforzata dall’attuale governo, consiste nell’apertura nei confronti degli ingressi dei lavoratori, soprattutto per lavoro stagionale m anche per occupazioni stabili. La terza politica è quella della chiusura verso gli ingressi per ragioni umanitarie. Gli impedimenti frapposti ai salvataggi in mare da parte delle ong, il decreto Cutro con la quasi abolizione della protezione speciale per i rifugiati e la conseguente condanna a una vita di stenti per i richiedenti asilo respinti, ma raramente espulsi, le restrizioni all’accoglienza dei minori non accompagnati, i ripetuti viaggi e gli accordi con il regime tunisino e con quello egiziano, oltre a quelli con la Libia sembrano aver delineato una linea politica a suo modo coerente ma in netto contrasto con l’articolo 10 della Costituzione e le convenzioni internazionali sul diritto di asilo. 

In questa cornice si inserisce anche l’accordo con l’Albania e la realizzazione dei centri extraterritoriali per l’esame delle domande d’asilo. Meloni ha parlato di una misura di deterrenza nei confronti dei potenziali partenti ma il fatto che nei due centri verranno trattenuti soltanto uomini adulti non fragili, tratti in salvo da navi militari e provenienti da paesi classificati come sicurixvi conferma l’intenzione punitiva del progetto. xvii

Il Piano Mattei, nelle intenzioni del governo Meloni, mira a sviluppare economicamente le aree da cui maggiormente origina il fenomeno migratorio, con l’intento di limitarne gli effetti e combattere la tratta internazionale dei migranti irregolari. In Italia, le comunità di migranti africane si sono integrate stabilmente, dando vita a un tessuto associativo ricco e variegato che va dall’integrazione sociale alla promozione culturale. L’emergenza e la crisi scatenata dall’esplosione della pandemia da Covid-19 hanno evidenziato l’importanza del ruolo che giocano le associazioni delle diaspore. Durante i lockdown le associazioni hanno prontamente attivato meccanismi di risposta all’emergenza dovuta all’epidemia, attuando iniziative diversificate nei Paesi in cui operano e affrontando una situazione unica che ha colpito le diaspore due volte: in Europa nei Paesi di approdo e, contemporaneamente, nei loro Paesi di origine. Le diaspore, inoltre, rappresentano una risorsa inestimabile per lo sviluppo economico dei loro Paesi attraverso le rimesse e gli investimenti. 

Per Dioma, queste attività non solo migliorano le condizioni di vita ma rafforzano anche le relazioni bilaterali con l’Italia. I membri della diaspora si muovono tra due Paesi e conoscono le condizioni di vita di entrambe le parti. Questa posizione li rende attori chiave nel dibattito sulla cooperazione allo sviluppo. La loro comprensione delle culture, delle dinamiche economiche e delle esigenze e opportunità specifiche di entrambi i contesti li rende particolarmente efficaci nel promuovere progetti di sviluppo che siano culturalmente sensibili e mirati. Il coinvolgimento attivo degli stessi migranti nei processi di sviluppo assicura che le iniziative siano realmente rispondenti alle necessità delle comunità locali xviii e andrebbero attivamente coinvolti nei progetti di cooperazione, anche e soprattutto quelli del Piano Mattei.

Il fenomeno migratorio africano, contraddistinto da particolare intensità e complessità, è favorito dalla prossimità geografica di due Continenti simbolicamente uniti, oppure separati, dalle medesime acque. Il declino di una concezione dello spazio geografico come susseguirsi di distese contigue, dominate da un’enfasi sui confini come sedi di conflitto, con i mari come vuoti; l’estinguersi rapido di un assetto geopolitico che trovava in due “superdistese” la sua semplificata versione globale, ha privato il Mediterraneo di una plurisecolare funzione di diaframma tra due mondi, ha abbattuto (o meglio, reso inutile) una frontiera che è stata caricata di significati di separazione tra mondo moderno e spazi più o meno organizzati della povertà, spazi dei conflitti. La chiave di lettura, in sostanza, è quella di una situazione-regione, rispetto a quella contrastante di regione-situazione (intendendo con la prima il ruolo di semplice spazio attraversato di linee di forza esterne, e per la seconda quello di campo in qualche modo gestito e governato) xix.

I migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo e ridotti a un fattore esclusivamente economico o legati a una crisi politica. Necessita invece, per una maggiore comprensione della modernità, che la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ampia. Pensare con la migrazione, andare oltre la superficie fino alle più profonde diseguaglianze della giustizia economica, politica e culturale negata che struttura e dirige questo nostro mondo. 

I migranti, affermando il loro diritto a muoversi, migrare, fuggire, spostarsi, non solo rompono gli schemi e si oppongono al rispetto del posto assegnato loro dalla storia, ma segnalano anche la modalità precaria contemporanea della vita planetaria. È il modo in cui i molteplici sud del pianeta si propongono all’interno della modernità. E proprio questo nuovo modo di promuoversi viola e indebolisce le categorie applicate loro dal nord egemonico xx.

Il discorso sui giovani in Africa, da qualsiasi angolatura lo si intenda imbastire, pone di fronte a complessità di ordine innanzitutto teorico. Da un punto di vista analitico, infatti, la categoria “giovani” applicata all’eterogenea vastità culturale, storica, territoriale, economica e politica del continente africano, costituisce un insieme estremamente denso e composito che interroga fin da subito sul rischio di eccessive generalizzazioni. Oggetto di ricerca, dibattiti e analisi accademiche multidisciplinari, bacino umano di risorse spesso manipolate dall’alto, ma anche fonte di timore per quei governi che mal sopportano l’emergere di nuove coscienze politiche e resistenze dal basso, segmento “vulnerabile” della società destinatario di numerosi progetti di cooperazione, ma anche segmento familiare “forte” su cui si riversano aspettative e responsabilità, la fetta più consistente della popolazione, ma sovente la più esclusa dalle istanze decisionali. Tutto questo e molto altro, i giovani, definiti in termini di categoria, finiscono spesso per slittare da moltitudine di soggettività a oggetto omogeneo, in ragione di quell’appiattimento che in una qualche misura la categoria stessa produce. 

In questo senso, pur considerando i tratti che in linea generale accomunano trasversalmente i giovani in Africa, è necessario dotarsi di una visione plurale che tenga conto delle tante gioventù africane e di come esse si collochino nella società. Un aspetto fondamentale è proprio lo spazio peculiare che esse abitano, e cioè quello situato all’intersezione tra modernità e tradizione, tra locale e globale, tra immobilità e mobilità, tra marginalità e centralità. Queste intersezioni, tutt’altro che fugaci punti di contatto, rappresentano snodi vitali, zone di confluenza creativa dove si concentra una produzione incessante di nuovi modelli, nuove relazioni e nuove identità politiche, economiche, sociali e culturali, nonché nuove forme di adattamento a una realtà in continuo fermento e non di rado disorientate. Una produzione che scaturisce da processi di rielaborazione simbolica e risignificazione di luoghi e relazioni di potere da cui emerge quella capacità di aderire plasticamente al cambiamento, ma anche di produrlo in maniera attiva e consapevole. Un elemento, questo, che rompe con la visione di una gioventù statica e passiva che, al contrario, conquista un protagonismo sempre più evidente xxi. Le primavere arabe e i movimenti di contestazione in Africa subsahariana sono l’espressione più evidente della centralità della “questione giovanile” nel Continente. 

In qualità di naviganti della globalizzazione connessi con il mondo ma in relazione quotidiana con il proprio territorio di cui sperimentano potenzialità e carenze, anche dal punto di vista del lavoro i giovani vanno considerati come compositori di nuovi modelli. Nel proporre prospettive in base alle proprie esigenze e competenze, visto l’aumento del livello di istruzione a partire dagli anni 2000 in avanti, si dovrebbe innescare anche quel processo di adattamento dei modelli professionali al contesto locale.

La crescita delle città, la nascita della classe media, l’emergere di una società civile forte e dinamica, lo sviluppo economico e politico, la diminuzione dei conflitti sono già realtà in Africa. Realtà che in Italia non vengono pressoché mai raccontate. L’impressione è che il Piano Mattei sia il tentativo di mettere in rete il patrimonio di progetti, relazioni e iniziative che uniscono le due sponde del Mediterraneo. Lo sviluppo dell’Africa è forse la più importante occasione di crescita e sviluppo dell’Italia dal dopoguerra. L’Africa è il posto dove investire perché dispone delle più ricche fonti di energia rinnovabile, di manodopera e risorse. L’area di libero scambio continentale africana è un mercato da 3.400 miliardi di dollari. Nell’analisi di Zaurrini si evidenzia come il Piano Mattei sia necessario più all’Italia che all’Africa. 

Negli ultimi quarant’anni l’Italia in Africa ha latitato nel sistema geopolitico, ma non gli italiani. Le aziende italiane sono sempre state presenti e continuano a farlo in numero crescente. Ci sono stati e ci sono i grandi gruppi industriali del settore dell’energia, sia quella classica che quella rinnovabile, quelli delle infrastrutture e delle costruzioni o dell’agroalimentare. Proliferano poi le piccole e medie aziende. Il primo vero problema, per chi opera in Africa o è intenzionato a farlo, sono le difficoltà che si incontrano nel settore bancario o finanziario. Persiste uno scollamento tra un tessuto imprenditoriale fatto soprattutto di piccole e medie imprese che, complice la crisi, si sta rivolgendo sempre più spesso a mercati emergenti, compresi quindi quelli africani, e un sistema Paese – in cui rientrano le banche e le assicurazioni – che ancora stenta a muoversi in direzione sud. Ci sono banche italiane in Nord Africa ma a sud del Sahara sono presenti solo in via indiretta, attraverso filiali di gruppi stranieri che, nel frattempo, hanno acquisito il controllo di istituti italiani. 

La scarsa conoscenza dell’Africa e delle sue dinamiche tra gli operatori economici e finanziari, la quasi totale assenza del sistema bancario e finanziario africano sono i principali freni all’esplosione delle relazioni economiche tra l’Italia e il grande continente. Il Piano Mattei deve evitare di cadere nell’equivoco investimento-commercio: le aziende italiane che vogliono investire in Africa non sono tante, quelle che vogliono commerciare sono invece molte ma molte di più. Non può essere un piano di sostegno al commercio italiano se si intende incidere davvero sulle cause profonde di sviluppo economico, politico e sociale del continente africano. xxii

Le aziende italiane, che di sovente si muovono autonomamente e con forte spirito mercantile o avventuriero, devono imparare a fare sistema, uscendo dall’ebbrezza e dall’autocompiacimento di quel Made in Italy pronunciato come fosse un sinonimo planetario di qualità e, troppo spesso, invocato come un passepartout adatto a ogni situazione. xxiii

Al contrario, i concetti di impresa, imprenditore, competitività, gestione del rischio e così via, non sono universalmente interpretabili allo stesso modo, ma sono estremamente fluidi e variegati in base al contesto. 

Bisogna tenere ben presente la questione dell’adattamento del concetto di impresa al contesto africano, dove l’economia risponde a criteri di condivisione, di spartizione delle risorse anziché di monopolio, di relazioni familiari e benessere comunitario anziché individuale. L’Africa deve riposizionarsi nel mondo a partire dalle sue specificità, affrancandosi dal rapporto mimetico insano e caricaturale nei confronti dell’Europa e proponendo modernità alternative squisitamente africane xxiv.

Il ruolo che i giovani stanno assumendo nei processi di trasformazione sociale, economica e politica ha una centralità crescente, a dimostrazione di quanto sia fuorviante quell’immobilità che viene loro attribuita come fossero in balia delle privazioni senza possibilità o volontà di reagire. Se da un lato è innegabile che molti giovani africani sono costretti a fare i conti con situazioni di conflitti, povertà e violenza, dall’altro questo non coincide automaticamente con passività e rassegnazione. xxv

Essi rappresentano un insieme eterogeneo che nel quotidiano naviga il concetto di sviluppo nell’era della globalizzazione, incarnandone i paradossi e le potenzialità. Se la gioventù africana fosse vittima dell’esclusione sociale, probabilmente la sua presenza nelle organizzazioni della società civile, nella politica dal basso, nella produzione culturale, artistica e intellettuale non sarebbe così robusta. Per questo motivo, costituiscono una delle voci principali che i decisori politici e gli attori della cooperazione internazionale hanno il dovere di ascoltare. Se uno degli elementi centrali delle politiche di sviluppo è la costruzione di progetti in linea con le peculiarità dei contesti in cui si opera, i giovani sono forse coloro che più sono in grado di far luce sulla dimensione dell’avvenire, sul «futuro come fatto culturale»xxvi, un futuro immaginato attraverso cui si costruiscono strategie di adattamento a partire dal quotidiano.

Da un punto di vista eminentemente pratico, i giovani dovrebbero assumere la posizione di interlocutori principali, dovrebbero cioè essere ripensati come co-costruttori delle politiche per il lavoro, e non soltanto come destinatari. Un processo, questo, che deve inevitabilmente includere anche un ripensamento dei modelli economici su scala locale, non necessariamente dipendente da ciò che l’Occidente intende per modernità xxvii.

La filosofia che sembra prosperare tra i giovani africani è quella della salvezza individuale legata al rifiuto del passato (sia quello tradizionale che quelli coloniale e post-coloniale), al ripudio dei propri leader fallimentari ma anche al rigetto dello straniero. Mai come ora, i giovani africani si concepiscono soli, rivendicando allo stesso tempo la propria libertà e il diritto di accedere al resto del mondo. Sottolinea Giro che uno dei motivi ricorrenti è la collera contro le classi dirigenti africane le quali, mentre mandano i loro figli nelle scuole all’estero, hanno abbandonato il settore educativo, lasciato andare in rovina le strutture scolastiche, non hanno sovvenzionato gli insegnanti rurali e hanno lasciato cadere la sanità. 

Talune caratteristiche proprie della società postcoloniale stanno facendo la loro comparsa nei Paesi del Nord, anch’essi alle prese con una crescente eterogeneità demografica che produce fratture e rivendicazioni identitarie, con un’economia delocalizzata dove i centri di produzione e di consumo appaiono dispersi, dove la finanza prevale sulla produzione, la flessibilità sulla stabilità. In altri termini la diffusione della democrazia sembra andare di pari passo con l’espansione globale del capitalismo con tutte le sue contraddizioni. La politica, per gli Tswana ad esempio, è in primo luogo una dimensione partecipativa vissuta nel fluire della vita sociale. Non stupisce che, a partire da questa concezione, la democrazia formale di tipo occidentale basata sull’espressione elettorale e sull’alternanza dei partiti al governo risulti insoddisfacente. Come altre società africane dotate già in epoca precoloniale di complesse strutture politiche centralizzate, gli Tswana credono fermamente nel senso di responsabilità che il leader deve alla comunità: un famoso adagio tswana recita kgosi he kgosi ka morafe, «un capo è un capo grazie alla sua nazione». La concezione di politica tradizionale tswana si basa in definitiva su un’idea di democrazia sostanziale, mentre la democrazia formale ottenuta attraverso il voto risulta in questo contesto poco saliente xxviii.

La modernità viene intesa come il mito eurocentrico di una “teleologia universale” caratterizzata dall’idea di un progresso unilineare che l’umanità intera starebbe inevitabilmente perseguendo. Tutte le culture evolverebbero in questa prospettiva attraversando (con ritmi e tempi diversi) vari stadi di sviluppo per raggiungere infine il traguardo della civiltà che contraddistinguerebbe l’età moderna. È evidente come questo impianto concettuale – che si è dimostrato ampiamente congetturale – abbia fornito un alibi scientifico e morale all’espansione coloniale: nel nome dello “sviluppo economico”, della “conversione”, l’Europa potè infatti giustificare la conquista di ampie regioni del mondo xxix. I Comaroff hanno levato con forza la loro voce contrapponendo all’idea eurocentrica di una modernità universale l’immagine di modernità multiple o alternative. L’agency africana, come quella di altre culture extraeuropee, ha dato vita a forme di modernità differenti, risultato dell’incontro tra le identità locali e i processi globali innescati dal colonialismo. Declinare la modernità al plurale, mettendo in discussione la presunta unidirezionalità Nord-Sud dei flussi di idee, è dunque il presupposto della proposta controevoluzionista analizzata dai Comaroff. 

Sorge a questo punto spontaneo un quesito: nei programmi come il Piano Mattei c’è davvero la volontà di una cooperazione basata sul reciproco rispetto di idee e risorse da ambo le parti istituzionali?

Mario Giro sottolinea come il tema della cooperazione tra Italia e Africa sia stato, negli anni, molto altalenante. La scommessa del Piano Mattei è quella di superare tale limite creando una vera e propria azione sistemica che duri nel tempo. La frattura tra Occidente e Africa, segnatamente con la Francia in Africa occidentale, rende tale compito arduo. Nei recenti colpi di Stato continentali si è visto bruciare bandiere francesi e alzare quelle russe. Sono scene del Mali o del Burkina Faso e infine del Niger. Si tratta di una rottura definitiva con l’Occidente? Lo si è visto anche nei ripetuti voti alle Nazioni Unite dove il continente si è spaccato sulla condanna alla Russia. Più ancora nel caso della guerra a Gaza: l’Africa intera si è schierata con i palestinesi quasi spontaneamente. Una rottura sentimentale che si allarga all’Europa intera. Una rivolta del Sud globale. 

La caduta del sistema della guerra fredda ha rappresentato la fine delle ideologie contrapposte. Al loro posto c’è stato l’avvento delle identità e/o emozioni, di per sé molto volubili. Le relazioni tra gli Stati e i popoli sono ormai rette da una “geopolitica delle emozioni”, le più significative tra le quali sono la speranza, l’umiliazione (e il rancore a essa connesso) e la paura (del declino). Per le nazioni e le classi politiche tali emozioni non si fermano al sentimento ma si trasformano in cultura e programmi partitici. Nella post-globalizzazione tutti si sentono al medesimo tempo nativi ed estranei: di conseguenza più o meno spaesati xxx. È ciò che stanno vivendo i giovani africani: ogni punto di riferimento è scomparso. Tutto è in grande e generale rimescolamento. 

Anche l’Europa è in continuo rimescolamento. Di fronte alle nuove dinamiche mondiali i singoli Stati europei sono destinati a perdere progressivamente peso politico ed economico se non sapranno conciliare la visione nazionale e intergovernativa con la visione federale. Solo un’Unione sempre più federale, capace di valorizzare l’insieme delle specificità nazionali, può infatti riuscire ad avere un reale e forte peso politico ed economico e conquistare una credibilità globale che nessun singolo Stato europeo potrà mai avere. Anche nel rapporto con l’Africa. Proprio mentre l’Unione Europea sta prendendo consapevolezza di avere bisogno dell’Africa, come e forse più di quanto essa abbia bisogno dell’Europa nei prossimi decenni, vari Paesi africani stanno già guardando ad altri continenti e altre aggregazioni geoeconomiche. E allora quali sono il senso e le reali potenzialità del Piano Mattei dell’Italia in una Europa ancora divisa? xxxi

Le ambizioni italiane verso il continente africano sembrano misurate, sebbene reali. Per certo differenti da quelle francesi. Le relazioni tra Francia e Africa hanno un’anzianità e un ancoraggio impossibile da confrontare a quelle italiane ma un corrispondente Piano Foccart riporterebbe Parigi ai suoi demoni, ovvero a una Françafrique a cui cerca di sfuggire con ogni mezzo. Argomento tabù, perché sfruttata abusivamente e caricaturalmente a fini elettorali, mai del tutto assunta come consapevolezza collettiva e nazionale, la “responsabilità” francese di ex potenza colonizzatrice deve tornare a essere, secondo l’analisi di Emmanuel Dupuy, una forza e non un ostacolo in vista di un rapporto pacificato. Il nodo gordiano del rapporto reciproco tra Francia e Africa francofona è l’ignoranza delle storie reciproche. Indubbiamente è ora opportuno agire, in un primo momento privilegiando il principio di “equità” piuttosto che quello di “uguaglianza” nelle relazioni transcontinentali e/o bilaterali riequilibrando un rapporto asimmetrico nel quadro di un dovere di imparzialità.  xxxii

Germania e Italia sono sempre riuscite a mantenere un maggiore equilibrio nelle relazioni con il continente africano, nonostante o forse proprio perché la durata della “loro” colonizzazione è stata più breve e meno incisiva di quella francese.

Cosa significa allora cooperare con l’Africa tra pari, in maniera non predatoria né paternalistica?

Per Sergi, pur essendo un piano “non calato dall’alto” ma definito da una “piattaforma programmatica condivisa”, non traspare ancora quale sia il radicale cambiamento rispetto a quanto l’Italia e l’Europa hanno realizzato con le iniziative di cooperazione internazionale. Il documento trasmesso al Parlamento italiano il 17 luglio 2024 non esprime né una nuova visione strategico-programmatica né le modalità di condivisione con i Paesi africani, elemento fondamentale nella relazione tra pari. È indispensabile che quanto prima siano chiarite le concrete modalità di governance e siano definiti obiettivi con criteri di valutazione misurabili, a partire da quelli dell’Agenda 2030, assicurando trasparenza e coerenza all’intero processo decisionale, attuativo e valutativo. 

Sono tante le ragioni che spingono alla costruzione di solidi rapporti tra i due continenti e alla definizione di un comune cammino di sviluppo e progresso. Lo richiedono le incertezze di un mondo a geometria variabile, che ha perso la bussola delle istituzioni politiche multilaterali nate dopo le divisioni e gli orrori delle due guerre mondiali e che, in larga parte, tende a rifiutare l’attuale “ordine” internazionale, non corrispondente ai mutati equilibri di potere, alle esigenze di maggiore equità, al riconoscimento di regole condivise, al rispetto della dignità altrui. Lo richiede l’interesse a stabilire solide collaborazioni per l’acquisizione di materie prime indispensabili alle produzioni industriali e alla transizione energetica. Lo richiede una visione politica illuminata capace di guardare lontano e costruire un sicuro e duraturo reciproco vantaggio. xxxiii

Forse la strada da seguire è quella che condurrebbe a una cooperazione triangolare tra America Latina, Italia e Africa. Coinvolgere partner di regioni extra-europee rende l’iniziativa più inclusiva e per molti aspetti più accettabile, se non altro perché in molti casi può scattare un sentimento di maggiore vicinanza, comprensione di problemi e capacità di condivisione delle soluzioni. Tra America Latina e Africa esistono vincoli storici fortissimi, un legame di sangue e di cultura certamente non inferiore né meno antico rispetto a quello esistente con l’Europa. In America Latina inoltre vi è un sentimento di particolare vicinanza all’Africa, rafforzato dalla scelta di molti governi attuali di garantire il rispetto dei diritti e la piena inclusione sociale degli afro-discendenti in quasi tutti i Paesi del subcontinente. 

Il modello di cooperazione triangolare non si basa solo sullo scambio di risorse e conoscenze, ma anche sulla necessaria costruzione di relazioni più forti e durature tra governi, imprese, società civile, in grado di assicurare continuità e sostenibilità al processo di crescita delle nazioni coinvolte. 

La fiducia generata da una comunicazione aperta e trasparente, che porta i partner a identificare aree di collaborazione di interesse reciproco e a sviluppare progetti congiunti a beneficio di tutte le parti coinvolte, contribuisce senza dubbio al benessere collettivo ma, promuovendo il dialogo tra attori con punti di vista e prospettive diverse, contribuisce anche a rafforzare la solidarietà politica e il sostegno reciproco nelle sedi internazionali a vantaggio di una maggiore stabilità xxxiv.


Note

iMcKinsey Global Institute, Lions on the move: The progress and potential of African economies, June 2010.

iiPaul Collier, The Bottom Billion: Why the Poorest Countries are Failing and What Can Be Done About It, OUP USA – Oxford University Press, New York City, 2008.

iiiCarlos Lopes,L’Afrique est l’avenir du monde, Seuil, 2021.

iv* membro della Comunità di Sant’Egidio, amministratore di Dante Lab, sottosegretario agli esteri nel governo Letta, viceministro degli Esteri nei governi Renzi e Gentiloni, docente di relazioni internazionali all’Università per Stranieri di Perugia.

vL’inaugurazione di questa nuova fase nei rapporti con il Continente africano ha avuto luogo in occasione del “Vertice Italia-Africa” del 29 gennaio 2024, che ha visto la partecipazione dei rappresentanti di 46 Nazioni africane, oltre 25 Capi di Stato e di Governo, dei tre Presidenti delle Istituzioni europee, dei vertici delle Nazioni Unite, dell’Unione Africana, delle Organizzazioni internazionali, delle Istituzioni finanziarie e delle Banche multilaterali di sviluppo. 

viIl Piano Mattei si sviluppa su sei direttrici d’intervento: Istruzione/Formazione; Sanità; Acqua; Agricoltura; Energia; Infrastrutture (fisiche e digitali). Documento Piano Mattei per l’Africa, consultabile al link:https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Piano_strategico_Italia-Africa_Piano_Mattei.pdf (consultato in data 19 giugno 2025).

viiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

viiiDocumento Piano Mattei per l’Africa, op.cit.

ixBarbara Bruschi, Micro-credenziali e NOOC potranno contrastare l’inverno demografico nelle Università? In Qtimes – Journal of Education Technology and Social Studies, luglio 2024.

xUmberto Galimberti, La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 2018.

xiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.

xiiAll’inizio degli anni Ottanta il mondo della cooperazione allo sviluppo assistette a una ridefinizione delle strategie che avevano dominato le decadi precedenti. Le Istituzioni Finanziarie Internazionali – in particolare la Banca Mondiale – ritennero che un’eccessiva presenza dello Stato nell’economia dei paesi dell’Africa sub-sahariana fosse una delle cause primarie della crisi e formularono programmi di aggiustamento strutturale che miravano a rimuovere i principali limiti alle potenzialità di sviluppo del continente. Ne è derivata una lunga ondata di liberalizzazioni che colpirono molti servizi pubblici e programmi statali inducendo quello che è stato definito come il disimpegno dello Stato.

xiiiMario Giro, Il Piano Mattei e la nuova politica africana dell’Italia, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, op.cit.

xivStefania Tusini, Alcune domande (e risposte Data-Based) su migrazioni, accoglienza e identità, in Maura Marchegiani (a cura di), Antico mare e identità migranti: un itinerario interdisciplinare, Giappichelli Editore, Torino, 2017.

xvRenzo Guolo, Modelli di integrazione culturale in Europa, paper presentato al Convegno «Le nuove politiche per l’immigrazione. Sfide e opportunità», Fondazioni Italianieuropei e Farefuturo, 2009. 

xviCon il decreto legge del 22 ottobre 2024 il governo ha inserito 19 paesi nella lista dei paesi sicuri (Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka, Tunisia). Sono rimasti fuori la Colombia, il Camerun e la Nigeria. Va aggiunto che l’Unione Europea, e diversi governi europei, in questa fase mostrano una progressiva convergenza con le posizioni del governo Meloni. Il 16 aprile 2025 la Commissione ha presentato l’elenco UE dei Paesi di origine sicuri che comprende, tra gli altri, anche Kosovo, Bangladesh, Colombia, Egitto, India, Marocco, Tunisia. 

xviiMaurizio Ambrosini, Tutte le contraddizioni del governo Meloni sulle politiche migratorie, lavoce.info, 25/10/2024.

xviiiCléophas Adrien Dioma, Il ruolo delle diaspore africane nel Piano Mattei, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xixGiuseppe Campione, Migrazioni Mediterranee, in Antonietta Pagano (a cura di), Migrazioni e identità: analisi multidisciplinari, EdiCusano – Edizioni dell’Università degli Studi Niccolò Cusano – Telematica Roma, 2017.

xxIain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e Identità nell’epoca postcoloniale, Meltemi Editore, Sesto san Giovanni (Milano), 2018 (edizione originale: Migrancy, Culture, Identity, Routledge, Londra, 1994).

xxiMarta Mosca, Giovani e lavoro in Africa: ripensare le categorie e i panorami futuri. Una prospettiva antropologica, in JUNCO – Lournal of Universities and international development Cooperation, n. 1/2020.

xxiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xxiiiMassimo Zaurrini, Piano Mattei: il futuro dell’Italia passa per l’Africa, op.cit.

xxivFelwine Sarr, Afrotopia, Edizioni dell’Asino, Roma, 2018.

xxvMarta Mosca,  Giovani e lavoro in Africa: ripensare le categorie e i panorami futuri. Una prospettiva antropologica, op.cit.

xxviArjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2014.

xxviiMarta Mosca, op.cit.

xxviiiJean Comaroff, John L. Comaroff, Teoria dal sud del mondo. Ovvero come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, 2019 (I Comaroff sono partiti dallo studio etnografico di un’area remota ai confini tra il Botswana e il Sudafrica e hanno percorso un lungo viaggio di ricerca che li ha portati a sviluppare una teoria dei processi globali di produzione della conoscenza e del ruolo che l’antropologia e gli studi africani possono svolgere nella contemporaneità).

xxixJean Comaroff and John L. Comaroff (edited by), Modernity and Its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, The University of Chicago Press, Chicago, 1993.

xxxDominique Moïsi, Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell’umiliazione e della speranza stanno cambiando il mondo, Garzanti, Milano, 2009.

xxxiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, op.cit.

xxxiiEmmanuel Dupuy, C’è bisogno di un «Piano Mattei» francese per ridefinire il rapporto tra la Francia e il continente africano?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xxxiiiNino Sergi, Piano Mattei: una pagina nuova?, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

xxxivAntonella Cavallari, La cooperazione triangolare: possibili sinergie tra America Latina, Italia e Africa, in Mario Giro (a cura di), Piano Mattei. Come l’Italia torna in Africa, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2024.

Irma Galgano, laureata in Lettere, indirizzo geografico-antropologico, è docente per le classi di concorso A012, A018, A019, A021, A022, A054. Formatore e Supervisore EIPASS, docente esperto nei percorsi di orientamento e formazione per il potenziamento delle competenze STEM, digitali e innovazione, collabora con varie riviste.


Articolo pubblicato sul numero 75 di Dialoghi Mediterranei, rivista scientifica per le aree disciplinari 10 e 11 (delibera Anvur n. 110 del 11-05-2023, con decorrenza dal 2018), link all’articolo: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lafrica-i-giovani-litalia/


Source: Si ringrazia l’ufficio Stampa di Edizioni Angelo Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per l’immagine in evidenza, credits www.pixabay.com


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Giulio Sapelli, Verso la fine del mondo

17 domenica Nov 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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Proprio ora che ci sarebbe bisogno di un protagonismo dei valori migliori che il mondo occidentale ha saputo produrre, l’Occidente si sente perduto e sotto attacco. Perché? 

All’inizio del XXI secolo la Storia ha svoltato, ma l’Occidente ancora si rifiuta di ammetterlo e di adattarsi a questa nuova epoca storica. La quota occidentale dell’economia globale si riduce e continuerà a farlo. Il processo è ormai inarrestabile, perché sempre più nuove società imparano ed emulano le best practices dell’Occidente. 

Nella fine della Guerra Fredda l’Occidente ha voluto vedere il trionfo indiscusso della sua supremazia. Sbagliando. Innanzitutto perché la vittoria non è imputabile a una supremazia reale dell’Occidente ma al collasso dell’economia sovietica, ovvero di uno stato che, mentre il suo nemico gongolava, si è pian piano ripreso fino a ritornare a occupare il posto che aveva come potenza mondiale. La fine della Guerra Fredda non è stato altro che la svolta verso una nuova fase storica. Un altro evento assolutamente sottovalutato dall’Occidente è stato l’entrata, nel 2001, della Cina nel WTO – World Trade Organization. L’ingresso di quasi un miliardo di lavoratori nel sistema mondiale di scambi avrebbe per forza di cose avuto come risultato una massiccia distruzione creativa e la perdita di molti posti di lavoro in Occidente.1

I valori dell’Occidente di democrazia, libertà, diritti alla persona devono essere ridiscussi, ripensati e non certo rinunciati o dimenticati se davvero si vuole mantenere viva la speranza di un ritorno alla politica “buona” ma anche a una economia regolata e a una finanza che guardi alle comunità e non al profitto del singolo individuo. Molti gli interrogativi che il mondo occidentale e, in particolare, la “vecchia” Europa si pongono. Primo fra tutti: verso quali drammatici scenari stiamo andando?

Il mondo dei nostri giorni non può essere letto come un ritorno agli anni Venti e Trenta, con annesse argomentazioni su fascismi e deriva burocratica dell’Unione Sovietica. La fase storica che stiamo vivendo è, di fatto, analoga a quella di fine Ottocento – inizi Novecento. Circa centoventi anni fa la globalizzazione negli scambi commerciali raggiunse livelli analoghi agli attuali. In quel periodo la crisi dell’Impero ottomano preparò la crisi dell’Impero asburgico e di quello russo. A caratterizzare quella fase storica fu l’esaurirsi dei compromessi diplomatici, politicamente regolatori delle potenze europee. Alla guerra si arrivò da sonnanbuli, considerandola al massimo un piccolo incidente, che re e imperatori, tutti cugini tra loro, avrebbero sbrigato rapidamente, magari disciplinando anche un po’ i ceti popolari che avanzano troppe pretese. 

Il periodo che va dalla fine della Guerra Fredda fino ai nostri giorni è un percorso caratterizzato, nella sua fase iniziale, da Stati Uniti che considerano superato ogni problema di leadership globale grazie alla finanza, a un ruolo non più militare ma da polizia planetaria, a istituzioni sovranazionali che sostituiscono la politica e a una Mosca che vede accompagnare la liquidazione del suo impero non da uno sforzo politico per integrare la società russa in quella europea, ma da una spoliazione, dal taglio sostanzialmente colonialistico, delle sue risorse. Pesa l’entrata della Cina nella storia del mondo ma il principale fattore di destabilizzazione della leadership unilaterale degli Stati Uniti è stato dopo il 1989 – 1991 (caduta del Muro di Berlino, scioglimento dell’Urss) ancora quello provocato dai movimenti interni al mondo islamico, che pesano sia direttamente in Europa (Bosnia, Cecenia, Turchia) sia grazie alla questione dello strategico approvvigionamento di risorse energetiche. A questa crisi statunitense va aggiunta poi quella europea.2

Sapelli sottolinea quanto gli Usa non sanno più a che santo votarsi ora che l’acume e il buon senso e la capacità diplomatica li hanno completamente abbandonati. E come noi, cittadini di uno dei tanti e diversi stati del continente europeo che li abbiamo seguito con disciplina, subiamo la stessa sorte. 

Tre diverse tipologie di rivoluzioni silenziose hanno determinato e al contempo spiegano lo straordinario successo di molte società non occidentali. 

La prima rivoluzione è politica. Per millenni, le società asiatiche sono state profondamente feudali. La ribellione contro ogni genere di mentalità feudale che ha preso impulso a partire dalla seconda metà del XX secolo è stata enormemente liberatoria per tutte le società asiatiche. Milioni di persone hanno smesso di sentirsi spettatori passivi e si sono trasformati in agenti attivi del cambiamento, evidente nelle società che hanno accettato forme democratiche di governo (India, Giappone, Corea del Sud, Sri Lanka), ma anche in società non democratiche (Cina, Birmania, Bangladesh, Pakistan, Filippine), che lentamente e costantemente stanno progredendo. E diversi paesi africani e latino-americani guardano ai successi asiatici. La seconda rivoluzione è psicologica. Gli abitanti del resto del mondo si stanno liberando dall’idea di essere passeggeri impotenti di una vita governata dal “fato”, per giungere alla convinzione di poter assumere il controllo delle proprie esistenze e produrre razionalmente risultati migliori. La terza rivoluzione è avvenuta nel campo delle capacità di governo. Cinquanta anni fa, pochi governi asiatici credevano che una buona governance razionale potesse trasformare le loro società. Oggi questa è la convinzione prevalente. Gli asiatici hanno appreso dall’Occidente le virtù della governance razionale, eppure mentre i livelli di fiducia asiatici stanno risalendo molti occidentali stanno invece perdendo la fiducia nei loro governi.3

L’America ha costruito il più grande ceto medio che il mondo abbia mai conosciuto e lo hanno fatto gli stessi americani, con il duro lavoro e il supporto di politiche governative volte a creare maggiori opportunità per milioni di persone. Ma ora tutta questa gente è, giustamente, preoccupata. Preoccupata e arrabbiata. Lo è perché, nonostante si ammazzi di lavoro, non vede praticamente crescere il proprio reddito. L’attuale situazione sta impoverendo sempre più il ceto medio e distruggendo la democrazia.4 Una condizione che risulta essere molto simile a quanto sta accadendo in altri paesi occidentali, Italia compresa. Per Mahbubani queste sono tra le principali cause per cui si è arrivati all’elezione di Trump a Presidente degli Stati Uniti d’America (primo mandato) e alla Brexit. Le classi lavoratrici hanno percepito e subito direttamente ciò che le classi dirigenti e politiche non sono riuscite o non hanno voluto captare per tempo. 

Il Nord globale sta assumendo alcuni dei tratti un tempo caratteristici del “Terzo Mondo”, come la crescente diversità interna, la conflittualità su base etnica e razziale, l’aumento di povertà e disuguaglianza, la crescita degli insediamenti informali e di una gioventù sotto-proletarizzata. Molte caratteristiche della modernità africana sembrano investire progressivamente il resto il mondo: crescita di un’economia neoliberista accompagnata da un forte aumento della disuguaglianza, insorgenza di pandemie e catastrofi naturali che talvolta stimolano il sorgere di movimenti di resistenza popolare, concezioni innovative della democrazia che si ispirano a strutture di politica partecipativa del passato. Come hanno ben compreso molti investitori internazionali, non da ultimi i cinesi, l’Africa è entrata in una fase totalmente nuova in cui lo sviluppo dei suoi mercati sta aprendo enormi possibilità economiche. Ma questa trasformazione continua a essere percepita da molti come una mera imitazione di sviluppo occidentale. Liberandosi di questa prospettiva ottocentesca, si scopre invece che i fenomeni osservabili in Africa sembrerebbero addirittura anticipare e non seguire taluni processi che stanno investendo l’Europa e il Nordamerica.5

Può un sistema istituzionale come quello europeo, fondato sull’euro e sullo stop al debito, sopravvivere alla guerra che lo ha investito in pieno? No, non può. La vicenda energetica, la quale altro non è che una destrutturazione delle relazioni di potenza, dimostra, per Sapelli, che l’Europa è destinata a soccombere. A Washington lo hanno capito benissimo, e infatti con la guerra in Ucraina ottengono ora due obiettivi: la distruzione del capitalismo tedesco e la rottura tra economia tedesca e imperialismo cinese. Ovviamente la distruzione di potenza trascinerà con sé l’economia italiana del Nord, da La Spezia a Rimini, che è legata a doppio filo a quella tedesca, così da destrutturare l’Europa, oggi che la sfida si gioca altrove, nell’Indo-Pacifico contro la Cina, e là vanno investite le risorse di potenza.

La guerra di aggressione imperialistica e imperiale della Russia all’Ucraina è giunta rapidamente al suo esito che già si manifestava sin dall’inizio, dopo le guerre siriane e mesopotamiche. La Turchia, nell’agosto 2022, ha riconosciuto la Crimea come entità storica costitutiva della nazione ucraina, scardinando tutta la costruzione neo-imperiale russa che aveva posto le basi ideologiche della guerra di aggressione. Fallito il tentativo di rivitalizzare l’ala anti-islamista dell’armata turca e della sua intelligentsija, fallito Gülen e il colpo di stato, non rimaneva agli Usa che ricercare l’alleanza con la Turchia, accarezzandone i disegni neoimperiali. Le guerre libiche e siriane erano fatte apposta per consentire la realizzazione di un nuovo genocidio turco, ora nei confronti dei curdi, dando a esso addirittura una rilevanza internazionale con l’annessione della Svezia e della Finlandia alla Nato, del resto preparata da anni e anni. Fermare il rischio di escalation sarebbe possibile solo con un sussulto di realismo, con Kiev che rinuncia alla Crimea e al Donbass, ma non se ne vedono i presupposti. Si è davanti a due ideologie “risorgimentali” contrapposte: gli ucraini si considerano giustamente ucraini; i russi, invece, li considerano russi. Mosca non accetta che l’Ucraina sia separata dal nouyi mir, dal mondo russo. L’errore di Kiev è sempre stato quello di escludere l’ipotesi di un’Ucraina neutrale tra Occidente e Russia. 

Tuttavia, la situazione si complicò perché non solo gli Usa intendevano mortificare la Russia, ma anche la Cina, unico possibile soggetto di mediazione, mentre gli Stati Uniti non hanno mai voluto che la guerra finisse. Ne avevano e ne hanno bisogno per continuare ad avere un’influenza forte in Europa e mettere in crisi la Germania. 

Una delle possibili vie d’uscita dal conflitto è trasformare la competizione militare in competizione economica grazie all’azione diplomatica congiunta dei “Paesi latini” europei: Spagna, Portogallo che, insieme alla Germania, trovino un accordo per controbilanciare gli Usa, che vogliono la guerra intermittente, per destabilizzare i Balcani e la Russia. L’Italia resterebbe fuori da questo gruppo di lavoro perché condizionata da esponenti politici locali troppo subalterni agli americani.

Guardare il mondo dal Giappone e dall’Indo-Pacifico consente di comprendere profondamente la nuova era che si apre dinanzi a noi. Il contesto delle relazioni internazionali sta mutando profondamente. Come la trasformazione della stessa Nato e delle sue direttive strategiche, con la penetrazione internazionale sia nell’arco baltico sia in quello Indo-Pacifico che attribuisce una nuova importanza strategica all’Australia la quale, unitamente a Nuova Zelanda e isole Tonga, è il cuore della nuova “anglosfera”, che vede affiancate agli Usa e al Regno Unito le due medie potenze antipodali: la Nuova Zelanda che costituisce una base di profondità verso il Polo Sud, mentre l’Australia è l’antimurale contro la Cina. Un’area geopolitica su cui influisce anche il riarmo atomico del Giappone che va così verso la rinuncia alla totale supplenza nordamericana e si propone di fiancheggiare gli Usa e l’Australia con forze militari proprie.

La “Nuova Via del Cotone”, un progetto di corridoio economico tra India, Medio oriente ed Europa, annunciato a New Delhi nel corso dei lavori del G20, veniva presentato come l’alternativa alla Via della Seta cinese. Il memorandum d’intesa fu firmato tra Stati Uniti, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Germania, Francia, Italia e Unione Europea. Un disegno per il cui sviluppo la non conflittualità cooperativa tra Israele e i Paesi arabi era essenziale. Un disegno che vedeva nella cooperazione tra gli Usa e l’Unione Europea la possibilità di competere con la Cina e così di contrastare l’enorme sfera di influenza raggiunta da Pechino nei paesi in via di sviluppo con il suo progetto infrastrutturale della Nuova Via della Seta. 

Dopo aver creato il forum I2U2 nell’ottobre 2021, Israele India Usa Emirati Arabi Uniti hanno intrapreso importanti percorsi di cooperazione sui temi delle risorse idriche, energia e trasporti, spazio, salute e sicurezza alimentare. Viene così a comporsi un quadro più ampio in cui collocare il progetto di Washington di potenziare il prolungamento di potenza del Quad, accordo che unisce Australia India Giappone e Stati Uniti, sempre diretto a contenere in forma competitiva la crescente influenza cinese nel Pacifico. Prolungamento che si sostanziava, nel settembre 2023, dell’acquisizione del porto di Haifa con un partner israeliano locale, così da rafforzare le rotte commerciali con i porti indiani e incrementare i rapporti tra Europa e Grande Medio Oriente. Ma questo prolungamento di potenza inusitato non poteva non provocare una risposta delle potenze ostili a questo disegno: Cina Turchia Russia Iran. 

Si mette così in moto un processo già visto nel tempo che precedette la Prima guerra mondiale, quando lo zarismo utlizzò i nazionalismi balcanici per contrastare sia l’influenza ottomana nei Balcani, sia quella austriaca e franco-tedesca. Ancora una volta il rapporto tra grandi potenze e nazionalismi in armi: i nazionalismi aggressivi armati e terroristici di massa divengono lo strumento idoneo per condizionare – con l’emergere delle piccole e medie potenze – il più grande gioco delle relazioni internazionali. Oggi un meccanismo simile si ripropone nel Medio Oriente, dove i nazionalismi palestinesi sono sempre crescenti e sempre più influenzati dal terrorismo islamico fondamentalista. 

Lo Stato ebraico avrebbe dovuto divenire il centro di una Nuova Via del Cotone in funzione anti-cinese. Per distruggere questa nuova articolazione del plesso del potere mondiale del Grande medio Oriente si è sviluppato l’attacco iraniano-saudita-terroristico di Hamas a Israele. 

Gli occidentali sembrano essere diventati dipendenti dalle news, prestando attenzione solamente agli eventi e non ai trend. La Malaysia, per esempio, è un paese raccontato dai media occidentali soprattutto o prevalentemente attraverso “news” tragiche (faide e scandali politici, attentati e disastri aerei, scandali finanziari, assassini e via discorrendo). Il risultato è che poche persone si rendono conto che, in termini di sviluppo umano, la Malaysia è uno dei paesi di maggior successo nel mondo in via di sviluppo. Il suo tasso di povertà è sceso dal 51.2% del 1958 all’1.7% del 2012.6 La tante volte ideologicamente negata competizione tra nazioni passa anche e soprattutto attraverso la comunicazione, l’informazione, l’immagine che viene data del paese opposto o concorrente. Una comunicazione distorta che non si ferma neanche davanti a difficoltà e malattie.

«Rileggete le gazzette moderne e postmoderne e scoprirete che pare sia la Germania la fonte di un focolaio da coronavirus ben più potente di quanto si pensasse. Eppure nulla si disse per giorni. L’Italia, invece, si configura nel landscape simbolico mondiale come l’untore del mondo terracqueo.»7

E che dire allora della Cina? Cosa sappiamo di ciò che veramente accade ed è accaduto nell’Impero di Mezzo?

La Cina appare a molti osservatori nazionali e internazionali come una nazione che esce vittoriosa dalla crisi pandemica. I dati che furono diffusi sul prodotto interno lordo mondiale sembravano nel 2020 confermare questa convinzione. Molti osservatori internazionali gioivano leggendo che il Pil cinese aumentava dell’1%, non leggendo nulla di ciò che di interessante si può e si poteva leggere nel mondo su questo tema. 

Dopo la svolta teorizzata da una moltitudine di studiosi sia civili sia militari, si assiste oggi a una sorda battaglia scatenata dall’esercito. Esso ha presidiato la nazione durante la pandemia. E forte di questo torna a levarsi contro il predominio economico e burocratico della marina e dell’aviazione, per così ritornare al potere che deteneva quando la politica estera era difensiva e anti-russa e anti-indiana e comportava quindi guerre di terra a differenza della Via della Seta tutta fondata sul dominio dei mari, come documentano le violazioni del diritto marittimo nei Mari della Cina del Sud e nell’Oceano Indiano. Quell’1% di Pil era di “trascinamento” in una nazione che prima saliva del 6%. 

«Il coronavirus, se guardiamo a questo pericolo terribile per la salute umana in questo inusitato contesto, può contenere in sé una virtù e questa virtù è quella dell’umiltà: l’umiltà di riconoscere che la crescita inarrestabile della globalizzazione finanziaria e della Cina – che è a essa intimamente legata – possono entrambe subite una battuta d’arresto.»8

Sottolinea Sapelli quanto il crollo dell’economia mondiale si stia rapidamente avvicinando, conseguenza di ben tre crisi exogene, una all’altra susseguente: pandemia, aggressione imperialistica della Russia all’Ucraina, ferita genocidiaria nazionalistica palestino-islamico-fondamentalista inflitta a Israele. 

L’evento pandemico e l’evento genocidiario richiamano entrambi alla consapevolezza della caducità – insieme alla vita mortale – di una ragione illuministica che voglia non solo curare sanitariamente il male, ma rispondere all’interrogativo tragico che da esso promana.9


Il libro

Giulio Sapelli, Verso la fine del mondo. Lo sgretolarsi delle relazioni internazionali, Guerini e Associati, Milano, 2024. Prefazione di Lodovico Festa.


1K. Mahbubani, Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi Editore, Milano, 2019.

2L. Festa, introduzione a Verso la fine del mondo.

3K. Mahbubani, op.cit.

4E. Warren, Questa lotta è la nostra lotta, Garzanti, Milano, 2020.

5J. e J. L. Comaroff,  Teoria dal Sud del mondo. Ovvero, come l’Euro-America sta evolvendo verso l’Africa, Rosenberg&Sellier, Torino, 2019.

6K. Mahbubani, op.cit.

7G. Sapelli, Verso la fine del mondo.

8G. Sapelli, op.cit.

9M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1996.



Articolo pubblicato su LuciaLibri


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com


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Il Nakhichevan ha avuto a lungo un ruolo molto importante nella storia e nella cultura dell’Armenia, in particolare nell’ambito della nascita del commercio armeno in epoca moderna. Attualmente, però, la millenaria presenza armena è stata completamente cancellata in questa regione che costituisce una repubblica autonoma dell’Azerbaigian. Non solo, infatti, gli armeni hanno completamente cessato di vivere nel Nakhichevan, ma il loro imponente patrimonio artistico è stato completamente distrutto dalle autorità azere negli ultimi decenni. Ed è altissimo il rischio che lo stesso possa avvenire nel Nagorno-Karabakh, ormai anch’esso privo della sua popolazione armena. 

Un genocidio culturale di cui si parla veramente troppo poco, forse anche per l’importanza crescente dell’Azerbaigian nell’approvvigionamento energetico di molti paesi, a partire dal nostro.

In seguito al crollo dell’Unione Sovietica e al conflitto con gli armeni, l’Azerbaigian aveva perso il controllo di un’ampia area situata all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti: a partire dal 1994 gli armeni locali erano riusciti a stabilire un governo che de facto controllava non solo l’area dell’ex regione autonoma del Nagorno Karabakh, una enclave in cui gli armeni erano storicamente maggioranza, ma anche ampi territori adiacenti abitati prevalentemente da azeri. Nel 2020 l’Azerbaigian è riuscito a riprendere il controllo dei territori adiacenti Nagorno-Karabakh nonché parte dei territori storicamente abitati da armeni con una guerra-lampo durata 44 giorni. Un cessate-il-fuoco raggiunto con la mediazione di Mosca prevedeva il dispiego di forze di pace russe che avevano il compito di garantire la sicurezza della popolazione armena locale e proteggere il corridoio di Lachin, ovvero la principale linea di comunicazione tra il Nagorno-Karabakh e l’Armenia. A dicembre 2022 il corridoio di Lachin fu bloccato dall’Azerbaigian senza che ciò comportasse un reale intervento dei peacekeeper russi o dei principali attori internazionali. L’impotenza dell’Armenia in questo contesto è in parte dovuta alla sua stessa vulnerabilità. L’Azerbaigian ha infatti preso iniziativa per far capire che, in caso di nuova guerra, a rischio non sarebbe solo la popolazione armena del Nagorno-Karabakh ma anche l’Armenia stessa. 

Secondo accordi bilaterali e multilaterali in vigore, la Russia avrebbe l’obbligo di accorrere in aiuto dell’Armenia in caso di minacce alla sua integrità territoriale. Ciononostante, non è intervenuta quando l’Azerbaigian ha condotto attacchi contro l’Armenia nell’autunno 2022 e neanche per quelli del settembre 2023. I  peacekeeper si sono limitati a registrare le numerose violazioni del cessate il fuoco e facilitare l’evacuazione di migliaia di civili locali dalle zone più esposte a pericolo dall’intervento militare. 

Da parte dell’Unione Europea si è cercato di mantenere un tono circospetto e sostanzialmente privo di critiche esplicite alla leadership di Baku. Nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio europeo non ci sono state condanne ferme per Baku ma solo un impersonale riferimento alla necessità di riaprire il corridoio di Lachin e procedere con i negoziati.1

Molto chiara invece invece è stata la condanna espressa dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 10 marzo 2022 sulla distruzione del patrimonio culturale nel Nagorno Karabakh, a proposito del fatto che «negli ultimi 30 anni l’Azerbaigian ha causato la distruzione irreversibile del patrimonio religioso e culturale, in particolare nella Repubblica autonoma del Naxçivan, dove sono state distrutte 89 chiese armene, 20mila tombe e oltre 5mila lapidi». Inoltre il Parlamento europeo collega che questa politica distruttiva di Baku posta in essere nel Nakhichrvan possa ripetersi anche nel Nagorno-Karabakh. 

E non si può tacere neanche la situazione disperata del patrimonio artistico armeno in Turchia, dove al genocidio fisico è seguito e continua a seguire quello culturale.2

La cultura riveste una notevole importanza per ogni gruppo umano, etnia o nazione. L’espressione genocidio culturale indica proprio quei fenomeni di annichilimento della cultura che diventano lo strumento con cui distruggere un gruppo umano. Esso è attuato senza attacchi diretti, fisici o biologici, alle persone.3 Il patrimonio culturale è la parte visibile della cultura e il suo valore risiede nel significato. La cultura è simbolica e rappresenta cose intangibili.4 Il patrimonio culturale, pertanto, è costituito dal valore che i beni culturali e del paesaggio assumono in seno alla società e alla comunità cui appartengono. Essi riflettono l’identità di una comunità. Rappresentano tutto il carico simbolico di una comunità, gli stili di vita, le abitudini e lo stesso modo di essere delle persone che compongono tale comunità. Il patrimonio culturale può essere identificato come espressione di quella identità culturale propria di un popolo. Esso diviene la stessa rappresentazione di un popolo, del modo di agire, dell’interiorità composta da affetti, della concezione etica ed estetica e, più in generale, manifesta l’essere di tale comunità e degli individui che sono e si sentono parte della medesima comunità.5

Il Nakhichevan è una regione piccola, circa 5mila kmq, compresa amministrativamente nell’Azerbaigian ma geograficamente e culturalmente nell’Armenia nelle cui regioni storiche occupa una posizione centrale. In Nakhichevan ha avuto luogo, tra il 1998 e la fine del 2005, la completa distruzione di tutti i manufatti armeni: a cominciare dal vasto cimitero medievale di Giulfa nell’omonima città la quale, pur essendo in rovina e ormai disabitata da tempo, all’inizio del XX secolo era ancora ricca di diciotto chiese, un caravanserraglio, un ponte, un mercato coperto, case e soprattutto conservava la straordinaria necropoli medievale, ricca di pietre-croci, quasi tutte finemente intagliate con il caratteristico motivo della croce-albero della vita. Queste pietre vi erano state poco a poco elevate tra il V e il XVI secolo, durante la fioritura economica e culturale della città, e molte di esse erano dotate di iscrizioni storicamente rilevanti. Nel 1998, le autorità azere decidono di cancellare totalmente Giulfa e, nonostante le proteste inoltrate all’Unesco, il processo procede, a fasi alterne, fino al 2005. 

È legittimo domandarsi come mai tanto accanimento distruttivo abbia avuto luogo per così dire “a freddo”, in un momento apparentemente qualunque, lontano dalla guerra.6

«Le prime cose che un armeno costruisce in un paese sono la chiesa e la scuola. È la difesa della propria identità attraverso la religione e la cultura. Uno dei segreti dell’unità è proprio l’unità religiosa, ma non fanatica, e la difesa della cultura e del libro.»7

Nei territori dell’Armenia storica rimasti in Turchia ci si muove sostanzialmente in uno spazio “vuoto”, creato da un genocidio e ormai centenario, che purò essere solo parzialmente riempito ricostruendo con strumenti culturali di vario genere – opere storiografiche di autori armeni e non armeni, libri di viaggio, memorie, fotografi e via discorrendo – un mondo vitale sino al 1915 e poi completamente spazzato via. Alla politica di distruzione premeditata dei primi decenni è seguita una fase di sostanziale disinteresse da parte delle autorità turche nei confronti del patrimonio artistico di un popolo la cui memoria storica è stata ampiamente deformata o rimossa.8 Se si esclude la capitale Istanbul, dove ancora esiste una comunità armena consistente anche se molto ridotta rispetto all’epoca ottomana, e il villaggio di Vakif, l’unico dei sette del Mussa Dagh ancora esistente e abitato da Armeni, la popolazione che ha profondamente segnato il territorio anatolico, soprattutto orientale, è stata quasi completamente cancellata, anche topograficamente.9 Del vasto territorio abitato per millenni dagli Armeni oggi solo una piccola parte è inserita all’interno della repubblica indipendente. Persino il principale simbolo della terra armena si trova interamente in territorio turco. L’Armenia, infatti è anche il paese dell’Ararat, il Monte di Noè, il Monte dell’Arca, dal quale la vita riprese dopo il Diluvio Universale. 

Raramente le agenzie internazionali, gli organismi di controllo e di pace, hanno reagito riportando l’attenzione ai fatti accaduti, sull’annichilimento dell’eredità culturale e artistica armena. A cominciare dall’UNESCO, rappresentato nell’area del Naxijewan dalla moglie del presidente azero, Mehriban Aliyeva, designata UNESCO Goodwill Ambassador nel 2004 e mai sollevata dall’incarico.10

Dopo la resa da parte delle forze separatiste armene in Artsakh e l’ormai esodo quasi totale da parte della popolazione locale armena del Nagorno-Karabakh, in Caucaso, le paure, in particolare per quanto riguarda Yerevan, non sembrano tuttavia essere cessate. In aggiunta al problema dell’ondata di “profughi connazionali” in Armenia, con la necessità di reperire ingenti risorse finanziarie, c’è la questione della futura collocazione della popolazione scappata dall’Artsakh e la questione relativa alla Repubblica del Nagorno-Karabakh e che cosa ne sarà di questa, o ancora meglio cosa ne sarà del patrimonio culturale armeno in Karabakh e dei leader separatisti arrestati dal governo di Baku. Che la fine dell’Artsakh fosse alle porte era intuibile ed era ormai anche pacifico, tuttavia non lo sono le conseguenze e, soprattutto, è difficile da giustificare il silenzio assordante da parte della comunità internazionale. In uno scenario in cui l’Azerbaigian non intravede e non percepisce alcuna possibilità di intervento deciso da parte della comunità internazionale o possibilità di una qualche interruzione o rottura dei rapporti con i paesi occidentali, lo stato del Caucaso meridionale adotta una politica tesa a perseguire i propri obiettivi geoeconomici in uno stile di realpolitik che ha sempre caratterizzato il modus operandi del governo di Aliyev. 

La Russia sta sostanzialmente osservando passivamente e non sembra intenzionata ad aggravare i rapporti con Baku. Il Cremlino ha firmato un accordo con l’Iran per la costruzione di una ferrovia che passerà lungo la costa del mar Caspio e aiuterebbe a collegare i porti russi sul mar Baltico con i porti iraniani nell’Oceano Indiano e nel Golfo Persico. 

Il Parlamento Europeo ha firmato una risoluzione che chiede sanzioni all’Azerbaigian a causa dell’operazione in Karabakh. Dal punto di vista economico, però, quasi due terzi delle importazioni dell’Azerbaigian provengono dall’Unione Europea e quindi sarà difficile pensare che verrano adottate vere e proprie sanzioni.11

Il libro

Antonia Arslan e Aldo Ferrari (a cura di), Un genocidio culturale dei nostri giorni. Nakhichevan: la distruzione della cultura e della storia armena, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2023

1G. Comai, Conflitto Armenia-Azerbaigian: la fine di Nagorno Karabakh, Osservatorio Balcani Caucaso, 21/09/2023.

2A. Ferrari, L’Armenia perduta. Viaggio nella memoria di un popolo, Salerno Editrice, Roma, 2019.

3L. Perra, Il genocidio culturale, Il Sileno Edizioni, Lago (CS), 2022.

4J. Santacana Mestre, F.X.H. Cardona, Museologia Critica, Ediciones Trea, Gijón, 2006.

5L. Perra, op.cit.

6M. Corgnati, Anche le pietre muiono. La distruzione di monumenti, siti storici e memorie culturali armene in Naxijewan: un modello per il Nagorno-Karabakh passato sotto il controllo dell’Azerbaigian?” in A. Arslan, A. Ferrari (a cura di), Un genocidio culturale dei nostri giorni. 

7B. Sivazliyan, Del Veneto dell’Armenia e degli Armeni, Regione Veneto, Edizioni Canova, Dosson di Casier – TV, 2000; C. Aznavour, I giorni prima, Rizzoli Editore, Milano, 2004.

8A. Ferrari, Viaggio nei luoghi della memoria armena in Turchia e Azerbaigian, LEA – Lingue e letterature d’Oriente e d’Occidente, UNIVE – Università Cà Foscari, Venezia, n° 5 2016.

9L. Sahakyan, Turkification of the Toponysm in the Ottoman Empire and the Republic of Turkey, Arod Books, Montreal, 2010.

10M. Corgnati, op.cit.

11C. Busini, Oltre il Nagorno-Karabakh, a rischio l’integrità armena, Eάst Journal, 14 ottobre 2023.


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Wolfgang H. Ullrich, La leggerezza creativa. Un approccio innovativo in psicopterapia

06 mercoledì Mar 2024

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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La ricerca di una «buona vita» è obiettivo di ogni individuo che viva la complessità della condivisione umana contemporanea.

Come posso vivere meglio trovando me stesso e il mio equilibrio di buona vita? Per rispondere a questa domanda, Ullrich ha messo a punto un metodo che integra la psicoterapia con stimoli mutuati da processi artistici. Partendo da questo presupposto ha introdotto nel suo metodo quell’approccio di leggerezza che Italo Calvino tratteggia nelle Lezioni americane.

«Nei momenti in cui il regno dell’umano mi sembra condannato alla pesantezza, penso che dovrei volare come Perseo in un altro spazio. Non sto parlando di fughe nel sogno o nell’irrazionale. Voglio dire che devo cambiare il mio approccio, devo guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica. Le immagini di leggerezza che io cerco non devono lasciarsi dissolvere come sogni dalla realtà del presente e del futuro.»1

Per Calvino un romanziere che intende rappresentare la sua idea di leggerezza, esemplificata sui casi della vita contemporanea, non può che farne l’oggetto irraggiungibile di una quiete senza fine. Rappresentativo in tal senso è il romanzo di Milan Kundera L’insostenibile leggerezza dell’essere che mostra, in realtà, un’amara constatazione dell’ineluttabile pesantezza del vivere. Il peso del vivere per Kundera sta in ogni forma di costrizione: la fitta rete di costrizioni pubbliche e private che finisce per avvolgere ogni esistenza con nodi sempre più stretti. Il romanzo dimostra come nella vita tutto quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna e possono aiutare a emanciparsi. 

Emancipazione significa che gli esseri umani possono conquistare l’uso della loro ragionevole libertà. Il fondamento di questa idea, per l’autore, rappresenta il presupposto della autocomprensione dell’essere umano come essere ragionevole. L’emancipazione diventa dunque un atto di decisione liberatoria dell’individuo per diventare se stesso. Mettendo una netta distanza tra sé e le convenzioni e i ruoli sociali, egli sviluppa uno spazio interiore nel quale sono favorite le sue scelte più autonome. Per far evolvere questo spazio interiore, la persona deve appellarsi a una società più allargata nella quale ognuno può assumere la prospettiva dell’altro e può contare sulla certezza di un riconoscimento reciproco. L’identità dell’uomo moderno nasce sempre dalle sue relazioni intersoggettive. 

Questo processo di apprendimento, in terapia, significa per il paziente intraprendere un percorso di liberazione ovvero, appunto, di emancipazione. 

«Il De rerum natura di Lucrezio è la prima grande opera di poesia in cui la conoscenza del mondo diventa dissoluzione della compattezza del mondo, percezione di ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Lucrezio vuole scrivere il poema della materia ma ci avverte subito che la vera realtà di questa materia è fatta di corpuscoli invisibili. È il poeta della concretezza fisica, vista nella sua sostanza permanente e immutabile, ma per prima cosa ci dice che il vuoto è altrettanto concreto che i corpi solidi. La più grande preoccupazione di Lucrezio sembra quella di evitare che il peso della materia ci schiacci.»2

Il metodo Calvino, basato sull’intreccio fra opposte tendenze, sembra invitare allo studio della leggerezza attraverso l’analisi del suo opposto, della pesantezza.

Il «mondo della vita» è composto da elementi favorevoli allo sviluppo delle persone, come il loro livello di formazione, le qualità, le convinzioni e le tradizioni in cui sono immersi, ma in esso si trovano anche aspetti limitanti o repressivi, ovvero la presenza di norme silenziose che regolano i comportamenti dell’individuo in un modo che può anche essere molto vincolante. 

Da una parte gli individui sono immersi nel loro «mondo della vita» e condizionati da esso, dall’altra, quando devono risolvere dei problemi, essi sono autonomi e creano la loro vita. 

Tutto questo processo rende possibile, per Ullrich, la comunicazione orientata alla comprensione. 

La società moderna capitalistica non è costituita solo dal «mondo della vita» delle persone ma, contestualmente, anche da processi economici e burocratici, che sono dei sistemi dell’azione umana che si regolano non attraverso la comunicazione orientata alla comprensione ma attraverso dinamiche mediate dal denaro o dal potere.3

Il paziente, come tutte le persone, aspira alla sua autorealizzazione, ovvero a trovare un proprio possibile buon progetto di vita, che lo renda felice e possa liberarlo dei sintomi della sua sofferenza. La via che porta a una buona vita necessita che il paziente abbia la capacità di prendere delle decisioni esistenziali. 

L’uomo moderno si pone diversi interrogativi in un modo esistenziale: siamo impotenti di fronte alla realtà al punto di poterci solo adattare a essa? Conta ancora qualcosa il nostro desiderio di dispiegare la spontaneità, di usare ragione e fantasia per influenzare il corso della vita?

Nella remota epoca della filosofia greca, quando il macrocosmo dialogava ancora con il microcosmo, secondo Platone, la buona vita era un modello che valeva per tutti ed era legato al concetto di verità e di bellezza. 

Nell’epoca del pensiero post-metafisico il concetto di buona vita si è profondamente modificato perché, a differenza di quel remoto passato, non esiste più un modello che valga per tutti. 

La persona per cambiare deve solo accettarsi così com’è.4

Ogni persona può scegliere di poter lasciarsi andare passivamente o porsi invece l’obiettivo di riprendere la vita nelle proprie mani, di diventare il regista del proprio destino.

Questo approccio è poi diventato un metodo con Kierkegaard.5

Passo dopo passo, l’individuo assimila la sua storia e seleziona, da essa, gli elementi necessari per decidere chi e cosa vuole essere oggi e in futuro, individuando così anche ciò che non vuole essere e come non vuole condurre la vita. Per l’autore, l’esperienza che gli individui fanno nel percorso alla ricerca del proprio voler essere se stessi li porta ad acquisire un «sapere esistenziale», ovvero essi trasformano se stessi a un livello più alto di coscienza mentre acquistano una consapevolezza del loro essere avviluppati nella propria storia personale e nel loro essere in balia di una forma di vita che dividono in modo intersoggettivo. Questo processo viene reso possibile da un atto di auto-riflessione ma soprattutto da un dialogo con gli altri, dal proporre loro il proprio progetto di vita e discuterlo, dal confrontarsi con critiche e conferme. Lo scambio con gli altri rappresenta, in ultima analisi, una via di uscita da un’esistenza senza via d’uscita. 

Habermas sostiene che abbiamo bisogno di testimoni per sviluppare la nostra identità. Abbiamo bisogno di un dialogo etico-esistenziale con gli altri. Questo concetto corregge l’illusione che la nostra individualità si trovi in nostro esclusivo possesso e che si abbia la forza di decidere da soli, con coerenza, chi vogliamo essere e mantenere individualmente questa decisione. La relazione della persona con se stessa nasce solo contemporaneamente alla sua relazione con gli altri. 

La ricerca della propria autenticità si svolge nella relazione con altre persone, in un dialogo etico esistenziale, in una comunicazione orientata alla comprensione6 che si può anche chiamare comunicazione congruente.7

La coerenza e la congruenza sono due aspetti strettamente connessi nella ricerca dell’autenticità di una persona. 

Una famiglia che pratica una dinamica di comunicazione prevalentemente incongruente induce i suoi membri a interiorizzare e a far propria questa modalità di agire, al punto che anche il viaggio dei singoli componenti alla ricerca del sé viene progressivamente falsato fino a condurre spesso a un processo di alienazione da se stessi.8

Il metodo della «rappresentazione giocosa» posto in essere da Ullrich consiste proprio nel creare le condizioni di esperienza intersoggettiva che permettano ai partecipanti di vivere le loro relazioni nelle condizioni di una comunicazione congruente. Questa, infatti, genera un processo di problem-solving terapeutico in cui, con l’aiuto di fantasia e creatività, i pazienti attivano il percorso di abduzione, ovvero trovano nuove regole di vita che possono poi verificare nelle proprie azioni. 

Il metodo della «rappresentazione giocosa» può contribuire così a rendere libero il paziente da condizionamenti e costrizioni che lo attanagliano. 

Lavorare con la «rappresentazione giocosa» in terapia affinché l’insostenibile leggerezza dell’essere diventi sostenibile attraverso l’uso di una comunicazione verbale congruente che aiuti il paziente a trovare la propria autorealizzazione, ovvero la propria leggerezza creativa.

Il libro

Wolfgang H. Ullrich, La leggerezza creativa. Un approccio innovativo in psicoterapia, Guerini e Associati, Milano, 2022.


1I. Calvino,  Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano, 2022.

2I. Calvino, op.cit.

3J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo, vol. 2, Il Mulino, Bologna, 2017.

4F. Perls, R.F. Hefferline, P. Goodman, Teoria e pratica della teoria della Gestalt, Astrolabio, Roma, 1997.

5S. Kierkegaard, Aut-Aut, Mondadori, Milano, 2016.

6J. Habermas, 2017, op.cit.

7V. Satir, In famiglia… come va?, Impressioni Grafiche, Acqui Terme, 2005.

8W. H. Ullrich, Posso essere felice, Guerini e Associati, Milano, 2019.


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Douglas Murray, Guerra all’Occidente

24 mercoledì Gen 2024

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Per Douglas Murray quella in atto negli ultimi anni è una vera e propria guerra all’Occidente. Non di quelle con gli eserciti che si scontrano bensì una guerra culturale, condotta implacabilmente contro tutte le radici della tradizione occidentale e contro tutto ciò di buono che essa ha prodotto.

È ormai chiaro a tutti che quest’epoca è definita soprattutto dal cambiamento di civiltà in corso. Un cambiamento che ha scosso le fondamenta della nostra società, proprio perché, nell’analisi di Murray, è in atto un attacco sistematico contro tutto ciò che esiste in essa. Contro tutto ciò che gli occidentali davano per scontato, fino a non molto tempo fa.

L’autore afferma che l’Occidente tutto si sia arreso troppo in fretta in questa guerra. Troppo spesso questa guerra è stata inquadrata in modo completamente sbagliato. Sono stati travisati gli obiettivi di chi vi prende parte e ne è stato sminuito il ruolo che avrà nelle vite delle generazioni future. Nel giro di pochi decenni, la tradizione occidentale è passata dall’essere celebrata al diventare imbarazzante e anacronistica, etichettata, infine, come un qualcosa di vergognoso.

Sottolinea Murray come non sia solo la parola «occidentale» a essere contestata dai critici ma anche tutto ciò che vi è collegato, persino il concetto di «civilizzazione» in sé. Come l’aveva espresso uno dei teorici del moderno “razzismoantirazzista”, Ibram X. Kendi: civilizzazione è spesso un cortese eufemismo per razzismo culturale.1

Murray non si dichiara contrario a un ripensamento della storia in generale, tuttavia afferma di non condividere l’atteggiamento dei critici della civiltà occidentale perché essi venerano qualsiasi cosa purché non appartenga all’Occidente. La cultura che ha regalato al mondo progressi scientifici e medici salvavita, e un mercato libero, che ha fatto uscire dalla povertà miliardi di persone in tutto il mondo e che ha offerto la più grande fioritura di pensiero, viene messa dappertutto in questione attraverso il filtro della più profonda ostilità e del più profondo semplicismo. Egli non tollera che la cultura di Michelangelo, Leonardo, Bernini e Bach venga dipinta come se non avesse nulla di importante da dire. Alle nuove generazioni viene offerta la storia dei fallimenti dell’Occidente senza dedicare un tempo lontanamente paragonabile alle sue glorie. 

Viene attaccata la tradizione giudaico-cristiana ma anche quella del secolarismo e dell’Illuminismo e ciò, per l’autore, ha un effetto devastante sulle nuove generazioni, le quali non sembrano comprendere neppure i più basilari principi del libero pensiero e della libertà d’espressione. 

Per screditare l’Occidente sembra necessario demonizzare in primo luogo le persone che continuano a rappresentare il gruppo razziale maggioritario, ovvero i bianchi. Nonostante la diminuzione, negli Stati Uniti, delle leggi apertamente razziste e del potere di chi si dichiara razzista in modo esplicito, le disparità nei risultati fra bianchi e neri si riducono con grande lentezza. 

Si va diffondendo con sempre maggiore forza la Teoria critica della razza – Tcr, emersa nell’arco di alcuni decenni nei seminari, nelle ricerche e nelle pubblicazioni delle università. A differenza dei tradizionali diritti civili, che includono l’incrementalismo e il progresso passo dopo passo, la Tcr mette in discussione le fondamenta stesse dell’ordine liberale, compresa la teoria dell’uguaglianza, il ragionamento giuridico, il razionalismo illuminista e i principi neutrali del diritto costituzionale. 

Douglas Murray dissente dalle argomentazioni dei promotori della Teoria critica della razza sia per la forma che per il contenuto. Egli ritiene che se si fondasse un movimento che cerca di demonizzare la «nerezza», quell’organizzazione finirebbe inevitabilmente per demonizzare le persone nere. Se si demonizza la «bianchezza» e l’essere bianchi, a un certo punto le persone bianche saranno demonizzate. 

Solo sul mercato africano esistono più di centocinquanta marche di creme, unguenti e altri gel sbiancanti, facilmente acquistabili, ma quasi sempre illegali e dannosi per la salute. Il problema non è solo medico e non riguarda solo l’Africa. Un’inchiesta di Le monde del 2008 già rivelava la tendenza diffusa da parte delle persone di colore di voler sbiancare la pelle. Un desiderio comune anche tra le cittadine francesi di origine africana. Fin dal 1500 l’opposizione simbolica tra il bianco e il nero assunse e sviluppò concetti legati anche alla tradizione classica, soprattutto cristiana, di bianchezza e oscurità. Il bianco è associato a purezza, verginità, virtù, bellezza. Il nero alla bruttezza fisica e spirituale, alla mostruosità, alla collera divina. 

L’uso del sapone e di altri detergenti è, ovviamente, legato in primis a questioni di salute, igienico sanitarie, ma non è né esente né lontano da aspetti simbolici legati alla purificazione sociale. Un simbolismo quasi escatologico che si sovraccarica di aspettative al punto da arrivare ai dati odierni relativi ai tentativi di sbiancamento della pelle. Un tema che le aziende hanno sfruttato, per fini commerciali e di immagine.2

I segni distintivi, evidenti fin da subito, della Teoria critica della razza sono, secondo Murray: un’assoluta ossessione per la razza come strumento essenziale per capire il mondo e qualunque ingiustizia e la pretesa che i bianchi siano colpevoli in toto di avere dei pregiudizi, in particolare razziali, già dalla nascita e che il razzismo sia radicato così profondamente nella società a maggioranza bianca che le persone bianche in quelle società non si rendono nemmeno conto di vivere in contesti sociali razzisti. 

Per Bell Hooks, tra i teorici della Tcr maggiormente criticati da Murray, impegnarsi per porre fine al razzismo nell’istruzione è l’unico cambiamento realizzabile a beneficio degli studenti neri e, in generale, di tutti gli studenti. Se i neri americani hanno dovuto, e devono ancora, lottare contro la discriminazione e la segregazione, di fatto i neri d’Italia, pur trovandosi in scuole libere e aperte a tutti, spesso sono stigmatizzati come stranieri, anche se nati e cresciuti qui. Altre volte sono etichettati come alunni con bisogni educativi speciali solo perché non parlano ancora la lingua italiana o sono traumatizzati per i trascorsi, per la fuga da paesi in guerra o povertà estrema. 

Una delle situazioni più ricorrenti sottolineata da Hooks riguarda il fatto che la gran parte di coloro che si dichiarano antirazzisti, nel loro quotidiano, non frequentano persone nere o di colore (intesi come non bianchi). Non hanno grandi rapporti con loro. La loro cerchia si compone, alla fin fine, di persone bianche.  Nella visione di Hooks, il “modello suprematista bianco” plasma le nostre vite in ogni momento, e questo succede sia negli Stati Uniti che in Italia. Necessita allora un lavoro di decolonizzazione e auto-decolonizzazione mentale.3

Ma l’autore si chiede cosa può fare l’Occidente con un tale elenco di peccati che gli vengono imputati. Come si può riparare agli sbagli senza colpire gli innocenti e premiare gli immeritevoli? È un enigma che aleggia su tutte le ingiustizie della storia e bisogna fare molta attenzione nel maneggiare questo “bisturi morale”. 

Tutta la storia e la geografia sono un insieme di rivendicazioni e contro-rivendicazioni su chi è stato ingiusto con chi e su quale gruppo di persone è ancora in debito con un altro a causa di un’ingiustizia storica. 

Si chiede inoltre Murray come sia potuto accadere che, in nome della grande apertura mentale, siamo diventati di vedute così ristrette, e come, in nome del progresso, abbiamo assorbito idee che si sono rivelate altamente regressive, generando così solo una gran confusione. 

Negli ultimi anni, gli americani e gli altri popoli sono stati molto entusiasti di dimostrare che non sono ciò che sostengono quelli che li criticano. Queste persone provano a dimostrare di non essere razziste, omofobe, misogine e quant’altro, e sperano che si capisca che, nonostante la loro storia possa aver incluso il razzismo, non è stato in alcun modo l’unico elemento della loro storia. 


Il libro

Douglas Murray, Guerra all’occidente, Guerini e Associati, Milano, 2023.


1I.X. Kendi, How to be an antiracist, One World, New York, 2019.

2F. Faloppa, Sbiancare un etiope. La costruzione di un immaginario razzista, Utet, De Agostini Libri, Milano, 2022.

3B. Hooks, Insegnare comunità. Una pedagogia della speranza, Meltemi, Milano, 2022. 


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Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

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Agostino Giovagnoli, Elisa Giunipero, Cina, Europa, Stati Uniti. Dalla Guerra fredda a un mondo multipolare

15 mercoledì Nov 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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AgostinoGiovagnoli, CinaEuropaStatiUniti, ElisaGiunipero, GuerinieAssociati, recensione, saggio

I rapporti tra Cina, Europa e Stati Uniti sono diventati cruciali per il mondo intero e il confronto con il grande Paese asiatico sta ridefinendo la stessa identità dell’Occidente. 

In Occidente, al centro di molte narrazioni c’è l’ascesa cinese. Il XXI secolo si dice sarà, anzi è già il secolo dell’Asia. 

L’altra faccia di questa ascesa cinese, nelle medesime narrazioni, è il declino dell’Occidente. 

Per Giovagnoli e Giunipero si tratta di narrazioni che, per lo più, ispirano paura, spingono alla diffidenza, alimentano l’ostilità. 

Emblematico il caso che vuole il raffronto tra la situazione odierna e i contrasti tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Si parla quindi di nuova Guerra fredda, proponendo un’analogia con un precedente storico ancora presente nella memoria collettiva. Ciò suggerisce una continuità che invece è stata spezzata dalla caduta del Muro di Berlino e dalle dinamiche impetuose di grandi processi globali. 

Per gli Stati Uniti è ancora più importante che parlare di Guerra fredda evochi una stagione di indiscussa egemonia degli Usa sull’Occidente e su gran parte del mondo. 

Inoltre, la Guerra fredda si è conclusa con l’implosione dell’antagonista storico – il blocco sovietico – in un apparente trionfo occidentale, di buon auspicio in una nuova stagione di confronto tra grandi forze contrapposte. 

Ma le differenze tra le due situazioni storiche, nonostante i tentativi di confronto, permangono.

Il teatro principale della grande contrapposizione tra Est e Ovest del XX secolo è stato l’Europa, mentre il terreno cruciale dell’attuale conflitto tra Occidente e Cina è soprattutto in Asia. 

Pur avendo tenuto il mondo in sospeso per decenni con la possibilità di uno sbocco disastroso, la Guerra fredda ha plasmato un sistema di relazioni internazionali, provvisorio ma relativamente stabile, finalizzato a evitare il disastro di una terza guerra mondiale. Tale esito, invece, ricordano i curatori, non è garantito dalla nuova situazione del XXI secolo e l’inattesa guerra in Ucraina ha rappresentato un inquietante segnale di allarme in questo senso. 

Indubbiamente, diversi problemi politici, economici, strategici che rendono difficili i rapporti sino-occidentali sono davvero di grandi proporzioni e di difficile soluzione ma appaiono per certo aggravati e a volte resi irrisolvibili da un crescente rifiuto di conoscere e accettare le differenze culturali. 

Negli ultimi anni un crescente senso di rigetto ha indotto i Paesi occidentali a raffreddare i contatti culturali e a ostacolare le istituzioni che perseguono la conoscenza storica, linguistica, culturale dell’universo cinese, vedendo in tali contatti e in tali istituzioni strumenti di propaganda e di spionaggio da parte della Repubblica popolare cinese. Non meno diffuso è un senso di forte antagonismo da parte cinese in particolare verso gli Stati Uniti, e anche in Cina sono numerosi i pregiudizi e gli stereotipi che impediscono di comprendere il mondo occidentale. 

Tutto ciò complica in modo pericoloso grandi questioni che sono già in sé molto difficili, come la cooperazione nel campo della trasformazione energetica, la digitalizzazione – in particolare riguardo la raccolta e il controllo dei dati personali -. la questione di Taiwan e la guerra in Ucraina.

Nessun paese al mondo, neanche una superpotenza può pensare di affrontare da solo questioni come il climate change o la trasformazione energetica. Oppure di risolvere questione territoriali solo in apparenza locali.

Nella prospettiva di Pechino, l’indipendenza de facto di Taiwan come Repubblica di Cina è un’anomalia che deriva da un passato coloniale e nel lungo termine andrà inevitabilmente cancellata. 

Per gli Stati Uniti invece rappresenta uno snodo cruciale per il mantenimento della loro proiezione nel Pacifico, a presidio della prima catena di isole. 

Taiwan ha una rilevanza fondamentale anche sotto il profilo commerciale. Nonostante le piccole dimensioni, Taipei è il nono partner commerciale di Washington. Nonostante le tensioni politiche e militari, anche tra Taipei e Pechino il legame commerciale è saldissimo. La maggior parte dei quasi 200 miliardi di dollari di esportazioni taiwanesi verso la Cina sono componenti poi utilizzati nelle esportazioni cinesi. L’importanza economica di Taiwan non è solo quantitativa, ma anche qualitativa. Soprattutto sul fronte tecnologico, con il fondamentale settore dei semiconduttori che è letteralmente dominato a livello globale dai colossi taiwanesi che controllano da soli il 60 per cento dello share globale del comparto di fabbricazione e assemblaggio. La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, che collabora sia con Washington sia con Pechino, pesa da sola oltre il 50 per cento. 

Dopo l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno individuato nella Cina la più seria sfida contro loro stessi e l’ordine internazionale a guida americana. Per questo motivo, gli Usa hanno dato avvio a una competizione contro la Cina, al fine di contenerla e prevalere su di essa. Per fare ciò, hanno provato a ritirare le proprie forze armate dalle altre aree per concentrarle nella zona dell’Indo-Pacifico in funzione anti-cinese. Il ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan è l’esempio migliore di questa politica. 

Dopo l’elezione di Joe Biden, l’amministrazione americana ha realizzato che gli Stati Uniti da soli non sono in grado di contenere la Cina, ma necessitano del sistema di alleanze da loro guidato, perché in questo risiede la loro forza e potenza. 

Questa situazione ha creato un grande divario tra le aspirazioni strategiche di Washington e le sue capacità strategiche. In altre parole, continua Huang Jing nel suo contributo, quello che gli Stati Uniti sono in grado di fare è inferiore a ciò che vogliono fare. 

Putin e i suoi consiglieri hanno visto in questo una buona opportunità per lanciare un’offensiva e difendere la linea rossa della sicurezza nazionale russa. 

Dal momento che la Guerra fredda è finita non vi sarebbe necessità di continuare a mantenere operativa la Nato visto che il Patto di Varsavia, ovvero il motivo per cui essa è stata fondata, è crollato agli inizi degli anni Novanta. La perdurante persistenza della Nato e il suo ampliamento verso Est sono interpretati dalla Cina come un comportamento da Guerra fredda. Ovvero, per la Cina gli Stati Uniti e la Nato hanno tanta responsabilità quanta ne ha la Russia per la tragedia che si sta verificando nel cuore dell’Europa.

La Cina sta provando a proiettare nel mondo esterno un’immagine e una percezione di se stessa come distributore di bene pubblico, un Paese costruttore e amante della pace che sta tentando di contribuire al villaggio globale. 

Per contro la Russia è una potenza globale non tanto per le sue capacità di contribuire costruttivamente, quanto piuttosto per il suo potenziale di distruzione di massa. 

Dal punto di vista cinese, l’intero villaggio globale deve lavorare insieme. I paesi europei, in particolare, devono giocare un ruolo decisivo e di guida per condurre alla fine di questa guerra e tentare ciò attraverso negoziati. 

Il libro curato da Giovagnoli e Giunipero è un collettivo di contributi che analizzano il tema partendo da varie angolazioni, alcuni in maniera diacronica, altri sincronica. Dal quadro complessivo emerge comunque la rete di collegamenti e interdipendenze, ormai pressoché ineliminabili, tra i vari attori e agenti del villaggio globale. Con gli operatori culturali e accademici basiti dai tentativi di escludere e marginalizzare l’una o l’atra cultura come conseguenza diretta di azioni politiche, strategiche o militari. Addirittura tentativi di strumentalizzare politicamente le relazioni culturali e accademiche, nonostante la resistenza degli attori culturali e accademici che rivendicano l’indipendenza e l’internazionalità di un libero mercato. 

Il libro

Agostino Giovagnoli, Elisa Giunipero (a cura di), Cina, Europa, Stati Uniti. Dalla Guerra fredda a un mondo multipolare, Guerini e Associati, Milano, 2023.

I curatori

Agostino Giovagnoli: docente di Storia della storiografia contemporanea all’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Elisa Giunipero: docente di Storia della Cina moderna e contemporanea e direttrice dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.


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Liao Yiwu, Wuhan. Il romanzo documentario

18 martedì Lug 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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GuerinieAssociati, LiaoYiwu, recensione, saggio, Wuhan

Il vero virus è il Covid-19 o la dittatura cinese? È questa la domanda principale che Liao Yiwu pone al lettore. 

Se il regime non avesse zittito il medico ( Li Wenliang) che scoprì il coronavirus e cercò di raccontare al mondo la verità e i giornalisti (Zhang Zhan, Chen Quishi, Li Zehva) che provarono a denunciare che cosa stava accadendo a Wuhan, forse il mondo non avrebbe mai avuto a che fare con il Covid-19. Questa, invece, rappresenta la tesi che Liao Yiwu vuole dimostrare nel suo libro.

Liao Yiwu è considerato un «nemico del popolo» in Cina, colpevole di aver scritto un poema, e di averlo recitato in pubblico, per commemorare le vittime del massacro del 4 giugno 1989, allorquando il governo represse nel sangue le proteste di piazza Tian’ammen1. È stato arrestato, incarcerato per quattro anni e sottoposto a tortura perché, davanti ai giovani stritolati sotto i cingoli dei carri armati, al silenzio ha preferito la narrazione.

Proprio come allora, anche oggi Liao Yiwu ha scelto di non voltarsi dall’altra parte di fronte all’origine e alle conseguenze della pandemia di Covid-19, per la quale tutto il mondo ha sofferto, ma che in Cina è stata sfruttata dal regime per imporre la più importante, imponente, omnipervasiva e tecnologicamente avanzata forma di controllo su ogni aspetto della vita della popolazione. 

L’autore, attraverso la voce del protagonista, descrive la violenza con cui il governo cinese ha imposto il lockdown, trasformando tutto il paese «in una enorme prigione». Riunisce tutte le impensabili vicende di dolore, sofferenza e soprusi avvenute in Cina, che in qualche modo hanno superato la grande censura. Indaga l’origine del virus di Wuhan, sottolineando tutti gli elementi ambigui che riguardano il laboratorio P4 (laboratorio di microbiologia con un altissimo livello di sicurezza), elencando le diverse teorie scientifiche sul virus e raccontando della feroce repressione posta in essere dal governo ai danni delle poche voci libere che hanno cercato di informare il Paese.

Le misure di confinamento poste in essere in Italia e in Europa non hanno nulla a che vedere con il «modello cinese» applicato a Wuhan o Shanghai: 

  • Divieto assoluto di uscire di casa, per qualsiasi ragione.
  • Tamponi obbligatori ogni due o tre giorni.
  • Quarantene infinite.
  • Abitazioni sigillate e inchiodate dall’esterno.
  • Quartieri chiusi da recinzioni di ferro alte tre metri.
  • Trasferimento coatto dei positivi in strutture governative per settimane.
  • Droni dotati di altoparlante che si aggiravano tra i condominii per ammonire la popolazione.

E ancora: arresti, pestaggi e vessazioni per chi ha protestato tramite internet, per chi ha denunciato sui social la sorte di chi è morto di fame o per la mancanza di medicine, per i tanti suicidi motivati dalla disperazione.

Liao Yiwu sottolinea come in Cina qualsiasi voce dissidente o anche solo vagamente critica veniva immediatamente messa a tacere. Il coro della narrazione doveva assolutamente risuonare come un’unica voce.

Racconta anche di scene raccapriccianti, di morti, di malati che non hanno ricevuto le cure perché gli ospedali erano in sofferenza, sovraffollati e impossibilitati ad accogliere tutti i malati. Di persone decedute perché giunte o accompagnate in ospedale quando era ormai troppo tardi.

In Italia, contrariamente alla Cina, il coro di opinioni, pareri e consigli non è mai stato unanime. Piuttosto mutevole e, a volte, persino contraddittorio.

Ciò che invece ci avvicina al paese asiatico sono i tanti morti, le file lunghissime fuori dai pronto soccorso, le persone giunte in ospedale tardivamente. 

Il 22 febbraio 2021 la prima pagina del New York Times è ricoperta di puntini neri, cinquecentomila. Ogni puntino rappresenta un americano ucciso dal «virus di Wuhan».

Indipendentemente dal fatto che il virus sia uscito o meno dal laboratorio P4, i risultati sono stati in linea con le caratteristiche di una «guerra senza limiti». 

La definizione «virus di Wuhan», che l’autore ritiene essere la più corretta, non è un’accezione politica, piuttosto un’espressione che rispecchia la realtà fattuale: Wuhan è il luogo d’origine del potente virus che ha scatenato la pandemia da Covid-19. Analogamente a espressioni quali:

  • Incidente nucleare di Černobyl.
  • Disastro nucleare di Fukushima.
  • Virus Ebola (dal nome del fiume Ebola in Africa occidentale).

In un primo momento, le autorità locali hanno usato il termine «polmonite di Wuhan», in seguito severamente vietato dal Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese. Il nome «Coronavirus Disease 2019», abbreviato in «Covid-19», adottato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è, per Liao Yiwu, frutto di un compromesso. Evita deliberatamente di fare menzione dell’origine del virus, proprio come accadde per l’epidemia di Sars in Cina del 2003. Conseguenza diretta è stato che la maggior parte dei cinesi ha dimenticato o sempre ignorato che il primo caso di Sars era stato scoperto a Foshan, nella provincia di Guanddong.

La Sars del 2003 è stata la prima epidemia, in questo secolo, ad avere un impatto reale sulla salute pubblica della Cina. Oltre 10.000 infezioni in patria e all’estero e 1459 morti.

A partire dal 2004, Shi Zhengli e il suo team hanno lavorato assiduamente per rintracciare la fonte del coronavirus Sars con il pieno supporto dell’Istituto di Virologia dell’Accademia Cinese delle Scienze scoprendo, tra l’altro, che un cluster di coronavirus del tipo Sars che circola nei pipistrelli mostrava il potenziale per un contagio nella specie umana.2

Anche i gatti hanno un virus Hiv, comunemente noto come Fiv, ma pur vivendo a stretto contatto con le persone, il Fiv non contagia le persone perché non ha il codice per farlo. 

Ecco allora il quesito fondamentale che si pone l’autore: quali sono le condizioni necessarie per mutare il coronavirus trasportato da un pipistrello nel Covid-19?

Due sono le possibilità:

  • Mutazione naturale.
  • Mutazione in laboratorio.

La prima non può riguardare il Covid-19 perché manca l’ospite intermedio che avrebbe consentito al virus di trovare gradualmente il codice genetico della mutazione umana. 

Per quanto riguarda la seconda ipotesi, Liao Yiwu ricorda che nel database di Shi Zhengli sono conservati almeno cinquanta tipi di coronavirus ma nessun database di coronavirus da pipistrello. 

Un virus con proteina S (spike) modificata si diffonde tra gli ospiti, e questi diventano animali Spf (liberi da agenti patogeni) selezionabili: topi, ratti e scimmie. 

Le comuni modalità di trasmissione del virus sono:

  • Trasmissione di droplet, come accade per esempio per il virus dell’influenza.
  • Trasmissione ematica, come l’Hiv.
  • Trasmissione da madre a figlio, come nel caso dell’epatite B.

Con i ricettori ACE2 nella proteina S del pipistrello modificati, il virus può essere trasmesso immediatamente all’uomo.3

Il laboratorio diretto da Shi Zhengli possiede i campioni di virus originale ospitato dai pipistrelli e un intero database di coronavirus e per certo, sottolinea Liao Yiwu, ha studiato il modo di trasformarlo nel Covid-19. Tuttavia, nonostante la sua straordinaria audacia, l’autore è convinto che mai Zhengli avrebbe lasciato che il virus si diffondesse nella società. Nessun operatore scientifico lo farebbe perché contrario ai principi su cui tutti hanno giurato. 

È convinto inoltre che la pandemia non sia frutto di una cospirazione cinese. Il progetto portato poi avanti solo da Shi Zhengli e dal suo team è stato inizialmente finanziato dagli Stati Uniti e un gruppo medico della Carolina del Nord ha collaborato con i virologi cinesi fino al 2014. 

Al 10 marzo 2023 i decessi totali per Covid-19 sono 6.881.955, dei quali oltre i milione solo negli Stati Uniti. In Italia sono 188.322 mentre in Cina 101.056.4

Il libro

Liao Yiwu, Wuhan. Il romanzo documentario, Leone Grotti (a cura di), Guerini e Associati, Milano, 2022.

Traduzione di Camilla Balsamo.

Titolo originale: When the Wuhan virus came.

L’autore

Liao Yiwu: scrittore, musicista e poeta. Ha ricevuto numerosi riconoscimenti e il suo è stato uno dei nomi emersi per la candidatura al Premio Nobel per la Letteratura 2021. È fuggito dalla Cina nel luglio 2011 e oggi vive a Berlino. 


1https://www.britannica.com/event/Tiananmen-Square-incident

2Nature Medicine, 9 novembre 2015 (corretto il 6 aprile 2016): https://www.nature.com/articles/nm.3985

3Nature Medicine: articolo citato.

4John Hopkins University & Medicine, Coronavirus Resource Center: https://coronavirus.jhu.edu/map.html


Articolo pubblicato su Satisfiction.eu


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La riforma esterna liberal-capitalista che unisce la vecchia Inghilterra, gli Stati Uniti e la nuova Europa: “Riformare i vinti” di Giampaolo Conte

20 sabato Mag 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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capitalismo, economia, GiampaoloConte, GuerinieAssociati, GueriniScientifica, recensione, Riformareivinti, saggio

Le trasformazioni indotte nei paesi della semi-periferia dai paesi capitalisticamente avanzati, in associazione con le élite locali, hanno plasmato il mondo extraeuropeo nel corso del lungo diciannovesimo secolo e stanno, di fatto, trasformando il mondo europeo in questo nuovo secolo.

Tali riforme dimostrano che il processo di liberalizzazione economica non è frutto di una spontanea evoluzione del mercato, bensì è il risultato di un’azione diretta operata dagli attori economici che più ci guadagnano da tali grandi trasformazioni. 

Il problema non è il liberal-capitalismo in sé, che indubbi meriti in termini di prosperità è riuscito a ottenere in molti paesi, ma il principio secondo cui la sua replica istituzionale possa avere lo stesso successo in termini di benessere materiale in paesi che non hanno il medesimo background sociale, culturale ed economico. 

Eppure lo schema che si è presentato sembra essere sempre lo stesso, egregiamente analizzato da Giampaolo Conte nel libro: prima gli inglesi, poi gli americani e infine gli europei capitanati dalla Germania hanno esportato, o tentato di farlo, attraverso l’azione pacifica di una proposta riformista, un modello, un contratto sociale, spesso sotto la retorica della modernizzazione, funzionale alla riproduzione del proprio sistema economico di ispirazione liberal-capitalista. 

Siffatte riforme, concentrate specialmente nel settore finanziario, rimescolano gli stessi equilibri sociali perfino all’interno dei paesi avanzati, che devono a loro volta subire i costi di esternalizzazione che in passato non hanno mancato di scaricare su paesi della semi-periferia. Non essendo funzionali al processo di accumulazione finanziaria, anche le società nei paesi avanzati diventano vittime della trasformazione del capitalismo sostenuta dall’ideologia neoliberista. 

Molti libri sul capitalismo e sulla sua crisi si sono rivelate essere interessanti letture per comprendere un fenomeno la cui portata va intesa come epocale, laddove incide sulla vita e sull’esistenza di intere popolazioni. Ma Riformare i vinti di Giampaolo Conte è un libro che non ti aspetti, per la profondità dell’analisi e la metodica applicata. Dati alla mano, l’autore compie un’indagine sincronica e diacronica sul capitalismo e le sue riforme, sul liberalismo e sull’ideologia neoliberista che ha ispirato gran parte di dette riforme, definite eterne proprio perché applicate in stati, imperi o entità territoriali non inglesi, non statunitensi o quantomeno non appartenenti al club esclusivo delle grandi potenze capitaliste. 

All’interrogativo sulla necessità di leggere un libro come quello di Conte si deve necessariamente rispondere che il punto di rottura di un sistema economico-finanziario, qual è stato ad esempio la crisi del 2007, non è l’inizio di un nuovo periodo bensì il punto di arrivo di tutto ciò che prima è stato. Per evitare l’insorgere di nuove gravi crisi è quello che bisogna indagare e comprendere, ed è esattamente ciò che l’autore ha fatto. Egregiamente.

Il libro

Giampaolo Conte, Riformare i vinti. Storia e critica delle riforma liberal-capitaliste, Guerini Scientifica, Edizione Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.

L’autore

Giampaolo Conte: docente di Storia economica e Storia del capitalismo presso l’Università Roma Tre. In precedenza ha insegnato il Olanda presso l’International Institute of Social Studies ISS. Inoltre, ha avuto incarichi di ricerca ed è stato fellow all’Università di Cambridge e alla London School of Economics LSE.


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Chi perde e chi vince nella nuova epoca storica? “Occidente e Oriente” di Kishore Mahbubani (Bocconi Editore, 2019)

L’Altra-Africa: come l’Afromodernità sta diventando una condizione globale. “Teoria dal sud del mondo” di Jean e John Comaroff (Rosenberg&Sellier, 2019)

Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri” di Shoshana Zuboff (Luiss University Press, 2019)

“Il capitalismo oggi e a sua incidenza su popoli ed economie”

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Il nuovo Illuminismo nelle City School de “L’impresa enciclopedia” di Gianfranco Dioguardi

11 giovedì Mag 2023

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GianfrancoDioguardi, GuerinieAssociati, gueriniNext, Limpresaenciclopedia, recensione, saggio

L’impresa per Dioguardi non è un sistema solo per generare profitti ma un’istituzione che produce ricchezza e benessere sociale per il Paese, che si prende carico degli interessi di tutti i propri stakeholder – azionisti, dirigenti, lavoratori, consumatori, territori -, che opera in termini di sostenibilità ambientale e sociale.

L’imprevedibile e turbolenta complessità del Terzo Millennio ha capovolto la tradizionale dinamica dell’impresa. Non è più possibile impostare, come prima, una strategia imprenditoriale definita e su quella costruire, poi, una struttura imprenditoriale in grado di portarla avanti. Per Dioguardi, si tratta di un cambiamento epocale, che rende necessario realizzare strutture organizzative just in time e, quindi, attuare conseguenti strategie operative che tengono sempre conto delle esigenze emergenti di sostenibilità e resilienza. 

Ragioni per cui è necessario puntare sulla ricerca, da rendere priorità per le organizzazioni complesse – istituzioni, imprese città – valorizzando soprattutto i giovani, vettori di cambiamento. 

I principali protagonisti di questo Terzo Millennio dovranno necessariamente riscoprire valori fondamentali – fra i quali un nuovo modo di acquisire cultura – oggi assopiti se non addirittura annullati, sottolinea l’autore con un velo di tristezza misto a incoraggiamento e determinazione. 

Ed ecco allora che entra in gioco il concetto di impresa enciclopedia, che importa ed esporta conoscenze, soluzioni, benessere, in una continua permeabilità con il territorio, anch’essa città-impresa. L’organizzazione va concepita non come un sistema di gerarchie e di divisione dettagliata del lavoro come nei modelli novecenteschi, ma come una “organizzazione reale”, un organismo vivente composto da reti multiple di soggetti collettivi che combinano e integrano insieme strutture formali, regole, tecnologie digitali, sistemi professionali, comunità di pratiche, prassi, culture, valori, sistemi sociali e, soprattutto, persone in vista di scopi e permeabile con l’ambiente esterno. 

L’impresa enciclopedia di Gianfranco Dioguardi, il cui riferimento alla più grande opera scientifica del Settecento prodotta da Diderot e D’Alambert e dall’esperienza illuminista è trasparente, connota l’impresa come un organismo, un soggetto vivente che importa ed esporta con il territorio e con il mondo esterno conoscenze, pratiche, soluzioni, artefatti di prodotti e servizi, valore economico e sociale, benessere. Quindi, come conclude Butera nella prefazione, non solo adattamento, agilità ma anche capacità di plasmare l’ambiente esterno. Organizzazione come strategia, appunto. 

I burrascosi tempi che stanno vivendo le imprese oggi sono iniziati, per l’autore, tra la fine del Novecento e gli inizi del Terzo Millennio. Una vera e propria bufera provocata da innovazioni tecnologiche divenute di giorno in giorno sempre più preponderanti e di troppo rapido utilizzo, tanto da venire definita come «distruptive innovation» – innovazione dirompente in grado di provocare un “cambiamento turbolento”, assolutamente difficile da programmare e causa di una generale complessità di difficile governabilità che ha finito per diventare endemica. 

Tutto questo ha cambiato ogni regola in ambito organizzativo imprenditoriale e, per questo, Dioguardi sottolinea la necessità di una nuova forma di impresa, l’impresa enciclopedia appunto, più impegnata culturalmente e più adatta alle attuali condizioni di operatività. 

Questa nuova forma di impresa si inserisce nell’evoluzione storica che dall’impresa castello tayloristica è approdata via via nelle varie forme di impresa flessibile, macroimpresa, impresa rete e via discorrendo. 

Si impone quindi la necessità di realizzare strutture organizzative just in time sempre tenendo presente il territorio, reso sistema complesso, nel quale un ruolo fondamentale svolgono le città che si stanno nuovamente imponendo, per l’autore, come i luoghi più idonei alla convivenza in quest’epoca. Necessarie si rendono allora le City School, nuove istituzioni di formazione manageriale da immaginare, progettare e realizzare per fornire un’educazione urbana adeguata alle attuali esigenze. 

L’impresa è fuor di dubbio centrale nel sistema socioeconomico, deve allora imparare a diventare strumento fondamentale per la conquista della frontiera culturale, e deve farlo, per Dioguardi, diffondendo il sapere e stimolando creativamente la curiosità per la conoscenza sia nel proprio ambiente sia, sul territorio, nei confronti delle organizzazioni con le quali interagisce. 

Deve diventare un veicolo importante, addirittura il principale per l’autore, di diffusione della conoscenza rendendosi capace di stimolare, in parallelo all’istruzione relativa alle singole professionalità, anche un sapere di carattere più generale, tale da promuovere un neo Illuminismo culturale. Un nuovo Illuminismo che deve però generare anche un nuovo Rinascimento, per un ritorno dell’individuo come protagonista della città e dell’impresa. 

L’analisi di Dioguardi è assolutamente condivisibile laddove insiste sulla necessità di aprire le imprese a una cultura generale e profonda, non più meramente settoriale e professionale, in modo tale da agire da stimolo e da monito per l’intera società. Un’impresa al servizio dell’individuo e del territorio, che rispetti l’uomo e l’ambiente. Una necessità per la quale l’autore delinea interessanti linee guida applicabili per ogni forma di impresa. 

Il libro

Gianfranco Dioguardi, L’impresa enciclopedia. Organizzazione come strategia per il Terzo Millennio, GueriniNext, Milano, 2022.

Prefazione di Federico Butera.

L’autore

Gianfranco Dioguardi: ingegnere e professore di Economia e organizzazione aziendale presso il Politecnico di Bari. Svolge attività imprenditoriale e consulenziale nei settori dell’edilizia, dell’engineering, dell’innovazione tecnologica, della comunicazione e della formazione professionale. È inoltre presente in diversi consigli di amministrazione, riviste, organizzazioni culturali, istituzioni pubbliche e private. Cavaliere al merito del Lavoro dal 1989 e Cavaliere della Legion d’Onore dal 2004. Autore di numerose pubblicazioni. 


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La corruzione è un fenomeno culturale: “Giustizia. Ultimo atto” di Carlo Nordio

17 venerdì Mar 2023

Posted by Irma Loredana Galgano in Recensioni

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CarloNordio, GiustiziaUltimoAtto, GuerinieAssociati, Italia, recensione, RinnovamentoCulturaleItaliano, saggio

A trent’anni da Tangentopoli siamo ben lontani dal progetto di ripristinare, ove ci sia mai veramente stata, la legalità nelle istituzioni. La corruzione non è diminuita. Ma per Nordio l’effetto più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. 

In Italia, il rapporto tra magistratura e politica è stato, negli ultimi venticinque anni, del tutto anomalo. In uno Stato democratico che, come tutti gli ordinamenti moderni, si fondi sul principio della divisione dei poteri, questa conflittualità dovrebbe essere esclusa in radice. 

Occorre quindi, per l’autore, una rivoluzione copernicana del sistema giudiziario, perché il tempo sta per scadere. Siamo all’ultimo atto.

Tangentopoli è stata la malattia e Mani Pulite la cura. Eppure, per Nordio, quest’ultima si è rivelata essere più dannosa della prima, sul lungo termine. 

Da un lato la corruzione è continuata e continua, sia pure sotto forme assai diverse. Dall’altro l’accumulo di prestigio e quindi di potere da parte della magistratura ha determinato sia la subordinazione della politica, sia la degenerazione della stessa corporazione giudiziaria.

Il primo fallimento della cosiddetta rivoluzione del 1992-1994 è stato il ripetersi di crimini che alcuni speravano tramontati, o comunque diminuiti. I processi e le sentenze sui vari episodi hanno dolorosamente dimostrato l’estensione e l’intensità di questo fenomeno pernicioso, che offende la legalità, umilia la concorrenza, aumenta i costi e gli sprechi, e si insinua in modo tentacolare persino tra gli organi di controllo che dovrebbero impedirlo e combatterlo. 

Il secondo fallimento riguarda i rimedi impiegati: inutili. Rimedi che Nordio sintetizza in una dissennata proliferazione normativa, un’enfatizzazione burocratica, un’innocua severità. Dal 2012 in poi, soprattutto, i provvedimenti anticorruzione si sono succeduti con «periodica e minuziosa bigotteria ammonitoria», nel senso che a ogni legge si attribuiva un intento insieme etico e risolutivo. 

L’autore sottolinea come spesso si tende a dimenticare che, quando la corruzione assume proporzioni estese e infiltrazioni capillari, contagiando allora come oggi tutti i settori della vita civile e germinando dai settori più modesti dell’impiegato comunale a quelli più elevati dell’alta amministrazione, subisce una trasformazione genetica. Non perde il suo connotato criminoso, ma lo altera e lo decompone. Diventa, in definitiva, un fenomeno culturale. 

Più uno Stato è corrotto, più le leggi sono numerose, e più le leggi sono numerose, più alimentano la corruzione. Per cambiare questo sistema corroso e obsoleto occorre modificare la Costituzione, ormai «vecchia culturalmente» secondo Nordio, perché basata sul compromesso di due ideologie – la comunista e la cattolica – che hanno subito, negli ultimi decenni, profonde trasformazioni. Bisogna inoltre ridurre e semplificare le leggi esistenti, perché il corrotto, prima ancora di essere punito o intimidito, va disarmato. È questo il succo fondamentale della rivoluzione copernicana invocata dall’autore. 

Carlo Nordio analizza a fondo il problema della corruzione nelle istituzioni e il modo in cui è stato affrontato dalla politica e dalla magistratura negli ultimi quarant’anni. Anche riguardo la magistratura, come per la politica, consiglia di non generalizzare mai troppo né, per contro, tentare di ridurlo a eventi legati solo a singoli individui, magari in vista, i quali finirebbero per diventare inutili capri espiatori di un fenomeno che non sarebbe comunque risolto, anche in seguito a una eventuale condanna. 

L’autore è un liberale, e non tenta certo di nasconderlo. Si può concordare o meno con le sue posizioni e anche con alcune delle sue vedute, ma non si può certo obiettare quando egli compie una dettagliata ricognizione dello stato dell’arte. Un’analisi attenta, lucida e, tutto sommato, obiettiva. Sicuramente competente in materia. 


Il libro

Carlo Nordio, Giustizia. Ultimo atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano, 2022.

L’autore

Carlo Nordio: editorialista ed ex magistrato. Ha condotto le indagini sulle Brigate rosse venete e quelle sui reati di Tangentopoli, ha poi coordinato l’inchiesta sul Mose. È stato consulente della Commissione parlamentare per il territorio e presidente della Commissione ministeriale per la riforma del codice penale. Dal 2018 fa parte del Cda della Fondazione Luigi Einaudi. Collabora con numerose testate nazionali ed è autore di diversi volumi sul tema della giustizia. Attuale ministro della giustizia nel governo Meloni.


Articolo disponibile anche qui


Source: Si ringrazia l’Ufficio Stampa di Guerini e Associati per la disponibilità e il materiale.

Disclosure: Per le immagini, tranne la copertina del libro, credits www.pixabay.com



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